Gennaio-Marzo 2013 n. 1 Anno XXVII Quaderni di Minimondo Rivista culturale Braille Periodico trimestrale Fascicolo I Direzione Redazione Amministrazione Biblioteca Italiana per i Ciechi 20900 Monza - Casella postale 285 c.c.p. 853200 - tel. 039ì28.32.71 e-mail: [email protected] Dir. Resp. Pietro Piscitelli Comitato di redazione: Massimiliano Cattani, Antonietta Fiore, Luigia Ricciardone, Pietro Piscitelli (Responsabile) Copia in omaggio Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi «Regina Margherita» onlus via G. Ferrari, 5/a 20900 Monza Sommario Loredana Sciolla: Il paradosso di un Paese poco istruito («il Mulino» n. 464/12) Chiara Giaccardi: Ripensare il reale nell'epoca del digitale («Vita e Pensiero» n. 6/12) Charles Seife: La ricerca farmaceutica è affidabile? («Le Scienze» n. 534/13) Alberto E. Minetti, Gaspare Pavei: La corsa verde dei veicoli ibridi («Le Scienze» n. 518/11) Anna Oliverio Ferraris: Media e politica («Psicologia contemporanea» n. 224/11) Guido Petter: I nonni oggi («Psicologia contemporanea» n. 223/11) Carlo Bordoni: C'era una volta la paura («Prometeo» n. 110/10) Marco Serri: Anna Magnani, un «animale da schermo» («Millenovecento» n. 29/05) Marco Carminati: Con Verdi in tour («Ulisse» n. 340/13) Il paradosso di un Paese poco istruito L'Italia, tra i Paesi avanzati, non brilla per investimento in capitale umano, sia se consideriamo l'indicatore più diffuso e disponibile, gli anni di scuola, sia se ci riferiamo a parametri più qualitativi. Se si considera la sola espansione scolastica in Italia, ossia l'andamento negli anni del tasso di scolarità a tutti i livelli di istruzione, osserviamo una tendenza molto simile a quella degli altri Paesi europei, per cui si può dire che si sia passati da una scuola e un'università di élite a una scuola e un'università di massa. Nel nostro Paese i picchi dell'espansione si hanno in periodi diversi, secondo il livello di istruzione considerato. La scuola primaria raggiunge una soglia elevata fin dagli anni Venti, ma l'apice si situa negli anni Sessanta; la scuola secondaria (di primo e di secondo grado) ottiene la massima espansione nel decennio successivo, negli anni Settanta. Gli iscritti all'università, infine, crescono in maniera costante, con una particolare accelerazione negli anni Sessanta e negli anni Ottanta del secolo scorso. Se prendiamo come punto di riferimento i primi anni Novanta, da cui si fa iniziare il rallentamento della crescita economica italiana, vediamo che i diplomati sono il 57% nel 1992, ma salgono al 72,6% nel 2008. Così i laureati rappresentano soltanto il 10,1% nel 1992 e ammontano, sempre nel 2008, al 34,3% dei giovani di venticinque anni. La crescita dell'istruzione è dunque continuata, nonostante un rallentamento rispetto ai picchi raggiunti. Certo, nel nostro Paese la percentuale di laureati risulta ancora modesta rispetto a quella raggiunta dai principali Paesi europei. È questa un'anomalia italiana che è stata spiegata chiamando in causa numerosi fattori: dall'assenza di differenziazione dell'istruzione terziaria, alla scarsità di risorse destinate dallo Stato a questo livello di istruzione, alla dipendenza dal background famigliare, alle scarse prospettive occupazionali e salariali che segnalano l'esistenza di un vero e proprio paradosso. Già questi dati quantitativi mostrano che l'Italia resta indietro per quanto riguarda soprattutto l'istruzione terziaria, con il suo basso numero di laureati (e nonostante i bassi costi di ingresso all'università). Per non parlare degli ultimi dati Ocse nell'annuale studio sul sistema scolastico dei 34 Paesi membri dell'organizzazione, dove emerge che l'Italia si trova agli ultimi posti per la spesa in istruzione. Nel 2008 il nostro Paese dedicava il 4,8% del Pil all'istruzione, contro una media Ocse del 6,1%. Inoltre in un periodo di 8 anni - dal 2000 al 2008 l'Italia fa segnare il penultimo incremento tra i Paesi avanzati (per quanto riguarda scuola primaria, secondaria e post-secondaria non universitaria): un incremento del 6% contro la media Ocse del 34%. Lo scenario diventa davvero sconsolante se da un lato ampliamo lo sguardo all'intera popolazione italiana e, dall'altro, consideriamo non solo la tendenza quantitativa (tasso di scolarità ai vari livelli), ma anche la qualità e l'efficacia del sistema educativo. Se il parametro di riferimento non sono i giovani di 19 e 25 anni, ma è l'intera popolazione italiana in età lavorativa (25-64 anni), secondo l'Ocse la popolazione italiana in possesso di titoli di studio elevati rimane assai inferiore a quella media dei Paesi dell'Ue e dell'Ocse, perché sconta il basso livello di istruzione delle generazioni più anziane. Gli italiani che non hanno nemmeno il diploma sono il 47%, quasi la metà della popolazione in età lavorativa, contro il 27% della media dei Paesi Ocse. Mentre gli italiani in possesso di laurea sono solo il 14%, la metà della media Ocse (30%) (Oecd, Education at a Glance 2011: Oecd Indicators, Oecd Publishing, 2011). A queste considerazioni sui tassi di istruzione formale della popolazione italiana bisogna aggiungere l'ampiezza sorprendente di un fenomeno che sembrava retaggio di un lontano passato. Se l'analfabetismo in senso stretto, ossia l'incapacità di leggere e scrivere, si riduce, secondo i dati Istat (L'Italia in cifre, 2011), alla percentuale dell'1,5% (certo ben altra cosa rispetto al 70% di analfabeti riscontrati dieci anni dopo l'unificazione e perfino rispetto all'8,3% rilevato nel 1961, a cent'anni dall'Unità), ben più ampio è quello che viene chiamato l'«analfabetismo funzionale», su cui da anni richiama l'attenzione Tullio De Mauro. L'analfabeta funzionale sa leggere e scrivere nella propria lingua, ma non sa usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle più semplici situazioni della vita quotidiana (come comprendere le istruzioni mediche, controllare i conti forniti dalla banca, leggere articoli molto semplici di giornale ecc.). Due indagini comparative a livello internazionale, svolte nel 1999-2000 e nel 2004-05 e promosse dall'Ocse (Ials International Adult Literacy Survey - e All Adult Literacy and Lifeskills) su un campione di popolazione tra i 16 e i 65 anni, hanno denunciato un quadro sconfortante della situazione culturale italiana. Al campione sono stati somministrati questionari, uno molto elementare e cinque di difficoltà crescente, con lo scopo di rilevare la capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, a cui si sono aggiunte, nella seconda indagine, anche le capacità di problem solving. L'Italia ha mostrato le performance più modeste tra i Paesi europei in tutti gli ambiti di indagine. De Mauro, citando queste ricerche, ha recentemente sostenuto che «soltanto il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea». E ha aggiunto: «Tra i Paesi partecipanti l'Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici» (Analfabeti d'Italia, «Internazionale», n. 734, 2008). Assai preoccupanti sono anche i risultati dell'indagine Ocse-Pisa (Programme for International Student Assessment) che rilevano la percentuale di adolescenti analfabeti funzionali in lettura e comprensione di un testo scritto, competenze matematiche e nozioni scientifiche. Nelle prove del 2010 il 21,3% degli studenti italiani non risulta in grado di svolgere attività di lettura complesse, percentuale più elevata di quella di altri Paesi dell'Unione europea (più del doppio di quella rilevata in Finlandia dove l'analfabetismo è stato molto ridotto). Questi risultati internazionali sulle competenze degli studenti italiani mettono a fuoco non solo i bassi punteggi dell'Italia nel panorama europeo (in realtà è la scuola media a essere deludente, al contrario dei buoni risultati di quella primaria), ma anche le forti differenze interne al nostro Paese. Da recenti elaborazioni che comparano i dati Pisa e Pirls (Progress in International Reading Literacy Study) risultano forti differenze regionali (le competenze sono minime nelle isole, massime nel Nord Est); l'immagine complessiva che esse ci restituiscono è quella di una spaccatura tra Nord e Sud Italia per quanto riguarda il sistema scolastico nazionale. È interessante osservare l'evoluzione dei divari territoriali nella distribuzione delle competenze. Come mostrano Michela Braga e Daniele Checchi in un loro recente lavoro (Sistemi scolastici regionali e capacità di sviluppo delle competenze, «La Rivista delle Politiche Sociali», 3/2010), i risultati sono soprattutto due: il primo è che i divari territoriali non si attenuano nel corso della carriera scolastica e il secondo è la forte correlazione tra il livello di competenze e le caratteristiche dell'ambiente familiare (il grado di istruzione dei genitori, il prestigio occupazionale associato alle professioni ricoperte, le risorse economiche e quelle educative presenti in famiglia, il «capitale culturale» familiare in generale costituito dai libri posseduti, dalla presenza di computer, dalla possibilità di disporre di uno spazio individuale per lo studio). Anche se la scuola risulta in grado, quando efficace, di attenuare le differenze di origine sociale, non c'è dubbio che queste ultime costituiscono fattori sociali e culturali rilevanti nel processo di formazione dei giovani e nelle loro disuguaglianze cognitive e culturali. Diversamente da quanto la teoria ci insegna, il sistema scolastico italiano (nei suoi diversi gradi) non attenua, ma riproduce le disuguaglianze di opportunità derivanti dall'origine sociale. Quanto detto va nella stessa direzione di un approfondito studio economico (Eric A. Hanushek e Ludger Woessmann, The Role of Cognitive Skills in Economic Development, «Journal of Economic Literature», n. 46, 3/2008), che interviene nel dibattito sul ruolo dell'istruzione sullo sviluppo economico complessivo. I due autori spostano il fuoco dell'attenzione dai livelli di istruzione conseguiti alle competenze cognitive della popolazione, concludendo che i nuovi risultati mostrano una forte evidenza empirica della correlazione positiva tra queste, gli stipendi individuali e la crescita economica. A essere chiamata in causa è dunque soprattutto la qualità delle istituzioni scolastiche più che il mero tasso di scolarità, misurata da test internazionali comparabili in matematica, scienza, lettura. Viene inoltre attribuita grande importanza ai contesti sociali ed educativi (famiglie, gruppi dei pari e altre agenzie di socializzazione), generalmente trascurati dalla maggior parte della ricerca sull'impatto economico dell'istruzione, ma su cui hanno spesso richiamato l'attenzione i sociologi. La parola-chiave è education, intesa come un ampio mix di input e di processi intergenerazionali e di esperienza che hanno un effetto formativo sul modo in cui si pensa, si affrontano i problemi e si agisce, processi che conducono all'acquisizione di conoscenza, abilità e valori. Anche se non appare interamente superato, a mio parere, il problema delle difficoltà di calcolo e di disponibilità di dati statistici di componenti qualitative dell'istruzione, questo studio mette in luce aspetti importanti del rapporto tra abilità cognitive e sviluppo economico. I meccanismi attraverso cui l'educazione influisce sulla crescita economica, individuati in questo lavoro, sono: