Sistemi Economici Comparati Anno accademico 2014-2015 Prof.sa Renata Targetti Lenti Lo sviluppo comparato di Cina ed India: Lo sviluppo della Cina Lezione 8 4/11/2014 Riferimenti - - - - Balcet G., Valli V., Nuovi protagonisti dell’economia globale: un’introduzione, in Balcet G., Valli V., “Potenze economiche emergenti”, Il Mulino, 2012, pp. 9-48. Beretta S., Targetti Lenti R., India e Cina nel processo di integrazione internazionale, in: Calchi Novati G. ( a cura di) “L’Alternativa Sud-Sud, chi vince e chi perde”, Asia Major 2011, Carocci, pp. 31-64. Fondazione Italia Cina, La Cina nel 2014, Scenari e prospettive per le imprese, Rapporto CESIF 2014, acura di Thomas Rosenthal e Alberto Rossi, pp. 8-75 Yang Yao (2009), The Disinterested Government, An Interpretation of China’s Economic Success in the Reform Era, Research Paper No. 2009/33, http://www.econstor.eu/bitstream/10419/45124/1/601791185.pdf Cina ed India sono entrambi grandi paesi sia dal punto di vista dell’estensione territoriale che della popolazione. La crescita accelerata di questi paesi sta mutando in profondità il quadro economico, politico e sociale del mondo. Il processo di integrazione non riguarda più, come in passato, i soli flussi commerciali ma anche - e soprattutto - i flussi di investimento e la delocalizzazione dei processi produttivi. Il progressivo inserimento di India e Cina, nelle correnti di scambio e di investimento dell’economia globale ha seguito le tappe dei rispettivi processi di riforma con significative differenze nelle traiettorie e nei ritmi di apertura verso l’estero da attribuirsi alle specifiche condizioni iniziali ed al congiunto operare non solo di fattori economici, ma anche di fattori politici e sociali. In entrambi i paesi le diverse fasi dello sviluppo sono state contrassegnate da significativi mutamenti politici e dall’emergere di personalità come Deng Xiaoping, Jiao Zeming e più recentemente (dal 14 marzo 2013) Xi Jinping in Cina, come Nehru, i Gandhi, Manmohan Singh e più recentemente da Modi (maggio 2014) in India. Il confronto tra i due percorsi di crescita è funzionale a meglio comprendere i fattori specifici dello sviluppo economico cinese rispetto a quello indiano. In entrambi i paesi l’assetto macroeconomico e le politiche governative hanno frenato prima e favorito poi la crescita. Nel caso cinesre il ruolo dello Stato e delle imprese pubbliche si è rivelato determinante ai fini dell’avvio del processo di crescita anche se è andato progressivamente diminuendo. In India, invece, il processo di liberalizzazione è stato più rapido. In entrambi i paesi le diverse fasi dello sviluppo sono state contrassegnate da significativi mutamenti politici e dall’emergere di personalità come Deng Xiaoping, Jiao Zeming e più recentemente (dal 14 marzo 2013) Xi Jinping in Cina, come Nehru, i Gandhi, Manmohan Singh e più recentemente da Modi (maggio 2014) in India. Il confronto tra i due percorsi di crescita è funzionale a meglio comprendere i fattori specifici dello sviluppo economico cinese rispetto a quello indiano. In entrambi i paesi l’assetto macroeconomico e le politiche governative hanno frenato prima e favorito poi la crescita. Nel caso cinesre il ruolo dello Stato e delle imprese pubbliche si è rivelato determinante ai fini dell’avvio del processo di crescita anche se è andato progressivamente diminuendo. In India, invece, il processo di liberalizzazione è stato più rapido. Vi è un ampio consenso sulle determinanti della crescita cinese e di quella indiana a partire dal processo di liberalizzazione con il superamento del sistema delle licenze. In Cina i principali fattori di crescita sono individuabili nell’accelerata accumulazione del capitale industriale e nella dinamica delle esportazioni di manufatti a partire dall’“apertura” del 1979. In India il processo di industrializzazione è stato più lento: la priorità attribuita dallo Stato all’industria pesante e l’enfasi sull’istruzione superiore hanno tuttavia determinato il formarsi di capabilities che hanno successivamente consentito di acquisire competitività in settori strategici, ed in particolare nel settore dei servizi. Cina e India, non solo sono state in grado di “sfruttare” una politica di catching up (recupero economico) nei confronti dei paesi più ricchi, ma anche di acquisire nuove tecnologie attraverso investimenti in beni capitali, IDE esteri e processi di imitazione e di adattamento. Entrambi i paesi hanno privilegiato all’inizio del processo lo sviluppo di attività industriali a elevata intensità di capitale promuovendo politiche di sostituzione delle importazioni con l’obiettivo di favorire un processo di industrializzazione ed assorbendo progressivamente l’eccesso di offerta di lavoro che si andava formando nelle aree rurali. La Cina presenta minori divisioni sociali al suo interno anche se le minoranze etniche sono pari a circa l’8% della popolazione. La Cina ha, d’altra parte il problema del gran numero di lavoratori emigrati dalle campagne alle città senza autorizzazione, che perdono gran parte dei benefici sociali. L’India, invece, soffre ancora del pesante retaggio del regime delle caste. In alcuni stati, è caratterizzata da profonde divisioni etniche e religiose. Le severe misure di controllo della popolazione introdotte in Cina (politica del figlio unico) hanno determinato fino a pochi anni fa un effetto favorevole per lo sviluppo economico. Nei prossimi anni, tuttavia, il rapido declino della natalità e della mortalità conseguente anche ai fenomeni di industrializzazione ed urbanizzazione, produrrà un rapido aumento della popolazione anziana (ageing), che avrà effetti assai negativi sullo sviluppo economico (spese per pensioni e per sanità). Accanto a fattori positivi per lo sviluppo sussistono, in entrambi i paesi, fattori negativi che potrebbero frenare il processo di crescita e di integrazione nell’economia internazionale. In Cina l’inquinamento complessivo sta rapidamente aumentando. In India l’aumento dell’inquinamento è stato meno rapido e nel complesso meglio contrastato, tuttavia esistono importanti differenze al suo interno tra i diversi Stati. In India, come in Cina sono rilevanti e crescenti le disuguaglianze interne, quelle tra regioni, tra classi sociali, tra città e campagna. Le diseguaglianze economiche misurate dall’indice di Gini sono crescenti, ma minori in India rispetto alla Cina, sebbene la povertà