Lo sviluppo comparato di Cina ed India

Sistemi Economici Comparati
Anno accademico 2014-2015
Prof.sa Renata Targetti Lenti
Lo sviluppo comparato di Cina ed India:
Lo sviluppo della Cina
Lezione 8 4/11/2014
Riferimenti
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Balcet G., Valli V., Nuovi protagonisti dell’economia globale:
un’introduzione, in Balcet G., Valli V., “Potenze economiche emergenti”,
Il Mulino, 2012, pp. 9-48.
Beretta S., Targetti Lenti R., India e Cina nel processo di integrazione
internazionale, in: Calchi Novati G. ( a cura di) “L’Alternativa Sud-Sud,
chi vince e chi perde”, Asia Major 2011, Carocci, pp. 31-64.
Fondazione Italia Cina, La Cina nel 2014, Scenari e prospettive per le
imprese, Rapporto CESIF 2014, acura di Thomas Rosenthal e Alberto
Rossi, pp. 8-75
Yang Yao (2009), The Disinterested Government, An Interpretation of
China’s Economic Success in the Reform Era, Research Paper No.
2009/33, http://www.econstor.eu/bitstream/10419/45124/1/601791185.pdf
Cina ed India sono entrambi grandi paesi sia dal punto di vista
dell’estensione territoriale che della popolazione. La crescita
accelerata di questi paesi sta mutando in profondità il quadro
economico, politico e sociale del mondo.
Il processo di integrazione non riguarda più, come in passato, i
soli flussi commerciali ma anche - e soprattutto - i flussi di
investimento e la delocalizzazione dei processi produttivi.
Il progressivo inserimento di India e Cina, nelle correnti di
scambio e di investimento dell’economia globale ha seguito le
tappe dei rispettivi processi di riforma con significative differenze
nelle traiettorie e nei ritmi di apertura verso l’estero da attribuirsi
alle specifiche condizioni iniziali ed al congiunto operare non
solo di fattori economici, ma anche di fattori politici e sociali.
In entrambi i paesi le diverse fasi dello sviluppo sono state
contrassegnate da significativi mutamenti politici e dall’emergere
di personalità come Deng Xiaoping, Jiao Zeming e più
recentemente (dal 14 marzo 2013) Xi Jinping in Cina, come
Nehru, i Gandhi, Manmohan Singh e più recentemente da Modi
(maggio 2014) in India.
Il confronto tra i due percorsi di crescita è funzionale a meglio
comprendere i fattori specifici dello sviluppo economico cinese
rispetto a quello indiano.
In entrambi i paesi l’assetto macroeconomico e le politiche
governative hanno frenato prima e favorito poi la crescita. Nel
caso cinesre il ruolo dello Stato e delle imprese pubbliche si è
rivelato determinante ai fini dell’avvio del processo di crescita
anche se è andato progressivamente diminuendo. In India, invece,
il processo di liberalizzazione è stato più rapido.
In entrambi i paesi le diverse fasi dello sviluppo sono state
contrassegnate da significativi mutamenti politici e dall’emergere
di personalità come Deng Xiaoping, Jiao Zeming e più
recentemente (dal 14 marzo 2013) Xi Jinping in Cina, come
Nehru, i Gandhi, Manmohan Singh e più recentemente da Modi
(maggio 2014) in India.
Il confronto tra i due percorsi di crescita è funzionale a meglio
comprendere i fattori specifici dello sviluppo economico cinese
rispetto a quello indiano.
In entrambi i paesi l’assetto macroeconomico e le politiche
governative hanno frenato prima e favorito poi la crescita. Nel
caso cinesre il ruolo dello Stato e delle imprese pubbliche si è
rivelato determinante ai fini dell’avvio del processo di crescita
anche se è andato progressivamente diminuendo. In India, invece,
il processo di liberalizzazione è stato più rapido.
Vi è un ampio consenso sulle determinanti della crescita cinese e
di quella indiana a partire dal processo di liberalizzazione con il
superamento del sistema delle licenze.
In Cina i principali fattori di crescita sono individuabili
nell’accelerata accumulazione del capitale industriale e nella
dinamica delle esportazioni di manufatti a partire dall’“apertura”
del 1979.
In India il processo di industrializzazione è stato più lento: la
priorità attribuita dallo Stato all’industria pesante e l’enfasi
sull’istruzione superiore hanno tuttavia determinato il formarsi di
capabilities che hanno successivamente consentito di acquisire
competitività in settori strategici, ed in particolare nel settore dei
servizi.
Cina e India, non solo sono state in grado di “sfruttare” una
politica di catching up (recupero economico) nei confronti dei
paesi più ricchi, ma anche di acquisire nuove tecnologie
attraverso investimenti in beni capitali, IDE esteri e processi di
imitazione e di adattamento.
Entrambi i paesi hanno privilegiato all’inizio del processo lo
sviluppo di attività industriali a elevata intensità di capitale
promuovendo politiche di sostituzione delle importazioni con
l’obiettivo di favorire un processo di industrializzazione ed
assorbendo progressivamente l’eccesso di offerta di lavoro che si
andava formando nelle aree rurali.
La Cina presenta minori divisioni sociali al suo interno anche se le minoranze
etniche sono pari a circa l’8% della popolazione.
La Cina ha, d’altra parte il problema del gran numero di lavoratori emigrati
dalle campagne alle città senza autorizzazione, che perdono gran parte dei
benefici sociali.
L’India, invece, soffre ancora del pesante retaggio del regime delle caste. In
alcuni stati, è caratterizzata da profonde divisioni etniche e religiose.
Le severe misure di controllo della popolazione introdotte in Cina (politica del
figlio unico) hanno determinato fino a pochi anni fa un effetto favorevole per
lo sviluppo economico. Nei prossimi anni, tuttavia, il rapido declino della
natalità e della mortalità conseguente anche ai fenomeni di industrializzazione
ed urbanizzazione, produrrà un rapido aumento della popolazione anziana
(ageing), che avrà effetti assai negativi sullo sviluppo economico (spese per
pensioni e per sanità).
Accanto a fattori positivi per lo sviluppo sussistono, in entrambi i
paesi, fattori negativi che potrebbero frenare il processo di
crescita e di integrazione nell’economia internazionale.
In Cina l’inquinamento complessivo sta rapidamente
aumentando.
In India l’aumento dell’inquinamento è stato meno rapido e nel
complesso meglio contrastato, tuttavia esistono importanti
differenze al suo interno tra i diversi Stati.
In India, come in Cina sono rilevanti e crescenti le disuguaglianze
interne, quelle tra regioni, tra classi sociali, tra città e campagna.