a) l'aumento del capitale umano inerente alla forza lavoro, che accresce la produttività del lavoro; b) l'aumento della capacità innovativa dell'economia e della conoscenza su nuove tecnologie, prodotti e processi; c) lo stimolo alla diffusione e trasmissione di conoscenza necessaria per capire e processare nuova informazione e accrescere con successo nuove tecnologie inventate da altri. Sulla capacità di misurare l'importanza del capitale umano rispetto alla prosperità delle nazioni si è pubblicamente espresso con toni decisamente ottimistici Gary Becker, il cui volume del 1964 è un testo di riferimento per gli studi in questo ambito. Al Festival dell'Economia di Trento del 2007, Becker ha sostenuto: «È stata misurata anche l'importanza del capitale umano rispetto alla prosperità delle nazioni. Ancora una volta si tratta di un calcolo piuttosto difficile: approssimativamente, stimerei una percentuale pari al 70% di capitale umano rispetto a tutto il capitale di una società». Ma ha poi ritenuto di aggiungere: «Peraltro, la mancanza di dati certi sottolinea ancora una volta l'aspetto carente dei sistemi statistici nazionali». In sintesi, l'Italia si è inserita stabilmente nella scia dei Paesi più sviluppati per quanto riguarda i processi di scolarizzazione, seguendone le tendenze verso quella che viene chiamata la «società della conoscenza», ma persistono gravi carenze culturali. Nonostante l'espansione quantitativa dell'istruzione, infatti, in questo primo decennio del XXI secolo l'Italia appare nel complesso, e comparativamente agli altri Paesi europei, un Paese poco istruito, per non dire piuttosto ignorante, sia per quanto riguarda la bassa percentuale di individui con livelli di istruzione elevata sia per quanto riguarda la qualità delle conoscenze e dell'apprendimento sia, infine, per il diffuso analfabetismo nascosto, o funzionale, della popolazione adulta. Un risultato ritenuto consolidato negli studi sul capitale umano è che tanto più è elevato il livello di istruzione tanto maggiori sono i tassi di occupazione e la remunerazione del lavoro dell'individuo. Più un individuo prosegue negli studi, maggiore è l'incremento dei guadagni. Si osserva, tuttavia, un fenomeno peculiare della realtà italiana, che contraddice parzialmente questi risultati. Resta valida anche per l'Italia la correlazione tra livello di istruzione e tasso di occupazione: i dati Istat ci dicono che il tasso di occupazione aumenta all'aumentare del titolo di studio; i dati Eurostat (elaborati dall'Isfol nel Rapporto di monitoraggio del mercato del lavoro, 2011) lo confermano, ma evidenziano anche che negli ultimi dieci anni, mentre il tasso di occupazione dei laureati è rimasto sostanzialmente stabile nella media europea, nel nostro Paese si è ridotto di quasi 5 punti percentuali. Su questo piano, dunque, nel decennio passato le distanze dall'Europa si sono ampliate. La correlazione fra titolo di studio e livelli retributivi, quella considerata più rilevante ai fini di determinare l'impatto economico del capitale umano, appare per l'Italia ancora più incerta. Gli studi più recenti su dati della Banca d'Italia mostrano che la differenza retributiva fra laureati e diplomati è diminuita nel tempo (Fondazione Agnelli, I nuovi laureati. La riforma del 3+2 alla prova del mercato del lavoro, Laterza, 2012). È vero che i laureati mantengono un vantaggio retributivo, per quanto esiguo, ma esso risulta in calo a partire dall'inizio degli anni Novanta. La variazione nel tempo delle remunerazioni dell'istruzione è stata analizzata in uno studio di Paolo Naticchioni, Andrea Ricci ed Emiliano Rustichelli che ha utilizzato i dati dell'indagine della Banca d'Italia dedicata a I bilanci delle famiglie italiane per il periodo compreso tra il 1993 e il 2004. Il campione su cui si è sviluppata l'analisi è costituito dai lavoratori dipendenti nel settore privato. Il livello di istruzione è misurato in quattro categorie: istruzione elementare, media, secondaria, terziaria. La ricerca dimostra che i rendimenti dei titoli di studio di livello universitario e di scuola media superiore tra il 1993 e il 2004 sono diminuiti in modo consistente e statisticamente significativo. Un discorso analogo vale anche quando si utilizzano informazioni più dettagliate sulla tipologia della laurea conseguita. La diminuzione dei rendimenti dell'istruzione è evidente per le lauree umanistiche e professionali, mentre per le lauree scientifiche i rendimenti, pur riducendosi nel tempo, non manifestano una variazione statisticamente significativa. Andamenti decrescenti si riscontrano anche per il diploma di scuola media superiore, che riguarda sia i licei sia gli istituti tecnici. È soprattutto dalla comparazione con altri Paesi europei che emerge la peculiarità italiana. I rendimenti dell'istruzione terziaria sono sotto la media europea di 12 punti percentuali (36 versus 48%). Inoltre, se in Italia i rendimenti tendono a diminuire o a restare stabili, nei Paesi anglosassoni aumentano notevolmente, producendo una crescita dei redditi da lavoro delle persone qualificate rispetto alle non qualificate. Anche il già citato rapporto dell'Isfol sottolinea che il guadagno relativo garantito da un maggior livello di scolarizzazione tende nel tempo, tra il 2005 e il 2010, a decrescere. Due sono le possibili spiegazioni: la prima è l'inadeguatezza del sistema formativo e del nostro capitale umano. Vi sarebbe una discrepanza tra le competenze acquisite e quelle richieste dal mercato del lavoro. Cinquant'anni fa una laurea era in grado di assicurare l'accesso alle occupazioni più prestigiose e qualificate; non così oggi. Né questa funzione è svolta, come invece avviene all'estero, dalla diversità e dalla differenziazione qualitativa delle istituzioni (accanto alle istituzioni universitarie compaiono i politecnici, le grandes écoles e così via), in quanto in Italia questa differenziazione non esiste. Tale situazione astrattamente ugualitaria, o meglio indifferenziata, non previene però, come sottolinea tra gli altri Daniele Checchi (Immobilità diffusa. Perché la mobilità intergenerazionale è così bassa in Italia, Il Mulino, 2010), il consolidarsi della stratificazione sociale. Anzi, l'Italia si caratterizza come uno dei Paesi in cui la mobilità intergenerazionale è minore. Segno, questo, che l'accesso alle posizioni d'élite è ottenuto indipendentemente dalla struttura istituzionale del sistema scolastico, in base soprattutto alle reti familiari. La seconda spiegazione è la scarsa propensione all'innovazione da parte delle imprese nazionali. Queste, nonostante i cambiamenti avvenuti, hanno ancora caratteristiche strutturali inadeguate alla domanda di competenze elevate da parte dell'economia della conoscenza. Chi privilegia tale interpretazione non si limita a sottolineare la piccola dimensione delle imprese in Italia, ma chiama in causa la specializzazione produttiva in settori tradizionali, la gestione familiare e la mancanza di cultura imprenditoriale. Si verifica così una sorta di paradosso: i giovani con livelli superiori di istruzione sono, come si è visto, pochi, molti meno che negli altri Paesi avanzati, ma il nostro sistema produttivo non è in grado di assorbire nemmeno questi. Questa situazione paradossale si esprime nella differente composizione del mercato del lavoro italiano rispetto agli altri Paesi europei. Secondo i dati Eurostat i giovani adulti italiani occupati (da 20 a 39 anni) risultano sistematicamente meno rappresentati dei loro colleghi europei nelle professioni intellettuali e dirigenziali, ad alto livello di qualificazione e, diversamente da questi, assai penalizzati rispetto alla popolazione complessiva. In Italia sono il fanalino di coda: sono solo il 9,9% contro il 14,2% della Spagna, il 17,5% della Germania, il 18,2% della Francia, il 22,4% della Svezia e il 26,6% della Gran Bretagna. Questo fenomeno è stato solo accentuato dalla crisi, in quanto era già presente negli anni precedenti, almeno dal 2004. Si è dunque registrata una riduzione della quota di occupati in professioni specializzate in controtendenza rispetto agli altri Paesi dell'Unione europea, dove al contrario è cresciuta. In Italia, dunque, i giovani adulti, benché più istruiti degli ultraquarantenni, hanno minori occasioni di svolgere una professione intellettuale e dirigenziale qualificata. Come è stato sottolineato da studiosi del mercato del lavoro, come Emilio Reyneri, una non apprezzabile peculiarità italiana è quella di penalizzare fortemente proprio i giovani più istruiti. In Italia le posizioni più qualificate si raggiungono più per l'anzianità di servizio che non per le competenze acquisite nel sistema educativo. Scarsa propensione all'innovazione e mancanza di selezione meritocratica, assai più che una valorizzazione dell'esperienza lavorativa, come un'interpretazione più benevola potrebbe suggerire, sembrano essere all'origine di questa situazione. Segnali non certo incoraggianti per il futuro delle giovani generazioni e dell'Italia. Loredana Sciolla («il Mulino» n. 464/12) Ripensare il reale nell'epoca del digitale - Le dimensioni in gioco sono online e offline, analogico e digitale. Non mondi esclusivi tra cui scegliere: la realtà è comunque una. «Digi-nativi» e «digi-immigrati» imparino a sfruttare la «convergenza» delle due sfere, ricreando le proprie relazioni. Un forte vento spinge inarrestabilmente l'angelo della storia verso il futuro. «Ciò che noi chiamiamo progresso è questa bufera», scriveva Walter Benjamin nelle sue «Tesi di Filosofia della storia», prendendo l'acquarello di Paul Klee, Angelus Novus, come emblema del drammatico passaggio al futuro. Il futuro è spesso minaccioso, soprattutto dopo che il mito del progresso è stato scalzato dall'immagine della società del rischio. Ma a volte la minaccia non è che il prodotto di un'incapacità di leggere il nuovo con uno sguardo orientato in avanti. Secondo Marshall McLuhan, tendiamo a «guardare il presente dallo specchietto retrovisore». Ciò che è nuovo ci spaventa, ci suscita un senso di perdita e nostalgia di qualcosa che diventa più desiderabile nel momento in cui sembra scomparire: cosa che spiega, banalmente, l'attuale successo del vintage, o la fascinazione per l'aria rétro che assumono oggi le foto grazie ai filtri di Instagram. Ma i mutamenti non possono essere arrestati. Lo scriveva già negli anni Cinquanta Romano Guardini, nelle sue Lettere dal Lago di Como: «Non dobbiamo opporci a ciò che è nuovo e cercare di preservare un mondo meraviglioso che sta inevitabilmente scomparendo». I cambiamenti possono però essere indirizzati, se si riesce a interpretarli. Negli anni Novanta al centro delle preoccupazioni erano i processi di globalizzazione, che hanno profondamente modificato sia il senso di ciò che è locale, sia la nostra percezione del mondo nella sua interezza, ridefinendo le due dimensioni come sempre più interdipendenti e difficilmente separabili (tanto che Roland Robertson coniò nel 1995 l'aggettivo glocal). Oggi, peraltro, la consapevolezza dell'interdipendenza nel villaggio globale è parte del dato per scontato, e la polarizzazione-competizione tra i due poli ormai superata. «Globale» è diventato sinonimo di «presente» e di «mondo», anche se i problemi non mancano. Se l'angelo della