PLATONE 1 - Consulenza Filosofica

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Platone (1)
Etica, politica nei seguaci di
Socrate e in Platone
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1
L’eredità di Socrate
• Socrate muore rappresentando un esempio
insuperabile per tutti i suoi allievi, di grande
fascino intellettuale e morale, di un uomo
virtuoso, di un vero filosofo che mette in pratica
ciò che pensa e che dice.
• Per tale motivo il suo messaggio, lungi dal
cadere nel vuoto, genera una serie di
interpretazioni e di scuole filosofiche che i
migliori tra i suoi seguaci fondano e dirigono,
ciascuno secondo la propria indole e la propria
lettura del pensiero del maestro.
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2
Le scuole socratiche
• Esse portano avanti il messaggio filosofico del maestro e
si dividono in tre grandi filoni:
• quello megarico, sostenuto da Euclide di Megara (450
ca. – 380 ca. a.C.);
• quello cinico, promosso da Antistene (436 ca. – 366 ca.
a.C.) e da Diogene di Sinope (413 – 323 ca a.C.)
• quello cirenaico rappresentato da Aristippo di Cirene
(435 – 366 a.C.).
A questi indirizzi si aggiunge la personalità gigantesca di
Platone, il più geniale e importante seguace di Socrate,
che a sua volta fonderà una scuola, chiamata
Accademia.
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3
Euclide di Megara e i megarici
• Egli fonde la riflessione di Parmenide con quella etica di
Socrate, dicendo che il Bene, oggetto della virtù, si
identifica con l’essere parmenideo.Tutto ciò che è è
bene e viceversa: saggezza, virtù e intelletto non sono
che nomi dell’unico essere-bene. Alcuni membri della
scuola elaborarono ulteriori argomenti contro la
molteplicità e il movimento sulla scia di Zenone, mentre
uno di essi, Diodoro Crono, sostenne l’idea che tutto ciò
che accade è necessario che accada, perché solo ciò
che si verifica e possibile che si verifichi, mentre ciò che
rimane puramente possibile, in realtà e impossibile,
poiché nessuno può verificarlo (non essendo accaduto).
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4
Antistene, Diogene e i cinici
• La scuola cinica viene fondata ad Atene nel ginnasio di
Cinosarge (“il cane agile”, luogo sacro a Eracle), da cui
prende il nome.
• I cinici si concentrarono su una radicalizzazione dell’etica
socratica: la filosofia per loro non era teoria, dibattito sulle
idee (“Vedo il cavallo non la cavallinità”, ebbe a dire Antistene
contro Platone), ma esercizio (áskesis da cui il sostantivo
italiano “ascesi”) e fatica (pònos) per giungere alla virtù.
Quest’ultima non consiste nella sapienza ma nel ritorno ad
una vita naturale che ci allontani da tutti i bisogni indotti dalla
civiltà. Solo così potremo raggiungere la perfetta
autosufficienza (autárkeia), supremo ideale dell’uomo
virtuoso. Per questo motivo essi divennero famosi
anticonformisti, sprezzanti delle convenzioni sociali e del
potere, che spesso mettevano teatralmente in ridicolo.
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5
Aristippo e i cirenaici
• Di tono completamente diverso, pur nella medesima enfasi
sull’etica come unico oggetto del sapere filosofico, è
l’impostazione dei cirenaici. Essi sostenevano che la virtù e
il sommo bene per l’uomo è il piacere. Esso consiste in un
movimento lento e dolce che viene colto dai sensi e li
“coccola”, al contrario del dolore che è dato da un
movimento improvviso e violento. Le nostre sensazioni,
essi dicono, sono tutto ciò che abbiamo e solo di esse ci
dobbiamo interessare, visto che della realtà esterna non
possiamo essere sicuri. Tramite le sensazioni dobbiamo
cogliere il piacere dell’attimo, concentrandoci sul presente
e tralasciando futuro e passato di cui nulla possiamo
realmente sapere. Se ci si concentra sul presente, ci si
accontenta di ciò che si ha e si conduce una vita serena e
sobria, culmine della virtù.