Le diseguaglianze economiche misurate dall’indice di Gini sono
crescenti, ma minori in India rispetto alla Cina, sebbene la
povertà assoluta e relativa siano meno elevate ed in diminuzione
nel secondo paese.
In entrambi i paesi politica estera e alleanze sono state in larga
misura condizionate dalla necessità di reperire fonti energetiche
aggiuntive. Cina ed India sono potenzialmente in concorrenza tra
di loro e con gli USA per ottenere questi approvvigionamenti.
Gli accordi nucleari recentemente siglati con gli Stati Uniti
segnano l’abbandono da parte dell’India della politica di non
allineamento e il suo ingresso tra i protagonisti di maggiore peso
della comunità internazionale.
L’espansione della Cina in Africa costituisce a sua volta un
esempio di soluzione alternativa del problema della scarsità di
risorse naturali.
Entrambi i paesi sono impegnati in un complesso percorso di
modernizzazione del proprio esercito e più in generale del proprio
impianto strategico.
Tra India e Cina sono individuabili anche differenze significative,
sia culturali e socio-politiche sia di struttura produttiva. Al
socialismo confuciano della nuova Cina si contrappone in India la
democrazia diffusa, contraddistinta da un’estesa autonomia
regionale e da un modello di «organizzazione sociale guidata dal
basso».
È nel contesto di un assetto istituzionale democratico, quindi
antagonistico rispetto a quello cinese, che si è sviluppata in India
la produzione di beni immateriali a elevato contenuto di
innovazione. Entrambi i paesi presentano livelli elevati di
corruzione. In Cina, tuttavia, la burocrazia centrale e periferica,
per tradizione millenaria, è molto più efficace di quella indiana,
ereditata dal sistema coloniale britannico.
In Cina la propensione all’investimento in infrastrutture ha
favorito la modernizzazione del sistema produttivo. In India il
sistema democratico, strutturalmente decentrato, ha rappresentato
un freno al processo di accumulazione. Risparmi e investimenti
risultano sistematicamente inferiori in India rispetto a quelli
cinesi.
In Cina il sistema creditizio ha promosso l’accumulazione e la
crescita. In India il controllo pubblico sul sistema bancario e
finanziario ha determinato un’offerta di credito insufficiente e
distorsioni nella sua composizione.
La diversità delle strutture produttive e dei sistemi finanziari
trova poi corrispondenza nel diverso ruolo degli investimenti
esteri: in Cina questi suppliscono alle carenze del mercato
interno, in India sono stati considerati per molti anni un
potenziale ostacolo allo sviluppo del sistema economico.
Se le diseguaglianze sociali nei due paesi, l'inquinamento
dell'ambiente e l'oppressione anti-democratica in Cina
diventassero ancora più profondi, potrebbero verificarsi tensioni
sociali e politiche tali da ostacolare in modo significativo il
progresso economico.
Se invece il progresso economico dovesse continuare nei
prossimi decenni a diffondersi gradualmente alla maggior parte
della popolazione, anche la forza della grande finanza, ora in
prevalenza controllata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, si
sposterebbe sempre più sotto il controllo della Cina e dell'India.
La Cina è oggi, in termini di PIL complessivo, la seconda
economia del mondo. Nel 2010 la Cina ha superato il Giappone
per dimensione del Pil totale nominale calcolato in base ai tassi
ufficiali di cambio, ma aveva già sorpassato da diversi anni il
Giappone in termini di Pil calcolato a parità di potere d’acquisto.
Il Pil cinese pesa per poco meno del 15% sul Pil mondiale, e si
prevede secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale
(IMF) che possa arrivare al 18,3% nel 2017, superando gli Stati
Uniti (Figura 1).
L’India, sempre in termini di PIL è oggi la quarta economia del
mondo (Figura 1).
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1985
1984
1983
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1981
1980
Figura 1
20
18
16
14
12
10
Brazil
China
India
8
Russia
6
4
2
0
I tassi di crescita del prodotto interno lordo complessivo di Cina
ed India sono stati nell’ultimo decennio - e permangono - molto
elevati. Sono sempre stati maggiori per la Cina rispetto all’India.
A partire dal 2010, tuttavia, si è registrata una flessione per
entrambi i paesi anche se più marcata per l’India.
In Cina il Pil è cresciuto ad un tasso medio annuo pari al 9,5% nel
periodo 1992-2002, al 10,8% nel periodo 2002-2012, ma nel
2011 il tasso di crescita del Pil è sceso al 9,3%.
In India il Pil è cresciuto ad un tasso medio annuo pari al 6,0%
nel periodo 1992-2002, al 8,0% nel periodo 2002-2012, e si è
ridotto al 6,6% nel 2011.
Figura 2
L’accelerazione del ritmo di crescita cinese verificatesi dopo le riforme
economiche del 1978 ha prodotto nel 1984 il superamento del Pil pro capite
cinese rispetto a quello indiano (Figura 3).
Lo scarto tra i due paesi si è lievemente ridotto solo in seguito
all’accelerazione del ritmo di sviluppo indiano in seguito alle riforme
introdotte nel 1991.
La crisi, prima finanziaria e poi reale, degli anni 2007-2009 ha finito con
l’accentuare il differenziale di crescita delle due potenze asiatiche rispetto al
Giappone ed ai paesi industrializzati dell’Occidente (Figura 4).
La crisi ha offerto alle imprese cinesi e indiane importanti opportunità
d’investimento diretto in Europa e negli Stati Uniti, sotto forma di acquisizioni
di imprese in difficoltà finanziaria, favorendone quindi l’espansione.
Questi due paesi stanno potenziando rapidamente l’impegno in ricerca e
sviluppo (R&S) e le proprie capacità innovative, sia con l’acquisizione di
tecnologie estere, sia con l’impulso alla ricerca e all’innovazione interna.
1970
1971
1972
1973
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
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1984
1985
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2010
China-India GDP per-capita
Figura 3
3500
Chinese and Indian GDP per-capita, 1970-2010
3000
2500
2000
1500
Chinise GDP per-capita
Indian GDP per-capita
1000
500
0
Year
Figura 4. Crescita del Pil in alcuni paesi
Paesi emergenti
Russia
Cina
Brasile
India
Paesi avanzati
Stati Uniti
2013
2012
Giappone
Regno Unito
Area Euro
Germania
Francia
Italia
-2
0
2
4
6
8
10
L’apertura verso l’esterno e la promozione delle esportazioni
hanno caratterizzato il processo di sviluppo in entrambi i paesi
anche se con tempi molto diversi (Figure 5, 6).