storia guardava con apprensione la piena trasformazione del mondo in villaggio globale negli anni Novanta, nel nuovo millennio è invece allarmato spettatore di nuovi processi, all'insegna, questa volta, della digitalizzazione. Le dimensioni in gioco sono oggi online e offline, o, meglio ancora, analogico e digitale. La terminologia che ha accompagnato l'inizio del dibattito, quella che contrapponeva il reale-materiale al virtualedigitale (con le sfumature valutative implicite di autentico per il primo e inautentico per il secondo), è infatti oggi superata e falsificata dalle pratiche e dai vissuti. La tendenza a discutere il digitale come una realtà virtuale separata da quella fisica contrasta infatti con l'esperienza e i significati attribuiti alla rete da chi la usa; anzi, è causa di incomprensione e fraintendimenti, perché definisce la questione in modo da precludere la comprensione di quanto sta effettivamente accadendo. Anche il digitale è, infatti, reale. Certamente lo è per i giovani, che ne hanno fatto una dimensione cruciale della loro socialità, come mostrano le ricerche empiriche (tra le quali mi permetto di citare quella da me pubblicata per l'editrice Vita e Pensiero in Abitanti della rete, 2010, i cui risultati erano già decisamente antidualisti). I due mondi non sono separati, antagonisti, bensì costituiscono articolazioni diverse dei quotidiani contesti esperienziali, relazionali, comunicativi. Una distinzione, quella tra materiale e digitale, forse destinata a diventare a sua volta pleonastica, come quella tra locale e globale: c'è infatti chi, come Luciano Floridi, sostiene che la nostra - quella degli «immigrati digitali» sarà l'ultima generazione a distinguere ancora tra online e offline (La rivoluzione dell'informazione, 2012). Il quadro oggi è complesso: da un lato i digi-entusiasti (i «nativi») sono troppo «dentro» per distinguere le insidie dell'ambiente, che pur ci sono; dall'altro i digi-pessimisti (gli «immigrati») rischiano di essere troppo «fuori» per coglierne pienamente la portata e sono inclini a vederne solo i rischi. La posizione «no digital» appare peraltro irrealistica, oltre che insostenibile. In ogni epoca storica (pensiamo alle preoccupazioni di Platone rispetto alla scrittura) ogni nuovo medium è stato visto come una potenziale minaccia disumanizzante e valutato, almeno inizialmente, soprattutto sulla base di ciò che sembrava togliere. È successo, senza andare troppo indietro nel tempo, anche per la televisione. Purtroppo la traiettoria tipica è quella di un passaggio assai rapido dai timori e da una più o meno esplicita demonizzazione a un'accettazione acritica, fautrice di una incorporazione banale, che non si interroga su come ogni nuovo medium - già lo scriveva McLuhan negli anni Sessanta - non si aggiunga semplicemente al nostro ambiente, ma ne modifichi l'ecologia, costringendo l'insieme a riconfigurarsi, e sollecitando l'acquisizione di nuove consapevolezze. In questo processo di «rimediazione», i vecchi media non si cancellano, ma cambiano di significato: oggi, per esempio, la macchina fotografica non è scomparsa ma è per pochi cultori del genere, mentre nell'ordinarietà le foto si scattano con gli smartphones, per poterle immediatamente condividere. Lo scarto tra acquisizione tecnica e capacità di elaborarne i significati dal punto di vista antropologico è esattamente una delle ragioni per cui ci lasciamo sedurre - o schiacciare - dalle tecnologie, anziché «abitarle», come suggeriva lucidamente Günther Anders parlando di «dislivello prometeico» (L'uomo è antiquato, 1956), e ancor prima Ortega y Gasset con l'immagine del «primitivo tecnicizzato». L'era digitale, con la sua comunicazione smaterializzata, ha prodotto una nostalgia dell'analogico, e anche il rischio, che alcuni studiosi giustamente sottolineano, di una feticizzazione del reale (in primis Nathan Jurgenson, che usa l'espressione IRL fetish, dove IRL sta per in real life). Ma perché dovremmo coltivare il mito di una realtà «pura», incontaminata dal digitale? Forse questa nostalgia è il frutto di un errore di interpretazione. Oggi viviamo infatti in una realtà mista, fatta di atomi e bit, di organico e di tecnologico, di carbonio e di silicio. Dove la compresenza fisica, tra l'altro, non è certo di per sé garanzia di autenticità e pienezza relazionale e comunicativa. Se vogliamo leggere i segni dei tempi, e vivere con consapevolezza e libertà il nostro presente, è urgente affrontare la questione del digitale con uno sguardo purificato dai pregiudizi, e cercare di comprendere senza timori il carattere della realtà oggi. Possibilmente mettendoci le mani: hands on è uno dei principi dell'etica hacker, diventato ormai habitus per i nativi digitali. Un po' meno per gli immigrati, che si precludono così la possibilità di comprendere i significati del nuovo ambiente, evidenti solo a partire dall'esperienza. La domanda non è dunque se il digitale è reale (comunque, la risposta è affermativa), ma come (ri)pensare il reale nell'era del digitale. Una ontologia della nostra era, oltre che urgente, è la condizione di una vita buona, di un'etica al tempo della rete. E forse, come suggerisce Antonio Spadaro nella sua riflessione sulla cyberteologia, anche di un ripensamento della fede alla luce di quanto il digitale ci fa comprendere di essa in modo nuovo. Il pregiudizio fondamentale da scardinare, più radicato di quanto si pensi, è quello che il già citato giovane sociologo americano, Nathan Jurgenson, molto attivo sul web, ha efficacemente definito «dualismo digitale». Come sostiene Jurgenson (ma sono sulla stessa posizione anche Barry Wellman, Mark Deuze, Luciano Floridi, solo per fare qualche altro nome) il dualismo digitale va superato, perché ci impedisce di comprendere e interpretare il presente. Analogico e digitale non sono due mondi distinti tra i quali dobbiamo scegliere; e il loro non è un rapporto a somma zero, dove una dimensione toglie tempo e ruolo all'altra. L'esperienza ci insegna piuttosto che non saper sfruttare la loro «convergenza» provoca una perdita: le relazioni che non sfruttano le opportunità di «manutenzione» offerte dal web e restano dipendenti dai vincoli spaziotemporali, per esempio, sono destinate a impoverirsi. E forse anche l'idea stessa di faccia a faccia va ripensata: nell'incontro, infatti, portiamo ciò che ci siamo scritti, detti, mostrati online; esso a sua volta diventa oggetto di scambi sul web. L'online è ormai incorporato nel nostro modo di guardare la realtà e fare esperienza di essa. E ciò che esprimiamo in rete non è il nostro alter ego digitale, ma siamo noi. L'essere umano è uno, e così la realtà. Ma c'è di più: non solo non dobbiamo, ma non possiamo separare materiale e digitale (come, da cristiani, possiamo distinguere, ma non separare, per esempio, materia e spirito, contemplazione e azione, silenzio e parola, pathos e logos, verità e vita). La realtà, infatti, è una: ricca, diversificata, materiale e immateriale insieme; e mai totalmente riducibile al qui-ora, alla pura presenza fisica. Forse la rete, da questo punto di vista, aiuta. Va dunque ripensata la cornice entro la quale i singoli cambiamenti acquistano significato. La cultura contemporanea tende a oscillare tra i due ugualmente indesiderabili estremi di un «monismo materialista» (efficace espressione del teologo benedettino Ghislain Lafont), che è inevitabilmente riduzionista, e di un dualismo digitale che divide e oppone ciò che sempre più si costruisce, invece, entro un legame di reciprocità e interdipendenza. Esistono dunque le condizioni per passare da una fenomenologia del digitale a una rinnovata riflessione ontologica (che cos'è la realtà nell'era digitale?); e per un'antropologia diversa da quella del cyborg, un modello ben poco allettante - che tenga conto del mutato ambiente, del fatto che non siamo mai completamente disconnessi, anche quando i dispositivi sono spenti, e che il qui-ora è ormai sempre più «misto». Una ontologia che però non suoni semplicemente le campane della realtà aumentata: un concetto a sua volta da problematizzare, poiché ad alto rischio di ideologia e retorica se estrapolato dal livello puramente fenomenologico (l'aumento di strati di informazione non è infatti di per sé un aumento ontologico). Nathan Jurgenson ha suggerito una tipizzazione del dualismo digitale e della visione a esso contrapposta, quella della realtà aumentata (in http://thesocietypages.org/cyborgology/2012/10 /29/strong-and-mild-digital-dualism/), che ripropongo, modificata e rivista alla luce delle considerazioni fatte fin qui. Sia il dualismo digitale sia la realtà aumentata si presentano, a seconda dei contesti, in una versione «radicale» e una «moderata», che non vanno sovrapposte, né confuse. Il dualismo radicale è ben espresso in alcuni dialoghi del film Matrix: in una scena, l'esperto Morpheus spiega al neofita Neo che «Matrix è ovunque. È intorno a noi. [...]. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità», mentre in un'altra scena l'agente Smith osserva: «A quanto pare lei sta vivendo due vite distinte. In una di queste lei è Thomas A. Anderson, programmatore per una rispettabile società informatica [...]. L'altra vita lei la passa al computer, è una celebrità tra gli hacker con il soprannome di Neo [...]. Una di queste vite ha un futuro, l'altra invece no». Più in generale, si presuppone che materiale e digitale siano separati, abbiano proprietà diverse, competano per la supremazia. Non c'è relazione tra i due, se non nella forma negativa della contrapposizione. Il digitale non è reale ma virtuale e minaccia la «vera» realtà. Applicando la terminologia che Lévinas utilizza per parlare dell'identità personale, si può dire che il virtuale è, rispetto alla realtà materiale, aliud, alterità radicale. Nella versione moderata (quella di Sherry Turkle in Insieme ma soli, per esempio) i due mondi sono separati, ma interagiscono. Tuttavia il digitale, da un lato, è un reale impoverito, dall'altro costituisce una minaccia per la realtà materiale, e soprattutto per le relazioni in presenza, sottraendo tempo ed energie, ma anche capacità relazionali, all'incontro faccia a faccia. Secondo la versione radicale della realtà aumentata non c'è più alcuna differenza tra reale e digitale: siamo tutti cyborg, non esiste più un'esperienza propriamente offline. I due mondi sarebbero ormai totalmente sovrapposti e indistinguibili. La realtà è una, ma senza differenze (solo equivalenze). La versione moderata vede invece un rapporto di unità nella differenza tra analogico e digitale: due ambiti reali, diversi ma parte di un'unica realtà, che non solo interagiscono, ma si definiscono reciprocamente. Il digitale è alter, alterità in relazione e costitutiva. È questa la prospettiva da esplorare e approfondire. Se la realtà aumentata caratterizza il livello fenomenologico, quello che possiamo definire «realismo digitale» ne rappresenta il correlato sul piano ontologico, come declinazione contemporanea di quel realismo critico (per il quale la realtà esiste, ma ciò che è non si riduce a ciò che appare) sostenuto da un importante filone di pensiero che va da Lonergan ad Archer, a Donati. Un «monismo plurale» in cui non c'è contrapposizione, per quanto li si possa distinguere, tra