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Heidegger
L'angoscia del nulla
[…] Quando noi, nel quotidiano affaccendarci, ci attacchiamo
esclusivamente a questo o quell'essente, sembra come se ci fossimo
perduti in questo o quel cerchio dello essente. Ma, per quanto possa
apparire frantumata la vita quotidiana, essa mantiene pur sempre
l'essente in una «unità della totalità», sia pur questa nell'ombra.
Anche quando (anzi proprio allora) noi non siamo particolarmente
occupati dalle cose e da noi stessi, ci viene addosso questo «tutto»,
per esempio nella noia propriamente detta. Essa è ancora lontana
finché quel che ci annoia è questo libro o quello spettacolo, quella
occupazione o questa oziosità. Essa affiora quando «a uno prende la
noia». La noia profonda, che si insinua serpeggiando nelle profondità
della nostra esistenza come nebbia silenziosa, stringe insieme tutte le
cose, gli uomini e l'individuo stesso con esse, in una singolare
indifferenza. Questa è la noia che rivela l'essente nella totalità.
Un'altra possibilità di tale rivelazione può offrirla la gioia che ci
viene dalla presenza dell'esistere di un essere amato (non della sua
persona semplicemente).
Un tale stato d'animo per cui uno «è così o così», gli permette di
sentirsi in mezzo all'essente in una totalità che tutto lo penetra.
Questa disposizione d'animo in cui ci si trova, non soltanto svela a
suo modo l'essente nella totalità, ma questo disvelamento è insieme ben lungi da un semplice accidente - l'evento fondamentale del nostro
essere esistenziale.
Quelli che noi chiamiamo «sentimenti» non sono un passeggero
accompagnamento del nostro modo di pensare o di volere, né un
semplice stimolo che porti ad un tal modo, e neppure una semplice
situazione di fatto a cui non reagiamo così e così. Se non che, proprio
mentre le disposizioni ci conducono per tal modo innanzi all'essente
nella totalità, esse ci nascondono, anche, il niente che cerchiamo; e
adesso saremo ancora meno dell'opinione che la negazione
dell'essente nella totalità, rivelatosi per mezzo delle nostre
disposizioni, ci ponga innanzi al niente. Simile cosa potrebbe
conseguentemente accadere soltanto in una disposizione originaria,
che, conformemente alla sua più propria capacità, ci svelasse il
niente.
Si verifica realmente nell'essere esistenziale dell'uomo un tale stato,
in cui egli sia portato innanzi al niente stesso?
Esso può verificarsi realmente e - sebbene abbastanza di rado soltanto in momenti di quella disposizione fondamentale che è
l'angoscia. Con questa noi non intendiamo quell'ansietà abbastanza
frequente, la quale in fondo appartiene a quel senso del pauroso che
s'incontra anche troppo facilmente. L'angoscia è fondamentalmente
diversa dalla paura. Noi ci impauriamo sempre di questa o quella cosa
determinata, che per questo o quel determinato rispetto ci minaccia.
L'aver paura di... è sempre anche paura per qualcosa di determinato.
E poiché della paura è propria questa limitazione del suo oggetto e
del suo motivo, l'impaurito resta preso nella sfera del pauroso in cui
si trova. Nello sforzo di salvarsi dinanzi ad esso - innanzi a questo
determinato -, diventa malsicuro in rapporto ad ogni altro: «perde la
testa» rispetto al tutto.
L'angoscia non fa più nascere tale perturbamento: essa, anzi,
apporta seco una caratteristica quiete. Certo, l'angoscia è sempre
angoscia di..., ma non di questo o quello; angoscia per..., ma non per
questa o quella cosa. L'indeterminazione di ciò di cui e per cui noi ci
angosciamo, non è mero difetto di determinazione, ma un'essenziale
impossibilità di determinazione. Essa si presenta in un significato ben
noto. Nell'angoscia - noi diciamo - «si è presi da un vago sgomento».
Si potrebbe domandare: «Chi?» e «di che?». Di che, non si può dire:
si prova sgomento rispetto al tutto. Tutte le cose e noi stessi
affondiamo in una specie d'indifferenza. Questo, tuttavia, non nel
senso di un semplice dileguare; ma nel senso che, proprio nel loro
allontanarsi da noi, si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell'essente
nella sua totalità, che ci preme nell'angoscia, ci opprime. Non resta
alcun sostegno; resta solo e ci piomba addosso - nello scomparire
dell'essente -questo «nessuna cosa a cui appigliarsi».