assoluta e relativa siano meno elevate ed in diminuzione nel secondo paese. In entrambi i paesi politica estera e alleanze sono state in larga misura condizionate dalla necessità di reperire fonti energetiche aggiuntive. Cina ed India sono potenzialmente in concorrenza tra di loro e con gli USA per ottenere questi approvvigionamenti. Gli accordi nucleari recentemente siglati con gli Stati Uniti segnano l’abbandono da parte dell’India della politica di non allineamento e il suo ingresso tra i protagonisti di maggiore peso della comunità internazionale. L’espansione della Cina in Africa costituisce a sua volta un esempio di soluzione alternativa del problema della scarsità di risorse naturali. Entrambi i paesi sono impegnati in un complesso percorso di modernizzazione del proprio esercito e più in generale del proprio impianto strategico. Tra India e Cina sono individuabili anche differenze significative, sia culturali e socio-politiche sia di struttura produttiva. Al socialismo confuciano della nuova Cina si contrappone in India la democrazia diffusa, contraddistinta da un’estesa autonomia regionale e da un modello di «organizzazione sociale guidata dal basso». È nel contesto di un assetto istituzionale democratico, quindi antagonistico rispetto a quello cinese, che si è sviluppata in India la produzione di beni immateriali a elevato contenuto di innovazione. Entrambi i paesi presentano livelli elevati di corruzione. In Cina, tuttavia, la burocrazia centrale e periferica, per tradizione millenaria, è molto più efficace di quella indiana, ereditata dal sistema coloniale britannico. In Cina la propensione all’investimento in infrastrutture ha favorito la modernizzazione del sistema produttivo. In India il sistema democratico, strutturalmente decentrato, ha rappresentato un freno al processo di accumulazione. Risparmi e investimenti risultano sistematicamente inferiori in India rispetto a quelli cinesi. In Cina il sistema creditizio ha promosso l’accumulazione e la crescita. In India il controllo pubblico sul sistema bancario e finanziario ha determinato un’offerta di credito insufficiente e distorsioni nella sua composizione. La diversità delle strutture produttive e dei sistemi finanziari trova poi corrispondenza nel diverso ruolo degli investimenti esteri: in Cina questi suppliscono alle carenze del mercato interno, in India sono stati considerati per molti anni un potenziale ostacolo allo sviluppo del sistema economico. Se le diseguaglianze sociali nei due paesi, l'inquinamento dell'ambiente e l'oppressione anti-democratica in Cina diventassero ancora più profondi, potrebbero verificarsi tensioni sociali e politiche tali da ostacolare in modo significativo il progresso economico. Se invece il progresso economico dovesse continuare nei prossimi decenni a diffondersi gradualmente alla maggior parte della popolazione, anche la forza della grande finanza, ora in prevalenza controllata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, si sposterebbe sempre più sotto il controllo della Cina e dell'India. La Cina è oggi, in termini di PIL complessivo, la seconda economia del mondo. Nel 2010 la Cina ha superato il Giappone per dimensione del Pil totale nominale calcolato in base ai tassi ufficiali di cambio, ma aveva già sorpassato da diversi anni il Giappone in termini di Pil calcolato a parità di potere d’acquisto. Il Pil cinese pesa per poco meno del 15% sul Pil mondiale, e si prevede secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale (IMF) che possa arrivare al 18,3% nel 2017, superando gli Stati Uniti (Figura 1). L’India, sempre in termini di PIL è oggi la quarta economia del mondo (Figura 1). 2017 2016 2015 2014 2013 2012 2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 1989 1988 1987 1986 1985 1984 1983 1982 1981 1980 Figura 1 20 18 16 14 12 10 Brazil China India 8 Russia 6 4 2 0 I tassi di crescita del prodotto interno lordo complessivo di Cina ed India sono stati nell’ultimo decennio - e permangono - molto elevati. Sono sempre stati maggiori per la Cina rispetto all’India. A partire dal 2010, tuttavia, si è registrata una flessione per entrambi i paesi anche se più marcata per l’India. In Cina il Pil è cresciuto ad un tasso medio annuo pari al 9,5% nel periodo 1992-2002, al 10,8% nel periodo 2002-2012, ma nel 2011 il tasso di crescita del Pil è sceso al 9,3%. In India il Pil è cresciuto ad un tasso medio annuo pari al 6,0% nel periodo 1992-2002, al 8,0% nel periodo 2002-2012, e si è ridotto al 6,6% nel 2011. Figura 2 L’accelerazione del ritmo di crescita cinese verificatesi dopo le riforme economiche del 1978 ha prodotto nel 1984 il superamento del Pil pro capite cinese rispetto a quello indiano (Figura 3). Lo scarto tra i due paesi si è lievemente ridotto solo in seguito all’accelerazione del ritmo di sviluppo indiano in seguito alle riforme introdotte nel 1991. La crisi, prima finanziaria e poi reale, degli anni 2007-2009 ha finito con l’accentuare il differenziale di crescita delle due potenze asiatiche rispetto al Giappone ed ai paesi industrializzati dell’Occidente (Figura 4). La crisi ha offerto alle imprese cinesi e indiane importanti opportunità d’investimento diretto in Europa e negli Stati Uniti, sotto forma di acquisizioni di imprese in difficoltà finanziaria, favorendone quindi l’espansione. Questi due paesi stanno potenziando rapidamente l’impegno in ricerca e sviluppo (R&S) e le proprie capacità innovative, sia con l’acquisizione di tecnologie estere, sia con l’impulso alla ricerca e all’innovazione interna. 