atomi e bit, bensì «unità nella differenza». Forse il web, in questa chiave, ci può persino aiutare a ridimensionare la pesante eredità del dualismo che, da Platone a Cartesio, ha attraversato la cultura occidentale. Due sono i punti chiave di questo «realismo digitale»: la realtà esiste ed è complessa, multidimensionale, non riducibile alla somma delle sue parti; la realtà è comunque una. Il primo è ben illustrato dalla cosiddetta teoria dell'emergenza, che si iscrive nella tradizione del realismo critico: ci sono proprietà emergenti, che scaturiscono dall'interazione tra livelli di realtà sempre più complessi, che non esistevano prima di tale interazione, né erano prevedibili a partire dalle singole componenti (come le proprietà dell'acqua non sono ricavabili da quelle dell'idrogeno e dell'ossigeno). Il dualismo digitale impedisce la comprensione di quanto sta accadendo perché, tenendo separati i due livelli del materiale e del digitale, ne contrappone le proprietà intrinseche e si preclude di cogliere la realtà che «emerge» dalla loro interazione. Sia idrogeno sia ossigeno alimentano la fiamma, mentre l'acqua la spegne: una proprietà non desumibile dalle due sostanze componenti prese isolatamente. Così è per la realtà mista, che oggi va sempre più prendendo forma. L'emergentismo è l'opposto del riduzionismo (posizione alla quale è ascrivibile, tra l'altro, anche il determinismo tecnologico): anziché ridurre il complesso al semplice, come fa quest'ultimo, cerca di cogliere il nuovo che si produce a partire dalla complessità. Ma la realtà multidimensionale è comunque una. Distinguere i livelli non significa separarli. Come opportunamente suggerisce Ghislain Lafont (Che cosa possiamo sperare?, 2011), «tra il dualismo di due cose e il monismo di una sola, c'è l'unità dell'essere distintamente composto». Un essere che non è il prodotto delle macchine (secondo un determinismo tecnologico che alimenta a sua volta l'ipotesi dualista) né un artefatto totalmente umano (secondo l'ipotesi prometeica che ha mostrato tutta la sua fragilità, oltre che gli orrori di cui è capace). Un essere che va prima di tutto ascoltato. Riconoscere la ricchezza e pluralità del reale è un passo per liberarsi dalla prigione del materialismo. E per riaprire la via del simbolico, dello spirituale e, perché no, anche del trascendente. Chiara Giaccardi («Vita e Pensiero» n. 6/12) La ricerca farmaceutica è affidabile? - Le aziende farmaceutiche pagano scienziati per importanti ricerche che riguardano i loro prodotti. E nessuno sembra in grado di fermarle. Quando Robert Lindsay decise di dedicarsi alla ricerca medica, all'inizio degli anni settanta, non lo fece per denaro. Il suo campo di interesse, l'effetto degli ormoni sul tessuto osseo, era in fase di stasi. Per un giovane ricercatore quel campo era un'opportunità per lasciare il segno e, almeno così sperava, per aiutare migliaia di persone che soffrivano di osteoporosi. A volte, quando il corpo invecchia, le ossa perdono la capacità di ricostruire il proprio tessuto con la rapidità necessaria a tenere il passo del normale processo di usura, e lo scheletro si indebolisce. Nessuno capiva granché delle dinamiche di questo fenomeno, compreso Lindsay. Ma c'erano buone ragioni per credere che fossero coinvolti gli ormoni. Alcune donne sviluppano osteoporosi subito dopo la menopausa, quando i loro livelli ormonali crollano bruscamente, forse alterando il bilancio fra formazione e distruzione del tessuto osseo. Se era così, pensava Lindsay, la sostituzione degli ormoni con una pillola avrebbe bloccato o addirittura invertito la progressione della malattia. A Glasgow, in una clinica piccola e con pochi finanziamenti, il giovane ricercatore aveva programmato uno dei primi trial della terapia ormonale sostitutiva a base di estrogeni per la perdita di tessuto osseo in donne in postmenopausa. La stella di Lindsay stava sorgendo. Il suo progetto successivo ebbe enormi implicazioni commerciali e catturò l'attenzione dell'industria farmaceutica. Dopo essersi trasferito all'Helen Hayes Hospital, un centro di riabilitazione a nord di New York, nel 1984 Lindsay aveva pubblicato uno studio in cui determinava la dose minima efficace di un farmaco antiosteoporotico con estrogeni chiamato Premarin. I risultati suggerivano che combattere l'osteoporosi equivaleva a incoraggiare milioni di donne a usare il farmaco, e questo aveva reso Lindsay un personaggio di spicco agli occhi di WyethAyerst Laboratories, azienda produttrice di farmaci, che in effetti arruolò Lindsay tra gli autori del proprio video informativo Osteoporosi: una tragedia che si può prevenire. A metà degli anni novanta, quando Wyeth fu coinvolta in una lite brevettuale relativa al Premarin, Lindsay era un alleato fedele dell'azienda. Il ricercatore si era espresso contro l'approvazione di una versione generica del farmaco che avrebbe fatto perdere quote di mercato, anche se il generico avrebbe facilitato l'accesso alla terapia. Secondo Lindsay, un farmaco generico avrebbe potuto non essere del tutto equivalente al farmaco registrato (o «griffato»), un fatto che in alcuni casi può essere vero. Questa posizione però era anche in linea con la posizione dell'azienda. «Tutto ciò che chiediamo è di non approvare qualcosa di cui in futuro ci pentiremo», dichiarò all'Associated Press nel 1995. Lo stretto rapporto di Lindsay con Wyeth e altre case farmaceutiche proseguì per decenni, con modalità spesso nascoste. Il ricercatore consentì a Wyeth di scrivere le bozze dei suoi articoli e incassò decine di migliaia di dollari da interessi farmaceutici che avevano tutto da guadagnare dalle sue ricerche. Lo scandalo non è quello che ha fatto Lindsay, dal momento che il suo è un caso tipico. Negli ultimi anni le case farmaceutiche hanno trovato molti modi per mettere ingenti somme di denaro - in alcuni casi sufficienti per garantire a un figlio la frequenza all'università - nelle tasche di medici indipendenti che effettuano ricerche riguardanti, in modo diretto o indiretto, farmaci in fase di produzione o commercio da parte di queste aziende. Il problema non riguarda solo imprese e ricercatori, ma il sistema nel suo insieme: istituzioni finanziatrici, laboratori, riviste specialistiche, ordini professionali e così via. Nessuno offre un sistema di controllo in grado di evitare conflitti di interesse. Le organizzazioni, invece, sembrano scaricarsi tra loro le responsabilità, lasciando spazi nell'applicazione di regole in cui ricercatori e aziende si destreggiano con facilità, per poi prendere decisioni coperte da segreto. «Non c'è un solo settore della medicina o della ricerca accademica, né della formazione medica, in cui i rapporti con le aziende non siano un elemento assai diffuso», afferma il sociologo Eric Campbell, professore di medicina alla Harvard Medical School. Questi rapporti non sono sempre negativi. Dopo tutto, senza l'aiuto delle aziende i medici che fanno ricerca non sarebbero in grado di tradurre le proprie idee in nuovi farmaci. Allo stesso tempo, sostiene Campbell, alcuni di questi rapporti coinvolgono gli scienziati nella vendita di prodotti farmaceutici, invece che nella produzione di nuova conoscenza. Il rapporto fra ricercatori e case farmaceutiche può assumere forme diverse. Ci sono gli speaker bureau: un'azienda finanzia i viaggi di un ricercatore - spesso in prima classe - in tutto il paese, dove a volte il ricercatore tiene un discorso e mostra diapositive preparati entrambi dall'azienda. Poi c'è il lavoro di ghostwriting: un produttore scrive la bozza di un articolo e paga uno scienziato per firmarlo e sottoporlo al giudizio di una rivista peer review. Infine c'è l'attività di consulenza: un'azienda arruola un ricercatore per avere consigli. «I ricercatori credono che queste aziende li cerchino per la loro intelligenza, ma di fatto vengono dopo il marchio», dice Marcia Angell, già direttore del «New England Journal of Medicine». «Per ingaggiare un ricercatore universitario senior illustre, il tipo di persona che parla ai convegni, scrive libri e articoli specialistici, vale la pena spendere come per 100.000 venditori». Le riviste peer reviewed sono piene di studi che dimostrano come il denaro proveniente dall'industria farmaceutica stia indebolendo l'obiettività scientifica. Una ricerca del 2009 pubblicata su «Cancer» ha dimostrato che i partecipanti a uno studio vivevano più a lungo quando gli autori avevano conflitti di interesse rispetto a quando gli stessi autori non avevano interessi in gioco. Uno studio del 1998 pubblicato dal «New England Jounral of Medicine» ha trovato una «forte correlazione» fra le conclusioni dei ricercatori sulla sicurezza dei bloccanti dei canali del calcio, una classe di farmaci usati per ridurre la pressione del sangue, e il loro rapporto finanziario con le aziende che producono i farmaci. Non si tratta solo di un problema accademico. I farmaci sono approvati o respinti in base a ricerche apparentemente indipendenti. Quando una pillola non funziona come pubblicizzato e viene ritirata dal mercato o rietichettata come pericolosa c'è spesso un percorso di ricerche deviate e di compensi per gli scienziati. Per esempio diversi anni fa, quando i pazienti hanno cominciato a citare in giudizio Wyeth per un altro farmaco basato su estrogeni, Prempro (che è stato correlato al rischio di tumore al seno, ictus e altre malattie), gli accordi di Wyeth per l'attività di ghostwriting e firma di articoli previo pagamento sono diventati una parte centrale del caso. Anche quando è stata la volta dell'analgesico Vioxx, prodotto da Merck e che era stato collegato a infarto e ictus, è emerso il problema del denaro delle case farmaceutiche. In uno studio sul Vioxx, per esempio, sembra che alcuni ricercatori universitari abbiano sottoscritto un progetto sponsorizzato da Merck dopo che l'azienda aveva già effettuato tutte le analisi dei dati. Secondo uno studio del 2010 pubblicato sul «British Medical Journal», l'87 per cento dei ricercatori che hanno dato «parere favorevole» al farmaco per il diabete Avandia, prodotto da GlaxoSmithKline, sebbene ci fossero indicazioni sul fatto che potesse aumentare il rischio di infarto, avevano rapporti finanziari con il produttore del farmaco. E quando una commissione della Food and Drug Administration statunitense ha iniziato a valutare se ritirare o meno Avandia dal mercato a causa del collegamento con gli episodi di infarto è emerso anche che alcuni membri della commissione prendevano denaro dalle case farmaceutiche. La risposta della comunità scientifica al problema del conflitto di interesse è: trasparenza. Riviste specialistiche, istituzioni che finanziano la ricerca e organizzazioni professionali fanno pressione sui ricercatori affinché dichiarino apertamente - ai soggetti delle loro ricerche, ai colleghi e a chiunque altro sia coinvolto nelle loro attività - quando hanno rapporti che potrebbero compromettere la loro obiettività. In questo modo è la comunità scientifica a decidere se uno studio è etico e, una volta che l'esperimento è stato effettuato, fino a che punto fidarsi dei risultati. È un sistema basato sull'onore. I ricercatori spesso omettono di riferire conflitti di interesse, a volte perché non si rendono nemmeno conto del fatto che questo