Schopenhauer (la liberazione: arte e vita etica) Prof. Michele de Pasquale c'è per l'uomo uno spazio di libertà? c'è la possibilità di sfuggire alla legge diabolica della volontà, di liberarsi dalla sua condizione di dolore? l'uomo ha la possibilità di sottrarsi al gioco spietato della volontà: con l'arte, con la vita etica, con l'ascetismo se l'uomo nella sua condizione mondana è condizionato (il suo libero arbitrio, nelle scelte concrete, è pura illusione), il suo spirito, considerato come puro, metafisicamente è libero: esiste una libertà originaria che bisogna recuperare anche a livello mondano; che ci consentirà di annullare in noi la nostra essenza di volontà; che può permetterci di neutralizzare l'azione della volontà per non farci sentire più schiavi di essa negare in noi la volontà di vivere non desiderando ciò di cui la nostra vita ha bisogno, e a cui tendiamo per necessità: possiamo relazionarci alle cose senza renderle oggetti di desiderio come le concezioni mistiche orientali indicano l'esperienza artistica rappresenta la prima forma di liberazione: nella creazione e nella contemplazione artistica noi sottraiamo l'oggetto alle sue relazioni spaziali, temporali, causali, con gli altri oggetti e con noi stessi l’oggetto non è più un termine di desiderio, non ci trascina a sé; siamo noi invece che ci proiettiamo in esso, per contemplarvi il suo nucleo ideale, il suo valore universale, il suo significato generale perdiamo il senso della nostra particolarità, della nostra identità storica, per smarrirci nella contemplazione, per dissolverci nell'intuizione della bellezza il piacere estetico è senza fine pratico, è puramente gratuito, e perciò pone l'uomo fuori del dominio della volontà, fuori dall'aspirazione al possesso: non implica azione, ma solo contemplazione, e così ci tira fuori dalla logica di dolore che domina la vita dell'uomo comune “ Quando, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo la solita maniera di considerare le cose e cessiamo di ricercare le loro relazioni reciproche, il cui ultimo fine è sempre la relazione con la nostra volontà, e perciò non consideriamo piú nelle cose il dove, il quando, la causa, e lo scopo, ma unicamente e soltanto che cosa sono; quando non permettiamo che il pensiero astratto e i concetti della ragione occupino la coscienza, ma in luogo di tutto questo, consacriamo la forza del nostro spirito all'intuizione e vi ci sprofondiamo completamente, e lasciamo che l'intera nostra coscienza si riempia della serena contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta davanti, sia esso paesaggio, albero, roccia, edificio o altra cosa, e ci perdiamo totalmente in questo oggetto, dimenticando la nostra individualità e la nostra volontà e sussistendo soltanto come soggetto puro, come limpido specchio dell'oggetto, sicché è come se l'oggetto fosse solo senza nessuno che lo percepisce, e quindi non si può separare il contemplante dalla contemplazione, ma formano ambedue un solo tutto, essendo l'intera coscienza completamente riempita e presa da un'unica intuitiva immagine; quando finalmente l'oggetto viene ad essere in tal maniera fuori d'ogni relazione con altro, e il soggetto da qualsiasi relazione con la volontà; allora ciò che viene conosciuto non è piú la cosa particolare come tale, ma è l'idea, l'eterna forma...: nello stesso tempo l'individuo assorto nella contemplazione non è piú individuo, poiché l'individuo in questa contemplazione si è perduto, ma è puro soggetto di conoscenza, libero dalla volontà, dal dolore, dal tempo.” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione) l'esperienza estetica, vissuta al sommo grado dal genio, ma accessibile a tutti gli uomini, non può esaurire l'esigenza di liberazione dell'uomo: essa è di breve durata, e non costituisce una radicale negazione del desiderio, ma solo una consolazione che l'uomo, oppresso da tante afflizioni, si procura per sopravvivere “ Egli, osservando lo spettacolo della oggettivazione della volontà, rimane come affascinato, né mai si stanca di contemplarlo e di riprodurlo; e frattanto egli stesso paga le spese di questo spettacolo, poiché egli stesso è la volontà che si oggettiva In quel modo, e rimane nel suo eterno dolore. Quella pura, vera e profonda cognizione dell'essenza del mondo costituisce Il suo unico e supremo fine, ed egli vi si ferma. Perciò essa non è per lui come per il santo arrivato alla rassegnazione - un quietivo della volontà non lo libera dalla vita per sempre, ma soltanto per un breve momento, e perciò non è ancora il mezzo per