In Cina, fin dal 1979, era stata adottata la politica della “porta
aperta”. Le esportazioni avevano così favorito la nascita e la
crescita del settore manifatturiero.
In India il processo di industrializzazione è stato ritardato e più
lento, anche se ha subito un’accelerazione a partire dal 1991,
come conseguenza delle politiche di liberalizzazione,
privatizzazione e deregolamentazione introdotte.
L’economia indiana è meno aperta
di quella cinese, ma sta aprendosi
70
60
Grado d'Apertura
(Export di beni e servizi in % del PIL)
50
Brazil
China
France
40
Germany
India
Italy
30
Japan
Russian Federation
United States
20
United Kingdom
10
source: World Bank, World DataBank
0
2010
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1998
1996
1994
1992
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1988
1986
1984
1982
1980
1978
1976
1974
1972
1970
1968
1966
1964
1962
1960
1958
1956
1954
1952
1950
1948
Figura 5, Quota di India e Cina sulle esportazioni mondiali di merci
12
10
8
Brazil
6
China
India
Russian Federation
4
2
0
Figura 6, Quota di India e Cina sulle esportazioni mondiali di servizi
5
4.5
4
3.5
3
Brazil
China
2.5
India
2
Russian Federation
1.5
1
0.5
2011
2010
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2005
2004
2003
2002
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2000
1999
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1994
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1991
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1988
1987
1986
1985
1984
1983
1982
1981
1980
0
source: UNCTAD Stat
In entrambi i paesi si sono verificati significativi mutamenti
nella struttura dell’economia:
i) riduzione dell’importanza relativa dell’agricoltura ed un
esodo di popolazione dalle aree rurali (Tavola 1).
ii) entrambi i paesi hanno favorito lo sviluppo di attività
industriali all’interno del paese adottando politiche
protezionistiche di sostituzione delle importazioni.
iii) L’industria è cresciuta assai di più in Cina mentre in India
sono stati alcuni comparti del terziario a presentare una
crescita più pronunciata.
iv) in entrambi i paesi permane rilevante il peso di
un’agricoltura in larga misura arretrata. Di conseguenza sono
frequenti i periodi di scarsità di beni alimentari, se non di vere
e proprie carestie.
Tavola 1
Nell’arco di due decenni la Cina è passata:
i) dalla condizione di paese semi-industrializzato a quella di
paese industrializzato, dotato di un significativo mercato
interno.
ii) da paese ad economia socialista e sostanzialmente chiuso
alle relazioni commerciali esterne a economia pienamente
integrata nei circuiti commerciali globali collocandosi ai primi
posti in termini di flusso di esportazioni e di investimenti
diretti esteri.
Un disinterested government ha potuto affermarsi dal
momento che la società cinese nel 1978 era particolarmente
egualitaria e nessun specifico gruppo è stato in grado di
influenzare le decisioni del governo. Questo tipo di governo ha
creato attraverso ad un graduale processo riformatore, le
condizioni di una crescita sostenuta e per la trasformazione da
un’economia pianificata ad una di mercato.
Oggi la Cina è un’economia definita dalle stesse autorità cinesi una
“economia socialista di mercato” dove coesistono:
i) una complessa miscela di piano e di mercato,
ii) imprese di proprietà pubblica e privata. Permangono molto stretti gli
intrecci tra imprese private e settore pubblico, in particolare per quanto
riguarda l’accesso alle fonti di finanziamento.
iii) decisioni economiche centralizzate e decentrate. Il centro mantiene il
coordinamento strategico e il controllo diretto su una parte importante
dell’economia (le imprese statali, le principali banche, il tasso di cambio, i
fondi sovrani).
La crescita è stata sostenuta da un elevato processo di accumulazione del
capitale favorito dall’elevato tasso di risparmio interno e da una sistematica
compressione dei consumi (Figura 1).
Il crescente flusso di esportazioni ha consentito al paese di accumulare
ingenti riserve e di favorire un rapido processo di industrializzazione.
Figura 1
Le radici della “via finanziaria allo sviluppo”, vanno
ricercate in tempi lontani. Negli anni del “grande
balzo in avanti” nascono e si sviluppano alcune
specificità e squilibri che caratterizzeranno la
struttura economica cinese fino ai tempi più recenti:
i) il dualismo tra un’agricoltura arretrata ed un
sistema industriale con sacche di inefficienza,
ii) l’elevato tasso di investimenti e di accumulazione
a scapito dei consumi,
iii) la ridotta quota delle spesa pubblica dedicata ad
interventi di natura sociale,
iv) l’elevato livello di inquinamento conseguente la
natura delle tecnologie adottate nell’industria pesante
Prima fase dello sviluppo
Il primo ventennio del dopoguerra, tra il 1953 ed il
1978, è stato caratterizzato da una sorta di rivoluzione
permanente improntata all’ideologia marxista.
Gli anni 60 sono stati dominati dalla leadership di Mao
che è culminata nella cosiddetta “rivoluzione culturale”.
Nel 1966 vennero chiuse le Università. Si sarebbero
riaperte solo a partire dal 1970, ma sempre condizionate
dall’influenza politica.
In questa prima fase la Cina ha adottato un modello di
pianificazione molto rigido e centralizzato di stampo
sovietico al fine di avviare un processo di
industrializzazione
basato
prevalentemente
sull’industria pesante.
Grazie al “Grande Balzo in Avanti” si era ottenuto un livello di
risparmio adeguato sacrificando i salari industriali, i consumi e
gli investimenti in agricoltura.
I beni agricoli, frutto del lavoro delle cooperative, venivano
venduti allo Stato. La differenza tra il prezzo d’acquisto e di
vendita costituiva una rendita netta incamerata dall’operatore
pubblico ed utilizzata per finanziare gli investimenti nel settore
industriale.
Anche i prezzi dei beni manufatti, elevati rispetto ai bassi salari,
consentivano alle imprese di Stato di realizzare profitti.
Tutte le variabili (quantità e prezzi, risorse materiali ed umane a
disposizione delle varie imprese e dei vari settori produttivi,
importazioni ed esportazioni) erano stabilite centralmente. La
proprietà dei mezzi di produzione faceva comunque riferimento
alla collettività, ossia lo Stato.
L’impresa era una unità puramente amministrativa. Non
esistevano profitti di cui disporre.
Tutte le famiglie contadine appartenevano alle “Comuni
Popolari”, che avevano sostituito le cooperative al fine di
“creare” appezzamenti terrieri di maggiori dimensioni e più
efficientemente coltivabili, oltre a superare le difficoltà incontrate
da ciascun nucleo famigliare preso singolarmente nel dotarsi e nel
mantenere i “mezzi” di produzione.
