Dalla bioetica alla biopolitica I dilemmi morali e la decisione politica

Dalla bioetica alla biopolitica
I dilemmi morali e la decisione politica, di Franco Manti
Foucault e la biopolitica
Qual è l’ambito di applicazione della nozione di biopolitica? L’emergere di una sensibilità biopolitica può essere
ricondotta al corso che Foucault tenne nel 1976 presso il College de France, all’interno della sua ricognizione sulle
origini del potere. Egli identificò il nocciolo dell’esercizio sistematico del potere nella nostra società nel biopotere ossia
il potere esercitato sulla vita ed espresso sia sugli individui che sulla specie, sulle attività del corpo e sui processi della
vita. Il dominio di pertinenza della biopolitica sembra però essere, nell’elaborazione di Foucault, troppo ampio,
estendendosi all’intero ambito di analisi concernente le origini della politica moderna. Allo stato attuale, di norma, la
biopolitica viene considerata una branca della bioetica, come si evince da una delle definizioni maggiormente condivise
di tale disciplina secondo cui “la bioetica è lo studio sistematico delle dimensioni morali (inclusa la visione morale, le
decisioni, la condotta e le politiche) delle scienze della vita e della salute, utilizzando varie metodologie etiche con
un’impostazione interdisciplinare”. Si tratta, probabilmente, di una definizione troppo estensiva del campo di specifica
pertinenza della bioetica. Per quanto si possano individuare campi di intersezione o relazioni fra etica e politica, i due
ambiti di pertinenza andrebbero tenuti separati. Naturalmente ciò vale anche nello specifico della bioetica e della
biopolitica, anche al fine di evitare sovrapposizioni dell’etica rispetto alla politica tali da originare scelte non auspicabili
per una società aperta e pluralista, o da configurare la riproposizione di una concezione pater-nalistica ed etica dello
Stato.
Dall’Habeas Corpus Act a oggi
Come si pone la questione della proprietà del corpo dal punto di vista della storia del diritto? Una delle eredità più
significative lasciataci dalla modernità, a tutela e garanzia dei diritti degli individui contro l’invadenza dello Stato è
l’Habeas Corpus Act. In tale documento convergono esigenze etiche (condivise) concernenti la concezione del rapporto
individuo-corpo che viene considerato “proprietà” di ognuno, questioni politiche relative al rapporto fra cittadini (allora
sudditi) e potere dello Stato, aspetti giuridici riguardanti la codificazione di diritti dei singoli, doveri dei funzionari dello
Stato e sanzioni per le infrazioni. Oggi si pone il problema di considerare l’estensione della corporeità e dunque dei
diritti di proprietà ai prodotti del corpo, come lo sperma, e alla linea genetica. Se prendiamo in considerazione questioni
attuali di habeas corpus quali, ad esempio, quelle indotte dallo screening genetico al fine di interventi genici o l’analisi
preimpianto degli embrioni, vediamo riprodursi, mutatis mutandis, il riferimento a tre diversi ambiti. Sul piano etico si
pongono domande di liceità sia sullo screening o la diagnosi preimpianto in sé, sia sugli interventi che si renderebbero
possibili, su quello politico si pone la questione del rapporto fra cittadini e parlamenti (che possono decidere tali
pratiche) in merito alla rappresentanza, al consenso, ai limiti che deve darsi la politica riguardo a decisioni su questioni
eticamente controverse, su quello giuridico emergono questioni di privacy e di salvaguardia dei diritti a fronte di
possibili discriminazioni indotte dallo screening. Per esempio, con l’eventuale introduzione di carte d’identità genetiche
si potrebbero avere gravi discriminazioni nelle assunzioni o nell’accesso alle assicurazioni in base alla valutazione di
determinate predisposizioni genetiche. Per quanto riguarda l’analisi preimpianto, si renderà necessaria la definizione
dello statuto giuridico dell’embrione. Abbiamo, cioè, a che fare con tre diversi ordini di problemi, certamente correlati,
ma anche implicanti metodologie di analisi e trattazioni specifiche che individuano rispettivamente i domini della
bioetica, della biopolitica, del biodiritto.
