13/05/2014 Teatro.it web TELL SENZA TERRA Di Francesco Rapaccioni Ultima tragedia di Friedrich Schiller, il Wilhelm Tell viene rappresentato per la prima volta nel 1804 in un momento decisivo per le sorti politiche dell'Europa e soprattutto per le speranze e gli ideali di quanti si erano aspettati dalla rivoluzione francese una generale palingenesi. La tragedia, da subito diffusa e popolarissima, celebra romanticamente il popolo e un eroe del popolo, proponendo temi di bruciante attualità nei primordi dell'Ottocento. Il Guillaume Tell diGioachino Rossini va in scena, attesissimo, a Parigi nel 1829 e rappresenta la punta estrema dell'adeguamento del pesarese al “nuovo”. Grand-opéra in quattro atti, il Tell accoglie alcune istanze centrali del romanticismo: il tema patriottico, la viva presenza della natura, il senso dell'ineluttabilità, l'impossibilità nella vicenda amorosa. Al debutto l'opera fu accolta con stima ma senza eccessivo entusiasmo, tuttavia finì per costituire un “testo sacro” per il teatro musicale successivo. In particolare il pubblico era rimasto deluso per l'assenza delle caratteristiche tipiche dell'opera rossiniana, i crescendo e i pezzi di bravura, ma i musicisti e i critici ne avvertirono la novità e la grandezza dell'architettura. Ancora giovane e al colmo della gloria, Rossini dopo Tell abbandonò il teatro, forse per l'impossibilità di andare oltre sulla strada dell'assimilazione delle nuove istanze. Il monumentale capolavoro ha una partitura monumentale, quattro ore di musica ballo compreso: il Regio di Torino l'ha proposto nella traduzione ritmica italiana di Calisto Bassi ripristinata da Paolo Cattelan, con qualche taglio e con l'esecuzione del ballo del terzo atto in una nuova coproduzione con il Rossini Opera Festival di Pesaro, dove è già andato in scena nello scorso agosto. Graham Vick è regista intelligente e, come altre volte, interpreta l'opera rispettandone però la musica e il libretto molto più di quanto uno sguardo superficiale riveli. Vick propone una lettura basata sul concetto di Natura come elemento identificante il popolo svizzero e della sua negazione come risultato del dominio austriaco (“ex terra omnia” campeggia in scena). Dunque la natura non è propriamente azzerata ma resta “al di fuori”, oltre la scena e la realtà della costrizione e dell'oppressione, divenendo anelito di libertà e simbolo e fine della lotta per la libertà. Al punto che l'arcobaleno nel finale si tramuta in una ripida scala che sale dondolante oltre il soffitto, rossa come il sangue dei morti per la libertà, lunga e irta come il cammino verso la libertà e una felicità possibile. La scena, praticamente fissa, di Paul Brown è un interno bianco e sghembo, triangolare, i cui due cateti convergono verso il fondo e su cui si aprono due “finestre” che mostrano altri interni o paesaggi montani vistosamente dipinti. La Terra resta un miraggio e manciate di terra vengono sparse nel primo atto, prese dalle tasche di pantaloni e gonne (il giuramento del secondo atto è parimenti su un pugno di terra). L'antinatura ha il suo compimento nei cavalli del secondo atto che sembrano veri ma sono palesemente finti e consentono ai protagonisti di gestire i movimenti richiesti utilizzandoli come attrezzeria. Invero gli stessi cavalli hanno un forte significato simbolico: all'apertura del sipario gli austriaci in divisa li cavalcano e dunque identificano gli oppressori, poi restano come selva minacciosa in cui si muovono due innamorati che di quel conflitto pagano le spese, poi, piegati dagli svizzeri e appoggiati a terra, sono gli elementi su cui sedersi e iniziare il riscatto; quindi, al momento della rivolta, diventano barricate e i tre “castelli” in rappresentanza dei tre iniziali cantoni della confederazione su cui svettano i vessilli rossi di libertà (il pugno chiuso e alzato del sipario, stilizzato su un profilo di montagna, va inteso più come impeto rivoluzionario che come riferimento politico); infine, nel successivo atto, sarà un cavallo squartato a segnare l'inizio della “rivoluzione” con sangue rosso schizzato sulle pareti. Come rosso sangue, ma dipinta con la vernice, è la scritta che inneggia alla fede e alla virtù degli svizzeri. Perfetta la scena del ballo, con gli austriaci dominatori che costringono gli svizzeri oppressi ad azioni di sottomissione con quel cappello a cilindro a cui rendere omaggio, centrale nella storia di Schiller. Meno calzante l'idea delle riprese cinematografiche in un contesto (la fine dell'Ottocento nei costumi di Paul Brown) in cui esse non erano intese con la pregnanza dei decenni successivi e dell'oggi; resta, tuttavia, emotivamente intensa nel