Storia Filosofia Antica, Settimana 1 gennaio

ARISTOTELE – METAFISICA 1
(accenni…)
Aristotele di Stagira (384-322 a.C.), che ebbe contatti con la Corte macedone fino a diventare
precettore di Alessandro, fu allievo dell’Accademia platonica ad Atene per poco meno di un
ventennio. Entrato in dissenso con alcuni aspetti della metafisica platonica, se ne distacca, fondando
una propria scuola, chiamata “Liceo”. Dei due gruppo di opere aristoteliche, quelle “esoteriche” (o
“acroamatiche”) e quelle essoteriche, ci sono giunte con una qualche completezza solo le prime,
peraltro in condizioni non ottimali. Delle opere essoteriche, invece, possediamo solo frammenti
(seppur cospicui).
Nel primo libro della Metafisica (il nome dell’opera risale al suo primo editore, Andronico di Rodi:
meta-fisica significa “il libri che vengono dopo quelli dedicati alla fisica”; in senso traslato,
metafisica indica l’insieme delle realtà che vengono dopo quelle fisiche, poiché al sapere autentico
si perviene partendo dalle realtà concrete, per giungere poi a quelle soprasensibili; in tal senso, la
metafisica è la scienza delle realtà che stanno al di sopra di quelle fisiche, perché sono la
spiegazione di queste ultime) Aristotele rivolge una serrata critica alle Idee di Platone. Nei libri XIII
e XIV Aristotele criticherà poi i Numeri Ideali platonici. La critica è essenzialmente rivolta al
chorismòs delle Idee platoniche, rispetto alla realtà sensibile, cioè alla loro totale separazione e
indipendenza. Secondo Aristotele, ciò darebbe vita a una serie di aporie, fra cui: 1) la sostanza delle
cose non può trovarsi collocata separatamente rispetto a ciò di cui è sostanza; 2) le Idee non
possono generare la realtà sensibile, perché hanno caratteristiche opposte a queste ultime; 3) le Idee
non sono utili né per comprendere il mondo intelligibile, né – e soprattutto – per spiegare la realtà;
4) le Idee non sono altro che “doppioni” degli enti sensibili; 5) inoltre, data un’Idea X, deve darsi
anche il suo opposto non-X, sicché il mondo ideale conterrebbe un numero di Idee superiore alle
realtà sensibili; 6) infine, ogni l’esistenza di un’Idea (A) e la sua relazione con la realtà sensibile (B)
implica l’esistenza di una terza realtà (C), cioè di un’altra Idea, a cui assomiglino sia l’Idea di
partenza (A) e la realtà sensibile (B). La conseguenza è che il mondo delle Idee, invece di
semplificare la realtà sensibile, la complica, accrescendo il numero degli esseri.
Aristotele classifica le scienze in teoretiche (quelle che ricercano il sapere per sé medesimo:
metafisica, fisica e matematica), pratiche (quelle che ricercano il sapere in vista del
perfezionamento morale: etica e politica) e poietiche (quelle che ricercano il sapere in vista di una
produzione pratica: poetica, retorica e tutte le scienze e tecniche particolari). La metafisica, in
quanto non finalizzata a nessuno scopo a se esterno, è la scienza superiore a tutte, benché non sia la
più necessaria per la sopravvivenza. Aristotele definisce la metafisica come: 1) scienza delle cause
ultime (eziologia), che era l’oggetto specifico della ricerca filosofica fin dalle sue origini. Ma
ricercare le cause significa indagare le cose in quanto sono, per cui: 2) metafisica come scienza
dell’ente in quanto ente (o “essere in quanto essere”) (ontologia), dove l’Essere è la causa ultima
delle cose (appunto, la loro ragion d’essere); 3) scienza della sostanza (usiologia), che è la forma
più pura di essere; 4) scienza delle realtà divine (teologia), perché le sostanze più alte e nobili,
quelle in grado di spiegare tutta la realtà, sono soprasensibili e, dunque, divine.
1) Metafisica come scienza delle 4 cause: il sapere autentico (sophìa) è un sapere che non riguarda
tanto il “che” delle cose, ma il loro “perché”. “Sapere” significa dunque conoscere le cause delle
cose (cioè dell’esser così e così degli enti). Indagare le cause significa dunque fare filosofia. Le
cause di cui parla Aristotele sono: a) causa materiale (il bronzo di una statua); b) causa formale (la
forma della statua di bronzo); c) causa efficiente o motrice (l’artista o artefice); 4) causa finale (lo
scopo in vista del quale l’artefice opera).
