I MAESTRI DEL PENSIERO SOCIOLOGICO EMILE DURKHEIM 15 aprile 1858 15 novembre 1917 EMILE DURKHEIM (Épinal, 1858 - Parigi, 1917) 1879 Entra all’École Normale Supérieure dove segue le lezioni di Fustel de Coulanges 1882 Inizia ad insegnare filosofia 1886 Trascorre un anno in Germania a studiare scienze sociali con Wilhelm Wundt 1887 E’ nominato professore di pedagogia e scienze sociali all’Università di Bordeaux 1892 Tesi di dottorato: Il contributo di Montesquieu nella fondazione della scienza sociale 1893 Pubblica La divisione del lavoro sociale 1894-1895 Tiene un corso di sociologia sulla religione 1895 Pubblica Le regole del metodo sociologico 1897 Pubblica Il suicidio 1898 Fonda l’Année sociologique 1912 Pubblica Le forme elementari della vita religiosa LA DIVISIONE DEL LAVORO SOCIALE: IL PROBLEMA “La questione che è all’origine stessa di questo lavoro concerne i rapporti della personalità individuale e della solidarietà sociale. Come avviene che, pur diventando più autonomo, l’individuo dipenda più strettamente dalla società? Come può allo stesso tempo individualizzarsi sempre di più ed essere sempre più vincolato da legami di solidarietà? E’ infatti incontestabile che questi due movimenti, per quanto contraddittori, seguono due direzioni parallele. Tale è il problema che ci siamo posti. Ci è sembrato che questa apparente antinomia venisse risolta considerando la trasformazione della solidarietà sociale, dipendente dallo sviluppo sempre più considerevole della divisione del lavoro. Ecco come siamo stati indotti ad assumere questa come oggetto del nostro studio.” (La divisione del lavoro sociale, p.8) LA FUNZIONE DELLA DIVISIONE DEL LAVORO SOCIALE “A prima vista, nulla sembra più facile che determinare quale sia la funzione della divisione del lavoro. I suoi effetti non sono forse conosciuti da tutti? In quanto accresce sia la forza produttiva che l’abilità del lavoratore, essa è la condizione necessaria dello sviluppo intellettuale e materiale delle società; è la fonte della civiltà.” (La divisione del lavoro sociale, pp.73-74) Tuttavia, “se la divisione del lavoro non ha altro compito che questo, non soltanto essa non ha alcun carattere morale, ma è anche impossibile scorgere quale sia la sua ragione d’essere.” (La divisione del lavoro sociale, p.77) LA FUNZIONE DELLA DIVISIONE DEL LAVORO SOCIALE “Siamo così indotti a considerare la divisione del lavoro sotto un nuovo aspetto. In questo caso, infatti, i servizi economici che essa può rendere sono insignificanti rispetto all’effetto morale che produce, e la sua vera funzione è di creare tra due o più persone un sentimento di solidarietà. Quale che sia la maniera in cui questo risultato viene ottenuto, è la divisione del lavoro che suscita le società di amici e che imprime loro il sigillo.” (La divisione del lavoro sociale, p.79) Solidarietà meccanica Le società nelle quali i principali legami di coesione si fondano sulla “solidarietà meccanica” presentano una struttura segmentata o aggregativa: esse sono cioè formate da una serie di gruppi politico-familiari (clan) che sono simili gli uni agli altri per l’organizzazione interna. La tribù nel suo insieme costituisce una “società” perché è una unità culturale; infatti i membri dei diversi clan aderiscono al medesimo complesso di credenze e sentimenti. Per questo ogni gruppo che compone tale società si può distaccare senza causare molto danno agli altri gruppi, come avviene in maniera abbastanza simile agli organismi biologici di struttura semplice che si possono scindere in numerosi esseri egualmente unitari e autosufficienti. Nelle società primitive di tipo segmentario la proprietà è comune, un fenomeno questo che è solo un aspetto specifico del basso livello del processo di individualizzazione generale. (Tratto da Giddens A. Capitalismo e teoria sociale, Il Saggiatore, Milano, 