uscire dalla vita, ma soltanto un conforto momentaneo; fino a che l'artista, sentendosi ormai piú forte, non si stanchi del gioco e si rivolga alle cose serie.” (Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione) la vita etica, il comportamento virtuoso rappresenta il secondo grado della liberazione: nonostante l'uomo sia meccanicamente determinato nei suoi comportamenti, egli è essenzialmente libero, e quindi può esser virtuoso il comportamento umano è determinato dal carattere dell’uomo: per il suo carattere empirico, l’uomo è determinato meccanicisticamente nelle sue azioni “ Tuttavia l'individuo, per il suo carattere innato e immutabile, è soltanto fenomeno. Ma la cosa In sé, che gli sta al fondo, trovandosi fuori del tempo e dello spazio e sottratta alla successione e alla molteplicità degli atti, è una e Immutabile. La sua natura in sé, è il carattere intelligibile, il quale, egualmente presente in tutte le azioni dell'individuo e impresso in tutte, come un sigillo in mille impronte, determina il carattere empirico del fenomeno che si esplica nel tempo e nella successione degli atti.” (Schopenhauer, Il fondamento della morale) ma per il suo carattere intelligibile in quanto noumeno, considerato in sé, nella sua natura profonda, è libero da ogni determinismo, ed è quindi responsabile delle sue azioni in quanto carattere intelligibile l'uomo si sente responsabile del bene e del male compiuti attraverso le sue azioni: quando il comportamento avrà come fine solo il bene dell'altro, sarà buono, altrimenti cattivo poiché l'uomo è volontà, e pertanto aspira, per tendenza, solo al suo bene, com'è possibile che egli metta da parte se stesso per mirare al bene altrui? la condizione perché egli agisca moralmente è la pietà, o compassione, che implica una conversione in quanto richiede una partecipazione al dolore dell'altro come se fosse proprio “ Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa. Questo complesso di pensieri qui analizzato non è né fantastico, né campato in aria, ma è realissimo e nemmeno raro: è il fenomeno della pietà, cioè della partecipazione, immediata e incondizionata, ai dolori altrui, e perciò alla cessazione o alla eliminazione di questi dolori, nella quale consiste ogni contentezza, ogni benessere e felicità. Questa pietà è l'unica base effettiva di una giustizia spontanea e di ogni carità genuina. Appena questa pietà si fa viva, il bene e il male degli altri mi stanno immediatamente a cuore allo stesso modo, se non proprio allo stesso grado, del mio stesso bene: cosí ogni differenza fra lui e me non esiste piú. Questo evento è misterioso: è un fatto, di cui la ragione non può render conto direttamente e le cui cause non si possono scoprire mediante la esperienza.” (Schopenhauer, Il fondamento della morale) l'uomo ha la possibilità misteriosa di capovolgere il suo atteggiamento, di passare dall'egoismo, che è la norma della sua vita quotidiana, alla compassione: quando ciò avviene, egli agisce moralmente e trova la sua felicità perché ha annullato in sé la volontà, che mira solo alla propria soddisfazione, è uscito fuori di sé, col pensiero, per partecipare del dolore altrui, sottraendosi alla legge del dolore la pietà, o compassione, è la radice della giustizia (neminem laede, aspetto negativo della pietà), cioè il trattenersi dal causare all'altro dolore l'affermazione della volontà porta naturalmente all'ingiustizia e alla violenza, perché i nostri bisogni, i nostri impulsi hanno il predominio nella nostra coscienza, e non esitano a servirsi degli altri come mezzo per la propria soddisfazione, offendendoli o nella proprietà o nella persona, e quanto alla persona, o nello spirito o nel corpo; per prevenire o punire l'ingiustizia acquista significato la potenza coercitiva dello stato la pietà è anche la radice della carità (omnes, quantum potes, juva, aspetto positivo della pietà), cioè aiutare operosamente il proprio simile, col sacrificio delle proprie energie, dei propri averi, o anche di se stesso la carità esige una vera e propria trasformazione di sé, perché il fine dei propri pensieri e delle proprie azioni non è piú se stesso, ma l'altro; anzi essa implica che l'uomo riconosca se stesso e il suo vero essere in un altro “ Se una persona fa l'elemosina senza pensare ad altro che ad alleviare la miseria che opprime un infelice, ciò è possibile solo se sappia che è lui stesso quello che gli appare sotto quel miserabile aspetto, e riconosca il suo proprio, Intimo essere in quell'apparenza estranea” (Schopenhauer, Il fondamento della morale)