Il compito delle piccole imprese rurali era quello di produrre, in
una situazione di autosufficienza, i mezzi di produzione necessari
allo svolgimento delle attività agricole e la fornitura di beni
manufatti fondamentali utilizzando tecnologie produttive
arretrate, mezzi di produzione vecchi ed obsoleti.
Le tecnologie ed i mezzi di produzione più avanzati erano
riservate alle industrie su larga scala (strategia di sviluppo e di
industrializzazione “su due gambe”).
Questa strategia di rapida industrializzazione a scapito
dell’agricoltura si è rivelata un disastro economico ed umano:
riduzione della produzione cerealicola a partire dal 1960 con una
diffusa malnutrizione ed una vera e propria carestia che costrinse
ad importare cereali.
Il livello degli investimenti in capitale fisico ed umano in
agricoltura era ridotto.
L’agricoltura, in ragione della sua bassa produttività ed
arretratezza, non era in grado di sostenere un processo di
trasformazione e di trasferimento di risorse così veloce ed
accelerato quale quello richiesto dal Piano.
Le comuni popolari, nate in seguito a provvedimenti coercitivi da
parte dello Stato, si rivelarono incapaci di cooperare per
migliorare i processi produttivi.
Mancavano del tutto gli incentivi economici per i contadini
Con la fine della leadership di Mao, nel 1969, ebbe
inizio un periodo di lotte interne per la successione e di
revisioni critiche della strategia di pianificazione.
Al primo successore Li Biao successe per un breve
periodo la cosiddetta banda dei quattro capeggiata dalla
stessa moglie di Mao.
Nel febbraio del 1977 il moderato Deng Xiaoping venne
nominato vicepresidente del partito, e cioè al terzo posto
nella gerarchia del partito.
Deng era ritornato sulla scena politica dopo essere stato
l’estensore di tre documenti molto critici nei confronti
dell’esperienza di pianificazione.
Prima fase del processo riformatore
A partire dal 1978, su impulso di Deng Xiaoping iniziava quel
complesso itinerario, durato più di un trentennio, che ha condotto
la Cina dal dopo Mao al XVIII Congresso nel 2012.
Venne progressivamente liquidata l’eredità ideologica di Mao ed
abbandonata la rivoluzione culturale. Si abbandona
progressivamente il sistema pianificato e si avvia un graduale
avvio delle riforme e della liberalizzazione dell’economia. Le
misure via via adottate non possono essere definite ortodosse a
causa delle condizioni di partenza, non di mercato.
La promulgazione della nuova Costituzione garantiva la libertà di
sciopero e il diritto di esprimere le proprie opinioni e di dibatterle
pubblicamente. Questa trasformazione politica ebbe importanti
riflessi in campo economico.
I due nuovi principi guida diventarono “riforme e apertura”.
Il processo riformatore venne favorito da una vasta adesione da
parte della popolazione all’obiettivo della crescita.
Con la prima fase di riforme si dava il via a misure per una radicale
trasformazione della Cina rurale smantellando gradualmente le comuni
popolari a favore di un sistema semiprivato e familiare di gestione della terra.
Veniva concesso alle famiglie il diritto di tenere per sé, e/o di vendere sul
mercato, tutta la produzione in eccesso rispetto al livello stabilito dal governo.
Si creava così un incentivo ad aumentare la produttività del settore agricolo e
conseguentemente dei redditi familiari e dei consumi. Aumentarono i prezzi
dei prodotti agricoli corrisposti dallo Stato.
Alle famiglie veniva concesso in usufrutto l’appezzamento di terreno da
coltivare
Veniva introdotta una nuova tipologia di imprese collettive, la “township and
village enterprises” (TVEs) controllate dal potere pubblico, ma a livello locale.
Il trasferimento di lavoratori dalle zone rurali a quelle urbane avvenne con
gradualità dal momento che molti di questi erano proprietari di appezzamenti
di terra. Molti lavoratori mantennero la duplice condizione di occupati nel
settore urbano ed in quello rurale.
Politica della porta aperta
Nel 1979 venne approvata una legge che autorizzava gli
investimenti esteri (politica della “porta aperta”).
Si introdussero innovazioni nelle politiche commerciali con
riferimento agli investimenti ed ai prestiti internazionali.
In particolare si attuò la sperimentazione delle regole del libero
mercato nelle cosiddette Zone economiche speciali (Zes) che
garantivano agli investitori condizioni privilegiate: bassi costi di
produzione e del lavoro, flessibilità, bassa pressione fiscale,
discreta disponibilità di infrastrutture.
E’ stato attratto un elevato ammontare di investimenti diretti
dando origine ad un vero e proprio processo di delocalizzazione
da parte dei paesi industrializzati (“outsourcing”). Furono
gradualmente ammesse le imprese private e quelle a capitale
estero, dapprima in forma di “joint venture” con imprese cinesi, e
poi anche da sole, se operanti in determinati settori o se
fortemente orientate all’esportazione.
Seconda fase delle riforme
A partire dal 1984 inizia la seconda fase con le progressive
riforme del settore industriale e dell’economia urbana.
Vennero introdotti meccanismi di mercato all’interno
dell’economia pianificata. Con la liberalizzazione dei prezzi e dei
salari aumentò l’autonomia delle singole imprese.
Ad alcune imprese pubbliche, le “State-owned enterprises”
(SOE) e ad alcune imprese collettive fu concesso di mantenere
all’interno dell’impresa i profitti e di distribuire premi di
produttività per i lavoratori. Le SOE potevano vendere i prodotti
ed acquistare gli inputs sul libero mercato una volta che fossero
stati raggiunte le “quote” stabilite dal piano.
Si venne così a creare un sistema di prezzi duale (dual-track), dal
momento che i prezzi di mercato erano più elevati di quelli
relativi alle “quote”.
Questo sistema che prevedeva la coesistenza di prezzi diversi a
seconda che valessero nel settore pianificato o di mercato venne
eliminato nel 1993 al fine di migliorare l’efficienza
microeconomica.
Si modificarono i canali di finanziamento degli investimenti. I
prestiti governativi furono sostituiti da prestiti bancari.
Aumentò la domanda di lavoro con effetti di attrazione della
forza lavoro dalle campagne.
Venne introdotto pure un nuovo sistema di tassazione progressiva
degli utili in sostituzione dei trasferimenti degli stessi all’erario.
Gradualmente si è verificato un vero e proprio processo di
trasformazione del settore industriale con un aumento del peso
delle industrie private ed una riduzione di quelle statali.