L'angoscia rivela il niente.Nell'angoscia noi «siam sospesi». Meglio:
l'angoscia ci tien sospesi, perché porta l'essente nella sua totalità a
scomparire. E questa è la ragione per cui noi stessi - questi essenti
umani -in mezzo all'essente scompariamo con esso a noi stessi. E
però, in fondo, non «tu» e «io», ma «si» è presi da sgomento.
Soltanto il puro essere esistenziale, nell'ondeggiamento ditale
sospensione che non può afferrarsi a niente, è quel che resta.
L'angoscia ci serra alla gola. Scomparendo l'essente nella totalità, e
poiché il niente ci stringe da ogni lato, ogni tentativo di dire «è» tace
alla vista di lui. Che noi nella vaga inquietudine dell'angoscia spesso
cerchiamo di rompere il vuoto silenzio col parlare a vanvera, è
soltanto una prova della presenza del niente.
Che l'angoscia sveli il niente, lo costatiamo noi stessi
immediatamente appena se ne va. Lo sguardo, ancora fresco del
ricordo, si rasserena, e noi siamo costretti a dire: di che e perché ci
siamo angustiati? Non c'era, «propriamente» - niente. E, in realtà, il
niente stesso - come tale - era là.
(da M. HEIDEGGER, Che cos'è la metafisica? a cura di A. Carlini, La
Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 16-9)
L'uomo è il pastore dell'essere
Ma allora che cos'è l'Essere? Esso è se stesso. questo che il pensiero
futuro deve imparare a esperire e a dire. L'«Essere», non è né Dio, né
un fondamento del mondo. L'Essere è più lontano di ogni essente e
nello stesso tempo è più vicino all'uomo di qualunque singolo
essente, sia questo una roccia, un animale, un'opera d'arte, una
macchina, sia esso un angelo o Dio. L'Essere è ciò che è più vicino.
Questa vicinanza resta tuttavia per l'uomo ciò che è più lontano.
L'uomo innanzitutto si attacca già sempre e soltanto all'essente. vero
però che quando il pensiero si rappresenta l'essente come l'essente,
si riferisce all'Essere. Tuttavia esso pensa in verità sempre solo
l'essente come tale e mai l'Essere come tale; il «problema
dell'Essere» resta sempre il problema concernente l'essente. Il
problema dell'Essere non è ancora per nulla ciò che indica questa
ingannevole denominazione: la questione che concerne l'Essere. La
filosofia, anche là dove diviene «critica», come in Cartesio e Kant,
segue sempre la linea della rappresentazione metafisica. Essa pensa
a partire dall'essente e in direzione dell'essente, passando attraverso
un momento in cui getta uno sguardo sull'Essere. Infatti ogni partire
dall'essente ed ogni tornare ad esso sta già nella luce dell'Essere.
Ma la metafisica conosce l'apertura dell'Essere o solo come il darsi a
noi di ciò che è pensato nel suo «mostrarsi» (idéa) o, dal punto di
vista del criticismo, come l'oggetto reso visibile dalla soggettività
nella sua attività rappresentativa mediante categorie. Il che significa:
la verità dell'Essere, in quanto l'apertura stessa, rimane nascosta alla
metafisica. Questo nascondimento non è però una insufficienza della
metafisica, ma il tesoro della sua propriaricchezza che le è nascosto e
tuttavia in qualche modo le è posto dinnanzi. [...]
L'oblio della verità dell'Essere a favore dell'imporsi dell'essente non
pensato nella sua essenza è il senso di ciò che Sein und Zeit chiama
la «deiezione». La parola non indica un qualche peccato dell'uomo
pensato in modo secolarizzato dal punto di vista della «filosofia
morale», ma denomina una relazione essenziale dell'uomo all'Essere
all'interno del rapporto dell'Essere all'essenza dell'uomo. Allo stesso
modo le qualificazioni che fanno da preludio a questo concetto,
l’«autenticità» e l'«inautenticità», non alludono a una differenza
morale-esistentiva o «antropologica», ma a ciò che innanzitutto
rimane ancora da pensare perché è rimasto finora nascosto alla
filosofia, cioè il rapporto «ekstatico» dell'essenza dell'uomo alla verità
dell'Essere. Questo rapporto però è tale non in quanto si fondi
sull'ek-sistenza;
invece,
l'essenza
dell'ek-sistenza
è
esistenziale-ekstatica a partire dall'essenza della verità dell'Essere.