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6
Platone
Platone è la personalità di maggior spicco tra i seguaci di
Socrate.
Di famiglia aristocratica, nasce ad Atene nel 428 a.C e nella
stessa città muore nel 347 a.C.
La sua giovinezza è caratterizzata dall’apprendistato filosofico,
prima presso Cratilo, poi come allievo di Socrate.
Ma, avendo come tutti gli aristocratici ateniesi, una vocazione
per la politica, egli vive intensamente anche gli avvenimenti
storici in cui la sua città è coinvolta.
In particolare soffre la decadenza della potenza cittadina e la
corruzione della sua classe dirigente, che non riesce ad
affrontare la fine dell’età d’oro periclea e la sconfitta contro
Sparta nella guerra del Peloponneso (conclusasi nel 404
a.C.).
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7
Platone e il rinnovamento della
politica
• Infatti né il governo oligarchico dei Trenta Tiranni (404403), né la rinnovata democrazia sono degni della
grandezza e dei valori dell’Atene classica. In particolare,
poi, la democrazia mostra tutta la sua corruzione e
l’insipienza del suo modo di governare, mettendo a
morte Socrate nel 399 a.C.
• Questi eventi, letti in una prospettiva filosofica e morale,
lo convincono che nessun rinnovamento politico
possa aver successo se prima non si sia proceduto
da un rinnovamento delle persone, possibile solo
grazie alla filosofia, cioè a quel sapere che avrebbe
suggerito in ogni momento agli uomini il criterio di
giustizia da mantenere nei loro comportamenti.
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8
Platone e l’impegno filosoficopolitico
• Si tratta di mettere in pratica ciò che si è
appreso attraverso una rigorosa ricerca
razionale sulla virtù e sulla verità, nella certezza
che virtù e verità avrebbero permesso la corretta
gestione della cosa pubblica e un destino
comune di grandezza e felicità.
• Per questo Platone non si sforza solo di
approfondire e rinnovare le dottrine socratiche,
ma anche di trasformare la sua filosofia in
concreto progetto politico.
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9
I viaggi a Siracusa
• Per questo motivo, dopo la morte di Socrate, non solo
intraprende una serie di viaggi in cui perfeziona la sua
conoscenze scientifiche e filosofiche (Megara, Egitto,
Cirene), ma si reca a Siracusa per tre volte, nel 387, nel
367 e nel 361, per tentare prima con Dionisio il Vecchio
e poi con Dionisio il Giovane, tiranni della città, di
realizzare concretamente le idee sulla politica e sul
governo della città, elaborate in sede filosofica.
Purtroppo però, in tutti e tre i casi, la sordità e la
pochezza spirituale dei governanti fanno fallire
miseramente i suoi progetti mettendo talora a rischio la
sua libertà fisica.
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10
L’Accademia
• Dal 360 fino alla morte (347) Platone
rimane ad Atene, dedicandosi interamente
alla filosofia e all’insegnamento nella sua
scuola, fondata nel 387 in un luogo poco
distante dai giardini dedicati all’eroe
Accademo (di qui il nome “Accademia”).
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11
Le opere
•
•
•
•
Di Platone ci sono pervenuti integri molti scritti, che uno studioso del I sec.
d. C., Trasillo, ha suddiviso in nove tetralogie (nove gruppi di quattro opere).
In tutto, dei 36 scritti (35 dialoghi cui vanno aggiunte le lettere, 13) circa 10
risultano spuri, cioè non autentici. Gli studiosi contemporanei, grazie
all’analisi attenta dei contenuti dei dialoghi sono riusciti a distinguere 3
periodi nella produzione platonica:
Il periodo giovanile, cui appartengono l’Apologia di Socrate, il Critone, lo
Ione, il Lachete, il Liside, il Carmide, l’Eutifrone, l’Eutidemo, l’Ippia Minore, il
Cratilo, l’Ippia maggiore, il Menesseno, il Gorgia, il primo capitolo della
Repubblica, il Protagora. Queste opere dipendono strettamente da Socrate
e costituiscono la rilettura platonica del messaggio etico socratico.