La presenza dello Stato si è concentrata nelle imprese di grandi
dimensioni. Il peso delle SOE si è notevolmente ridotto a meno
del 50%.
Venne attuata una riforma del sistema finanziario al fine di
separare la gestione della politica monetaria da quella del credito.
Accanto alla banca centrale (la People’s Bank of China) vennero
creati quattro istituti di credito commerciale, tutti statali, distinti
per settore di intervento (Agricoltura, Industria, Commercio e
Costruzioni, Estero).
A questi istituti era, ed è ancora, attribuito il compito di
finanziare il sistema industriale erogando prestiti a tassi di
interesse, generalmente bassi, fissati dalla Banca Centrale. In
linea di principio anche le imprese “non di stato”, e cioè private,
possono accedere a questo canale di finanziamento.
I finanziamenti, con crediti a medio e lungo termine vengono
concessi seguendo criteri di natura politica più che criteri di
profittabilità economica. Per questa ragione il sistema bancario
cinese viene considerato molto fragile. La sua redditività è bassa
ed è sensibilmente calata tra il 1980 ed il 1994.
Nel 1984 le Zes sono state estese ad un’area costiera
molto più vasta il cui epicentro era Shangai. Questo
processo di apertura verso l’esterno si è tradotto:
i) in una rapida integrazione della Cina nel mercato
mondiale
ii) in una progressiva adesione alle principali
Organizzazioni Economiche Internazionali (Banca
Mondiale e Fondo Monetario Internazionale). Questa
fase culminava con la piena integrazione della Cina
nell’economia internazionale e con l’adesione
all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO)
nel 2001.
Terza fase del processo riformatore
In una terza fase è stato avviato anche il processo di
privatizzazione delle grandi industrie e la costruzione di quelle
istituzioni (di natura giuridica, sociale ed amministrativa) che
dovevano essere funzionali all’espansione di un’economia di
libero mercato come: il ritorno alla risoluzione formale delle
controversie, la sostituzione dei contratti pianificati con i contratti
liberi, introduzione del diritto fallimentare.
Il diritto ha acquistato una posizione centrale all’interno del
sistema economico e sociale della Cina, sia pure limitato alla
sfera commerciale, ed ancora subordinato alle decisioni di natura
politica.
La sfera privata, in tutti i suoi aspetti, dal diritto di proprietà, alla
regolamentazione dei contratti, delle professioni e dell’impresa è
stata al centro delle riforme.
Significativo è stato lo sforzo di armonizzazione del diritto cinese
alla legislazione internazionale e per garantire l’uniformità delle
regole e della loro applicazione in tutto il paese
(“occidentalizzazione delle regole”)
Lo sviluppo e la trasformazione dell’economia cinese è stata
accompagnata da una trasformazione “silenziosa” del Partito
Comunista Cinese (PCC). L’apparato amministrativo cinese è
stato oggetto di ricorrenti riforme. La sua efficienza, tuttavia,
resta subordinata in larga misura ad obiettivi di natura politica, e
cioè alla necessità del PCC di riaffermare la propria legittimità a
governare.
Il gruppo dirigente oligarchico si è rinnovato gradualmente
attraverso un metodo di cooptazione, in presenza di una dialettica
interna al partito comunista. Il PCC è stato, così, in grado di
trasformarsi da un “working class party” ad un “all people’s
party”.
La classe media composta da professionisti, dipendenti pubblici,
piccoli e medi imprenditori, era ed è la base sociale del regime.
E’ stata, invece, progressivamente esclusa da questo processo una
quota significativa della popolazione: gli immigrati dalle
campagne, i contadini, e le persone prive di educazione.
Grazie ad una sorta di rapporto privilegiato tra classe politica
ed élite il Partito Comunista Cinese ha potuto mantenere un
ruolo egemonico non solo in campo politico, proibendo la
formazione di una qualsiasi organizzazione politica
concorrente, ma anche in campo sociale, visto che ogni
tentativo di creare un sindacato autonomo è stato
sistematicamente represso.
Questo processo di trasformazione del PCC è stato favorito
contemporaneamente da due caratteristiche:
i) la società cinese era particolarmente egualitaria nel 1978,
come effetto del periodo rivoluzionario. Nessun specifico
gruppo è in grado di influenzare le decisioni del governo.
ii) il Partito Comunista Cinese (PCC), pur mantenendo saldo il
potere e pur continuando a esercitare una funzione decisionale
incontrastata soprattutto nelle imprese pubbliche, ha dato
prova di adattabilità, integrando l’apparato dirigenziale con le
nuove élite.
Le decisioni economiche fondamentali sono generalmente
assunte, oltre che dagli organi del governo centrale e dei governi
dei singoli Stati, dai manager delle grandi imprese pubbliche e
dalle famiglie a capo dei grandi conglomerati privati.
Lo Stato centrale ha mantenuto un elevato potere di
coordinamento strategico e di azione diretta.
Permane inoltre l’importante ruolo di indirizzo economico da
parte della “National Development and Reform Commission”
(Ndrc), evoluzione istituzionale del vecchio organismo della
pianificazione centrale. Questa ha compiti di guida e
coordinamento delle relazioni internazionali e delle diverse forme
di cooperazione tra la RPC e le istituzioni internazionali.
E’ aumentato il potere dei politici e della burocrazia pubblica
locale, ma è aumentato progressivamente anche il potere degli
imprenditori privati e dei manager delle grandi joint venture o
imprese a capitale estero che talvolta riescono a condizionare, con
la corruzione, l’azione dei quadri politici e burocratici.
L’obiettivo di una progressiva maggiore integrazione
internazionale, ha guidato, se così si può dire, il processo
riformatore in Cina.
Le riforme di natura amministrativa e fiscale, caratterizzate
dall’introduzione di pratiche condivise dalle istituzioni di altri
paesi, sono state intraprese per garantire agli investitori esteri una
controparte istituzionale sufficientemente credibile. Questa fase
culminava con la piena integrazione della Cina nell’economia
internazionale e con l’adesione all’Organizzazione Mondiale del
Commercio (WTO) nel 2001.
La Cina ha governato gradualmente e per tempo il suo
inserimento nel processo di globalizzazione economica, pur
mantenendo saggiamente vincoli e controlli sui movimenti di
capitali e sulla globalizzazione finanziaria.
La presenza di un surplus commerciale strutturale nel lungo
periodo può essere interpretata come espressione di una strategia
neo-mercantilista.