1970 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 1979 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 China-India GDP per-capita Figura 3 3500 Chinese and Indian GDP per-capita, 1970-2010 3000 2500 2000 1500 Chinise GDP per-capita Indian GDP per-capita 1000 500 0 Year Figura 4. Crescita del Pil in alcuni paesi Paesi emergenti Russia Cina Brasile India Paesi avanzati Stati Uniti 2013 2012 Giappone Regno Unito Area Euro Germania Francia Italia -2 0 2 4 6 8 10 L’apertura verso l’esterno e la promozione delle esportazioni hanno caratterizzato il processo di sviluppo in entrambi i paesi anche se con tempi molto diversi (Figure 5, 6). In Cina, fin dal 1979, era stata adottata la politica della “porta aperta”. Le esportazioni avevano così favorito la nascita e la crescita del settore manifatturiero. In India il processo di industrializzazione è stato ritardato e più lento, anche se ha subito un’accelerazione a partire dal 1991, come conseguenza delle politiche di liberalizzazione, privatizzazione e deregolamentazione introdotte. L’economia indiana è meno aperta di quella cinese, ma sta aprendosi 70 60 Grado d'Apertura (Export di beni e servizi in % del PIL) 50 Brazil China France 40 Germany India Italy 30 Japan Russian Federation United States 20 United Kingdom 10 source: World Bank, World DataBank 0 2010 2008 2006 2004 2002 2000 1998 1996 1994 1992 1990 1988 1986 1984 1982 1980 1978 1976 1974 1972 1970 1968 1966 1964 1962 1960 1958 1956 1954 1952 1950 1948 Figura 5, Quota di India e Cina sulle esportazioni mondiali di merci 12 10 8 Brazil 6 China India Russian Federation 4 2 0 Figura 6, Quota di India e Cina sulle esportazioni mondiali di servizi 5 4.5 4 3.5 3 Brazil China 2.5 India 2 Russian Federation 1.5 1 0.5 2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998 1997 1996 1995 1994 1993 1992 1991 1990 1989 1988 1987 1986 1985 1984 1983 1982 1981 1980 0 source: UNCTAD Stat In entrambi i paesi si sono verificati significativi mutamenti nella struttura dell’economia: i) riduzione dell’importanza relativa dell’agricoltura ed un esodo di popolazione dalle aree rurali (Tavola 1). ii) entrambi i paesi hanno favorito lo sviluppo di attività industriali all’interno del paese adottando politiche protezionistiche di sostituzione delle importazioni. iii) L’industria è cresciuta assai di più in Cina mentre in India sono stati alcuni comparti del terziario a presentare una crescita più pronunciata. iv) in entrambi i paesi permane rilevante il peso di un’agricoltura in larga misura arretrata. Di conseguenza sono frequenti i periodi di scarsità di beni alimentari, se non di vere e proprie carestie. Tavola 1 Nell’arco di due decenni la Cina è passata: i) dalla condizione di paese semi-industrializzato a quella di paese industrializzato, dotato di un significativo mercato interno. ii) da paese ad economia socialista e sostanzialmente chiuso alle relazioni commerciali esterne a economia pienamente integrata nei circuiti commerciali globali collocandosi ai primi posti in termini di flusso di esportazioni e di investimenti diretti esteri. Un disinterested government ha potuto affermarsi dal momento che la società cinese nel 1978 era particolarmente egualitaria e nessun specifico gruppo è stato in grado di influenzare le decisioni del governo. Questo tipo di governo ha creato attraverso ad un graduale processo riformatore, le condizioni di una crescita sostenuta e per la trasformazione da un’economia pianificata ad una di mercato. Oggi la Cina è un’economia definita dalle stesse autorità cinesi una “economia socialista di mercato” dove coesistono: i) una complessa miscela di piano e di mercato, ii) imprese di proprietà pubblica e privata. Permangono molto stretti gli intrecci tra imprese private e settore pubblico, in particolare per quanto riguarda l’accesso alle fonti di finanziamento. iii) decisioni economiche centralizzate e decentrate. Il centro mantiene il coordinamento strategico e il controllo diretto su una parte importante dell’economia (le imprese statali, le principali banche, il tasso di cambio, i fondi sovrani). La crescita è stata sostenuta da un elevato processo di accumulazione del capitale favorito dall’elevato tasso di risparmio interno e da una sistematica compressione dei consumi (Figura 1). Il crescente flusso di esportazioni ha consentito al paese di accumulare ingenti riserve e di favorire un rapido processo di industrializzazione. Figura 1 Le radici della “via finanziaria allo sviluppo”, vanno ricercate in tempi lontani. Negli anni del “grande balzo in avanti” nascono e si sviluppano alcune specificità e squilibri che caratterizzeranno la struttura economica cinese fino ai tempi più recenti: i) il dualismo tra un’agricoltura arretrata ed un sistema industriale con sacche di inefficienza, ii) l’elevato tasso di investimenti e di accumulazione a scapito dei consumi, iii) la ridotta quota delle spesa pubblica dedicata ad interventi di natura sociale, iv) l’elevato livello di inquinamento conseguente la natura delle tecnologie adottate nell’industria pesante Prima fase dello sviluppo Il primo ventennio del dopoguerra, tra il 1953 ed il 1978, è stato caratterizzato da una sorta di rivoluzione permanente improntata all’ideologia marxista. Gli anni 60 sono stati dominati dalla leadership di Mao che è culminata nella cosiddetta “rivoluzione culturale”. Nel 1966 vennero chiuse le Università. Si sarebbero riaperte solo a partire dal 1970, ma sempre condizionate dall’influenza politica. In questa prima fase la Cina ha adottato un modello di pianificazione molto rigido e centralizzato di stampo sovietico al fine di avviare un processo di industrializzazione basato prevalentemente sull’industria pesante. Grazie al “Grande Balzo in Avanti” si era ottenuto un livello di risparmio adeguato sacrificando i salari industriali, i consumi e gli investimenti in agricoltura. I beni agricoli, frutto del lavoro delle cooperative, venivano venduti allo Stato. La differenza tra il prezzo d’acquisto e di vendita costituiva una rendita netta incamerata dall’operatore pubblico ed utilizzata per finanziare gli investimenti nel settore industriale. Anche i prezzi dei beni manufatti, elevati rispetto ai bassi salari, consentivano alle imprese di Stato di realizzare profitti. Tutte le variabili (quantità e prezzi, risorse materiali ed umane a disposizione delle varie imprese e dei vari settori produttivi, importazioni ed esportazioni) erano stabilite centralmente. La proprietà dei mezzi di produzione faceva comunque riferimento alla collettività, ossia lo Stato. L’impresa era una unità puramente amministrativa. Non esistevano profitti di cui disporre. Tutte le famiglie contadine appartenevano alle “Comuni Popolari”, che avevano sostituito le cooperative al fine di “creare” appezzamenti terrieri di maggiori dimensioni e più efficientemente coltivabili, oltre a superare le difficoltà incontrate da ciascun nucleo famigliare preso singolarmente nel dotarsi e nel mantenere i “mezzi” di produzione. Il compito delle piccole imprese rurali era quello di produrre, in una situazione di autosufficienza, i mezzi di produzione necessari allo svolgimento delle attività agricole e la fornitura di beni manufatti fondamentali utilizzando tecnologie produttive