è un problema. (Anche «Scientific American» chiede che sia rilasciata una dichiarazione volontaria sui conflitti di interesse da parte dei ricercatori che scrivono gli articoli). In teoria, c'è un sistema di riserva. Diversi livelli di controllo dovrebbero garantire che siano scoperti e resi pubblici i conflitti di interesse anche quando un ricercatore inconsapevole o disonesto non li dichiara. Quando uno scienziato non riferisce dell'esistenza di un simile conflitto è compito dell'università o dell'ospedale in cui lavora scoprirlo e comunicarlo. E quando un'università, o un ospedale, non fa il suo lavoro individuando ricerche con conflitti di interesse, allora dovrebbe scendere in campo l'agenzia governativa che finanzia la maggior parte di questi studi, come gli statunitensi National Institutes of Health (NIH). Purtroppo il sistema di riserva fa acqua da tutte le parti. «Spesso le istituzioni ragionano in modo opposto, oppure hanno politiche abbastanza deboli», dice Adriane Fugh-Berman, professore al Dipartimento di farmacologia e fisiologia della Georgetown University. Più incredibile ancora è constatare che gli NIH, oltre a non far rispettare norme etiche pensate per fermare la strisciante influenza del denaro delle case farmaceutiche, potrebbero addirittura violare quelle stesse norme. Il Parlamento degli Stati Uniti cerca di fermare la corruzione nel campo della ricerca medica attraverso l'approvazione di nuove leggi. Nel 2010, nell'ambito di un pacchetto di riforme sulla sanità, il Parlamento ha approvato il Physician Payments Sunshine Act. A partire dal 2013 la legge imporrà alle case farmaceutiche e ai produttori di dispositivi medicali di dichiarare la maggior parte dei soldi che versano nelle tasche dei medici. Dato che la maggior parte dei medici che fanno ricerca si occupano anche di pratica clinica, questi dati dovrebbero aiutare università e ospedali dove si fa ricerca e gli NIH a scoprire i casi in cui il medico che riceve un finanziamento ha un potenziale conflitto di interesse. Tuttavia, se non saranno usate, le informazioni andranno sprecate. Il caso di Robert Lindsay mostra quanto sia grave il problema delle ricerche mediche che hanno conflitti di interesse, e quanto sarà difficile rimediare. Un intrico di rovi Spesso gli sforzi che le case farmaceutiche compiono per influenzare le conferenze scientifiche iniziano dal ghostwriting. Quando un produttore farmaceutico riesce a indirizzare la stesura di un articolo è anche in grado di controllare, in gran parte, il modo in cui un risultato scientifico è compreso e usato dagli specialisti clinici e dai ricercatori. Uno degli articoli più prestigiosi di Lindsay, pubblicato nel 2002 e in cui si dimostrano gli effetti benefici del Prempro su donne in postmenopausa, venne inizialmente redatto da DesignWrite, azienda che era stata ingaggiata da Wyeth per scrivere per conto terzi articoli destinati alla pubblicazione su riviste peer reviewed. Dopo aver incontrato Lindsay a metà aprile 2001 per discutere l'impostazione dell'articolo, DesignWrite elaborò una scaletta e la spedì a Lindsay (e Wyeth). DesignWrite spedì una bozza a Lindsay all'inizio di giugno per avere i suoi commenti, effettuò analisi aggiuntive e corresse il manoscritto. In agosto il «Journal of the American Medical Association» (JAMA) approvò la pubblicazione. Successivamente, nello stesso anno, DesignWrite modificò nuovamente l'articolo in risposta ai commenti ricevuti, e il lavoro fu pubblicato nel maggio 2002. Alla fine dell'articolo, Lindsay e i suoi tre coautori ringraziarono Karen Mittleman per il suo aiuto editoriale, senza dichiarare che la donna era una dipendente di DesignWrite o senza rivelare i suoi rapporti con Wyeth. Lindsay nega che DesignWrite abbia avuto un ruolo di rilievo nella stesura dell'articolo del 2002 o di tutte le altre sue versioni. L'azienda, piuttosto, si sarebbe limitata semplicemente a «fornire una bozza seguendo le nostre indicazioni», ha dichiarato lo scienziato. Insieme agli altri coautori citati nel lavoro, era responsabile della concezione e della direzione presa dallo studio. Se così fosse, Lindsay meriterebbe di essere citato come coautore e a Karen Mittleman non dovrebbe essere riservato nulla più che un breve riconoscimento, secondo quanto afferma Phil B. Fontanarosa, direttore esecutivo di «JAMA». «Non è chiaro se le attività di Mittleman abbiano incluso concezione e progettazione dello studio, acquisizione dei dati o la loro analisi e interpretazione», mi ha scritto Fontanarosa in una e-mail. Questo uso di un'azienda esterna incaricata della stesura degli articoli non è stato un episodio isolato. Nel 2009 Kathleen Ohleth, che all'epoca lavorava per DesignWrite, ha aiutato Lindsay a scrivere un articolo per la rivista «Fertility and Sterility». (Dopo la mia intervista iniziale Lindsay si è rifiutato di rispondere a ulteriori domande, incluse quelle relative a chi ha pagato Ohleth nel 2009, e mi ha indirizzato a un addetto stampa). Anche due anni dopo, in un articolo pubblicato su «Osteoporosis International», Lindsay ha ringraziato Ohleth per la sua assistenza nella scrittura dell'articolo e ha ammesso che lo studio era stato finanziato da Pfizer (che nel 2009 aveva acquisito Wyeth), ma ha dichiarato di «essere l'unico autore responsabile della concezione e della direzione presa dal contenuto dell'articolo». In particolare l'articolo affermava che un gruppo di ormoni in fase di sviluppo presso Pfizer offriva «un nuovo paradigma per la terapia della menopausa». Nello stesso periodo in cui Lindsay accettava l'aiuto redazionale di Pfizer, stringeva anche un gran numero di accordi di natura economica che ponevano un potenziale conflitto di interesse. Secondo una banca dati compilata dal gruppo di giornalismo investigativo ProPublica, nel 2009 e nel 2010 Eli Lilly ha dato a Lindsay più di 124.000 dollari, la maggior parte dei quali per le sue prestazioni in qualità di conferenziere. La maggior parte delle riviste peer reviewed ha regole precise riguardo alle dichiarazioni di rapporti di natura economica. Per la precisione, quello che uno scienziato deve rendere noto dipende dalla materia in oggetto e dalla rivista, quindi è difficile individuare con esattezza quando un ricercatore viola queste regole. Lindsay ha reso pubblici i suoi rapporti con Lilly in un gran numero di articoli, ma non lo ha fatto in modo uniforme. Per esempio, in un articolo che riguardava uno studio sull'osteoporosi, pubblicato nel settembre 2010 dalla rivista «Mayo Clinic Proceedings», molti degli autori hanno dichiarato di essere nello speakers bureau, o di avere altre forme di rapporto con l'azienda; Lindsay tuttavia, pure lui fra i coautori, non ha fatto alcuna dichiarazione in questo senso. In seguito mi ha detto che aveva cambiato idea riguardo alla dichiarazione di questo tipo di rapporti: «Fino a poco tempo fa le mie dichiarazioni includevano qualsiasi casa farmaceutica i cui prodotti sono citati nelle mie presentazioni» o negli articoli, ha spiegato. «Ho cambiato un po' questa filosofia, perché ora, per garantire che ci sia una reale chiarezza, dichiarerei tutti i contatti». Nemmeno nei casi in cui l'oggetto dello studio era un prodotto di Lilly Lindsay rivelava sempre il suo rapporto economico con l'azienda. Lo studio che ha pubblicato nel 2008 sul «Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism», che riguardava il teriparatide, principio attivo alla base del Forsteo, commercializzato da Lilly, e la possibilità che interferisse con altri farmaci contro l'osteoporosi, non citava il fatto che Lindsay, negli anni precedenti, avesse ricoperto il ruolo di consulente e conferenziere per il produttore di Forsteo. «Dato che in questo studio tutti erano stati trattati con il teriparatide, non c'era la possibilità di creare un conflitto», ha sostenuto Lindsay. «E, naturalmente, lo studio non era stato finanziato in alcun modo da Eli Lilly». La dichiarazione incoerente di Lindsay va ben oltre gli articoli. Come eminente ricercatore, ha avuto un ruolo chiave nella pubblicazione delle linee guida che altri medici usano per curare l'osteoporosi. Nel 2008, per esempio, ha contribuito a sviluppare e scrivere Clinician's Guide to Prevention and Treatment of Osteoporosis, della statunitense National Osteoporosis Foundation. La guida, che è stata sottoscritta da numerose associazioni mediche, descrive le diverse opzioni terapeutiche, incluso il teriparatide. («Il teriparatide è in genere ben tollerato, sebbene alcuni pazienti avvertano crampi agli arti inferiori e vertigini», si legge). In un'apposita sezione la guida riporta che nessuno degli autori, Lindsay compreso, ha «un rapporto finanziario di rilievo con un qualsiasi interesse commerciale». Inoltre, apparentemente Lindsay ha omesso di citare questi potenziali conflitti quando ha fatto domanda per ricevere finanziamenti federali. Sebbene almeno dal 2004 fosse consulente di Lilly, nel 2005 ha chiesto agli NIH - l'agenzia statunitense responsabile della maggior parte della ricerca medica nazionale sostenuta dal governo federale - di finanziare uno studio sul Forsteo: Lindsay voleva effettuare biopsie di pazienti per vedere in che modo il farmaco incideva sulla loro struttura ossea. Ha ottenuto il finanziamento. Negli anni successivi gli NIH hanno finanziato gli studi di Lindsay sul farmaco con 3,4 milioni di dollari. Nel 2010 il ricercatore ha fatto domanda per un nuovo finanziamento per confrontare due modalità di somministrazione del Forsteo. Ancora una volta ha ottenuto il denaro, questa volta 364.000 dollari per il 2010 e ulteriori 345.000 dollari per il 2011. I regolamenti federali sui potenziali conflitti di interesse nei finanziamenti erogati dagli NIH stabiliscono che chi riceve i fondi debba identificare qualsiasi conflitto di interesse reale o apparente, e dichiarare in che modo questi eventuali conflitti sono stati gestiti, ridotti o eliminati. Il mancato rispetto di queste norme è una violazione della legge. Sembra abbastanza chiaro, ma in pratica non lo è affatto. La responsabilità dell'applicazione dei regolamenti passa da un'istituzione all'altra, fino al punto che spesso conflitti come quello di Lindsay sfuggono dalle crepe del sistema. Segui il denaro Ogni anno gli NIH finanziano la ricerca medica con decine di miliardi di dollari. Con tutto questo denaro in gioco il rischio di corruzione è enorme. Gli NIH non sono molto abili nell'arrestare la corruzione, perché non sono sufficientemente aggressivi nello scoprire i conflitti di interesse dal lavoro dei propri scienziati. Quando li ho contattati nell'ambito di questa inchiesta per avere informazioni sulle potenziali falle nelle regole etiche, i funzionari degli NIH hanno serrato le fila. Interrogato su possibili conflitti di interesse nei finanziamenti ricevuti da Lindsay per studiare il teriparatide, Faye Chen, funzionario degli NIH, si è rifiutato di fornire copie delle assicurazioni scritte dall'Helen Hayes Hospital, datore di lavoro di Lindsay - una documentazione richiesta delle leggi federali - in cui si affermava che i conflitti di interesse erano stati adeguatamente gestiti. Chen ha continuato ad affermare che era tutto in ordine. «L'impegno degli NIH è conservare la fiducia del pubblico sul fatto che le ricerche