L’ambito etico, giuridico e politico
Definiamo quindi la diversità fra la bioetica, il biodiritto e la biopolitica Bioetica è lo studio sistematico delle
dimensioni morali (concezioni della vita buona a livello individuale e sociale, fondamento delle decisioni e della
condotta di individui, gruppi, comunità, secondo il dover essere - concernenti le scienze della vita e della salute
attraverso una metodologia di analisi interdisciplinare. Biopolitica è lo studio sistematico delle ragioni della decisione
politica) con particolare riferimento al rapporto fra lealtà morali di singoli, gruppi o comunità e decisione pubblica, alla
formazione del consenso, alla determinazione delle materie di rilevanza costituzionale, alle strategie di allocazione delle
risorse, al governo del conflitto, alla concezione della cittadinanza - concernente le scienze della vita e della salute
attraverso una metodologia di analisi interdisciplinare. Biodiritto è lo studio sistematico delle questioni giuridiche
(relative alla determinazione dei diritti e dei doveri, alla genesi delle norme giurisprudenziali, ai codici deontologici,
alle dichiarazioni e convenzioni internazionali, ai pareri dei comitati etici, alla compatibilità fra normazione e
costituzione) concernenti la regolamentazione di comportamenti e pratiche relative alle scienze della vita e della salute
attraverso una metodologia di analisi interdisciplinare. In breve, poiché il pluralismo nelle sue varie dimensioni, etiche,
politiche, culturali, etniche è un fatto che comporta la sussistenza di conflitti morali, ne consegue che il processo di
decisione politica, in società liberal-democratiche quali quelle occidentali, deve coniugare il principio di maggioranza
con quello di tolleranza all’interno del più generale principio di neutralità politica per cui, in presenza di concezioni
eticamente controverse, lo Stato deve restare neutrale. Infine, la decisione politica si sostanzia in una normazione
(ordinaria o costituzionale) coattiva inerente i diritti e i doveri dei cittadini e il rispetto dei diritti di qualsiasi altro
soggetto ne sia ritenuto depositario ( ad esempio animali, ambiente).
La centralità della circostanza
Come si possono conciliare in una società pluralistica concezioni morali eterogenee e contrastanti? La determinazione
degli specifici domini della bioetica e della biopolitica rimanda a quella più generale concernente l’etica e la politica. In
particolare, si tratta di definire il rapporto sussistente fra espressione del giudizio morale (che ha a che fare con
concezioni della vita buona) e neutralizzazione politica di tali concezioni quando esse siano controverse e fonte di
conflitto sociale difficilmente governabile. Si tratta di chiarire la distinzione fondamentale sussistente fra auspicabilità
morale, cui singoli, gruppi, comunità non devono rinunciare e praticabilità politica che richiede la neutralizzazione
(esclusivamente politica) delle concezioni controverse della vita buona, se si vuole salvaguardare la permanenza di una
società aperta. Poiché nella società pluralista odierna ci troviamo di fronte a una vera e propria eterogeneità della
morale, il venir meno di quadri valoriali assoluti e unificanti comporta il riconoscimento della centralità della
circostanza. In breve, il giudizio morale ha a che fare con il riferimento a regole generali e circostanze che, però,
possono risultare refrattarie a tali regole. In altri termini, nella società pluralista, la divaricazione fra ciò che riterremmo
eticamente doveroso e quanto possiamo fare, in considerazione della sussistenza di concezioni della vita buona
ragionevoli (in quanto accettano di convivere secondo le regole della liberal–democrazia) e, insieme, conflittuali con la
nostra, si accentua. Inoltre, può accadere che il dovere di rispettare determinati principi (cui teniamo molto) entri in
conflitto con quello di operare affinché quanti sono coinvolti dagli effetti delle nostre azioni ne abbiano un bene
maggiore (o in determinati casi un male minore).
Maggioranza e tolleranza
Può la politica rinunciare a compiere scelte di natura morale? Come può mantenersi neutrale? A un primo livello, la
deliberazione politica relativa a questioni di rilevanza bioetica pone gli stessi problemi di ogni altro ambito eticamente
significativo, ossia quello di una neutralità politica rispetto alle concezioni controverse del bene che, pur configurandosi
come un modus vivendi, consenta oltre che la convivenza pacifica anche il confronto delle idee e assicuri pari dignità di
cittadinanza a quanti esprimono posizioni minoritarie. A un secondo livello, quello più specificamente biopolitico,
emergono questioni ancora più complicate, indotte dalla novità dei problemi, dall’inadeguatezza di molte delle
categorie interpretative che ereditiamo dalla nostra tradizione di pensiero etico e politico, dalla relazione più stretta che
emerge fra descrizione e prescrizione, ossia fra scienze della vita e analisi filosofico morale che esse inducono, insieme
alla permanente esigenza di evitare ogni sovrapposizione fra le stesse. In breve, allo stato attuale la formulazione di
decisioni politiche riguardo a questioni controverse sul piano bioetico risulta particolarmente problematica perché, in
molti casi (ad esempio statuto dell’embrione, screening genetico, libertà di ricerca scientifica), non si riesce a
individuare un quadro valoriale di riferimento comune e sufficientemente condiviso a livello sociale. Fermo restando
che un dissenso ragionevole per quanto ristretto sia destinato a permanere quando sono in gioco le nostre lealtà morali
più profonde, laddove le decisioni urgono non resta che retrocedere al primo livello, di cui sopra, nella consapevolezza
che tali decisioni non potranno che essere assunte secondo un criterio di giustizia che coniughi principio di maggioranza
e principio di tolleranza.