La Cina è riuscita a: a) passare da debitore netto a grande
creditore netto nei confronti del resto del mondo; b) accumulare
un enorme volume di riserve internazionali in oro ed in valute
estere, in particolare in dollari USA; c) destinare un parte di tale
avanzi alla costituzione di un gigantesco "fondo sovrano"
abilitato a comprare attività finanziarie e reali estere; d) iniziare a
finanziare negli anni 2000 la rapida espansione di IDE all'estero,
con l'acquisizione di imprese e risorse naturali straniere o la
costituzione all'estero di filiali di imprese cinesi.
La Cina ha contribuito ad alimentare i grandi squilibri economici
e finanziari mondiali degli anni 2000.
La caratteristica di paese export driven della crescita cinese dalla metà degli
anni ‘90 è ben rappresentata dalla dimensione del saldo attivo delle partite
correnti della bilancia dei pagamenti, il più rilevante al mondo (pari a ben 238
miliardi di dollari nel 2010, ridimensionato a 202 nel 2011).
Il peso del saldo delle partite correnti sul Pil è cresciuto tra il 2005 ed il 2007,
ma ha cominciato a diminuire da quel momento passando dal 10% a meno del
3% (Figura 2).
La comparsa di un deficit commerciale nel primo trimestre 2011, per la prima
volta dal 2004, può indicare, tuttavia l’inizio di una fase di transizione verso un
modello di crescita più orientato al mercato interno. Dalla fine del 2000 si è
verificato un graduale e controllato apprezzamento del tasso di cambio.
Il crescente flusso di esportazioni ha consentito al paese di accumulare ingenti
riserve e di favorire un rapido processo di industrializzazione. Le riserve nette
sono cresciute da 21 billion USD in 1992 (5% del Pil) a 2.130 billion di
dollari nel giugno 2009 (46% del PIL). Si veda la figura 3
Figura 2
Figura 9
World Bank, China at a Glance, marzo 2014
Figura 3
Le esportazioni sono sempre cresciute mantenendosi di un livello
superiore alle importazioni. L’unico anno in cui sono diminuite è
il 2009 (Figura 4, 5 e 6).
La straordinaria crescita del settore manifatturiero, ha condotta la
Cina ad occupare una posizione di leader nelle esportazioni
mondiali di manufatti, con una quota pari al 9,6% nel 2009.
Una quota molto rilevante delle esportazioni manifatturiere cinesi
(stimabile a oltre il 40%) è attribuibile a filiali estere di imprese
multinazionali americane, giapponesi, coreane o europee, incluse
le joint venture (società miste) tra imprese cinesi, pubbliche o
private, e imprese multinazionali.
Figura 4
Figura 5
Figura 6
I settori nei quali la Cina ha progressivamente accresciuto la
propria competitività sono quelli tradizionali ad alta intensità di
lavoro: tessile, calzature, abbigliamento, arredamento.
È aumentato, tuttavia, il grado di sofisticazione delle
esportazioni.
Negli ultimi anni sono risultate particolarmente dinamiche le
industrie produttrici di prodotti dell’elettronica come gli
apparecchi radiotelevisivi, elettrodomestici, macchinari elettrici,
elettronici e da ufficio, e nelle macchine elettriche.
La produzione cinese di prodotti high tech appare articolata,
attraverso le reti multinazionali, con quella localizzata in
Giappone, Taiwan e Corea del Sud.
Parte delle importazioni è costituita da macchine strumentali e
beni capitali che incorporano nuove tecnologie.
E’ progressivamente aumentata la competitività delle
imprese cinesi grazie anche all’afflusso di investimenti
diretti esteri (Ide) ed al miglioramento delle
competenze.
I più importanti investitori diretti in Cina sono
Giappone, Corea, Stati Uniti e Taiwan. Anche gli
investimenti cinesi all’estero hanno assunto un valore
significativo, stimolati dalla cosiddetta politica go
global. Si dirigono prevalentemente verso Hong Kong,
Stati Uniti, Europa e più recentemente America Latina
ed Africa.
Queste delocalizzazioni hanno sostanzialmente due
obiettivi: investire in settori che producono fonti
energetiche oppure mantenere mercati di sbocco
contrastando le crescenti tendenze protezionistiche.
Figura 7
Gli Ide sono più che raddoppiati nel corso degli anni
2000. Hong Kong, dopo il ritorno sotto la sovranità
cinese, continua a svolgere un ruolo primario
nell’attivazione e nell’attrattività degli Ide.
I flussi in entrata in forte crescita dal 2007 al 2008, ma
in flessione nel 2009 a causa della crisi, meglio
riflettono, in Cina come in India, gli andamenti
congiunturali di breve periodo (Figura 7).
Gli Ide in uscita sono in forte crescita: le grandi imprese cinesi,
spesso di proprietà pubblica, sono fra i protagonisti del fenomeno
delle «multinazionali emergenti» (figura 8).
Il deflusso di investimenti trova giustificazione nell’elevato
livello di risparmio che viene investito in “assets” stranieri.
Questo avviene poichè, com’è avvenuto in Cina, le imprese
private che si autofinanziano aumentano e con loro la
produttività. Un crescente rendimento degli investimenti è allora
compatibile con un deflusso di capitali, dal momento che il
rispsrmio interno risulta in eccesso rispetto agli investimenti.
Figura 8
Il settore industriale, che comprende oltre al manifatturiero anche
quello minerario e delle imprese dei pubblici servizi (utilities) è
sempre stato consistente ed in crescita dal 42% del 1991 al 46,6%
nel 2011. Lo sviluppo del settore manifatturiero (30% del Pil), è
stato favorito da un mercato del lavoro flessibile e da
infrastrutture adeguate.
La produzione manifatturiera è molto diversificata,
comprendendo produzioni sia di beni di base (cemento, carbone,
rame, carta) sia di beni di consumo (tessuti di cotone e di seta,
fibre artificiali, prodotti per l’abbigliamento e per la casa).
Si è verificato spostamento sulla frontiera tecnologica grazie al
forte afflusso di capitale estero e alle numerose joint venture
aperte in Cina con grandi e medie imprese estere. Vi è stata, ad
esempio, una forte crescita dell’industria aereo-spaziale, dell’ICT
(Information, Communication Tecnology), nella produzione dei
treni veloci, della cantieristica navale, degli auto-veicoli.
Il settore dei servizi, anche se in crescita, nel 2010 pesava solo
per il 43% del Pil. In questo settore si è verificato un graduale
aumento delle produzioni a tecnologia più evoluta e verso i settori
del terziario avanzato come i servizi bancari, finanziari e di
consulenza alle imprese.
Solamente a partire dal 2003 sono stati effettuati i primi passi di
un processo di privatizzazione del sistema bancario.