2) Aristotele parla di Essere: a) secondo l’accidente; b) per sé; c) come vero; d) come potenza e
come atto. Essere secondo l’accidente è quell’essere che non è di norma, né per lo più, cioè è
l’essere fortuito (ad es. l’uomo considerato come musicista; essere musicista non è necessario per
poter essere definiti uomini; inoltre la caratteristica dell’essere musicista non è nemmeno
maggioritaria fra gli uomini). Essere per sé è l’essere considerato secondo le sue Categorie (cioè i
suoi generi o divisioni supreme): sostanza, qualità, quantità, relazione, agire, patire, dove, quando,
avere, giacere. La categoria della sostanza è quella a cui si riferiscono tutte le altre, cioè è il sostrato
unitario di riferimento a cui le altre categorie afferiscono. Essere come vero è inteso in senso logico:
il vero consiste nel connettere le cose realmente connesse e il falso nel disgiungere le cose non
disgiunte. Altrimenti detto, l’essere come vero consiste nella corrispondenza o conformità delle
relazioni del pensiero rispetto a quelle reali delle cose. Infine, l’essere come potenza è inteso come
il principio del movimento, ovvero come capacità (o possibilità) di trasformarsi in atto, mentre
l’atto è la piena realizzazione della potenza. Trasformarsi in atto significa assumere una forma che
mancava nella potenza. Il tronco di legno (che è un tavolo in potenza) assume la forma del tavolo e
diviene tavolo in atto. Aristotelicamente, pertanto, il divenire è inteso come passaggio dalla potenza
all’atto, cioè come l’assunzione di una data forma.
La terza accezione di “metafisica” secondo Aristotele è nel senso di “scienza della sostanza”, ove
per sostanza di intende la natura più profonda dell’essere, ovvero l’essere nel senso più puro e
autentico. Aristotele osserva che per sostanza si può intendere l’essenza, l’universale, il genere o il
sostrato. Soffermandosi sul sostrato, l’autore constata che esso tende a coincidere con la materia, la
quale, tuttavia, può definirsi sostanza solo in senso debole, poiché manca di due caratteristiche
fondamentali: la separabilità e l’individualità. Tali caratteristiche, invece, appartengono più
propriamente alla forma e al sinolo (cioè al composto di forma e materia). Mentre la materia è pura
potenza, poiché è pura capacità di assumere tutte le forme (in quanto non ne possiede nessuna), la
forma è puro atto, poiché è determinata in quanto tale. In altri termini, è la forma che determina la
materia, e non viceversa. Rispetto al sinolo, pertanto, la forma rappresenta una specie di sostanza
più autentica, poiché è pienamente in atto. La forma è “separabile” sono mediante l’intelletto,
mentre di fatto si trova sempre associata alla materia a costituire le singole cose (cioè le realtà
individuali, i sinoli). Nel processo del divenire (dall’essere in potenza all’essere in atto) la materia
costituisce propriamente il sostrato, mentre l’atto è rappresentato dalla forma, che conferisce
attualità alla materia, altrimenti indeterminata.
Infine, l’ultima accezione di metafisica è quella di “scienza delle realtà divine”, cioè di teologia.
Aristotele dimostra l’esistenza di tre tipologie di sostanze: quelle sensibili e corruttibili (gli
elementi), quella sensibile e incorruttibile (il quinto elemento, o quintessenza o etere; la sostanza
degli astri) e quella soprasensibile e incorruttibile. L’esistenza di Dio è dimostrata a partire dal
tempo e dal movimento, i quali, essendo eterni, richiedono un motore eterno, poiché altrimenti si
darebbe un processo all’infinito (ogni ente in movimento richiede a sua volta un motore/causa
efficiente in movimento). Tale motore eterno è immobile, per cui Dio muove il cosmo per
attrazione, cioè come causa finale. Per essere tale, Dio deve essere eterno, immutabile, pura forma e
atto puro. Collocato alla sommità delle sfere celesti, la sua attività è sostenuta da una serie di
divinità seconde, situate nelle sfere inferiori (55 in tutto).
I temi principali che Aristotele tratta nella Fisica (un’opera più compatta della Metafisica) sono: il
movimento, il tempo, lo spazio (o luogo), l’infinito e l’etere. Il movimento si può applicare solo alle
categorie della sostanza (come generazione e corruzione), della qualità (come alterazione), della
quantità (come aumento e diminuzione) e del luogo (come spostamento o traslazione). La questione
del movimento è discussa in termini affini alla Metafisica, a cui qui rimandiamo.
La necessità della teorizzazione del luogo dipende dal fatto che ogni oggetto ha una sua
collocazione nello spazio: tale collocazione non coincide con l’oggetto stesso. Altrimenti detto: il
luogo in cui un oggetto di volta in volta si trova non coincide con quell’oggetto (con la sua
superficie esterna), poiché in uno stesso luogo possono trovarsi, di volta in volta, oggetti diversi. Il
luogo è dunque quella porzione di spazio in cui si trova un oggetto. Esso differisce dal recipiente
per il fatto di essere immobile. Per Aristotele il vuoto non esiste perché non c’è alcun luogo che sia
privo di oggetti. L’esistenza del tempo deve darsi, dato il movimento. Senza il secondo, non si
darebbe nemmeno il primo. Per tempo Aristotele intende il “numero del movimento”, cioè la sua
estensione, la sua dimensione. Condizione perché si percepisca il tempo è pure l’anima. Aristotele
ammette l’esistenza dell’infinito, ma solo in potenza (ad esempio, il tempo e il numero), non in atto.
