Vivere il conflitto Come città aperta, la Mariapoli di Roma quest’anno si è svolta nel Galoppatoio di Villa Borghese, nel cuore della capitale. In questa cornice la visita a sorpresa di papa Francesco ci ha lasciato alcune perle su cui riflettere e accumulare esperienza vitale. Vorrei soffermarmi sul concetto di “conflitto”, una delle idee centrali della sua breve comunione con noi. Il papa ha rilevato che, secondo un’incerta etimologia orientale – sono considerazioni sue –, il conflitto comporta insieme rischio e opportunità. Sappiamo che la parola proviene dal latino conflictus, risultante dall’unione del prefisso cum (= con) e del participio passato del verbo fligere, colpire. Deriva da qui anche il termine afflizione (dispiacere, sofferenza). Per una persona che ha fatto della comunione e del dialogo la propria scelta di vita, ogni conflitto a livello interpersonale comporta un’esperienza di dolore, quindi negativa. Questo porta a evitare il conflitto, nella speranza che le cose si mettano a posto da sole o nella convinzione che invischiarsi ancor di più in esso non faccia altro che acutizzarlo. L’esperienza ci insegna invece che il più delle volte i conflitti non affrontati generano un groviglio di patologie relazionali che prima o poi avranno pesanti conseguenze. Una ferita non curata può degenerare in cancrena. È triste costatare la rottura di un rapporto, avvenuta per aver trascurato la maturazione nascosta e patologica di scontri precedenti. I conflitti vanno invece affrontati e portati alla luce. Non bisogna, cioè, nascondere il proprio dispiacere e i segni del colpo ricevuto. Al tempo stesso, però, occorre far diventare questa vicenda dolorosa un’opportunità, come raccomanda il papa. Perché questo accada servono però alcune premesse etiche. La prima è che in ogni conflitto entrano in gioco persone concrete, e la persona non coincide mai con i suoi atti, anche se essi la esprimono. La persona infatti trascende le proprie parole e azioni. Vediamo questo quando, nel mezzo di una discussione animata, uno degli interlocutori con rammarico esclama: «Non stare ad ascoltarmi, non sono io!». Quando si è al centro di un conflitto, occorre tenere sempre lo sguardo fisso sull’intera persona dell’altro, invece che sulle sue parole. Questo atteggiamento è una prima protezione per assorbire bene i colpi verbali. La seconda premessa è che le parole non coincidono mai col pensiero e col vissuto reale dell’altro. L’essere umano, “animale simbolico” per eccellenza, si mostra spesso maldestro nell’uso di questa sua caratteristica: non c’è coincidenza tra persona e azioni, né tra parole e pensiero. Quindi è possibile sfruttare i conflitti come occasioni d’incontro. Ma non basta. Aver condiviso con qualcuno la sofferenza di uno scontro ci può avvicinare enormemente a lui, poiché il rapporto è diventato più vero. Pur nella loro inadeguatezza, infatti, le nostre parole o azioni hanno veicolato un messaggio di malessere reale, che comunque c’era e andava affrontato. Fare dei conflitti un’opportunità è una grande esperienza di liberazione e di crescita interpersonale. Da un’esperienza simile si esce dilatati nell’anima e nel pensiero, perché in definitiva il conflitto, se ben vissuto, mette in risalto il dono della differenza. I conflitti ci fanno prendere coscienza – spesso dolorosamente – della nostra fragilità, diversità e mediocrità, caratteristiche che vanno accettate interamente. Spesso si usa la parola conflitto in riferimento alle guerre. Queste però non sono semplici conflitti, ma combattimenti. Battuere in latino significa infatti colpire distruggendo l’altro. I conflitti bellici non rappresentano quindi un’opportunità. Partendo dai conflitti spesso si arriva alle guerre, che si potrebbero evitare se solo fossimo capaci di gestire bene i conflitti. JESÚS MORÁN Copresidente del Movimento dei Focolari. Laureato in Filosofia, è specializzato in antropologia teologica e teologia morale. Fonte: Città Nuova - n.7/Luglio 2016