Il settore creditizio è sempre stato monopolizzato dallo Stato ed è
quasi completamente chiuso nei confronti dell’estero. Solo
recentemente, come previsto dai requisiti di accesso al WTO, si
sono manifestati alcuni timidi segnali di apertura.
Molti istituti finanziari stranieri stanno progressivamente
entrando nel sistema bancario cinese tramite l’apertura di filiali
ed uffici di rappresentanza, sia per mezzo di investimenti in
banche cinesi.
Anche il mercato azionario e obbligazionario sono caratterizzati
da una forte presenza pubblica e non funzionano in modo
efficiente. Il mercato obbligazionario resta sottosviluppato anche
perché ne sono praticamente escluse le imprese non statali.
Imprese inefficienti anche di grandi dimensioni hanno continuato
a coesistere con imprese private in espansione. La banca centrale,
a sua volta, non dispone di strumenti monetari di controllo e
interviene mediante controlli diretti e misure amministrative sotto
la pressione del governo: la gestione della liquidità è operata
mediante misure di “sterilizzazione” e non invece modificando i
tassi di interesse.
L’incapacità della Banca Centrale di controllare il credito
attraverso gli ordinari strumenti monetari, e la dipendenza dal
potere politico, rischia di essere una grave lacuna istituzionale.
La politica creditizia è stata sempre subordinata
all’obiettivo del finanziamento a basso costo delle
imprese, consentito dall’ampia raccolta di risparmio.
E effetti negativi di due tipi: i) crescita della liquidità
come fattore di rischio di surriscaldamento per
l’economia. ii) Le piccole e medie imprese non riescono
ad accedere ai canali formali e devono ricorrere a fonti
informali pagando tassi d’interesse ben superiori a
quelli ufficiali.
Molto ridotte, inoltre, sono le competenze di “risk
management”.
La redditività delle banche cinesi resta decisamente
inferiore sia agli standard internazionali sia a quelli
degli altri paesi asiatici.
La politica monetaria in senso lato è stata subordinata
all’obiettivo del controllo della stabilità dei prezzi ed al
mantenimento di un tasso di cambio fisso con il dollaro.
Il 21 luglio del 2005 è stata assunta la decisione di ancorare lo
yuan ad una paniere di monete che riflette la struttura del
commercio estero cinese, il debito con l’estero, gli investimenti
diretti stranieri e i trasferimenti in conto corrente.
Una successiva parziale liberalizzazione del mercato monetario
ha consentito un modesto apprezzamento nominale della moneta
cinese.
Nonostante questo lieve apprezzamento l’avanzo della bilancia
delle partite correnti continua a crescere.
Il passaggio ad un sistema di cambio più flessibile
ridurrebbe anche l’afflusso di capitali a scopo
speculativo.
Vi è stato un aumento significativo delle riserve in
valuta forte superando nel 2006 l’ammontare del
Giappone. Si stima che il 70% di queste riserve sia
costituita da obbligazioni denominate in dollari.
E’ fin troppo noto l’elevato impegno del governo cinese
nel finanziare la spesa pubblica di altri Stati attraverso
l’acquisto dei titoli del tesoro, italiani ed americani in
misura rilevante.
Gli USA presentano da qualche anno dei disavanzi
gemelli (bilancio pubblico e bilancia dei pagamenti) resi
sostenibili dalla politica cinese.
La Cina ha seguito un percorso di modernizzazione in cui
l’apporto del settore privato sta diventando preponderante, pur
rimanendo significativo il ruolo del pubblico.
Una questione cruciale riguarda la capacità di continuare sulla via
delle riforme non solo in campo economico, ma anche in quello
giuridico, sociale e politico.
In agricoltura persistono sacche di disoccupazione che potranno
essere assorbite solo lentamente dal settore secondario.
Devono essere migliorate, in termini sia di efficienza sia di
equità, le prestazioni di welfare sia con riferimento alle entrate
fiscali che alla composizione della spesa pubblica. Un’altra sfida
è costituita dalla mancanza di adeguati strumenti finanziari e di
investitori istituzionali in grado di assorbire la liquidità attraverso
canali non bancari.
Le variabili macroeconomiche presentano valori anomali per un
paese in via di sviluppo. Il bilancio pubblico non presenta
eccessivi squilibri.
Il deficit è stato contenuto sempre sotto il 3% ed addirittura
portato al 2% in questi due ultimi anni. Il debito interno ufficiale
è pari solo al 24% del Pil, mentre il debito estero si attesta attorno
al 14%. Dal lato delle entrate la tassazione è ancora
eccessivamente dipendente dalle imposte indirette.
E’ in corso una riforma fiscale i cui obiettivi dichiarati sono la
crescita della pressione fiscale e l’aumento del peso delle entrate
percepite dal governo centrale. E’ stato ridisegnato il sistema
delle imposte indirette al fine di eliminare le distorsioni dovute
all’effetto a cascata generato dall’interazione dell’IVA e
dall’imposta sui prodotti. I risultati sono tuttavia ancora ridotti e
l’applicazione appare eccessivamente graduale.
Dal lato delle spese sono troppo basse quelle per istruzione,
sanità e protezione sociale. Questo spiega l’elevato risparmio
delle famiglie e corrispondentemente il troppo basso livello dei
consumi.
Il principale fattore di crescita dal lato della domanda è stato il
livello degli investimenti.
Il tasso di risparmio si avvicina al 40% come effetto di
compressione dei consumi.
E’ tuttavia eccessivo e distorto a favore delle grandi imprese di
Stato.
La proprietà pubblica è all’origine di alcuni dei vantaggi
competitivi delle grandi imprese cinesi nell’economia globale,
come la facilità di finanziamento e l’appoggio della diplomazia
economica del paese.
Questo fattore, tuttavia, rappresenta una sorta di ipoteca sulla
sostenibilità di una crescita che sia efficiente ed in grado di dar
vita ad un sistema industriale competitivo.
Il problema dell’adeguamento del sistema di welfare è destinato
ad acuirsi a causa dell’invecchiamento della popolazione.
La composizione della popolazione appare sbilanciata, con una
età media superiore a quella di altri paesi in via di sviluppo ed in
particolare dell’India a causa del controllo delle nascite basata sul
figlio unico (“One-Child-Policy”).
Questa politica ha ridotto il tasso di fertilità. Tuttavia i costi
finanziari per i controlli ed i sociali per i cittadini, sono divenuti
oggi troppo elevati.
Un miglioramento delle prestazioni sociali potrebbe poi
contribuire all’espansione dei consumi, contribuendo al
progressivo spostamento dalla domanda estera a quella interna.