L'unica cosa che il pensiero che cerca di esprimersi per la prima
volta in Sein und Zeit vorrebbe conseguire è qualcosa di semplice. In
quanto semplice, l'Essere resta misterioso, la piana vicinanza di una
potenza non invadente. Questa vicinanza si apre nella propria
essenza nel linguaggio stesso. Questo però non è il puro linguaggio
nel senso in cui ce lo rappresentiamo, nel migliore dei casi, come
l'unità di struttura fonetica (segno scritto), melodia e ritmo,
significato (senso). Noi pensiamo la struttura fonetica e il segno
scritto come il corpo della parola, la melodia e il ritmo come l'anima
(Seele) e la significatività come lo spirito (Geist) del linguaggio.
Abitualmente pensiamo il linguaggio in corrispondenza con l'essenza
dell'uomo, in quanto questo è inteso come animal rationale, cioè
come unità di corpo-anima-spirito. Tuttavia, come nella humanitas
dell'homo animalis l'ek-sistenza, e con essa la relazione della verità
dell'Essere all'uomo restano nascoste, così l'interpretazione del
linguaggio in riferimento all'homo animalis della metafisica occulta
l'essenza che è propria del linguaggio entro la storia dell'Essere.
Conformemente a tale essenza il linguaggio è la casa dell'Essere
istituita e disposta dall'Essere. Perciò occorre che l'essenza del
linguaggio sia pensata in corrispondenza all'Essere, e anzi sia intesa
come questa corrispondenza stessa, cioè come dimora dell'essenza
dell'uomo.
L'uomo però non è solo un essere vivente, fornito anche del
linguaggio accanto ad altre facoltà. Piuttosto il linguaggio è la casa
dell'Essere, abitando nella quale l'uomo ek-siste, in quanto appartiene
alla verità dell'Essere custodendola.
Ciò che dunque importa nella definizione dell'umanità dell'uomo come
ek-sistenza è che l'essenziale non è l'uomo, ma l'Essere come
dimensione dell'ek-staticità dell'ek-sistenza. [...]
La mancanza di patria diviene un destino mondiale. Per questo è
necessario pensare questo destino secondo la storia dell'Essere. Ciò
che Marx partendo da Hegel ha riconosciuto in un senso essenziale e
significativo come l'alienazione dell'uomo, affonda le sue radici nella
mancanza di patria dell'uomo moderno. Questa si produce, e ciò in
virtù del destino dell'Essere, nella forma della metafisica, che la
consolida e nello stesso tempo la occulta, come mancanza di patria.
Marx, in quanto esperisce l'alienazione, raggiunge una dimensione
essenziale della storia: è perciò che la concezione marxista della
storia si pone al di sopra di ogni altro «storiografismo» (Historie).
Poiché però né Husserl, né, almeno fino ad ora, Sartre riconoscono
l'essenzialità dello storico nell'Essere,' né la fenomenologia, né
l'esistenzialismo pervengono in quella dimensione nella quale soltanto
diviene possibile un dialogo produttivo col marxismo.
In vista di ciò, ovviamente, è inoltre necessario che ci si liberi dalle
ingenue rappresentazioni relative al materialismo e dalle critiche
superficiali che dovrebbero colpirlo. L'essenza del materialismo non
sta nell'affermazione che tutto è pura materia, ma piuttosto in una
determinazione metafisica, secondo cui tutto l'essente appare come
materiale del lavoro. L'essenza moderna e metafisica del lavoro è
anticipata nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel come ii processo
auto-organizzantesi della produzione incondizionata, cioè come
l'oggettivazione del reale da parte dell'uomo inteso come soggettività.
L'essenza del materialismo si nasconde nell'essenza della tecnica, su
cui si è bensì scritto molto, ma si è pensato poco. La tecnica è nella
sua essenza un destino storico essenziale della verità dell'Essere in
quanto giacente nell'oblio. Essa si riporta alla téchne dei Greci non
solo per l'etimo del suo nome; la stessa sua essenza nasce dalla
téchne intesa come modo dell’aletheúein, cioè del rendere-aperto
l'essente. Come forma della verità la tecnica si fonda nella storia della
metafisica. Quest'ultima è una importante fase della storia
dell'Essere, ed è la sola che finora ci sia dato di abbracciare con lo
sguardo. Si possono prendere varie posizioni nei confronti delle
dottrine del comunismo e delle motivazioni che le fondano; sul piano
della storia dell'Essere resta fermo che in esso si esprime una
esperienza elementare di ciò che è la storia universale. Chi prende il
comunismo solo come «partito» o come «concezione del mondo»,
pensa in modo altrettanto angusto di quelli che reputano che con il
termine «americanismo» si indichi solo, e per di più in
modospregiativo, un particolare stile di vita. Il pericolo verso cui
sempre più chiaramente l'Europa attuale è sospinta consiste
probabilmente nel fatto che prima di tutto, il suo pensiero, che una
volta era la sua grandezza, resta indietro rispetto al procedere
essenziale del nascente destino mondiale, che tuttavia resta
certamente europeo nei tratti fondamentali della sua provenienza
essenziale. Nessuna metafisica, sia essa idealistica, materialistica o
cristiana, può per la sua essenza, e tanto meno in virtù degli sforzi di
svilupparsi come tale, raggiungere ancora il destino; il che vuol dire
che non può, pensando, attingere e raccogliere ciò che oggi, in un
senso pieno e compiuto di Essere, è.