La pace sociale come valore condiviso
La grande varietà di posizioni etiche rende difficile l’elaborazione di norme giuridiche. Quali principi generali possono
fondare le scelte politiche? La neutralità politica di cui si è detto non è soltanto un modus vivendi, ma è intesa a favorire
il dialogo ragionevole fra interlocutori validi, espressione di lealtà morali diverse o conflittuali. Tale dialogo ha quale
fine fondamentale l’ampliamento delle aree di consenso e, conseguentemente, quando tale dialogo abbia valenza
pubblica, la riduzione di quanto è oggetto di neutralizzazione politica. In molti casi, però, ciò che è per noi eticamente
auspicabile non è politicamente praticabile. La conflittualità fra diverse concezioni del bene può essere così elevata da
esigere che la decisione politica, laddove si renda necessaria, sia giustificata con ragioni neutrali. Quali principi o valori
dovrebbero, allora, giustificare le decisioni di uno Stato? Come è possibile che quanti non le condividano, anche se esse
vengono prese democraticamente e secondo il principio di maggioranza, non si sentano cittadini di serie b o addirittura
esclusi, almeno parzialmente, dalla cittadinanza? I principi o valori che possono consentire una giustificazione delle
decisioni politiche in termini neutrali rispetto alle concezioni della vita buona devono, perché si configurino come
neutrali, essere esclusivamente politici e, come tali, si possono considerare la pace sociale (la cui garanzia è compito
fondamentale dello Stato) e la tolleranza. In altri termini, si può affermare che la neutralità politica si determina quale
modus vivendi atto a consentire la pace fra visioni del bene conflittuali attraverso l’applicazione del principio di
tolleranza.
Costituzioni e leggi ordinarie
Qual è l’ambito di applicabilità dell’obbiezione di coscienza? Le costituzioni dovrebbero recepire, nelle loro norme,
quanto è eticamente condiviso (esclusivamente in questo consiste l’intersezione fra etica e politica) e stabilire le regole
quadro di riferimento per rendere operativa la neutralizzazione politica di quanto è controverso. La legislazione
ordinaria, quando sia necessaria per stabilire regole che risultano irrinunciabili, essendo riferita a esigenze specifiche,
può entrare in conflitto con le lealtà morali di singoli, gruppi, comunità. In questo caso, affinché non si configurino
forme di emarginazione o esclusione dalla cittadinanza, quando si presenti un coinvolgimento diretto a livello attuativo
di un cittadino che dissente, va consentita l’obiezione di coscienza e, naturalmente la possibilità di organizzazione,
affinché possa procedere il confronto ragionevole anche a decisione assunta, dando l’opportunità alle minoranze di
costituire, se otterranno il necessario consenso, le condizioni per una revisione legislativa o per una cancellazione della
legge. Quanto detto mi sembra chiarisca a sufficienza i termini della distinzione fra etica e politica oltre a evidenziare
come essa trovi la sua ragione nella sussistenza, per o-gnuno, di due diverse identità: quella etica che si fonda sulla
concezione della vita buona e quella politica che riguarda la nostra posi-zione rispetto ai criteri di giustizia nel governo
della società e ai diritti e doveri di cittadinanza.
Biopolitica e relativismo Nelle nostre società convivono molte diverse culture. Può la biopolitica contribuire ad evitare
lo scontro tra civiltà? I dilemmi morali propri della bioetica costituiscono una nuova frontiera per lo sviluppo del
dialogo sia all’interno della cultura occidentale, sia in una prospettiva interculturale e per la delimitazione dei rapporti
fra lealtà morali e decisioni politiche. Per quanto tale disciplina sia un prodotto della cultura occidentale, molte delle
questioni che l’attraversano sono comuni a tutte le culture. e richiedono soluzioni politiche concordate a livello
planetario. Ciò contribuisce a far emergere il dominio specifico della biopolitica quale ambito in cui il principio di
tolleranza orienta le decisioni e l’identità politica del cittadino trova la possibilità di esprimersi, consapevole della non
sempre possibile (anzi della difficile) congruenza fra ciò che egli riterrebbe suo dovere fare e quanto gli è effettivamente possibile fare in considerazione: 1) della sussistenza di concezioni del bene conflittuali e concorrenti con la
sua; 2) della necessità di salvaguardare la pace sociale anche come condizione per favorire il confronto e l’eventuale
ampliamento del consenso rispetto alle sue posizioni. In particolare, la seconda condizione connota la ricerca di un
modus vivendi non come scelta di comodo, fine a se stessa, né è esito di una sorta di indifferentismo o relativismo
morale, ma quale contesto politicamente necessario per costituire le condizioni per lo sviluppo del dialogo ragionevole e
per un’eventuale coevoluzione morale degli interlocutori di tale dialogo.