La riforma dei diritti di proprietà e una maggiore mobilità del
lavoro potrebberoattenuare il divario nei livelli e nei tassi di
crescita dei redditi delle diverse aree territoriali, rurali e urbane,
interne e costiere.
Sono aumentate le disuguaglianze di ogni tipo, nelle condizioni
delle diverse categorie di lavoratori (tra popolazione urbana e
rurale, tra occupati e disoccupati, tra classe media e classe
operaia), nella redditività dei diversi settori e/o aree territoriali,
nelle relazioni tra Stato e mercato, nella relazione tra sviluppo e
collocazione del paese a livello internazionale con riferimento in
particolare alle variabili di natura macroeconomica.
L’indice di Gini è aumentato sia all’interno del settore rurale che
in quello urbano e per il paese nel complesso. E’ cresciuto da un
valore di 0,36 nel 1992 a 0,47 nel 2004. Secondo alcuni autori
l’origine di questo trend crescente va ricercata nelle
caratteristiche delle riforme istituzionali via via intraprese. In
particolare nel modo in cui è stata redistribuita la terra e negli
investimenti di natura sociale.
Le differenze regionali espresse in Pil a prezzi correnti sono da 1
a 9.
E’ crescente pure il disagio nelle zone rurali per il modo in cui
vengono urbanizzate le zone agricole a favore di nuovi
insediamenti produttivi e residenziali ed assegnate le rendite
derivanti dal processo di urbanizzazione. In molti casi non viene
corrisposto neppure un risarcimento minimo.
Sarebbe necessaria una riforma dei diritti di proprietà che tuteli
direttamente ed adeguatamente le famiglie rurali esposte
all’esproprio dei terreni agricoli a fini di urbanizzazione.
Una riforma dei diritti di proprietà ed un maggior mobilità del
lavoro potrebbe attenuare il divario nei livelli e nei tassi di
crescita dei redditi delle diverse aree territoriali, tra zone rurali ed
urbane, tra zone interne e costiere. Il rischio, in caso contrario, è
quello di far esplodere un vero e proprio conflitto sociale.
L’attuale sistema garantisce non la proprietà, ma solo l’usufrutto.
Il risarcimento viene concesso alla collettività di villaggio che
può ridistribuire il compenso all’interno della comunità o
eventualmente riassegnare appezzamenti di terreno non
necessariamente di pari produttività agricola.
Al fine di raggiungere l’autosufficienza nei prodotti di base,
come i cereali, occorre adottare politiche che contribuiscano ad
aumentare la produttività agricola, a migliorare le infrastrutture
ed a ridurre il carico fiscale.
Queste misure dovrebbero contribuire a ridurre le diseguaglianze
tra la redditività nel settore rurale e quella del settore industriale,
ma anche a costituire un freno all’esodo della popolazione rurale
verso le città.
I vantaggi dell’arretratezza economica relativa e del modello
fordista di sviluppo tenderanno a ridursi nel tempo, man mano
che ci si avvicinerà alla frontiera tecnologica e diversi settori
industriali diverranno maturi, mentre l’invecchiamento della
popolazione contribuirà già tra pochi anni alla riduzione del tasso
di crescita dell’economia
Nel medio periodo, poi, potrebbero aggravarsi i problemi
derivanti da un eccesso di capacità produttiva in settori strategici
come quello automobilistico e delle materie di base (cemento,
ferro, acciaio, alluminio, carbone).
Gli effetti negativi sono potenzialmente molto numerosi: caduta
dei prezzi e dei profitti, aumento dei crediti non esigibili da parte
delle banche, caduta dell’occupazione, deflusso di capitali
all’estero qualora vengano liberalizzati i movimenti dei capitali.
Queste contraddizioni irrisolte finiranno con il
condizionare la sostenibilità del processo di sviluppo
così come è stato prefigurato nel XII Piano
quinquennale di sviluppo economico e sociale per il
periodo 2011-2015.
Dal punto di vista sociale, le gravi e crescenti
disuguaglianze economiche e l’assenza di una compiuta
democrazia e di mezzi di comunicazione veramente
liberi possono favorire tensioni sociali e politiche
importanti, come quella repressa a Tienanmen nel 1989.
In Cina uno dei principali problemi, oggi, consiste nel conciliare lo sviluppo
con la sostenibilità sociale e ambientale. Nonostante e probabilmente a causa
del rapido processo di crescita, permangono forti squilibri di natura
economica, politica e sociale.
Il rapido processo di industrializzazione ha finito con il produrre esternalità
negative di varia natura come l’inquinamento ambientale. La Cina è la prima
fonte di emissioni di diossido di carbonio al mondo (25% del totale).
L’inquinamento e la scarsità di risorse energetiche sono il vincolo maggiore
per la sostenibilità della crescita, sebbene la scoperta di estesi giacimenti di gas
naturale di rocce scistose bituminose (shale gas) possa in parte ridurre
l’impatto della scarsità di fonti energetiche.
La riduzione della congestione e dell’inquinamento insieme all’eliminazione
della povertà ed alla riduzione delle diseguaglianze sociali sono i principali
obiettivi indicati da Xi Jinping (attuale presidente della Repubblica Popolare
Cinese in carica dal marzo 2013) per il prossimo futuro.
In occasione dell’ultimo plenum del Partito comunista, svoltosi nel novembre
2013, la ricerca di modalità di crescita più rispettose dei limiti ambientali è
stata posta tra i pilastri del nuovo sistema produttivo. Il Partito ha annunciato
un vasto piano di riforme e di riconversione industriale per far fronte a delle
vere e proprie situazioni di emergenza.
Le contraddizioni ancora irrisolte finiranno con il condizionare la
sostenibilità del processo di sviluppo così come è stato
prefigurato nel XII Piano quinquennale di sviluppo economico e
sociale per il periodo 2011-2015. Il governo cinese adotterà
alcune misure di politica economica in accordo con le linee guida
esposte nel Dodicesimo piano quinquennale (2011-2015) con
l’obiettivo di ridurre le principali anomalie del modello di
sviluppo e di creare una “società armoniosa”.
Questa dovrebbe essere caratterizzata da un maggiore equilibrio
tra aree rurali ed urbane, da una maggiore libertà di mercato
nell’allocazione delle risorse ed una corrispondente riduzione
dell’intervento statale, da uno stimolo per i consumi che si
prevede diventino non solo più elevati ma anche più sofisticati,
da una maggiore partecipazione della società civile, da un
modello di crescita economica verso una sostenibilità di lungo
termine.
Si prevede anche un riequilibrio tra crescita delle esportazioni e
crescita delle importazioni.