L’essere umano è un sinolo di forma e materia, cioè di anima e di corpo. L’anima è atto primo del
corpo (ovvero lo determina nella sua essenza più profonda, e non solo in termini “operativi”).
L’uomo gode di tre facoltà psicologiche: l’anima vegetativa (comune a tutti i viventi), che presiede
al nutrimento e alla riproduzione; quella sensitiva (che presiede alle sensazioni, alle
rappresentazioni, ai desideri e ai movimenti); quella razionale (distinta in un intelletto in potenza e
in uno in atto). L’anima razionale, in quanto pura forma, deve poter essere separabile e, dunque,
eterna.
LE FILOSOFIE ELLENISTICHE
La crisi della polis greca e l’affermarsi di vasti regni assolutistici rappresenta il contesto della
nascita delle filosofie ellenistiche. Tali monarchie, infatti, limitavano le libertà civili e politiche, e,
data le loro dimensioni, rendevano difficile la partecipazione alla gestione del potere. Pertanto, la
libertà tende a passare dall’ambito politico a quello individuale o introspettivo. Nasce il concetto di
individuo, cioè di essere umano che ha in se stesso – e non più nella comunità sociale e politica,
cioè nell’altro da sé – la propria ragion d’essere. L’uomo non è più necessariamente “persona” o
“cittadino”. L’esigenza primaria a cui cercano di rispondere le filosofie ellenistiche è dunque quella
di fornire un “sistema di protezione” agli individui ormai inseriti (e spaesati) in un contesto sociopolitico globale.
Le filosofie ellenistiche sono specialistiche (caratteristica ereditata dall’Aristotelismo) e dividono il
sapere filosofico in: logica, fisica (intesa come l’intero ambito della Natura e dell’Essere), etica.
Le principali filosofie ellenistiche sono anti-metafisiche, immanentiste, corporeiste (o materialiste).
1. La Stoà
Fondata da Zenone di Cizio (altri scolarchi: Cleante di Asso, Crisippo di Soli), perdurò fino al II
sec. d.C. (con Marco Aurelio), anche se i suoi influssi furono ben più vasti e duraturi. Lo Stoicismo
è una filosofia essenzialmente materialista, poiché asserisce che solo ciò che è in grado di agire e di
patire può definirsi Essere. Siccome solo il corpo ha queste caratteristiche, solo il corpo è Essere. I
principi della realtà sono due: uno attivo (il Logos o ragione divina) e uno passivo (la materia).
Nella generazione del cosmo, il Logos interviene sulla materia dotandola di forma e di qualità (cfr.
Aristotele e, prima, Platone); in tal caso, il Logos funge da causa formale, efficiente e finale del
cosmo. La dottrina stoica può dirsi monista poiché riconduce tutta la realtà all’unico principio del
Logos. Tale principio permea l’intera realtà, dotandola di vita; il cosmo è dunque manifestazione di
Dio e in sé divino (panteismo). Ogni singola cosa o accadimento è frutto della provvidenziale
volontà del Logos. Il Destino (la “catena delle cause”) è pertanto finalizzato al bene di ogni singolo
essere e del cosmo nel suo complesso. Alla fine dei tempi questo cosmo si brucerà (conflagrazione),
lasciando il posto a un altro cosmo (daccapo generato dal logos e materia), identico agli infiniti
cosmi precedenti e successivi.
Anche Dio e l’anima sono materiali. L’anima è un pneuma caldo costituito di otto facoltà: i cinque
sensi, la facoltà della fonazione, quella riproduttiva e l’egemonico (la ragione, che guida l’anima).
L’anima è mortale (benché gli Stoici non concordassero sui tempi).
A fondamento dell’etica stoica c’è la dottrina dell’oikeiosis, cioè dell’impulso che – secondo gli
Stoici – anima ogni essere vivente fin dalla nascita. Tale impulso spinge ogni essere ad
autoconservarsi. In accordo con tale principio, lo scopo della vita etica sarà di realizzare pienamente
la natura umana razionale e, dunque, di garantire la nostra conservazione come esseri umani.
L’orizzonte etico stoico si basa su due ripartizioni: 1) fra beni, mali e indifferenti: solo i primi due
riguardano la vita etica (e si manifestano nelle “azioni moralmente giuste”), mentre gli indifferenti
comprendono tutte quelle realtà che non influiscono sulla morale (e si manifestano nei “doveri
quotidiani” o “morali”); 2) fra saggi e stolti: i primi agiscono sempre in modo retto, i secondi mai.
Infine, a monte dell’etica stoica sta la convinzione che la vita etica dipenda da una retta
disposizione d’animo e non dal risultato delle azioni che si compiono: lo stolto può compiere azioni
apparentemente giuste, ma, essendo animato da intenzioni non pienamente rette, rimarrà stolto. Lo
scopo della vita etica è dunque vivere secondo virtù, cioè secondo la nostra natura, cioè secondo il
logos. La virtù, intesa anche come eliminazione delle passioni, è autosufficiente in vista della
felicità.
Il criterio di verità secondo gli Stoici è la rappresentazione catalettica, cioè quella rappresentazione
che abbia ricevuto l’assenso dalla parte razionale dell’anima.