arretrate, mezzi di produzione vecchi ed obsoleti. Le tecnologie ed i mezzi di produzione più avanzati erano riservate alle industrie su larga scala (strategia di sviluppo e di industrializzazione “su due gambe”). Questa strategia di rapida industrializzazione a scapito dell’agricoltura si è rivelata un disastro economico ed umano: riduzione della produzione cerealicola a partire dal 1960 con una diffusa malnutrizione ed una vera e propria carestia che costrinse ad importare cereali. Il livello degli investimenti in capitale fisico ed umano in agricoltura era ridotto. L’agricoltura, in ragione della sua bassa produttività ed arretratezza, non era in grado di sostenere un processo di trasformazione e di trasferimento di risorse così veloce ed accelerato quale quello richiesto dal Piano. Le comuni popolari, nate in seguito a provvedimenti coercitivi da parte dello Stato, si rivelarono incapaci di cooperare per migliorare i processi produttivi. Mancavano del tutto gli incentivi economici per i contadini Con la fine della leadership di Mao, nel 1969, ebbe inizio un periodo di lotte interne per la successione e di revisioni critiche della strategia di pianificazione. Al primo successore Li Biao successe per un breve periodo la cosiddetta banda dei quattro capeggiata dalla stessa moglie di Mao. Nel febbraio del 1977 il moderato Deng Xiaoping venne nominato vicepresidente del partito, e cioè al terzo posto nella gerarchia del partito. Deng era ritornato sulla scena politica dopo essere stato l’estensore di tre documenti molto critici nei confronti dell’esperienza di pianificazione. Prima fase del processo riformatore A partire dal 1978, su impulso di Deng Xiaoping iniziava quel complesso itinerario, durato più di un trentennio, che ha condotto la Cina dal dopo Mao al XVIII Congresso nel 2012. Venne progressivamente liquidata l’eredità ideologica di Mao ed abbandonata la rivoluzione culturale. Si abbandona progressivamente il sistema pianificato e si avvia un graduale avvio delle riforme e della liberalizzazione dell’economia. Le misure via via adottate non possono essere definite ortodosse a causa delle condizioni di partenza, non di mercato. La promulgazione della nuova Costituzione garantiva la libertà di sciopero e il diritto di esprimere le proprie opinioni e di dibatterle pubblicamente. Questa trasformazione politica ebbe importanti riflessi in campo economico. I due nuovi principi guida diventarono “riforme e apertura”. Il processo riformatore venne favorito da una vasta adesione da parte della popolazione all’obiettivo della crescita. Con la prima fase di riforme si dava il via a misure per una radicale trasformazione della Cina rurale smantellando gradualmente le comuni popolari a favore di un sistema semiprivato e familiare di gestione della terra. Veniva concesso alle famiglie il diritto di tenere per sé, e/o di vendere sul mercato, tutta la produzione in eccesso rispetto al livello stabilito dal governo. Si creava così un incentivo ad aumentare la produttività del settore agricolo e conseguentemente dei redditi familiari e dei consumi. Aumentarono i prezzi dei prodotti agricoli corrisposti dallo Stato. Alle famiglie veniva concesso in usufrutto l’appezzamento di terreno da coltivare Veniva introdotta una nuova tipologia di imprese collettive, la “township and village enterprises” (TVEs) controllate dal potere pubblico, ma a livello locale. Il trasferimento di lavoratori dalle zone rurali a quelle urbane avvenne con gradualità dal momento che molti di questi erano proprietari di appezzamenti di terra. Molti lavoratori mantennero la duplice condizione di occupati nel settore urbano ed in quello rurale. Politica della porta aperta Nel 1979 venne approvata una legge che autorizzava gli investimenti esteri (politica della “porta aperta”). Si introdussero innovazioni nelle politiche commerciali con riferimento agli investimenti ed ai prestiti internazionali. In particolare si attuò la sperimentazione delle regole del libero mercato nelle cosiddette Zone economiche speciali (Zes) che garantivano agli investitori condizioni privilegiate: bassi costi di produzione e del lavoro, flessibilità, bassa pressione fiscale, discreta disponibilità di infrastrutture. E’ stato attratto un elevato ammontare di investimenti diretti dando origine ad un vero e proprio processo di delocalizzazione da parte dei paesi industrializzati (“outsourcing”). Furono gradualmente ammesse le imprese private e quelle a capitale estero, dapprima in forma di “joint venture” con imprese cinesi, e poi anche da sole, se operanti in determinati settori o se fortemente orientate all’esportazione. Seconda fase delle riforme A partire dal 1984 inizia la seconda fase con le progressive riforme del settore industriale e dell’economia urbana. Vennero introdotti meccanismi di mercato all’interno dell’economia pianificata. Con la liberalizzazione dei prezzi e dei salari aumentò l’autonomia delle singole imprese. Ad alcune imprese pubbliche, le “State-owned enterprises” (SOE) e ad alcune imprese collettive fu concesso di mantenere all’interno dell’impresa i profitti e di distribuire premi di produttività per i lavoratori. Le SOE potevano vendere i prodotti ed acquistare gli inputs sul libero mercato una volta che fossero stati raggiunte le “quote” stabilite dal piano. Si venne così a creare un sistema di prezzi duale (dual-track), dal momento che i prezzi di mercato erano più elevati di quelli relativi alle “quote”. Questo sistema che prevedeva la coesistenza di prezzi diversi a seconda che valessero nel settore pianificato o di mercato venne eliminato nel 1993 al fine di migliorare l’efficienza microeconomica. Si modificarono i canali di finanziamento degli investimenti. I prestiti governativi furono sostituiti da prestiti bancari. Aumentò la domanda di lavoro con effetti di attrazione della forza lavoro dalle campagne. Venne introdotto pure un nuovo sistema di tassazione progressiva degli utili in sostituzione dei trasferimenti degli stessi all’erario. Gradualmente si è verificato un vero e proprio processo di trasformazione del settore industriale con un aumento del peso delle industrie private ed una riduzione di quelle statali. La presenza dello Stato si è concentrata nelle imprese di grandi dimensioni. Il peso delle SOE si è notevolmente ridotto a meno del 50%. Venne attuata una riforma del sistema finanziario al fine di separare