Il periodo della maturità cui appartengono il Menone, il Fedone, il Convito
o Simposio, i capitoli II-X della Repubblica e il Fedro. Qui viene elaborata
l’originale dottrina metafisica di Platone.
Il periodo della vecchiaia cui appartengono il Teeteto, il Parmenide, il
Sofista, il Politico, il Filebo, il Timeo, il Crizia e le Leggi, scritti nei quali viene
rielaborata la dottrina metafisica e sistemata alla luce dell’esperienza
concreta anche la dottrina politica e dello Stato.
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12
Il parlare e lo scrivere in filosofia (la
lettera VII di Platone)
• Nella VII lettera Platone sostiene che la lingua scritta non è lo
strumento migliore per comunicare i contenuti filosofici. Infatti
essa non mantiene la freschezza del dialogo e della ricerca
che deve essere sempre condotta attraverso una discussione
in cui si portano argomenti e si cammina assieme verso la
verità. Tale cammino si giova del contributo degli altri ma
comporta anche la possibilità di calibrare ciò che si dice sulle
effettive capacità di comprensione dell’interlocutore,
correggendo immediatamente possibili fraintendimenti e
travisamenti. Insomma quando parli sai con chi parli, e questo
è di giovamento sia a colui che espone una dottrina, sia a
colui che l’ascolta, la recepisce e vi oppone eventualmente
una propria. Tutto ciò è impossibile con lo scritto, la cui
parola, una volta consegnata alla carta non appartiene più al
parlante, non è più viva e non riesce più a dar conto del reale
sviluppo del pensiero.
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Le dottrine non scritte e la forma
dialogica dei testi platonici
• Queste opinioni sono di chiarissima matrice socratica. Solo che
Socrate fu più coerente e perciò non scrisse nulla. Platone
invece tenta un’impresa per certi aspetti impossibile: riprodurre
nello scritto l’andamento delle discussioni filosofiche orali. Quindi
elabora le sue opere nella maniera più vicina possibile allo stile
parlato: di qui la struttura dialogica dei suoi componimenti.
• Nondimeno egli ritiene che le riflessioni più importanti e
complesse non possano essere consegnate allo scritto. Dunque
le riserva alle lezioni “in privato” con i suoi allievi, che ovviamente
egli ritiene in grado di capire. Da qui un corpus di dottrine,
chiamate dottrine non scritte, di cui possiamo venire a
conoscenza attraverso le testimonianze indirette di Aristotele (il
migliore tra gli allievi di Platone) e di altri scrittori dell’Accademia
o di loro seguaci. Esse costituiscono il completamento metafisico
della dottrina sull’essere e sulla realtà.
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I primi dialoghi
• Nei primi dialoghi Platone si impegna
• a difendere la figura personale di Socrate;
• a riprendere e ad approfondire il suo pensiero in campo
etico;
Il primo compito è assolto dall’Apologia di Socrate e dal
Critone (dell’ultimo periodo della vita di Socrate parlano
anche il Fedone e l’Eutifrone) che descrivono il processo
e la morte di Socrate, esaltando la sua persona e il suo
coraggio. L’accento è inoltre posto sulla totale dedizione
del maestro alla filosofia, cosa che lo porta a concludere
che “una vita senza ricerca non è degna di essere
vissuta”.
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La virtù secondo Socrate e Platone
•
Il secondo compito è assolto da una
serie di dialoghi successivi che illustrano
alcuni capisaldi del pensiero socratico:
1) La virtù è una sola e consiste nella
scienza o sapienza
2) La virtù è insegnabile
3) La vita virtuosa consente di raggiungere
la felicità anzi è essa stessa una vita
felice.