Tradizioni e globalizzazione
E’ possibile immaginare normative e istituzioni biopolitiche a livello sovranazionale? La definizione della specificità
costitutiva dei domini della bioetica e della biopolitica con le relative questioni di tolleranza è indotta dal fatto che in
bioetica sono presenti approcci e tentativi di risposta ai dilemmi morali variegati e divergenti sia all’interno di una
stessa tradizione culturale, sia fra culture altre. Del resto non solo le tradizioni culturali in senso stretto, ma anche quelle
religiose dovranno sempre più confrontarsi con le questioni sollevate dalla riflessione bioetica. Di fronte al procedere
veloce della scienza e delle sue possibili applicazioni biotecnologiche le risposte contrastanti elaborale delle diverse
concezioni bioetiche o dalle culture tradizionali e dalle religioni pongono, insieme, l’esigenza dello sviluppo del dialogo
ragionevole a livello morale e quella del governo tollerante, sul piano politico, delle varie proposte concorrenti e
conflittuali. L’urgenza di decisioni quali quelle riguardanti lo screening genetico di intere popolazioni (come nel caso
islandese), l’immissione sul mercato di cibi geneticamente modificati, il mercato di organi, la maternità surrogata, ecc.,
richiedono normative e istituzioni operanti a livello non solo nazionale, ma sovranazionale. La giustificazione delle
decisioni assunte dovrà essere, quando si riferiscano a materie eticamente controverse, esclusivamente politica relativa,
cioè, al modus vivendi e al governo dei conflitti. Lo stesso richiamo ai principi costituzionali, per quanto riflettano ciò
che all’interno di una determinata società è oggetto di condivisione etica, non può essere giustificato verso culture altre
con l'affermazione che essi, al di là del legislatore e del contesto proprio della cultura di cui sono espressione, attengono
alla natura umana come tale, se non altro perché anche la nozione di natura umana è ampiamente controversa tanto
all’interno della cultura occidentale quanto fra le varie culture. La giustificazione può, pertanto, essere esclusivamente
politica e richiamarsi ai limiti della tolleranza previsti nei dettati costituzionali e nelle convenzioni e dichiarazioni
sottoscritte a livello internazionale.
Deficit di cittadinanza
A quali condizioni è possibile per i cittadini non delegare completamente allo Stato le decisioni di carattere bioetico? Le
concezioni di Foucault segnano la nascita della nozione di biopolitica. Per quanto ci si possa discostare dalla sua visione
l’intera serie di problemi di ordine biopolitico che emergono dalla realtà attuale contribuiscono ad evidenziare
l’esigenza di una seria riflessione sul biopotere sia dal punto di vista del rapporto individuo–società–Stato sia rispetto
alla corrispondenza fra crescita delle capacità e delle libertà e, ancora, rispetto al rapporto conflittuale libertà–sicurezza
(dei singoli, come degli Stati). Dobbiamo fare tutto ciò che possiamo? Oppure è necessario individuare limiti e chi è
legittimato a imporli? Su questioni che riguardano così profonda-mente le nostre vite e quelle delle generazioni future
che, come nel caso di interventi “migliorativi” sulla linea germinale mettono in questione la nostra stessa
autocomprensione di genere e configurano una sorta di neopaternalismo non più dello Stato, bensì dei sin-goli che
progetterebbero secondo la loro specifica (e storicamente) determinata visione del bene la loro discendenza, ma anche
rispet-to a questioni di più immediata attualità quali quelle relative alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, una
consapevolezza pub-blica dei problemi e delle prospettive che sfoci in un dibattito ampio e approfondito nella società e
non solo fra gli addetti ai lavori, è ancora di là da venire. Ciò finisce per comportare una sorta di deficit di cittadinanza
poiché oggi la sua piena espressione non può fare a meno di confrontarsi con i dilemmi propri della bioetica e con
l’esigenza di assumere decisioni politiche tolleranti e rispettose del pluralismo etico e culturale della società in cui
viviamo. In breve, un vero esercizio della cittadinanza in termini liberal–democratici richiede di non delegare allo Stato
il potere di controllo sulla vita nostra e delle generazioni future e, insieme, la ricerca e alla fissazione di regole
condivise concernenti l’esercizio della libertà di scelta individuale in ordine alle prospettive di intervento genetico
migliorativo che s’intravedono in tempi non remoti.
Una carta dei diritti a livello planetario
Oggi è spesso possibile fare all’estero ciò che è vietato nei singoli Stati. Non è evidente la necessità di accordi
biopolitici sopranazionali? In una realtà caratterizzata dalla crisi degli Stati nazionali moderni e dall’emergere,
nell’economia come nella politica di centri decisionali sopranazionali, le articolazioni odierne del biopotere richiedono
che la biopolitica sia in grado di confrontarsi con emergenze planetarie accentuate dal processo di globalizazione. Le
politiche sanitarie e demografiche, gli screening genetici su intere popolazioni, lo sviluppo e l’immissione sul mercato
di organismi geneticamente modificati, l’utilizzo delle biotecnologie, la possibilità stessa di intervento sul genoma
umano, i problemi ecologici, un mondo sempre più stretto e veloce in cui si incontrano culture fra loro altre, pongono
questioni di governo democratico ineludibili. La sfida che sembra riservarci il futuro prossimo è quella di sviluppare
capacità di limitazione e controllo del biopotere e biopolitiche liberal-democratiche in grado di esprimere carte dei
diritti condivise dalle cittadinanze e cogenti a livello planetario. Un governo del biopotere delegato interamente ai
politici e gestito da tecnocrati e specialisti mi sembra, infatti, una prospettiva per nulla auspicabile e perfino inquietante.