1998 pp. 137-138) Solidarietà organica Dove la solidarietà meccanica è la base principale della coesione sociale, la coscienza collettiva “ricopre esattamente” la coscienza individuale, e quindi presuppone la somiglianza degli individui. La solidarietà organica, invece, presuppone non la somiglianza ma la differenza tra gli individui nelle credenze e nelle azioni. Lo sviluppo della solidarietà organica e l’espansione della divisione del lavoro sono quindi accompagnate dalla crescita dell’individualismo. Il progresso della solidarietà organica dipende necessariamente dalla diminuzione di importanza della coscienza collettiva. Ma le credenze e i sentimenti riconosciuti collettivamente non scompaiono del tutto nelle società complesse; né d’altra parte accade che la formazione delle relazioni contrattuali divenga amorale e sia semplicemente il risultato della ricerca individuale del proprio interesse. IL SUICIDIO EGOISTICO Il suicidio varia in ragione inversa al grado di integrazione dei gruppi sociali di cui fa parte l’individuo. Ma la società non può disgregarsi senza che, in ugual misura, l’individuo esca dalla vita sociale, senza che i suoi fini personali diventino preponderanti su quelli comuni e la sua personalità, in una parola, tenda a porsi al di sopra di quella collettiva. Più deboli sono i gruppi cui appartiene, meno egli ne dipende, e sempre più, perciò, fa capo solo a se stesso e riconosce come regole di condotta soltanto quelle che si basano sui suoi interessi privati. Se, dunque, si conviene di chiamare egoismo questo stato di eccessiva affermazione dell’io individuale nei confronti dell’io sociale e ai danni di quest’ultimo, potremo definire egoistico il particolare tipo di suicidio risultante da una smisurata individualizzazione. Il suicidio egoistico II Ma come può il suicidio avere una simile origine? Prima di tutto, si potrebbe osservare che, se la forza collettiva è uno degli ostacoli più atti a contenerlo, essa non può indebolirsi senza che esso si sviluppi. Quando la società è fortemente integrata, essa tiene gli individui in sua dipendenza, li considera al suo servizio e, perciò, non consente loro di disporre di sé a proprio piacere. Essa si oppone allora a che si sottraggano con la morte ai doveri che hanno verso di lei. Ma quando essi rifiutano di accettare come legittima questa subordinazione, come potrebbe imporre la sua supremazia? Essa non ha più, a questo punto, l’autorità necessaria a trattenerli al loro posto e, se vogliono disertano, coscienti della propria debolezza, essa giunge al punto di riconoscere ad essi il diritto di fare liberamente ciò che non può più impedire. (Durkheim, Il suicidio) IL SUICIDIO ALTRUISTICO I Mentre questo è dovuto ad un eccesso di individualizzazione, quello ha per causa una individualizzazione troppo rudimentale. Uno deriva dal fatto che la società, disgregata in parte o anche nel suo insieme, si lascia sfuggire l’individuo; l’altro perché lo tiene troppo strettamente in sua dipendenza. Avendo chiamato egoismo lo stato in cui si trova l’io quando vive la sua vita personale e obbedisce solo a se stesso, la parola altruismo esprime abbastanza bene lo stato opposto in cui l’io non si appartiene ma si confonde con altra cosa diversa da sé e dove il polo della condotta è situato al di fuori di lui, cioè in uno dei gruppi a cui appartiene. Chiameremo, perciò, suicidio altruistico quello risultante da un altruismo intenso. IL SUICIDIO ALTRUISTICO (II) “Ecco perché, nell’interesse comune, il padre è tenuto a non aspettare l’estremo limite della vita per trasmettere ai suoi successori il prezioso deposito che ha in custodia. Questa descrizione è sufficiente a precisare da cosa derivino questi suicidi. Ma perché la società possa costringere in tal modo certi suoi membri a uccidersi, bisogna che la personalità individuale conti ben