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Non si riescono a definire le virtù
singolarmente
• La riduzione di tutte le virtù alla sapienza scaturisce dalle
difficoltà che si incontrano nel tentare di definire le virtù
singolarmente. Infatti in alcuni dialoghi minori della sua
giovinezza Platone prende in esame alcune singole virtù. Per
esempio nel Lachete egli tratta del coraggio, e lo definisce
provvisoriamente come la scienze delle cose da temere e di
quelle da non temere; nell’Eutifrone la santità o pietà che è
considerata come scienza di ciò che è buono e giusto e per
questo è gradito agli dei; nel Carmide la saggezza come scienza
di ciò che si sa e di ciò che non si sa; nel Liside l’amicizia, che è
definita come l’affinità tra coloro che vengono chiamati amici.
Tuttavia questi dialoghi non giungono ad una conclusione
definitiva ed esente da possibili obiezioni – sono quindi chiamati
dialoghi aporetici, cioè “mancanti di qualcosa” – proprio a
dimostrazione che se non arriviamo ad un concetto unitario di
virtù, non riusciamo nemmeno a definire che cosa siano le
singole virtù.
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Necessità di un unico criterio di
virtù
• In ogni dialogo la definizione di una singola virtù arriva alla
fine di un lungo percorso e tuttavia appare anch’essa
debole di fronte alle ulteriori osservazioni dei dialoganti. Da
qui sorge la necessità di approfondire ulteriormente e di
trovare una ragione ultima, un’identità profonda per la
quale noi intendiamo la virtù come tale. Insomma, bisogna
cercare, come si dice nell’Eutifrone a proposito della
santità, “che cos’ è in se stessa quella tale idea (della virtù)
per cui tutte le azioni (virtuose) sono (virtuose)”. Ci deve
essere una unità delle virtù, altrimenti lo stesso concetto di
virtù sarebbe dissolto come accade nella sofistica, dove
virtù viene a significare ciò che di volta in volta è assunto,
apoditticamente o a causa di diversi interessi in gioco,
come positivo per l’uomo, ma che è internamente
contraddittorio.
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Se la virtù fosse molteplice
Nel Menone Socrate parla di diverse virtù, ciascuna avente caratteri
propri e talvolta contrari a quelli di altri. Così vale per esempio anche
per le figure e i colori: vi sono diverse figure geometriche con
diverse proprietà e diversi colori ben distinguibili gli uni dagli altri,
ma da un lato tutte vengono chiamate “figure” e dall’altro tutti
vengono indicati come “colori”. Trovandoci in questa pluralità di cose
differenti, non riusciamo a capire perché ciascuna di queste venga
chiamata con lo stesso nome (virtù, figura, colore). È però proprio
questo che cerchiamo: se, con esempio nostro, virtù adesso
significa pazienza e dopo, in un’altra situazione, vuol dire impeto; se
è virtuoso colui che è coraggioso, ma lo può essere, a seconda delle
circostanze anche colui che è prudente; se lo è chi è prodigo, ma lo
può essere anche il risparmiatore; se è così, allora virtù è tutto e
contrario di tutto? Se rimaniamo su questo livello, in sostanza virtù,
avendo significati contraddittorii, non significa niente, e tutti possono
essere virtuosi o no a casaccio, con le conseguenze che si possono
immaginare per la vita individuale e associata.
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La virtù è sapienza (Menone)
• Ma in realtà non è così, e si può sempre trovare un motivo per cui
diversi fenomeni particolari sono chiamati con uno stesso nome.
Questo motivo risiede nell’unica essenza (o idea) che li caratterizza.
Trovando quest’ultima spieghiamo perfettamente tutti i fenomeni
particolari e li possiamo ben descrivere e giustificare. Per quanto
riguarda la virtù, come si dice nel Menone in totale concordanza con
Socrate, virtuose sono quelle azioni che conseguono un bene e un
vantaggio. Ciò che ottiene il bene è la sapienza, la virtù grazie alla
quale tutte le virtù umane sono tali. Infatti ogni bene diventa tale se
nel suo uso e nella sua appropriazione vi si aggiunge intelligenza e
senno. Quindi ciò che rende virtuoso un comportamento che cerca
un qualsiasi bene è il senno, cioè un’intelligenza e un sapere che
sono presenti in tutti i beni che si acquisiscono con comportamenti
detti e ritenuti virtuosi. In conclusione la virtù, nella sua essenza
universale, deve essere una e coincidere con la sapienza.