Di fronte all'essenziale mancanza di patria, il destino futuro dell'uomo
si mostra al pensiero storico-ontologico (seinsgeschichtlich) nel fatto
che egli trovi una via alla verità dell'Essere e si ponga in cammino
verso
questa
via.
Ogni
nazionalismo
è
metafisicamente
antropologismo e come tale soggettivismo. Esso non è superato
mediante il semplice internazionalismo; anzi mediante questo si
estende e si eleva a sistema. Il nazionalismo non viene in tal modo
innalzato e superato nell'humanitas, così come l'individualismo non è
superato mediante un collettivismo privo di storia. Il collettivismo è la
soggettività dell'uomo posta a livello della totalità. Esso porta a
compimento la sua incondizionata autoaffermazione. Questa non si
lascia eliminare; non solo: un pensiero che ne media solo un aspetto
non è neanche in grado di esperirla in modo sufficiente. Dappertutto
l'uomo, esiliato dalla verità dell'Essere, gira su se stesso come animal
rationale.
Ma l'essenza dell'uomo consiste nel fatto che egli è qualcosa di più
che un semplice uomo inteso come essere vivente fornito di ragione.
Il «più» non deve esser qui pensato nel senso di una aggiunta
quantitativa, come se la tradizionale definizione dell'uomo dovesse
restare la determinazione fondamentale, e subire quindi un
ampliamento mediante l'aggiunta della nozione di esistenza. Il «più»
significa: più originario e quindi più essenziale nella sua essenza. Ma
proprio qui compare l'enigma; l'uomo è nell'esseregettato; cioè:
l'uomo come risposta ek-sistente all'Essere è più che l'animal
rationale, proprio in quanto è meno rispetto all'uomo che si
concepisce a partire dalla soggettività. L'uomo non è il signore
dell'essente. L'uomo è il pastore dell'Essere. In questo «meno»
l'uomo non ci rimette nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene
nella verità dell'Essere. Guadagna l'essenziale povertà del pastore, la
cui dignità consiste nell'esser chiamato dallo stesso Essere a guardia
della sua verità. Questa chiamata viene con il gettare da cui si origina
l'essere-gettato
dell'Esserci.
L'uomo
nella
sua
essenza
storico-ontologica è quell'essente, il cui essere in quanto ek-sistenza
consiste nell'abitare nella vicinanza dell'Essere. L'uomo è il vicino
dell'Essere.
(da M. HEIDEGGER, Lettera sull'umanismo, a cura di A. Bixio e G.
Vattimo, Sei, Torino 1975, pp. 95-96; 97-8; 106-9)
In cammino verso il linguaggio
Le tre conferenze che seguono portano il titolo: l'essenza del
linguaggio. Esse vorrebbero portarci alla possibilità di fare esperienza
del linguaggio. Fare esperienza di qualcosa - si tratti di una cosa, di
un uomo, di un Dio - significa che quel qualche cosa per noi accade,
che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma. Parlandosi
di «fare», non si intende affatto qui che siamo noi, per iniziativa e
opera nostra, a mettere in atto l'esperienza: «fare» significa qui
provare, soffrire, accogliere ciò che ci tocca adeguandoci ad esso.
Qualcosa «si fa», avviene, accade.
Fare esperienza del linguaggio significa quindi: lasciarsi prendere
dall'appello del linguaggio, assentendo ad esso, conformandosi ad
esso. Se è vero che l'uomo ha l'autentica dimora della sua esistenza
nel linguaggio, indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o
no, allora un'esperienza che facciamo del linguaggio ci tocca
nell'intima struttura del nostro esistere. In quanto parliamo il
linguaggio, possiamo allora, in virtù di siffatte esperienze, essere
trasformati sul momento oppure col tempo. Ora, per noi uomini di
oggi, un'esperienza che facciamo del linguaggio è già fin troppo
grande, forse, quando ci tocchi anche solo quanto basta a richiamare
la nostra attenzione sul nostro rapporto con il linguaggio e a serbarci
poi memori di tale rapporto.