poco. Tant’è vero che, appena essa comincia a formarsi, il diritto alla vita è il primo ad esserle riconosciuto; per lo meno, non viene sospeso che in circostanze del tutto eccezionali come la guerra. Ma quella scarsa individualizzazione non può avere che una causa. Perché l’individuo abbia cosi poco posto nella vita collettiva, bisogna che sia quasi totalmente assorbito dal gruppo e che, di conseguenza, questo sia molto fortemente integrato. Perché le parti abbiano tanto poca vita propria, occorre che il tutto costituisca una massa compatta e continua. Infatti, abbiamo dimostrato altrove che questa coesione massiccia e proprio quella delle società in cui si osservano le usanze suddette. Dato che esse comprendono solo un piccolo numero di elementi, ognuno vive la stessa vita, tutto è comune a tutti, idee, sentimenti, occupazioni. Nello stesso tempo, sempre perché il gruppo è piccolo, esso è vicino a tutti e può non perder di vista nessuno; ne consegue che la sorveglianza collettiva è continua, si estende a tutto e previene più facilmente le divergenze. Mancano perciò all’individuo i mezzi per crearsi un ambiente speciale al cui riparo possa sviluppare la sua natura e farsi una fisionomia personale.” IL SUICIDIO ANOMICO (I) “Non è vero, dunque, che l’attività umana possa affrancarsi da tutti i freni. Non v’è nulla al mondo che possa godere di un tale privilegio, perché ogni essere, essendo parte dell’universo, è relativo al resto dell’universo; (...) E’ caratteristica dell’uomo essere soggetto a un freno non fisico, ma morale, cioè sociale. Egli non riceve la sua legge da un ambiente materiale che gli s’impone brutalmente, ma da una coscienza superiore alla sua e di cui sente la superiorità. Proprio perché la maggiore e migliore parte della sua vita trascende il corpo, egli sfùgge al giogo del corpo ma subisce quello della società. Sennonché, quando la società è scossa, sia da una crisi dolorosa sia da trasformazioni felici ma troppo improvvise, essa è momentaneamente incapace di esercitare questa azione. Il suicidio anomico (II) Ed ecco da dove provengono queste brusche ascese della curva dei suicidi (...) Nei casi di disastri economici, infatti, si verifica un declassamento che spinge bruscamente certi individui in una situazione inferiore a quella occupata fino allora. (...) Ora, non è che la società possa piegarli in un attimo a questa nuova vita e insegnare loro a esercitare su se stessi quel sovrappiù di costrizioni cui non sono abituati. (...) Né diversamente accade quando la crisi ha per origine un improvviso accrescimento di potenza e di fortuna. (...) La graduatoria ne e rimasta sconvolta e, d’altra parte, non se ne può improvvisare un’altra. (...) Non si sa più ciò che e possibile e ciò che non lo e, ciò che è giusto e ciò che e ingiusto, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime, quali quelle che passano la misura. (...) Lo stato di sregolatezza o di anomia è ancor più rafforzato dal fatto che le passioni sono meno disciplinate proprio quando sarebbero bisognose di una maggiore disciplina. (...) L’educazione morale I temi La disciplina L’attaccamento ai gruppi sociali L’autonomia della volontà La disciplina Dovere, regolarità, abitudine, consuetudine e prevedibilità del comportamento Autorità: l’ascendente esercitato sull’individuo dal potere della morale; è la dimensione esterna della norma Dovere Autorità Spirito di disciplina LE CATEGORIE DEI FENOMENI RELIGIOSI: CREDENZE E RITI “I fenomeni religiosi trovano inquadratura naturale in due categorie di fondo: le credenze e i riti. Le prime sono stati dell’opinione e constano di rappresentazioni; i secondi determinati modi di azione. Tra le due classi corre lo stesso divario che tra pensiero e movimento.” “Tutte le credenze religiose, semplici o complesse, a noi note presentano una caratteristica comune: suppongono