la gestione della politica monetaria da quella del credito. Accanto alla banca centrale (la People’s Bank of China) vennero creati quattro istituti di credito commerciale, tutti statali, distinti per settore di intervento (Agricoltura, Industria, Commercio e Costruzioni, Estero). A questi istituti era, ed è ancora, attribuito il compito di finanziare il sistema industriale erogando prestiti a tassi di interesse, generalmente bassi, fissati dalla Banca Centrale. In linea di principio anche le imprese “non di stato”, e cioè private, possono accedere a questo canale di finanziamento. I finanziamenti, con crediti a medio e lungo termine vengono concessi seguendo criteri di natura politica più che criteri di profittabilità economica. Per questa ragione il sistema bancario cinese viene considerato molto fragile. La sua redditività è bassa ed è sensibilmente calata tra il 1980 ed il 1994. Nel 1984 le Zes sono state estese ad un’area costiera molto più vasta il cui epicentro era Shangai. Questo processo di apertura verso l’esterno si è tradotto: i) in una rapida integrazione della Cina nel mercato mondiale ii) in una progressiva adesione alle principali Organizzazioni Economiche Internazionali (Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale). Questa fase culminava con la piena integrazione della Cina nell’economia internazionale e con l’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2001. Terza fase del processo riformatore In una terza fase è stato avviato anche il processo di privatizzazione delle grandi industrie e la costruzione di quelle istituzioni (di natura giuridica, sociale ed amministrativa) che dovevano essere funzionali all’espansione di un’economia di libero mercato come: il ritorno alla risoluzione formale delle controversie, la sostituzione dei contratti pianificati con i contratti liberi, introduzione del diritto fallimentare. Il diritto ha acquistato una posizione centrale all’interno del sistema economico e sociale della Cina, sia pure limitato alla sfera commerciale, ed ancora subordinato alle decisioni di natura politica. La sfera privata, in tutti i suoi aspetti, dal diritto di proprietà, alla regolamentazione dei contratti, delle professioni e dell’impresa è stata al centro delle riforme. Significativo è stato lo sforzo di armonizzazione del diritto cinese alla legislazione internazionale e per garantire l’uniformità delle regole e della loro applicazione in tutto il paese (“occidentalizzazione delle regole”) Lo sviluppo e la trasformazione dell’economia cinese è stata accompagnata da una trasformazione “silenziosa” del Partito Comunista Cinese (PCC). L’apparato amministrativo cinese è stato oggetto di ricorrenti riforme. La sua efficienza, tuttavia, resta subordinata in larga misura ad obiettivi di natura politica, e cioè alla necessità del PCC di riaffermare la propria legittimità a governare. Il gruppo dirigente oligarchico si è rinnovato gradualmente attraverso un metodo di cooptazione, in presenza di una dialettica interna al partito comunista. Il PCC è stato, così, in grado di trasformarsi da un “working class party” ad un “all people’s party”. La classe media composta da professionisti, dipendenti pubblici, piccoli e medi imprenditori, era ed è la base sociale del regime. E’ stata, invece, progressivamente esclusa da questo processo una quota significativa della popolazione: gli immigrati dalle campagne, i contadini, e le persone prive di educazione. Grazie ad una sorta di rapporto privilegiato tra classe politica ed élite il Partito Comunista Cinese ha potuto mantenere un ruolo egemonico non solo in campo politico, proibendo la formazione di una qualsiasi organizzazione politica concorrente, ma anche in campo sociale, visto che ogni tentativo di creare un sindacato autonomo è stato sistematicamente represso. Questo processo di trasformazione del PCC è stato favorito contemporaneamente da due caratteristiche: i) la società cinese era particolarmente egualitaria nel 1978, come effetto del periodo rivoluzionario. Nessun specifico gruppo è in grado di influenzare le decisioni del governo. ii) il Partito Comunista Cinese (PCC), pur mantenendo saldo il potere e pur continuando a esercitare una funzione decisionale incontrastata soprattutto nelle imprese pubbliche, ha dato prova di adattabilità, integrando l’apparato dirigenziale con le nuove élite. Le decisioni economiche fondamentali sono generalmente assunte, oltre che dagli organi del governo centrale e dei governi dei singoli Stati, dai manager delle grandi imprese pubbliche e dalle famiglie a capo dei grandi conglomerati privati. Lo Stato centrale ha mantenuto un elevato potere di coordinamento strategico e di azione diretta. Permane inoltre l’importante ruolo di indirizzo economico da parte della “National Development and Reform Commission” (Ndrc), evoluzione istituzionale del vecchio organismo della pianificazione centrale. Questa ha compiti di guida e coordinamento delle relazioni internazionali e delle diverse forme di cooperazione tra la RPC e le istituzioni internazionali. E’ aumentato il potere dei politici e della burocrazia pubblica locale, ma è aumentato progressivamente anche il potere degli imprenditori privati e dei manager delle grandi joint venture o imprese a capitale estero che talvolta riescono a condizionare, con la corruzione, l’azione dei quadri politici e burocratici. L’obiettivo di una progressiva maggiore integrazione internazionale, ha guidato, se così si può dire, il processo riformatore in Cina. Le riforme di natura amministrativa e fiscale, caratterizzate dall’introduzione di pratiche condivise dalle istituzioni di altri paesi, sono state intraprese per garantire agli investitori esteri una controparte istituzionale sufficientemente credibile. Questa fase culminava con la piena integrazione della Cina nell’economia internazionale e con l’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 2001. La Cina ha governato gradualmente e per tempo il suo inserimento nel processo di globalizzazione economica, pur mantenendo saggiamente vincoli e controlli sui movimenti di capitali e sulla globalizzazione finanziaria. La presenza di un surplus commerciale strutturale nel lungo periodo può essere interpretata come espressione di una strategia neo-mercantilista. La Cina è riuscita a: a) passare da debitore netto a grande creditore netto nei confronti del resto del mondo; b) accumulare