finanziate dall'agenzia sono condotte senza pregiudizi e secondo i più elevati standard scientifici ed etici», mi ha scritto in una email. E ha aggiunto: «Posso assicurarle che l'ente del Dr. Lindsay ha fornito le certificazioni richieste e le necessarie garanzie prima di ricevere il finanziamento, e che verrà chiesto loro di fornire questa certificazione ogni anno prima di ciascuna nuova assegnazione». I documenti ottenuti con una richiesta basata sul Freedom of Information Act non facevano cenno ad alcun potenziale conflitto di interesse, niente che indicasse che Lindsay riceveva denaro dal produttore del farmaco in fase di studio. I funzionari degli NIH non hanno rilasciato commenti sul fatto che avrebbero continuato o meno a seguire la questione. Le azioni degli NIH non dovrebbero sorprendere. Alcuni anni fa l'ufficio dell'ispettorato generale del Department of Health and Human Services ha messo le mani su comunicazioni interne degli NIH in cui si scopre che i dirigenti scoraggiano le inchieste sui conflitti di interesse fra i ricercatori finanziati dagli NIH. (Nell'interesse della trasparenza: mia moglie lavora per l'ufficio dell'ispettorato generale, ma non ha nulla a che vedere con questi studi o con questo articolo.) Per esempio, un memorandum affermava: «Non dovremmo cercare ulteriori dettagli sulla natura del conflitto di interesse o sul modo in cui è stato gestito, a meno che non ci sia una sufficiente preoccupazione programmatica che induca in questo senso». Il caso di Lindsay non sembra isolato. In tutti gli Stati Uniti ci sono scienziati che conducono ricerche finanziate dal governo e contemporaneamente prendono denaro da case farmaceutiche, comportamento che spesso pone un potenziale conflitto di interesse. Per avere la percezione della quantità di denaro che dalle case farmaceutiche finisce nelle tasche di ricercatori che ricevono finanziamenti dagli NIH, ho sfruttato una banca dati che contiene tutti i finanziamenti erogati dagli NIH tra il 2009 e il 2010, e ho usato la banca dati ProPublica, che contiene i pagamenti delle case farmaceutiche, per identificare quali ricercatori fossero sul libro paga dei produttori di farmaci. Nel solo Stato di New York abbiamo identificato pagamenti per 1,8 milioni di dollari erogati da poche aziende a beneficiari di finanziamenti degli NIH: si trattava di pagamenti per prestazioni effettuate negli speakers bureau, per consulenze e altri servizi. (Probabilmente il totale dei finanziamenti dati a ricercatori dello Stato di New York è molto più grande). Molti di questi pagamenti potrebbero non creare alcun reale conflitto di interesse. I ricercatori che ottengono un finanziamento dagli NIH non sono i soli a prendere denaro dalle case farmaceutiche: ci sono anche le persone che decidono quali ricercatori debbano ricevere i finanziamenti degli NIH. La banca dati ProPublica con cui ho identificato i pagamenti delle aziende a ricercatori finanziati dagli NIH mi ha anche permesso di individuare il flusso di denaro proveniente dalle aziende e diretto alle tasche dei membri delle commissioni consultive e di revisione e valutazione degli NIH. In questo modo abbiamo scoperto che 70 membri di commissioni consultive percepivano una somma superiore a un milione di dollari per partecipazioni a speakers bureau, consulenze e altri servizi prestati alle case farmaceutiche. Alcuni di questi pagamenti potrebbero violare le regole etiche federali, che vietano ai membri delle commissioni consultive di partecipare a decisioni che potrebbero influire su un'organizzazione dalla quale ricevono cospicue remunerazioni. Il problema, dunque, non si limita ai ricercatori che ricevono i finanziamenti degli NIH. Il denaro proveniente dalle case farmaceutiche si è infiltrato negli stessi NIH. Se l'agenzia fosse a conoscenza dei potenziali conflitti d'interesse dei suoi dipendenti e non facesse nulla per garantire che questi conflitti non incidano sulle decisioni dei comitati, violerebbe la legge. Per scoprirlo ho compilato una richiesta secondo il Freedom of Information Act chiedendo di consultare la documentazione che indicava se gli NIH sapessero, o meno, di pagamenti delle case farmaceutiche ai membri dei propri comitati e, in caso di risposta affermativa, se consentissero ai beneficiari di quei pagamenti di svolgere le proprie mansioni nonostante fossero sul libro paga di un produttore di farmaci. Gli NIH si sono rifiutati di consegnare questi documenti. Li ho citati in giudizio, e dopo una causa durata nove mesi un giudice federale ha costretto l'agenzia a rilasciare tutto ciò che aveva cercato di tenere nascosto. Alcuni dei documenti ottenuti grazie al procedimento legale implicano che la politica interna degli NIH sul conflitto di interesse è in gran parte dedicata a scoprire moduli mancanti. Inoltre, da questi documenti sembrerebbe che diversi istituti degli NIH non abbiano mai avviato neppure una singola azione di sostegno all'applicazione di norme contro il conflitto di interesse nei confronti dei propri impiegati fin dal 2008. Eppure i documenti più significativi, quelli che gli NIH hanno cercato disperatamente di tenere nascosti, hanno a che fare con quelli che sono definiti «accordi (o atti) di rinuncia». In circostanze limitate, gli NIH possono concedere un atto di rinuncia. ovvero un atto che esenta un impiegato governativo in conflitto (per esempio un membro di un comitato consultivo) dal rispetto di norme etiche. Ho chiesto informazioni sugli accordi di rinuncia che erano stati concessi a diversi membri dei comitati consultivi degli NIH, persone che conoscevo dalla banca dati ProPublica e da altre fonti, e che avevano ricevuto migliaia di dollari dalle case farmaceutiche. Volevo scoprire perché gli NIH permettevano a queste persone di far parte di comitati nonostante un potenziale conflitto e, informazione altrettanto importante, quale fosse la natura di questi conflitti. La maggior parte dei pagamenti provenienti dalle case farmaceutiche non era citata in quei documenti. Per esempio Louis Ptàcek, che all'epoca era membro del National Advisory Neurological Disorders and Stroke Council, aveva ottenuto il permesso di partecipare a un certo numero di riunioni, nonostante possedesse numerose azioni di case farmaceutiche, ma l'atto di rinuncia non citava il fatto che avesse ricevuto oltre 50.000 dollari da Pfizer in qualità di consulente. (Ptàcek non ha risposto a una richiesta di commento sulla faccenda.) Analogamente un atto di rinuncia per Arul Chinnaiyan, che fa parte del comitato scientifico del National Cancer Institute, non ha reso noto negli atti il fatto che avesse ricevuto 9000 dollari nel 2009 e 21.000 dollari nel 2010 da GlaxoSmithKline. Ma Chinnaiyan ha detto di aver comunicato questi accordi agli NIH. Perché, allora, non sono stati citati nel suo atto di rinuncia? Gli NIH non hanno fatto commenti su casi individuali. Un funzionario dell'agenzia ha accettato di parlare della politica generale, ma solo a condizione di non essere nominato. In generale i compensi per le prestazioni di consulenza e per gli accordi degli speakers bureau, mi ha spiegato questa persona, non sono inseriti in un atto di rinuncia, ma in un documento separato che tratta di problematiche specifiche relative a quali membri del comitato debbano astenersi dalle proprie funzioni a causa di conflitti di interesse. Quando questo articolo è andato in stampa Susan Cornell, funzionario del Freedom of Information Act presso gli NIH, ha confermato che l'agenzia non era riuscita a consegnare documenti riguardanti alcune astensioni per conflitto di interesse in risposta alla mia richiesta basata sul Freedom of Information Act, come invece avrebbe dovuto fare. La divulgazione incoerente di documenti da parte degli NIH e la segretezza che li circondava hanno reso impossibile stabilire con certezza che cosa stava accadendo. Come minimo, nel controllare i potenziali conflitti, gli NIH fanno un lavoro approssimativo. Per esempio, se accordi di consulenza appartengono a un documento di astensione, come mai gli accordi di consulenza stipulati fra Lawrence R. Stanberry e GlaxoSmithKline compaiono sui suoi atti di rinuncia? (Stanberry, direttore del Dipartimento di pediatria del College of Physicians and Surgeons della Columbia University siede nel comitato dei consulenti scientifici del National Institute of Allergy and Infectious Diseases). E come mai la rinuncia non include il lavoro di consulenza che Stanberry ha svolto per conto di SanofiPasteur? «Non so perché la consulenza a Sanofi-Pasteur non è stata inserita nella rinuncia», mi ha scritto Stanberry in una email. Forse i funzionari incaricati di produrre i documenti relativi alla rinuncia hanno fatto degli errori. Applicare le regole: il gioco delle tre carte Le informazioni ottenute con un'altra richiesta sempre secondo il Freedom of Information Act, questa volta presentata all'Office of the Government Ethics l'agenzia incaricata di garantire che le agenzie governative come gli NIH seguano le regole etiche - implicano che gli NIH non rispettano le regole federali sugli atti di rinuncia. Dal punto di vista del governo, concedere una rinuncia è una questione seria; sostanzialmente significa garantire l'immunità da una legge, ed è un provvedimento che dovrebbe essere attuato soltanto di rado e con una supervisione rigorosa. Le regole federali impongono che gli NIH debbano confrontarsi con l'Office of the Government Ethics prima di concedere questi privilegi. Negli ultimi anni gli NIH hanno rilasciato decine di rinunce simili a favore di membri dei comitati consultivi, ma dal 2005 l'ufficio etico ha documentato solo tre episodi in cui gli NIH si sono consultati con l'ufficio, come richiesto, e nessuna delle rinunce in questione riguardava un membro di un comitato consultivo. Ho chiesto spiegazioni a funzionari dell'agenzia, i quali hanno risposto che gli NIH erano perfettamente in linea con i regolamenti federali nei casi in cui si trattava di rilasciare atti di rinuncia, ma non hanno fornito prove del fatto che l'agenzia si consultava con l'Office of the Government Ethics quando rilasciava queste rinunce, come richiesto dalla legge. Le istituzioni che gestiscono finanziamenti dovrebbero fornire un ulteriore controllo sul conflitto di interesse, ma in realtà non lo fanno. Storicamente gli NIH non si sono assunti la responsabilità di controllare i conflitti di interesse nelle ricerche che finanziano. Nel 2007, in risposta a un reclamo dell'Office of Inspector General riguardo il fatto che la gestione dei conflitti di interesse da parte dei National Institutes of Health era tragicamente inadeguata, Elias Zerhouni, che allora dirigeva l'agenzia, ha dichiarato che non era compito degli NIH stabilire se i beneficiari dei suoi finanziamenti rispettavano le leggi etiche. «Riteniamo che sia fondamentale mantenere l'obiettività nelle ricerche», ha scritto in una lettera all'Office of Inspector General, «tuttavia le responsabilità per l'identificazione dei conflitti di interesse di natura finanziaria devono rimanere a carico degli istituti per cui lavorano i beneficiari dei finanziamenti». I funzionari degli NIH affermano che la politica non è cambiata. E tuttavia anche gli istituti dei beneficiari hanno esempi di casi in cui non sono