momento in cui, nel quarto atto, Arnoldo rivede in pellicola sé stesso bambino con il padre e utilizza la pellicola come ricordo tangibile. Dunque se il dubbio principale sulla regia (ripresa da Lorenzo Nencini) è aver tolto la natura in un'opera in cui in ogni pagina si respira la natura, l'idea di Vick è proprio questa: la natura come anelito, simbolo e desiderio di libertà. Riuscite e significative le coreografie di Ron Howell (riprese da Ilaria Landi): il passo a sei del primo atto rivela le difficoltà del rapporto di coppia e un difficile quotidiano nella povertà e nell'oppressione; il ballo del terzo atto è una scena di violenza con ripetute sopraffazioni di militari austriaci sugli svizzeri, vestiti come marionette e come tali mossi da fili invisibili nelle mani dei gerarchi. Le stesse scene del giovane costretto a fare sesso orale con il militare o della giovane stuprata dietro le quinte, seppure emotivamente forti, sono perfette a rendere il climax che musica e libretto richiedono. E, introducendolo, spiegano meglio il tiro di Guglielmo con la balestra alla mela sulla testa del figlio: un atto di sadismo e crudeltà inumana imposto dal nemico. A completare la parte tecnica le luci di Giuseppe Di Iorio, fondamentali in un allestimento come questo. Gianandrea Noseda dirige in modo straordinario, creando un perfetto amalgama tra voci e strumenti e restituendo la partitura in modo compiutamente unitario mediante suoni di bellezza struggente. Il Maestro bene sottolinea i contrasti tra piano e forte, evidenzia le citazioni dalla musica popolare e tutte le finezze nel descrivere la natura che in questo allestimento sono particolarmente pregnanti in quanto, come detto, rappresentano il vagheggiamento (anch'esso totalmente romantico) della libertà perduta e da riconquistare e il senso identitario del popolo. Senza tuttavia tralasciare gli altri temi musicali: lo strazio dell'amore infelice, l'anelito di libertà, la cupezza dell'oppressione in un senso civile e risorgimentale ancora attualissimo. Insomma un modo eccellente di rendere una prodigiosa architettura musicale con i colori e i tempi appropriati. A partire dall'ouverture, un miracolo: l'orchestra del Regio è in stato di grazia non solo nei solisti (persino il triangolo suonato in modo mirabile). I cori abbondano, finemente differenziati per spirito e forma e il coro, nell'economia dello spettacolo, è un “personaggio” a livello dei protagonisti. Qui, posizionato a diverse altezze nelle “finestre” della scenografia, rende con effetto stereofonico le grandi novità rossiniane nella scrittura corale ed è stato ottimamente preparato da Claudio Fenoglio. Dalibor Jenis affronta il ruolo del titolo, forte di un registro superiore ben timbrato, con fare ombroso e schivo e la forza nobile dell'eroe virtuoso romantico in simbiosi con il suo popolo e la sua Terra. Piena di fioriture e agilità la parte del tenore, a tutt'oggi la principale difficoltà della messa in scena di quest'opera, è affrontata in modo eccellente da John Osborne: dizione perfetta, bel timbro luminoso e squillante, intonazione curata, acuti saldi e svettanti a cui sale con impressionante facilità ma che non esauriscono la performance, rafforzata dal perfetto canto declamato affrontato con un fraseggio di innumerevoli accenti tutti di pari intensità emozionale. Abbiamo apprezzato Angela Meade per la sua Matilde intensa, dal corposo registro centrale, dal consistente registro basso e dagli acuti solidi e pieni, morbidissima in “Selva opaca, deserta brughiera”. Sontuoso il Gualtiero di Mirco Palazzi dalla voce scurissima e imponente a dispetto del fisico mingherlino. Convincenti l'Edwige di Anna Maria Chiuri e il Jemmy di Marina Bucciarelli. Da segnalare Luca Tittoto, il cui Gessler cattivissimo è adeguato vocalmente ma soprattutto eccellente dal punto di vista attoriale nel ruolo del dittatore sadico e brutale. Giusti nei ruoli gli altri interpreti: Fabrizio Beggi (Melchtal), Mikeldi Atxalandabaso (Ruodi), Luca Casalin(Rodolfo), Ryan Milstead (Leutoldo) e Giuseppe Capoferri (un cacciatore). A completare la locandina, essenziale per la riuscita dello spettacolo, il corpo di ballo. Recite tutte esaurite, molti applausi a scena aperta e un trionfo nel finale. Nel primo intervallo sir Jonathan Mills, direttore dell'Edinburgh international festival, introdotto da Paola Giunti, ha presentato la partecipazione in Scozia del teatro Regio di Torino con il Guglielmo Tell in forma di concerto, uno degli appuntamenti più attesi del programma dell'edizione 2014. Visto il 11.5.14 a torino (to) Teatro: regio http://www.teatro.it/spettacoli/regio/guglielmo_tell_1279_29265#recens