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Se la virtù è sapienza, il vizio è
ignoranza
• La virtù deve essere una e coincidere con la sapienza. Nell’Ippia
minore emerge chiaramente quest’eredità socratica da cui si deduce
immediatamente che il male è ignoranza. Vediamo che cosa
significa tale affermazione
Una persona può fare il male volendolo o non volendolo.
Se lo vuole, significa che lo fa scientemente, quindi distinguendo il
bene dal male e scegliendo poi il male. Chi fa il male sapendo che è
male dunque sarebbe superiore a chi fa il male non sapendolo,
perché possiederebbe qualcosa in più: la conoscenza di che cosa è
bene e di che cosa è male.
Ma questo è inaccettabile: non si può considerare superiore chi fa il
male consapevolmente. Si tratta di un’assurdità etica che nessuno
accoglierebbe.
Dunque chi fa il male, per essere veramente biasimato, deve essere
considerato ignorante. Quindi il male va sempre a braccetto con
l’ignoranza, che rappresenta l’unico vero grande vizio.
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L’unità e insegnabilità della virtù nel
Protagora
• Già nel Menone, Platone aveva sottolineato che
se la virtù è scienza è insegnabile. Ora, nel
Protagora Platone entra in polemica con la
sofistica accusandola di sostenere che la virtù
sia un insieme di abilità, cioè l’essere bravi a
fare qualcosa che si acquisisce con l’esperienza
o grazie ai casi della vita.
• Così le molteplici virtù sarebbero qualcosa che
appartiene al singolo, un suo possesso privato e
particolare.
• I Sofisti vorrebbero tuttavia insegnarle agli altri
(per questo si fanno pagare!!!).
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Non si può insegnare ciò che è
privato
• Ma se è qualcosa di privato, cioè se per
definizione le virtù sono un possesso esclusivo
di una singola persona, esse non si possono
insegnare.
• Viceversa solo se la virtù è scienza, essa è pure
insegnabile, perché per definizione il sapere è
qualcosa che si acquisisce e si trasmette, e per
converso solo ciò che è sapere si può
comunicare. La scienza non è quindi una tra le
tante virtù, quand’anche la migliore, ma è ciò
che rende la virtù tale e ne garantisce
l’insegnabilità.
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L’Eutidemo contro l’eristica
• La polemica contro i sofisti, che distingue nettamente
l’insegnamento
socratico
da
quello
dei
suoi
contemporanei, continua nell’Eutidemo. Qui due fratelli,
Eutidemo e Dionisodoro dimostrano di volta in volta tesi
contrarie (per es.: “Solo l’ignorante può apprendere” e
poi: “Apprendono solo i sapienti”). Ma, osserva Platone,
questo virtuosismo argomentativo conduce a ritenere
che ogni cosa possa essere vera e al tempo stesso
falsa. La conseguenza è che lo stesso concetto di verità
si dissolve. Quindi nulla si potrebbe dimostrare e la
stessa eristica non servirebbe a nulla, non avendo
più niente per cui valga la pena argomentare, visto
che in anticipo si saprebbe che ogni argomentazione è
equivalente a quella contraria.
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Il Gorgia contro la retorica
• I sofisti vengono ancora combattuti nel Gorgia. Qui viene
presa di mira l’arte del bel parlare e del persuadere.
Platone fa notare che ogni disciplina convince circa
l’oggetto che essa studia. Per esempio noi potremo
convincerci degli argomenti militari, conoscendo le
tecniche e la storia militare apprese da uno che ha
esperienza in questo campo e ne sa molto e così per
tutte le discipline (l’ingegneria, l’architettura, il diritto, la
nautica, il commercio etc.). Ma la retorica ha il difetto di
voler persuadere con la sola conoscenza dei bei
discorsi, ambendo a parlare di tutto senza conoscere
veramente niente. Così essa può convincere solo gli
ignoranti, e per il resto nulla ci dice di come stanno
veramente le cose.