Posto dunque che ci venga rivolta a bruciapelo la domanda: in quale
rapporto vivete con il linguaggio che parlate?, non ci troveremmo
imbarazzati a rispondere: troveremmo subito un filo e una base per
portare il problema su una strada sicura.
Noi parliamo il linguaggio. In quale altro modo possiamo essere vicini
al linguaggio se non col parlare? Eppure il nostro rapporto col
linguaggio è indeterminato, oscuro, quasi incapace di parola. Dato
questo strano stato di cose, non è facile evitare che ogniosservazione
che si venga facendo al riguardo riesca sulle prime sconcertante e
incomprensibile.
Perciò
potrebbe
essere
proficuo
staccarsi
dall'abitudine di star ad ascoltare soltanto quel che risulta subito
chiaro. La proposta non vale solo per ogni singolo ascoltatore, vale
più ancora per colui che tenta di parlare del linguaggio, specie
quando lo scopo del tentativo altro non è se non quello di indicare
delle possibilità che consentano di farci memori del linguaggio e del
nostro rapporto con esso.
Fare esperienza del linguaggio è altra cosa dal procurarsi nozioni sul
linguaggio. Scienza del linguaggio, linguistica, e filologia delle diverse
lingue, psicologia e filosofia del linguaggio sono le discipline che ci
forniscono tali nozioni, ampliandone di continuo il campo, al punto
che ne resta impossibile il dominio. La ricerca linguistica e scientifica
e filosofica mira, da qualche tempo, in modo sempre più deciso, a
costruire ciò che viene chiamato «metalinguaggio». Giustamente,
pertanto, la filosofia scientifica che si piefigge di costruire tale
superlinguaggio
intende
se
stessa
come
metalinguistica.
Metalinguistica suona come metafisica; non soltanto suona come, ma
è. La metalinguistica è infatti la metafisica della totale trasformazione
tecnica di ogni lingua in semplice strumento interplanetario
d'informazione. Metalinguaggio e Sputnik, metalinguistica e tecnica
missilistica sono la stessa cosa.
Sarebbe del tutto infondato credere che s'intenda qui svalutare la
ricerca scientifica e filosofica delle lingue e del linguaggio. Tale ricerca
ha la sua legittimità e serba intatta la sua importanza. Essa fornisce
sempre, a suo modo, cose utili a sapere. Sennonché altro sono le
nozioni scientifiche e filosofiche sul linguaggio e altro un'esperienza
che noi facciamo del linguaggio. Se il tentativo di portarci alla
possibilità di una simile esperienza riesca, fin dove possa giungere
l'eventuale riuscita per ciascuno di noi, nessuno di noi può saperlo o
deciderlo.
Quel che resta da fare è indicare le vie che conducono alla
possibilità di fare un'esperienza del linguaggio. Tali vie esistono da
lungo tempo. Ma solo di rado vengono percorse in maniera che una
possibile esperienza del linguaggio possa a sua volta giungere a dirsi.
Nelle esperienze che facciamo del linguaggio è il linguaggio stesso
che si fa parola. Si potrebbe pensare che ciò avvenga sempre in ogni
parlare. In realtà, però, sempre che parliamo una lingua e comunque
la parliamo, mai in ciò si fa parola il linguaggio per se stesso. Nel
parlare le più svariate cose «vengono dette»; innanzitutto ciò che
costituisce l'oggetto del discorso: una situazione, un avvenimento, un
problema, un interesse. Solo per il fatto che nel parlare quotidiano il
linguaggio non si fa parola, ma si trattiene piuttosto in se stesso,
proprio solo per questo noi siamo in grado di parlare una lingua, e,
parlando, di trattare e discutere di e su qualcosa.
Ma dove il linguaggio, come linguaggio, si fa parola? Pare strano,
ma là dove noi non troviamo la giusta parola per qualche cosa che ci
tocca, ci trascina, ci tormenta e ci entusiasma. Quello che intendiamo
lo lasciamo allora nell'inespresso e, senza che ce ne rendiamo
pienamente conto, viviamo attimi in cui il linguaggio, proprio il
linguaggio, ci sfiora da lontano e fuggevolmente con la sua essenza.
Ma, quando si tratta di portare alla parola qualcosa di cui mai
ancora si è parlato, tutto sta nel vedere se il linguaggio farà dono
della parola appropriata o se, invece, la negherà. Uno di questi casi è
quello del poeta. Un poeta può così giungere proprio a questo: a
dover portare a parola, in modo autentico, che è quanto dire poetico,
l'esperienza che fa del linguaggio.
(da M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, a cura di A.
Caracciolo, Mursia, Milano 1973, pp. 127-9)
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