stati affrontati problemi di natura etica che coinvolgevano i loro ricercatori. Un rapporto del 2009 dell'Office of Inspector General ha analizzato il modo in cui le organizzazioni che ricevono finanziamenti dagli NIH scoprono potenziali conflitti di interesse. Il 90 per cento lasciava alla discrezione del ricercatore l'identificazione di qualsiasi problema. Addirittura le istituzioni che sposano pubblicamente una linea dura contro i conflitti di interesse sono spesso deboli nell'imporre le proprie politiche. Alla fine del 2010 ProPublica ha utilizzato la propria banca dati di case farmaceutiche per controllare la Stanford University e diverse altre università con solide politiche contro il conflitto di interesse, scoprendo che decine di docenti percepivano denaro da queste aziende in violazione delle regole delle istituzioni di appartenenza. L'Helen Hayes Hospital, dove lavora Lindsay, non sembra far rispettare rigorosamente le regole. Senza dubbio l'organizzazione è complessa, è una struttura statale, dunque il Department of Health dello Stato di New York ha diversi interessi in gioco, e tutti i suoi finanziamenti sono gestiti attraverso la Health Research Inc., organizzazione no-profit che aiuta il Department of Health a ottenere fondi esterni per la ricerca medica. Health Research Inc. gestisce mezzo miliardo di dollari all'anno di finanziamenti. Tuttavia è sorprendente il fatto che con così tanti fondi e tanto denaro in gioco Health Research Inc. non scopra numerosi casi di conflitti di interesse ogni anno. «Ho lavorato qui come direttore di programmi sponsorizzati per 11 anni, e sono stato dipendente di Health Research Inc. nell'ufficio che amministrava i fondi per 17 anni. Non ho mai visto un conflitto di interesse», mi ha detto Terry Dehm, di Health Research Inc. «Non un singolo conflitto di interesse in nessuno dei finanziamenti per i quali abbiamo fatto richiesta... Semplicemente, non ne abbiamo mai visti». Quando le ho spiegato che il finanziamento ricevuto da Lindsay dagli NIH per studiare Forsteo, finanziamento gestito da Health Research Inc., attirava anche denaro dal produttore del farmaco che Lindsay stava studiando grazie a fondi federali, Dehm mi ha risposto che il direttore esecutivo di Health Research Inc., Michael Nazarko, mi avrebbe chiamato quel pomeriggio o il giorno dopo. Non lo ha mai fatto, né ha mai risposto ai ripetuti tentativi di far seguito alla questione. Alla fine, tramite un addetto stampa del Department of Health di New York, Nazarko si è rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda, e lo stesso hanno fatto Val Gray, amministratore delegato dell'Helen Hayes Hospital, e Felicia Cosman, direttore delle ricerche cliniche all'Helen Hayes Hospital. Secondo ProPublica, Cosman ha ricevuto finanziamenti dagli NIH per studiare il farmaco Forsteo nonostante avesse ottenuto 135.000 dollari da Eli Lilly per tenere conferenze e per consulenze. Quando ho chiesto un commento, Helen Hayes Hospital e HRI mi hanno spedito per e-mail una copia delle loro politiche sul conflitto di interesse e un comunicato in cui si affermava che, con entrambi i finanziamenti di Lindsay e Cosman, «le procedure descritte nel documento sulle politiche aziendali contro il conflitto di interesse erano state rispettate». Qualche giorno dopo una mia telefonata all'Helen Hayes Hospital per chiedere informazioni sul lavoro di Lindsay e su potenziali conflitti di interesse, sono stato contattato da funzionari dell'ospedale per effettuare una revisione etica del lavoro di Lindsay. All'inizio l'ospedale ha cercato di trovare una commissione indipendente per esaminare se nel lavoro di Lindsay ci fossero conflitti a causa dei suoi rapporti con Lilly. Tuttavia, visto che la ricerca era vana, alla fine l'ospedale avevo deciso di chiedere al proprio Institutional Review Board (IRB) di dare un'occhiata. (Lindsay è membro di questa commissione, ma non ha partecipato alle discussioni). L'Institutional Review Board ha scoperto che Lindsay aveva ricevuto significative somme di denaro da Lilly, ma che questi compensi non ponevano alcun conflitto di interesse. Sono venuto a conoscenza di questi procedimenti nei mesi successivi, dopo aver fatto ricorso alla New York State's Freedom of Information Law per informarmi su documenti relativi ai finanziamenti. Purtroppo un IRB - che viene istituito per approvare i protocolli di ricerca in un trial clinico e garantire che i pazienti vengano curati in modo appropriato - è mal equipaggiato per rispondere a domande sui conflitti di interesse di natura finanziaria. «La composizione di un IRB non è stata pensata per gestire conflitti di interesse nel mondo di oggi», dice Arthur Caplan, del Langone Medical Center della New York University (nonché membro del comitato scientifico di «Scientific American»), uno dei maggiori esperti di bioetica al mondo: «È abbastanza chiaro che questa persona all'Helen Hayes Hospital ha un grave conflitto di interessi», dice Caplan. Carl Elliott, dell'Università del Minnesota, concorda. «L'IRB non era l'organo giusto a cui chiedere un'opinione», mi ha scritto in un'e-mail. In ogni caso, l'Helen Hayes Hospital non è attrezzato per eliminare alla radice i conflitti. Gli avvocati dell'ospedale si sono adattati al linguaggio standard delle linee guida dei finanziamenti degli NIH, che, fra le altre cose, chiedono a un ricercatore di riferire «qualsiasi fatto collegato con interessi finanziari, in denaro o in altro genere di benefici, ricevuti dallo sponsor di una ricerca (per esempio gettoni di consulenza, onorari, viaggi, pasti o divertimenti)». La clausola inserita restringe l'ambito di quello che deve essere dichiarato. Visto che Lilly non è lo sponsor delle ricerche di Lindsay, ma lo sono gli NIH, in base a queste linee guida i pagamenti effettuati dall'azienda non sembravano rientrare nel conflitto di interesse. Di fatto, è difficile evocare una circostanza in cui il beneficiario di un finanziamento degli NIH possa avere un conflitto di interesse sulla base di regole stabilite dall'Helen Hayes Hospital. Non c'è ragione di pensare che l'ospedale sia speciale in questo contesto. Le istituzioni che gestiscono fondi non hanno uno stimolo reale per preoccuparsi dei conflitti. Tanto più denaro da finanziamenti ricevono i loro dipendenti, tanto meglio è per i dipendenti stessi. Perché preoccuparsi? Aggiustare il sistema I ricercatori non possono frenare l'influenza del denaro che proviene dalle case farmaceutiche. Gli ospedali e le università non lo faranno. Gli NIH si rifiutano di farlo. Come risultato, milioni di dollari provenienti dai contribuenti finanziano ricerche la cui obiettività è sospetta. Il Parlamento degli Stati Uniti, che tiene i cordoni della borsa, è fuori di sé. La maggior parte delle sue ire è diretta agli NIH, che ha anche richiamato per il fatto di non seguire le linee guida etiche. «Per gli anni che ho trascorso come presidente di questo sotto-comitato, conosco fin troppo bene l'atteggiamento che spesso caratterizza gli NIH: queste regole non si applicano alla nostra agenzia», ha detto nel 2004 Joe Barton, delegato del Texas, all'epoca presidente dell'House Energy and Commerce Committee, in un'audizione sulle mancanze etiche degli NIH. «Ci si può solo chiedere: se gli NIH possono essere così permissivi sulle regole etiche più fondamentali del governo federale, che cosa deduciamo a proposito della loro capacità di gestire i denari dei contribuenti e, soprattutto, di garantire che la ricerca finanziata dai contribuenti venga tradotta in cure?», ha aggiunto. Eppure l'atteggiamento continua anche dopo che il Parlamento ha esercitato una pressione maggiore sugli NIH affinché si rimettano in carreggiata. A partire dal 2008 Charles Grassley, senatore dell'Iowa, ha avviato una serie di interrogazioni parlamentari relative ad alcuni episodi in cui i beneficiari di fondi degli NIH hanno omesso di dichiarare pagamenti ricevuti dalle case farmaceutiche e in cui le università hanno fallito nel punire adeguatamente i ricercatori coinvolti. L'esempio più clamoroso riguarda il caso di Charles Nemeroff, che fino a poco tempo fa era direttore del Dipartimento di psichiatria alla Emory University. I documenti della Emory mostravano che già nel 2000 c'erano problemi sull'opportunità da parte di Nemeroff di avere legami con l'industria, come quelli relativi al denaro che riceveva dalla casa farmaceutica Smith-Kline Beecham, che in seguito sarebbe diventata GlaxoSmithKline. (L'azienda aveva anche donato denaro per sovvenzionare una cattedra nel dipartimento di Nemeroff.) Nel 2003 i ricercatori hanno accusato Nemeroff di non aver dichiarato i propri legami con i produttori di tre trattamenti di cui riferiva un articolo pubblicato da «Nature Neuroscience». Come risposta, la Emory ha avviato un'inchiesta. Nel 2004 l'università ha stabilito che Nemeroff era, di fatto, coinvolto in «molti casi di violazione del conflitto di interesse, consulenza e altre politiche». Messo di fronte a queste scoperte, Nemeroff ha accettato di ridurre le proprie consulenze con GlaxoSmithKline a causa delle implicazioni che avrebbero potuto avere per un progetto finanziato dagli NIH su cui stava lavorando e ha anche accettato di ridurre i rapporti con diverse altre aziende. Dopo che nel 2008 un'inchiesta del Parlamento ha nuovamente portato alla luce un altro conflitto di interesse, Nemeroff si è dimesso da direttore del Dipartimento di psichiatria e la Emory University gli ha vietato per due anni di chiedere finanziamenti sponsorizzati dagli NIH. Da allora Nemeroff ha lasciato la Emory per l'Università di Miami, dove è attualmente preside della Facoltà di psichiatria e scienze comportamentali e responsabile di una nuova ricerca finanziata con 400.000 dollari dagli NIH. Dopo queste indagini parlamentari, gli NIH hanno adottato nuovi ordinamenti in base a cui i beneficiari dei finanziamenti devono dichiarare agli istituti di appartenenza ogni rapporto finanziario che supera i 5000 dollari. Oltre a ciò, le regole impongono alle istituzioni di fornire una spiegazione pubblica, per sommi capi, di ogni conflitto di interesse del personale coinvolto in ricerche finanziate dagli NIH. Questi cambiamenti implicano che il pubblico avrà accesso a una maggiore quantità di informazioni sui bersagli del denaro proveniente dalle case farmaceutiche. Francis Collins, direttore degli NIH, ha elogiato i nuovi regolamenti definendoli «un messaggio inequivocabile del fatto che gli NIH sono impegnati a promuovere l'obiettività nelle ricerche che finanziano». Comunque, nel nuovo regolamento non c'era alcun cambiamento su chi fosse responsabile dell'individuazione di questi conflitti o della gestione dei problemi etici. «Dato che le istituzioni conoscono il contesto in cui lavorano i loro dipendenti, e dato che queste persone sono dipendenti di istituti di ricerca e non del governo, la responsabilità della gestione spetta a loro», dice Sally Rockey, vice direttore degli NIH per le ricerche extra moenia. «Le istituzioni si trovano nella posizione migliore per gestire gli interessi finanziari dei loro impiegati». L'unica speranza di risolvere il problema dei conflitti di interesse nella scienza risiede negli scienziati stessi. La cultura della scienza può cambiare. Attraverso