BIOPOTERE E BIOPOLITICA NELLA COSTITUZIONE IMPERIALE
A più titoli, i lavori di Michel Foucault hanno preparato il terreno per un esame dei meccanismi
del potere imperiale. In primo luogo, questi lavori ci consentono di riconoscere un passaggio
storico e decisivo, nelle forme sociali, dalla società disciplinare alla società di controllo. La
società disciplinare è la società nella quale il controllo sociale viene costruito attraverso una
rete sociale ramificata di dispositivi che producono e controllano costumi, abitudini e pratiche
produttive. Mettere questa società al lavoro ed assicurarne l'obbedienza al suo potere e ai suoi
meccanismi d'integrazione e/o di esclusione si ottiene tramite istituzioni disciplinari - la
prigione, la fabbrica, il manicomio, l'ospedale, l'università, la scuola, etc - che strutturano il
terreno sociale e offrono una logica propria alla "ragione" della disciplina.
Il potere disciplinare governa in effetti, strutturando i parametri e i limiti di pensiero e di
pratica, sanzionando e/o prescrivendo i comportamenti devianti e/o normali; Foucault si
riferisce abitualmente all'Ancien Regime e al periodo classico della civilizzazione francese per
illustrare l'apparizione della disciplinarietà, ma potremmo dire, più in generale, che la prima
fase di accumulazione capitalista nella sua interezza(in Europa come altrove) si è fatta secondo
questo modello di potere.
Dobbiamo comprendere al contrario la società di controllo come la società che si sviluppa alla
fine ultima della modernità e apre sul post-moderno, e nella quale i meccanismi di controllo si
fanno vieppiù "democratici", sempre più immanenti al campo sociale, diffusi nel cervello e nel
corpo dei cittadini. I comportamenti d'integrazione e di esclusione sociale propri del potere
sono anche sempre più interiorizzati dai soggetti stessi.
Il potere si esercita a questo punto tramite macchine che organizzano direttamente i cervelli
(grazie a sistemi di vantaggi sociali, di attività inquadrate, etc) verso uno stato di alienazione
autonoma, partendo dal senso della vita e dal desiderio di creatività. La società di controllo
potrebbe anche essere caratterizzata da una intensificazione ed una generalizzazione di
apparecchi(sistemi) della disciplinarietà che animano dall'interno le nostre pratiche comuni e
quotidiane; ma al contrario della disciplina, questo controllo si estende ben al di là dei luoghi
strutturati delle istituzioni, tramite reti flessibili, modulabili e fluttuanti.
In secondo luogo, il lavoro di Foucault ci permette di riconoscere la natura biopolitica di questo
nuovo paradigma del potere. Il biopotere è una forma di potere che regge e regolamenta la
vita sociale dall'interno, seguendola, interpretandola, assimilandola e riformulandola. Il potere
non può ottenere un controllo effettivo sulla vita intera della popolazione che diventando una
funzione integrante e vitale che ogni individuo possa abbracciare e riattivare in modo
assolutamente volontario.
Come dice Foucault" La vita è ora diventata ( ...) un oggetto di potere". La funzione più alta di
questo potere è di investire la vita in ogni sua parte e il suo primo compito è quella di
amministrarla. Il biopotere si riferisce anche a una situazione nella quale ciò che è
direttamente in gioco nel potere è la produzione e la riproduzione della vita stessa.
Questi due elementi del lavoro di Foucault si raccordano l'uno all'altro nel senso che solo la
società di controllo è in grado di adottare il contesto biopolitico come suo terreno esclusivo di
referenza. Nel passaggio dalla società disciplinare a quella di controllo, un nuovo paradigma di
potere si realizza, che viene definito dalle tecnologie che riconoscono la società come ambito
del biopotere.
Nella società disciplinare, gli effetti delle tecnologie biopolitiche erano ancora parziali nel senso
che la messa a norma si faceva secondo una logica relativamente rigida, geometrica e
quantitativa. La disciplinarietà fissava gli individui nel quadro delle istituzioni, ma non riusciva
ad consumarli/renderli inconsistenti al ritmo delle pratiche e della socializzazione produttrice;
non arrivava al punto di penetrare interamente le coscienze e i corpi degli individui, al punto di
sottometterli e organizzarli nella totalità delle loro attività.