un enorme volume di riserve internazionali in oro ed in valute estere, in particolare in dollari USA; c) destinare un parte di tale avanzi alla costituzione di un gigantesco "fondo sovrano" abilitato a comprare attività finanziarie e reali estere; d) iniziare a finanziare negli anni 2000 la rapida espansione di IDE all'estero, con l'acquisizione di imprese e risorse naturali straniere o la costituzione all'estero di filiali di imprese cinesi. La Cina ha contribuito ad alimentare i grandi squilibri economici e finanziari mondiali degli anni 2000. La caratteristica di paese export driven della crescita cinese dalla metà degli anni ‘90 è ben rappresentata dalla dimensione del saldo attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, il più rilevante al mondo (pari a ben 238 miliardi di dollari nel 2010, ridimensionato a 202 nel 2011). Il peso del saldo delle partite correnti sul Pil è cresciuto tra il 2005 ed il 2007, ma ha cominciato a diminuire da quel momento passando dal 10% a meno del 3% (Figura 2). La comparsa di un deficit commerciale nel primo trimestre 2011, per la prima volta dal 2004, può indicare, tuttavia l’inizio di una fase di transizione verso un modello di crescita più orientato al mercato interno. Dalla fine del 2000 si è verificato un graduale e controllato apprezzamento del tasso di cambio. Il crescente flusso di esportazioni ha consentito al paese di accumulare ingenti riserve e di favorire un rapido processo di industrializzazione. Le riserve nette sono cresciute da 21 billion USD in 1992 (5% del Pil) a 2.130 billion di dollari nel giugno 2009 (46% del PIL). Si veda la figura 3 Figura 2 Figura 9 World Bank, China at a Glance, marzo 2014 Figura 3 Le esportazioni sono sempre cresciute mantenendosi di un livello superiore alle importazioni. L’unico anno in cui sono diminuite è il 2009 (Figura 4, 5 e 6). La straordinaria crescita del settore manifatturiero, ha condotta la Cina ad occupare una posizione di leader nelle esportazioni mondiali di manufatti, con una quota pari al 9,6% nel 2009. Una quota molto rilevante delle esportazioni manifatturiere cinesi (stimabile a oltre il 40%) è attribuibile a filiali estere di imprese multinazionali americane, giapponesi, coreane o europee, incluse le joint venture (società miste) tra imprese cinesi, pubbliche o private, e imprese multinazionali. Figura 4 Figura 5 Figura 6 I settori nei quali la Cina ha progressivamente accresciuto la propria competitività sono quelli tradizionali ad alta intensità di lavoro: tessile, calzature, abbigliamento, arredamento. È aumentato, tuttavia, il grado di sofisticazione delle esportazioni. Negli ultimi anni sono risultate particolarmente dinamiche le industrie produttrici di prodotti dell’elettronica come gli apparecchi radiotelevisivi, elettrodomestici, macchinari elettrici, elettronici e da ufficio, e nelle macchine elettriche. La produzione cinese di prodotti high tech appare articolata, attraverso le reti multinazionali, con quella localizzata in Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Parte delle importazioni è costituita da macchine strumentali e beni capitali che incorporano nuove tecnologie. E’ progressivamente aumentata la competitività delle imprese cinesi grazie anche all’afflusso di investimenti diretti esteri (Ide) ed al miglioramento delle competenze. I più importanti investitori diretti in Cina sono Giappone, Corea, Stati Uniti e Taiwan. Anche gli investimenti cinesi all’estero hanno assunto un valore significativo, stimolati dalla cosiddetta politica go global. Si dirigono prevalentemente verso Hong Kong, Stati Uniti, Europa e più recentemente America Latina ed Africa. Queste delocalizzazioni hanno sostanzialmente due obiettivi: investire in settori che producono fonti energetiche oppure mantenere mercati di sbocco contrastando le crescenti tendenze protezionistiche. Figura 7 Gli Ide sono più che raddoppiati nel corso degli anni 2000. Hong Kong, dopo il ritorno sotto la sovranità cinese, continua a svolgere un ruolo primario nell’attivazione e nell’attrattività degli Ide. I flussi in entrata in forte crescita dal 2007 al 2008, ma in flessione nel 2009 a causa della crisi, meglio riflettono, in Cina come in India, gli andamenti congiunturali di breve periodo (Figura 7). Gli Ide in uscita sono in forte crescita: le grandi imprese cinesi, spesso di proprietà pubblica, sono fra i protagonisti del fenomeno delle «multinazionali emergenti» (figura 8). Il deflusso di investimenti trova giustificazione nell’elevato livello di risparmio che viene investito in “assets” stranieri. Questo avviene poichè, com’è avvenuto in Cina, le imprese private che si autofinanziano aumentano e con loro la produttività. Un crescente rendimento degli investimenti è allora compatibile con un deflusso di capitali, dal momento che il rispsrmio interno risulta in eccesso rispetto agli investimenti. Figura 8 Il settore industriale, che comprende oltre al manifatturiero anche quello minerario e delle imprese dei pubblici servizi (utilities) è sempre stato consistente ed in crescita dal 42% del 1991 al 46,6% nel 2011. Lo sviluppo del settore manifatturiero (30% del Pil), è stato favorito da un mercato del lavoro flessibile e da infrastrutture adeguate. La produzione manifatturiera è molto diversificata, comprendendo produzioni sia di beni di base (cemento, carbone, rame, carta) sia di beni di consumo (tessuti di cotone e di seta, fibre artificiali, prodotti per l’abbigliamento e per la casa). Si è verificato spostamento sulla frontiera tecnologica grazie al forte afflusso di capitale estero e alle numerose joint venture aperte in Cina con grandi e medie imprese estere. Vi è stata, ad esempio, una forte crescita dell’industria aereo-spaziale, dell’ICT (Information, Communication Tecnology), nella produzione dei treni veloci, della cantieristica navale, degli auto-veicoli. Il settore dei servizi, anche se in crescita, nel 2010 pesava solo per il 43% del Pil. In questo settore si è verificato un graduale aumento delle produzioni a tecnologia più evoluta e verso i settori del terziario avanzato come i servizi bancari, finanziari e di consulenza alle imprese. Solamente a partire dal 2003 sono stati effettuati i primi passi di un processo di privatizzazione del sistema bancario. Il settore creditizio è sempre stato monopolizzato dallo Stato ed è quasi completamente chiuso nei confronti dell’estero. Solo