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25
La retorica fa apparire giusto
l’ingiusto
• Inoltre la retorica potrebbe trasformare, con un bel
discorso,
una
causa
intrinsecamente
ingiusta,
abbellendola decorandola fino a farla apparire giusta.
Questo sarebbe veramente un male, perché la giustizia
non è una convenzione, come nel dialogo invece
afferma Callicle. Se così fosse, infatti, vera legge
rimarrebbe la legge di natura, che stabilisce che il più
forte abbia ragione.
• Ma laddove il più forte abbia ragione, egli agisce senza
preoccuparsi della giustizia, seguendo solo il proprio
piacere e i propri istinti, conducendo egli stesso una
vita infelice e oppressa dal bisogno, poiché la ricerca del
piacere nasce sempre da un bisogno e da una
mancanza e il piacere è dunque sempre legato al dolore.
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26
Bene e male – piacere e dolore
• Contrariamente ai cirenaici, Platone
afferma che bene e male si distinguono
nettamente da piacere e dolore e sono tra
loro ben separati. Il bene consiste nella
virtù che dà ordine e regolarità alla vita
umana, che permette di conseguire la
giustizia lungo una via precisa, a
prescindere dagli istinti che ci conducono
di qua e di là come banderuole al vento.
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27
Il Cratilo e il linguaggio
• Nel Cratilo si cerca di capire quale sia
l’origine e la funzione del linguaggio
umano.
• Vi sono presentate due alternative:
• Quella dei sofisti
• Quella di Eraclito e di Cratilo
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28
I sofisti
• I sofisti ritenevano che il linguaggio fosse
pura
convenzione,
cioè
dovuto
esclusivamente alla libera iniziativa degli
uomini che si mettono d’accordo per
attribuire un nome alle cose. Essi pertanto
si dedicavano al discorso per la sua
capacità persuasiva a prescindere dalla
sua capacità di descrivere la realtà.
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29
Eraclito e Cratilo
• Essi ritengono che il linguaggio sia naturalmente
imposto dalle cose, cioè che per sua natura
esprima le caratteristiche della realtà. Così come
le cose sono, allo stesso modo è il linguaggio: le
parole ci dicono le cose. La conseguenza di tale
idea è che, conoscendo i discorsi, si conoscono
le cose e che i discorsi sono sempre corretti: lo
sono poiché rispecchiano esattamente le cose
che essi nominano.
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30
La tesi di Platone
• Platone assume una posizione intermedia e più
complessa: per lui i discorsi sono sì un’elaborazione
umana (e in ciò è d’accordo con i sofisti), ma
un’elaborazione che TENDE a rappresentare la natura
delle cose, cioè a dire le cose così come stanno (e in ciò
accoglie la prospettiva di Cratilo). Rispetto ai sofisti e a
Cratilo, egli dà conto in modo più realistico sia del fatto
che i discorsi possono e devono avvicinarsi alla verità,
sia del fatto che, al tempo stesso, rischiano di essere
falsi, quando la convenzione umana non rispetta la
natura delle cose.
• Per Cratilo invece sono sempre veri, mentre per i sofisti
la loro verità è indifferente.
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Scienza e linguaggio
• La scienza dunque non può limitarsi a studiare i
discorsi, come voleva Cratilo, dando per
scontato che così si capisca la realtà, anche
perché, prima di parlare gli uomini dovevano già
conoscere qualcosa, e dovevano conoscerla in
modo diverso che attraverso i nomi, visto che i
nomi ancora non li avevano inventati. Dunque il
linguaggio umano non è qualcosa di
assolutamente primario: prima gli uomini
conoscono e poi parlano, cercando di costruire
discorsi il più possibili veritieri.
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