Nella società disciplinare, dunque, la relazione tra il potere e l'individuo restava una relazione
statica: l'invasione disciplinare del potere controbilanciava la resistenza dell'individuo. Al
contrario, quando il potere diventa interamente biopolitico, l'insieme del corpo sociale viene
abbracciato dalla macchina del potere e sviluppato nella sua virtualità. Questa relazione è
aperta, qualitativa e affettiva. La società, sussunta ad un potere che scende fino ai centri vitali
della struttura sociale e dei suoi processi di sviluppo, reagisce come un corpo unico. Il potere si
esprime anche come un controllo che invade le profondità delle coscienze e dei corpi della
popolazione- e che si estende, allo stesso tempo, attraverso la totalità delle relazioni sociali.
In questo passaggio dalla società disciplinare alla società di controllo, possiamo dunque
affermare che la relazione- sempre più intensa- di implicazione reciproca di tutte le forze
sociali, che il capitalismo ha cercato attraverso il suo sviluppo, è ora completamente realizzato.
Marx riconosceva qualcosa di simile in ciò che chiamava il passaggio dalla sussunzione formale
alla sussunzione reale del lavoro sotto il capitale e, più tardi, i filosofi della scuola di
Francoforte hanno analizzato il passaggio (molto prossimo) della sussunzione della cultura ( e
delle relazioni sociali) sotto la figura totalitaria dello Stato, o realmente nella dialettica
perversa dei Lumi. Comunque, il passaggio al quale noi ci riferiamo è fondamentalmente
differente: in luogo di focalizzarsi sul carattere unidimensionale del processo descritto da Marx,
poi riformulato ed esteso dalla Scuola di Francoforte, il passaggio evocato da Foucault tratta
fondamentalmente del paradosso della pluralità e della molteplicità- prospettiva che Deleuze e
Guattari sviluppano ancor più chiaramente. L'analisi della sussunzione reale, quando questa sia
compresa come un investimento non solamente della dimensione economica o culturale della
società, ma anche- e piuttosto- del bios sociale stesso, e quando essa sia attenta alle modalità
della disciplinarietà e/o del controllo, turba l'immagine lineare e totalitaria dello sviluppo
capitalista. La società civile è assorbita nello Stato, ma la conseguenza di questo è
un'esplosione degli elementi che erano prima correlati e mediati nella società civile. Le
resistenze non sono più marginali ma attive nel cuore di una società che si espande in rete; i
punti individuali sono singolarizzati in " mille piani". Quello che Foucault costruiva
implicitamente- e che Deleuze e Guattari hanno reso esplicito- è, di conseguenza, il paradosso
di un potere che, mentre unifica e ingloba in se stesso tutti gli elementi della vita sociale ( e
perdendo allo stesso tempo la sua capacità di mediare effettivamente le differenti forze
sociali), rivela in questo stesso momento un nuovo contesto, un nuovo "milieu" (ambito) di
pluralità e singolarizzazione non controllabile- un ambito dell'evento.
Queste teorie della società di controllo e del biopotere descrivono entrambe gli aspetti
fondamentali del concetto d'Impero. Questo concetto è il quadro nel quale la nuova
universalità dei soggetti deve essere compresa ed è la finalità verso cui tende il nuovo
paradigma del potere. Un vero abisso si apre qui tra gli antichi quadri teorici della legge
internazionale (nella sua forma contrattuale o nella forma delle Nazioni Unite) e la nuova realtà
della legge imperiale. Tutti gli elementi intermedi del processo sono scomparsi de facto,
sebbene la legimittità dell'ordine internazionale non può più costruirsi tramite mediazioni, ma
deve piuttosto essere compreso subito e immediatamente in tutta la sua diversità. Abbiamo
già riconosciuto questo fatto da un punto di vista giuridico. Abbiamo visto, in effetti, che
quando la nuova nozione di diritto emerge nel contesto della mondializzazione e si presenta
come capace di trattare la totalità della sfera planetaria come un insieme sistematico unico,
bisogna supporre un presupposto immediato (l'azione in uno stato di emergenza) e una
tecnologia appropriata, flessibile e formativa (le tecniche di polizia).
Anche se lo stato di emergenza e le tecniche di polizia costituiscono il nocciolo duro e
l'elemento centrale del nuovo diritto imperiale, questo nuovo regime non ha comunque niente
a che vedere con gli artifici giuridici della dittatura o del totalitarismo che sono stati descritti in
altri tempi ed a squilli sonanti di tromba da molti (e financo troppi, in effetti) autori. Al
contrario, il potere della legge continua a giocare un ruolo centrale nel contesto dell'evoluzione
contemporanea: il diritto resta in vigore e- precisamente grazie allo stratagemma dello stato di
emergenza e delle tecniche di polizia- diventa procedura. E' una trasformazione radicale che
rivela la relazione non mediata tra il potere e le soggettività, e dimostra allo stesso tempo in
una volta l'impossibilità di mediazioni "anteriori" e la diversità temporale non controllabile
dell'evento. Dominare gli spazi illimitati del globo, penetrare le profondità del mondo biopolitico
e affrontare una temporalità imprevedibile: tali sono le determinazioni sulle quali il nuovo
diritto sovranazionale dev'esser definito. E' là che il concetto d'Impero deve lottare per
stabilirsi, là dove deve dar prova della sua efficacia - partendo dove la macchina deve essere
avviata.