recentemente, come previsto dai requisiti di accesso al WTO, si sono manifestati alcuni timidi segnali di apertura. Molti istituti finanziari stranieri stanno progressivamente entrando nel sistema bancario cinese tramite l’apertura di filiali ed uffici di rappresentanza, sia per mezzo di investimenti in banche cinesi. Anche il mercato azionario e obbligazionario sono caratterizzati da una forte presenza pubblica e non funzionano in modo efficiente. Il mercato obbligazionario resta sottosviluppato anche perché ne sono praticamente escluse le imprese non statali. Imprese inefficienti anche di grandi dimensioni hanno continuato a coesistere con imprese private in espansione. La banca centrale, a sua volta, non dispone di strumenti monetari di controllo e interviene mediante controlli diretti e misure amministrative sotto la pressione del governo: la gestione della liquidità è operata mediante misure di “sterilizzazione” e non invece modificando i tassi di interesse. L’incapacità della Banca Centrale di controllare il credito attraverso gli ordinari strumenti monetari, e la dipendenza dal potere politico, rischia di essere una grave lacuna istituzionale. La politica creditizia è stata sempre subordinata all’obiettivo del finanziamento a basso costo delle imprese, consentito dall’ampia raccolta di risparmio. E effetti negativi di due tipi: i) crescita della liquidità come fattore di rischio di surriscaldamento per l’economia. ii) Le piccole e medie imprese non riescono ad accedere ai canali formali e devono ricorrere a fonti informali pagando tassi d’interesse ben superiori a quelli ufficiali. Molto ridotte, inoltre, sono le competenze di “risk management”. La redditività delle banche cinesi resta decisamente inferiore sia agli standard internazionali sia a quelli degli altri paesi asiatici. La politica monetaria in senso lato è stata subordinata all’obiettivo del controllo della stabilità dei prezzi ed al mantenimento di un tasso di cambio fisso con il dollaro. Il 21 luglio del 2005 è stata assunta la decisione di ancorare lo yuan ad una paniere di monete che riflette la struttura del commercio estero cinese, il debito con l’estero, gli investimenti diretti stranieri e i trasferimenti in conto corrente. Una successiva parziale liberalizzazione del mercato monetario ha consentito un modesto apprezzamento nominale della moneta cinese. Nonostante questo lieve apprezzamento l’avanzo della bilancia delle partite correnti continua a crescere. Il passaggio ad un sistema di cambio più flessibile ridurrebbe anche l’afflusso di capitali a scopo speculativo. Vi è stato un aumento significativo delle riserve in valuta forte superando nel 2006 l’ammontare del Giappone. Si stima che il 70% di queste riserve sia costituita da obbligazioni denominate in dollari. E’ fin troppo noto l’elevato impegno del governo cinese nel finanziare la spesa pubblica di altri Stati attraverso l’acquisto dei titoli del tesoro, italiani ed americani in misura rilevante. Gli USA presentano da qualche anno dei disavanzi gemelli (bilancio pubblico e bilancia dei pagamenti) resi sostenibili dalla politica cinese. La Cina ha seguito un percorso di modernizzazione in cui l’apporto del settore privato sta diventando preponderante, pur rimanendo significativo il ruolo del pubblico. Una questione cruciale riguarda la capacità di continuare sulla via delle riforme non solo in campo economico, ma anche in quello giuridico, sociale e politico. In agricoltura persistono sacche di disoccupazione che potranno essere assorbite solo lentamente dal settore secondario. Devono essere migliorate, in termini sia di efficienza sia di equità, le prestazioni di welfare sia con riferimento alle entrate fiscali che alla composizione della spesa pubblica. Un’altra sfida è costituita dalla mancanza di adeguati strumenti finanziari e di investitori istituzionali in grado di assorbire la liquidità attraverso canali non bancari. Le variabili macroeconomiche presentano valori anomali per un paese in via di sviluppo. Il bilancio pubblico non presenta eccessivi squilibri. Il deficit è stato contenuto sempre sotto il 3% ed addirittura portato al 2% in questi due ultimi anni. Il debito interno ufficiale è pari solo al 24% del Pil, mentre il debito estero si attesta attorno al 14%. Dal lato delle entrate la tassazione è ancora eccessivamente dipendente dalle imposte indirette. E’ in corso una riforma fiscale i cui obiettivi dichiarati sono la crescita della pressione fiscale e l’aumento del peso delle entrate percepite dal governo centrale. E’ stato ridisegnato il sistema delle imposte indirette al fine di eliminare le distorsioni dovute all’effetto a cascata generato dall’interazione dell’IVA e dall’imposta sui prodotti. I risultati sono tuttavia ancora ridotti e l’applicazione appare eccessivamente graduale. Dal lato delle spese sono troppo basse quelle per istruzione, sanità e protezione sociale. Questo spiega l’elevato risparmio delle famiglie e corrispondentemente il troppo basso livello dei consumi. Il principale fattore di crescita dal lato della domanda è stato il livello degli investimenti. Il tasso di risparmio si avvicina al 40% come effetto di compressione dei consumi. E’ tuttavia eccessivo e distorto a favore delle grandi imprese di Stato. La proprietà pubblica è all’origine di alcuni dei vantaggi competitivi delle grandi imprese cinesi nell’economia globale, come la facilità di finanziamento e l’appoggio della diplomazia economica del paese. Questo fattore, tuttavia, rappresenta una sorta di ipoteca sulla sostenibilità di una crescita che sia efficiente ed in grado di dar vita ad un sistema industriale competitivo. Il problema dell’adeguamento del sistema di welfare è destinato ad acuirsi a causa dell’invecchiamento della popolazione. La composizione della popolazione appare sbilanciata, con una età media superiore a quella di altri paesi in via di sviluppo ed in particolare dell’India a causa del controllo delle nascite basata sul figlio unico (“One-Child-Policy”). Questa politica ha ridotto il tasso di fertilità. Tuttavia i costi finanziari per i controlli ed i sociali per i cittadini, sono divenuti oggi troppo elevati. Un miglioramento delle prestazioni sociali potrebbe poi contribuire all’espansione dei consumi, contribuendo al progressivo spostamento dalla domanda estera a quella interna. La riforma dei diritti di proprietà e una maggiore