le riviste peer reviewed (la cui reputazione soffre a causa di una ricerca minata da preconcetti) e attraverso le accademie scientifiche (che stabiliscono standard etici che gli scienziati dovrebbero osservare), i ricercatori possono esercitare pressioni sui loro colleghi affinché rinuncino al denaro delle case farmaceutiche. Come minimo, potrebbero convincerli che è nel loro interesse a lungo termine essere trasparenti sui pagamenti che ricevono dalle aziende. La speranza di fornire una direzione etica e di esercitare una pressione fra pari è rappresentata dalle organizzazioni professionali e dalle riviste peer reviewed. Nel settore di Lindsay, questi attori sarebbero la National Osteoporosis Foundation e «Osteoporosis International». Ma queste organizzazioni hanno intenzione di assumere il comando nell'azione mirata all'eliminazione dei conflitti di interesse e sono in grado di farlo? Una persona alla quale porre questa domanda potrebbe essere l'ex presidente della National Osteoporosis Foundation, l'attuale direttore di «Osteoporosis International»: Robert Lindsay. Charles Seife («Le Scienze» n. 534/13) La corsa verde dei veicoli ibridi - Una stima delle rispettive emissioni di anidride carbonica ha mostrato che i veicoli ibridi sono più verdi della locomozione umana. Per sostenere la squadra del cuore, quattro amici decidono di andare allo stadio dall'altra parte della città. Emetteranno meno CO2, se raggiungeranno lo stadio correndo o a bordo di un'auto ibrida? Nonostante il carattere ibrido sia del movimento umano sia delle nuove automobili, la tecnologia dei nuovi veicoli permette di trasportare quattro passeggeri in città con minore emissione di CO2, rispetto agli stessi passeggeri che si spostano di corsa. I veicoli ibridi sono alimentati solo a benzina, ma usano anche altre forme di energia per muoversi. Durante le inevitabili e frequenti frenate che capitano in città, parte dell'energia cinetica del mezzo non è dissipata in calore come avviene nelle auto convenzionali, ma si accumula nelle batterie dopo essere stata convertita da un motore elettrico. Lo stesso motore riconverte poi l'energia elettrica accumulata in movimento, per esempio nelle ripartenze. Per quanto possa sembrare strano, la locomozione umana, e più in generale quella animale, ha molte caratteristiche in comune con la tecnologia delle auto ibride. Camminando a velocità costante, bipedi e quadrupedi si spostano come un pendolo invertito. Il tipico vincolo con il terreno di questa modalità locomotoria provoca un inevitabile innalzamento-abbassamento e accelerazione-decelerazione del centro di massa corporeo durante ogni passo. Ogni periodico cambiamento di stato (altezza, velocità) dovrebbe essere associato a una certa energia metabolica spesa, ma la somiglianza tra la nostra andatura e il movimento del pendolo invertito permette un continuo scambio tra energia potenziale e cinetica del baricentro corporeo. Così, circa il 60 per cento dell'energia meccanica è conservata nel corpo, mentre il restante 40 per cento deve essere fornita dai muscoli. Anche il costo metabolico del cammino, che corrisponde nelle automobili ai litri di carburante necessari a percorrere una certa distanza (per esempio 100 chilometri), è poco sensibile a più consistenti cambiamenti di velocità. La meccanica di più ampie oscillazioni, come accelerazioni-decelerazioni su più passi, può essere vista come il risultato della somma degli incrementi e della somma dei decrementi dell'energia totale a ogni passo, e può avvenire senza un costo extrarispetto al cammino alla stessa velocità media con passi uguali l'uno all'altro. Questo è il risultato di esperimenti con cicli oscillatori della durata di sei secondi e variazioni sinusoidali della velocità di cammino fino a più 40 per cento. La corsa, ma anche il trotto e il galoppo nei quadrupedi, usa un'altra strategia «ibrida» per contenere i consumi e di conseguenza le emissioni di CO2. Durante la prima metà del contatto del piede con il terreno, l'energia potenziale e quella cinetica diminuiscono simultaneamente, e una parte di esse è temporaneamente immagazzinata nelle strutture elastiche tendinee, che la restituiscono al baricentro corporeo nella successiva fase di spinta in modo da ridurre il lavoro muscolare necessario a generare il balzo successivo. Quindi sia la dinamica del cammino sia quella della corsa incorporano una sorta di frenata rigenerativa, la stessa strategia delle più innovative automobili ibride moderne. Altre analogie includono la molto simile efficienza muscolare e quella del motore a scoppio, del 25-28 per cento circa, che implica una produzione di calore e del relativo vapore acqueo (due dei maggiori determinanti dell'effetto serra) analoga nei due «motori». Anche i tendini e i motori elettrici, le parti ibride dei due «veicoli», hanno un'efficienza simile (rispettivamente 95 e 88 per cento). L'emissione di anidride carbonica di un corridore «standard» si può calcolare conoscendo il suo costo metabolico del trasporto. Misurazioni sperimentali e modelli teorici che hanno analizzato i record del mondo in distanze da 1 chilometro alla maratona (42,195 chilometri), in genere stabiliti da atleti di 65 chilogrammi, hanno rilevato un costo del trasporto di circa 270 joule per metro percorso, indipendentemente dalla velocità di corsa. Quando correggiamo il costo per un soggetto di 75 chilogrammi, otteniamo una produzione di 13,7 millilitri di CO2 per metro. Considerando che una mole di CO2 (44 grammi) occupa 24,1 litri in condizioni standard di pressione e temperatura, l'emissione di un corridore «standard» risulta di 25,1 grammi di CO2 per chilometro. Per confrontare le emissioni dell'uomo e delle automobili dobbiamo considerare quattro corridori, i quali emettono circa 100 grammi di CO2 per chilometro (un valore di riferimento che abbiamo chiamato ECO2R). L'auto con i più bassi consumi disponibile al momento sul mercato produce circa 87 grammi di CO2 per chilometro, ma il valore riportato si riferisce al «ciclo combinato», che è meno dispendioso del «ciclo urbano», e a un carico a bordo di 180 chilogrammi, corrispondente a 2,4 passeggeri. Quando questi dati sono corretti per il «ciclo urbano» e quattro passeggeri, solo le auto ibride riportano emissioni inferiori a ECO2R, corrispondente ai 4 corridori. La loro maggiore economia rispetto ad altre tipologie di veicolo (per esempio diesel) è dovuta al bassissimo coefficiente correttivo per il fattore urbano, alla frenata rigenerativa e al sistema stopand-go, che rendono i consumi delle auto ibride meno sensibili ai frequenti cambi di velocità che si verificano in città. C'è una dozzina di questi modelli sul mercato, e per il più economico le emissioni nel ciclo urbano con quattro passeggeri sono di circa 95 grammi di CO2 per chilometro. Umani contro automobili Pare che il muro sia stato infranto: un'auto ibrida con quattro passeggeri emette meno CO2 rispetto a quanto ne sarebbe emessa se i passeggeri percorressero di corsa la stessa distanza in città. Per una strabiliante coincidenza che potrebbe sembrare dettata da criteri «fisiologici», uno degli obiettivi dell'Unione Europea per contenere l'inquinamento atmosferico è limitare le emissioni delle automobili a un livello di poco inferiore a ECO2R, 95 grammi di CO2 per chilometro, entro il 2020. Altri due interessanti traguardi per i veicoli del futuro riguardano la capacità di emettere meno di quattro persone che camminano e di quattro ciclisti, che producono aerobicamente 50 grammi di CO2 per chilometro (ECO2W alla velocità di 5,5 chilometri all'ora) e 25 grammi di CO2 per chilometro (ECO2B, a 30 chilometri all'ora con una bicicletta da corsa), rispettivamente. ECO2W è stato già battuto da prototipi che hanno partecipato alla Shell Eco-marathon 2010, gara mondiale di minimo consumo su pista che si svolge dal 1939. Un prototipo di automobile per la città, alimentata a benzina e costruita dal Liceo francese «Louis Delage» di Cognac ha percorso 303 chilometri con un litro di carburante (emissione corrispondente a 31 grammi di CO2, per chilometro quando si considerano quattro veicoli con un passeggero ciascuno). Il team Polyjoule del Polytech dell'Università di Nantes ha raggiunto il record d'economia di 4896 chilometri percorsi con l'equivalente energetico di un litro di combustibile della loro cella a idrogeno, corrispondenti a circa 2,8 grammi di CO2 per chilometro (calcolati per quattro veicoli da un passeggero!), con un siluro monoposto carenato. Nonostante le strategie per contenere il costo metabolico della locomozione umana e animale, le ruote sono ruote. La nostra modalità di contatto con il terreno obbliga a continui innalzamenti-abbassamenti e accelerazioni-decelerazioni del centro di massa, con un inevitabile lavoro muscolare e un elevato dispendio metabolico. Pur avendo inventato e affinato la bicicletta, che riduce al minimo questi problemi propulsivi, la tecnologia e l'ingegneria del trasporto ora ci ha battuto, in termini di consumi ed emissioni, 9 a 1. Finora abbiamo parlato solo di uomini: la minore massa media delle donne (-15 chilogrammi rispetto agli uomini) riduce il fattore di carico delle automobili meno del fattore metabolico della corsa. Quattro donne «standard» producono correndo meno CO2 di un'automobile con quattro donne indipendentemente dalla tecnologia dell'auto. Ma la stessa attitudine «verde» dei quattro uomini in un veicolo ibrido è ottenuta estendendo a cinque il gruppo delle donne che corrono o si muovono in automobile. Non abbiamo trattato l'inquinamento atmosferico delle auto e la caratteristica non rinnovabile del carburante fossile, se confrontata con gli alimenti, che potrebbero far pendere la bilancia verso la corsa. Comunque si dovrebbe considerare anche il costo del trattamento e della distribuzione degli alimenti: per la stessa quantità di energia estraibile l'olio d'oliva, per esempio, è più costoso (200-300 per cento) del carburante per autotrazione. L'allievo supera il maestro L'ingegneria meccanica e dell'autotrazione ci ha portato a un punto di svolta in cui le automobili, nonostante la massa elevata, hanno un'economia del trasporto che sfida i nostri naturali schemi locomotori (solo i veicoli elettrici commerciali hanno già battuto anche ECO2W, anche se probabilmente grazie al minor costo di produzione dell'elettricità). L'evoluzione della ricerca, testimoniata dalla diminuzione esponenziale delle emissioni nelle competizioni di minimo consumo per prototipi dal 1939 al 2000, è rallentata negli ultimi dieci anni. Se si pensa però ai recenti record e che già nel 1939 si era arrivati a consumi (prototipali) vicini agli obiettivi attuali dell'industria, si capisce che le auto commerciali hanno ancora ampio spazio per migliorare la propria economia. La frenata rigenerativa, la tecnica di stop-and-go, un'aerodinamica sofisticata e lo studio dei materiali per pneumatici che minimizza la resistenza di rotolamento potranno ridurre le emissioni per unità di distanza percorsa, anche se probabilmente tra qualche tempo saremo vicini a un valore limite. In ogni caso, per ora tra tecnologia e natura l'allievo, usando inconsapevolmente la biomimetica, ha superato il maestro. Alberto E. Minetti Gaspare Pavei («Le Scienze» n. 518/11)