la sistemazione delle cose, reali o irreali, in due generi opposti, resi abbastanza bene dai termini profano e sacro. Il tratto distintivo del pensiero religioso è proprio questa divisione del mondo in due domini comprendenti l’uno tutto ciò che è sacro, l’altro tutto ciò che è profano”. (Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, p. 49-50) SACRO E PROFANO Sacro e profano si caratterizzano per la loro eterogeneità, una eterogeneità assoluta: sacro e profano sono due categorie “radicalmente antitetiche”. Il passaggio da uno stato all’altro, certamente possibile, è intesa come una trasformazione della sostanza (a ciò servono i riti di iniziazione, di “nuova nascita”). L’eterogeneità tra sacro e profano “spesso degenera in vero e proprio antagonismo. I due mondi sono concepiti non solo distinti, ma ostili e gelosamente rivali. Non si può appartenere pienamente all’uno se non uscendo completamente dall’altro” (Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, p. /52) “Cosa sacra è, per eccellenza, quella che il profano non deve, non può toccare impunemente.” (p. /53) Definizione di religione “una religione è un sistema solidale di credenze e di pratiche relative a delle entità sacre, cioè separate, interdette; credenze e pratiche che uniscono in una medesima comunità morale, chiamata chiesa, tutti gli aderenti.” (Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, p. 59) Origine delle credenze totemiche “il totemismo è la religione non di certi animali o di certi uomini o di certe immagini, ma di una specie di forza anonima e impersonale che si ritrova in ciascuno di questi esseri, senza tuttavia confondersi con alcuno di essi. Nessuno la possiede per intero e tutti vi partecipano.” (Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, p. 197) “Ecco in che cosa consiste realmente il totem: esso non è che la forma materiale sotto cui si rappresenta alle immaginazioni questa sostanza immateriale, questa energia diffusa attraverso esseri eterogenei di ogni tipo, la quale è il solo oggetto vero e proprio del culto.” (p. 198) Durkheim parla anche di “vaga potenza, dispersa nelle cose.” (p. 207) A questo punto l’interrogativo è “come gli uomini abbiano potuto essere spinti a costruire tale idea e con quali materiali.” (p. 214) Origine delle credenze totemiche Nelle riunioni religiose o «corroboree» “il semplice fatto dell’agglomerazione fa da eccitante di eccezionale potenza. Una volta riuniti, gli individui sprigionano dal loro star vicini una sorta di elettricità, che li trasporta rapidamente a un grado straordinario di esaltazione. Ogni sentimento espresso va a risuonare, senza resistenza, in tutte queste coscienze largamente aperte alle impressioni esterne: ciascuna di esse fa eco alle altre, e reciprocamente. L’impulso iniziale va così ingrandendosi man mano che si ripercuote, come s’ingrossa una valanga man mano che avanza.” (Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, p. /224) Origine delle credenze totemiche E’ facile capire che l’uomo, raggiunto questo stato di esaltazione, non si riconosce più. Sentendosi dominato, trascinato da una specie di potere esterno che lo fa pensare e agire in modo diverso che in tempo normale, ha naturalmente l’impressione di non esser più lui.” (Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, p. /226) “Ora il totem è la bandiera del clan. E’ dunque naturale che le impressioni che il clan desta nelle coscienze dei singoli - impressioni di dipendenza e di accresciuta vitalità - si colleghino assai più all’idea del totem che a quella del clan: il clan è una realtà troppo complessa perché intelligenze così rudimentali possano rappresentarselo nettamente nella sua unità concreta.” (Durkheim E., Le forme elementari della vita religiosa, p. /228) Un emblema, “esprimendo in forma materiale l’unità sociale, la rende più