mobilità del lavoro potrebberoattenuare il divario nei livelli e nei tassi di crescita dei redditi delle diverse aree territoriali, rurali e urbane, interne e costiere. Sono aumentate le disuguaglianze di ogni tipo, nelle condizioni delle diverse categorie di lavoratori (tra popolazione urbana e rurale, tra occupati e disoccupati, tra classe media e classe operaia), nella redditività dei diversi settori e/o aree territoriali, nelle relazioni tra Stato e mercato, nella relazione tra sviluppo e collocazione del paese a livello internazionale con riferimento in particolare alle variabili di natura macroeconomica. L’indice di Gini è aumentato sia all’interno del settore rurale che in quello urbano e per il paese nel complesso. E’ cresciuto da un valore di 0,36 nel 1992 a 0,47 nel 2004. Secondo alcuni autori l’origine di questo trend crescente va ricercata nelle caratteristiche delle riforme istituzionali via via intraprese. In particolare nel modo in cui è stata redistribuita la terra e negli investimenti di natura sociale. Le differenze regionali espresse in Pil a prezzi correnti sono da 1 a 9. E’ crescente pure il disagio nelle zone rurali per il modo in cui vengono urbanizzate le zone agricole a favore di nuovi insediamenti produttivi e residenziali ed assegnate le rendite derivanti dal processo di urbanizzazione. In molti casi non viene corrisposto neppure un risarcimento minimo. Sarebbe necessaria una riforma dei diritti di proprietà che tuteli direttamente ed adeguatamente le famiglie rurali esposte all’esproprio dei terreni agricoli a fini di urbanizzazione. Una riforma dei diritti di proprietà ed un maggior mobilità del lavoro potrebbe attenuare il divario nei livelli e nei tassi di crescita dei redditi delle diverse aree territoriali, tra zone rurali ed urbane, tra zone interne e costiere. Il rischio, in caso contrario, è quello di far esplodere un vero e proprio conflitto sociale. L’attuale sistema garantisce non la proprietà, ma solo l’usufrutto. Il risarcimento viene concesso alla collettività di villaggio che può ridistribuire il compenso all’interno della comunità o eventualmente riassegnare appezzamenti di terreno non necessariamente di pari produttività agricola. Al fine di raggiungere l’autosufficienza nei prodotti di base, come i cereali, occorre adottare politiche che contribuiscano ad aumentare la produttività agricola, a migliorare le infrastrutture ed a ridurre il carico fiscale. Queste misure dovrebbero contribuire a ridurre le diseguaglianze tra la redditività nel settore rurale e quella del settore industriale, ma anche a costituire un freno all’esodo della popolazione rurale verso le città. I vantaggi dell’arretratezza economica relativa e del modello fordista di sviluppo tenderanno a ridursi nel tempo, man mano che ci si avvicinerà alla frontiera tecnologica e diversi settori industriali diverranno maturi, mentre l’invecchiamento della popolazione contribuirà già tra pochi anni alla riduzione del tasso di crescita dell’economia Nel medio periodo, poi, potrebbero aggravarsi i problemi derivanti da un eccesso di capacità produttiva in settori strategici come quello automobilistico e delle materie di base (cemento, ferro, acciaio, alluminio, carbone). Gli effetti negativi sono potenzialmente molto numerosi: caduta dei prezzi e dei profitti, aumento dei crediti non esigibili da parte delle banche, caduta dell’occupazione, deflusso di capitali all’estero qualora vengano liberalizzati i movimenti dei capitali. Queste contraddizioni irrisolte finiranno con il condizionare la sostenibilità del processo di sviluppo così come è stato prefigurato nel XII Piano quinquennale di sviluppo economico e sociale per il periodo 2011-2015. Dal punto di vista sociale, le gravi e crescenti disuguaglianze economiche e l’assenza di una compiuta democrazia e di mezzi di comunicazione veramente liberi possono favorire tensioni sociali e politiche importanti, come quella repressa a Tienanmen nel 1989. In Cina uno dei principali problemi, oggi, consiste nel conciliare lo sviluppo con la sostenibilità sociale e ambientale. Nonostante e probabilmente a causa del rapido processo di crescita, permangono forti squilibri di natura economica, politica e sociale. Il rapido processo di industrializzazione ha finito con il produrre esternalità negative di varia natura come l’inquinamento ambientale. La Cina è la prima fonte di emissioni di diossido di carbonio al mondo (25% del totale). L’inquinamento e la scarsità di risorse energetiche sono il vincolo maggiore per la sostenibilità della crescita, sebbene la scoperta di estesi giacimenti di gas naturale di rocce scistose bituminose (shale gas) possa in parte ridurre l’impatto della scarsità di fonti energetiche. La riduzione della congestione e dell’inquinamento insieme all’eliminazione della povertà ed alla riduzione delle diseguaglianze sociali sono i principali obiettivi indicati da Xi Jinping (attuale presidente della Repubblica Popolare Cinese in carica dal marzo 2013) per il prossimo futuro. In occasione dell’ultimo plenum del Partito comunista, svoltosi nel novembre 2013, la ricerca di modalità di crescita più rispettose dei limiti ambientali è stata posta tra i pilastri del nuovo sistema produttivo. Il Partito ha annunciato un vasto piano di riforme e di riconversione industriale per far fronte a delle vere e proprie situazioni di emergenza. Le contraddizioni ancora irrisolte finiranno con il condizionare la sostenibilità del processo di sviluppo così come è stato prefigurato nel XII Piano quinquennale di sviluppo economico e sociale per il periodo 2011-2015. Il governo cinese adotterà alcune misure di politica economica in accordo con le linee guida esposte nel Dodicesimo piano quinquennale (2011-2015) con l’obiettivo di ridurre le principali anomalie del modello di sviluppo e di creare una “società armoniosa”. Questa dovrebbe essere caratterizzata da un maggiore equilibrio tra aree rurali ed urbane, da una maggiore libertà di mercato nell’allocazione delle risorse ed una corrispondente riduzione dell’intervento statale, da uno stimolo per i consumi che si prevede diventino non solo più elevati ma anche più sofisticati, da una maggiore partecipazione della società civile, da un modello di crescita economica verso una sostenibilità di lungo termine. Si prevede anche un riequilibrio tra crescita delle esportazioni e crescita delle importazioni.