Da questo punto di vista, il contesto biopolitico del nuovo paradigma è perfettamente centrale
per la nostra analisi. E' quello che offre al potere una scelta, non soltanto tra obbedienza e
disobbedienza o tra partecipazione politica formale o rifiuto, ma anche per tutte le alternative
di vita e di morte, di ricchezza e povertà, di produzione e riproduzione sociale, etc; Ferme
restando le grandi difficoltà che la nuova nozione di diritto incontra per rappresentare questa
dimensione del potere dell'Impero, e tenuto conto della sua incapacità di toccare il biopotere
concretamente in tutti i suoi aspetti materiali, il diritto imperiale non può rappresentare ( nel
migliore dei casi) che parzialmente lo schema sottostante della nuova costituzione di un ordine
mondiale, e non saprebbe realmente concepire il motore che lo mette in movimento. La nostra
analisi deve dunque concentrarsi piuttosto sulla dimensione produttrice del biopotere.
La produzione della vita
La questione della produzione, in relazione con il biopotere e la società di controllo, rivela
comunque una reale debolezza del lavoro degli autori dai quali abbiamo preso a prestito queste
nozioni. Dobbiamo chiarire anche le dimensioni "vitali" o biopolitiche dell'opera di Foucault, in
relazione con la dinamica di produzione. In numerosi lavori della metà degli anni Settanta, il
filosofo ha affermato che non si potrebbe comprendere il passaggio dallo Stato "sovrano"
dell'Ancien Régime allo Stato " disciplinare" senza mettere in conto il modo in cui il contesto
biopolitico è stato progressivamente asservito all'accumulazione capitalista: "Il controllo della
società sugli individui non si effettua solamente attraverso la coscienza o l'ideologia, ma anche
nel corpo e con il corpo. Per la società capitalista, è la biopolitica che conta di più, il biologico, il
somatico, il corporale."
Il primo degli obiettivi centrali della sua strategia di ricerca, in quel periodo, era di andare al di
là delle versioni del materialismo storico - ivi comprese numerose varianti della teoria marxista
- che consideravano il problema del potere e della riproduzione sociale su un piano
sovrastrutturale, distinto dal piano reale e fondamentale della produzione. Foucault tentava
anche di ricondurre il problema della riproduzione sociale e tutti gli elementi della
"sovrastruttura" entro i limiti della struttura materiale fondamentale, e di definire questo
terreno non solo in termini economici, ma anche in termini culturali, corporali e soggettivi.
Possiamo anche comprendere come la concezione che Foucault aveva dell'insieme sociale si
realizza e si perfeziona quando, in una fase successiva del suo lavoro, ha scoperto le linee
emergenti della società di controllo come immagine del potere attivo attraverso la biopolitica
globale della società. Non sembra tuttavia che Foucault - sebbene abbia efficacemente
percepito l'orizzonte biopolitico della società e l'abbia definito come un campo di immanenza sia mai riuscito a liberare il suo pensiero da questa epistemologia strutturalista che guidava la
sua ricerca dal principio. Per "epistemologia strutturalista", intendiamo qui la reinvenzione di
un'analisi funzionalista nell'ambito delle scienze umane, metodo che sacrifica effettivamente la
dinamica del sistema, la temporalità creatrice del suo movimento e la sostanza ontologica della
riproduzione culturale e sociale. In effetti, se, giunto a questo punto, avessimo domandato a
Foucault, chi (o cosa) diriga il sistema, o piuttosto cos'è il "bios", la sua risposta sarebbe stata
non udibile o inesistente.
In fin dei conti, ciò che Foucalt non è riuscito a comprendere, è proprio la dinamica reale della
produzione nella società biopolitica.
Al contrario, Deleuze e Guattari ci offrono una comprensione propriamente poststrutturalista
del biopotere, che rinnova il pensiero materialista e si ancora saldamente alla questione della
produzione dell'essere sociale. Il loro lavoro demistifica lo strutturalismo e tutte le concezioni
filosofiche, sociologiche e politiche che fanno della fissità del quadro epistemologico un punto
di riferimento inevitabile. Concentrano la loro attenzione sulla sostanza ontologica della
produzione sociale. Le macchine producono: il funzionamento costante delle macchine sociali,
nei loro diversi apparati e nelle loro diverse combinazioni, produce il mondo con i soggetti e gli
oggetti che lo costituiscono. Deleuze e Guattari, nondimeno, non sembrano essere
capaci di concepire positivamente che le tendenze al movimento continuo e i flussi assoluti;
così anche nel loro pensiero, gli elementi creatori e l'ontologia radicale della produzione del
sociale restano senza sostanza e potere. Scoprono la produttività della riproduzione sociale produzione innovatrice, produzione di valori, relazioni sociali, affetti, futuri, etc. - ma riescono
solo ad articolarla in modo superficiale ed effimero, come un orizzonte caotico indeterminato,
segnato dall'evento inafferrabile.
Possiamo concepire più agevolmente la relazione tra produzione sociale e biopotere nell'opera
di un gruppo di marxisti italiani contemporanei: questi riconoscono in effetti la dimensione
biopolitica in funzione della nuova natura del lavoro produttivo e della sua evoluzione vivente
nella società, ed utilizzano per farlo espressioni come "intellettualità di massa" e "lavoro
immateriale", come pure il concetto marxista di "intelligenza generale".
Queste analisi partono da due progetti di ricerca correlati. Il primo consiste nell'analisi delle
trasformazioni recenti del lavoro produttivo e della sua tendenza a diventare sempre più
immateriale. Il ruolo centrale precedentemente occupato dalla forza del lavoro degli operai di
fabbrica nella produzione del plusvalore è oggi assunto in modo crescente da una forza lavoro
intellettuale, immateriale e fondata sulla comunicazione. E' anche necessario sviluppare una
nuova teoria politica del plusvalore, capace di porre il problema di questa nuova accumulazione
capitalista al centro del meccanismo di sfruttamento ( e dunque - forse - al centro della rivolta
potenziale).
Il secondo progetto ( seguito logico del primo) sviluppato da questa scuola consiste nell'analisi
della dimensione sociale ed immediatamente comunicante del lavoro vivo nella società
capitalista contemporanea; pone anche con insistenza il problema delle nuove figure della
soggettività, al tempo stesso nel loro sfruttamento e nel loro potenziale rivoluzionario. La
dimensione immediatamente sociale dello sfruttamento del lavoro vivo immateriale sommerge
il lavoro in tutti gli elementi relazionali che definiscono il sociale, ma attiva anche, allo stesso
tempo, gli elementi critici che sviluppano il potenziale di insubordinazione e di rivolta
attraverso l'insieme delle pratiche lavorative. Dopo una nuova teoria del plusvalore, dunque,
bisogna formulare una nuova teoria della soggettività, che passa e funziona fondamentalmente
tramite la conoscenza, la comunicazione e il linguaggio.
Queste analisi hanno anche ristabilito l'importanza della produzione nel quadro del processo
biopolitico della costituzione sociale, ma l'hanno ugualmente isolata sotto certi aspetti,
assumendola nella sua forma pura e affinandola sul piano ideale. Esse hanno lavorato come se
scoprire le nuove forme delle forze produttrici - lavoro immateriale, lavoro intellettuale
massificato, lavoro de" l'intelligenza diffusa" - fosse sufficiente per cogliere concretamente la
relazione dinamica e creatrice tra produzione materiale e riproduzione sociale. Reinserendo la
produzione nel contesto biopolitico, la presentano quasi esclusivamente sull'orizzonte del
linguaggio e della comunicazione. Il primo degli errori più gravi, da parte di questi autori, è
dunque stato la tendenza a trattare le nuove pratiche lavorative nella società biopolitica solo
nei loro aspetti intellettuali e non materiali.
Ora la produttività dei corpi e il valore degli affetti sono, al contrario, assolutamente centrali in
questo contesto. Noi affronteremo dunque i tre aspetti principali del lavoro immateriale
nell'economia contemporanea: il lavoro di comunicazione della produzione industriale,
recentemente connesso dentro la rete d'informazione; il lavoro di interazione dell'analisi
simbolica e della risoluzione dei problemi; il lavoro di produzione e di manipolazione degli
affetti. Questo terzo aspetto, con la sua focalizzazione sulla produttività del corporale e del
somatico, è un elemento estremamente importante nelle reti contemporanee della produzione
biopolitica. Il lavoro di questa scuola e la sua analisi dell'intelligenza generale segnano dunque
un progresso certo, ma il suo quadro concettuale resta troppo puro, quasi angelico. In ultima
analisi, queste nuove teorie non fanno, anch'esse, altro che grattare la superficie della
dinamica produttrice del nuovo quadro teorico del biopotere. Il nostro proposito è dunque di
lavorare a partire da queste ricerche parzialmente riuscite per riconoscere il potenziale della
produzione biopolitica. E' precisamente raffrontando in modo coerente le differenti
caratteristiche che definiscono il contesto biopolitico che abbiamo descritto finora, e
riconducendole all'ontologia della produzione, che saremo in grado di identificare la nuova
figura del corpo biopolitico collettivo- che potrà comunque restare tanto contraddittorio quant'è
paradossale. E' che questo corpo diventa struttura non negando la forza produttrice originaria
che lo anima, ma riconoscendola; diventa linguaggio- insieme scientifico e socialeperchè si tratta di una moltitudine di corpi singoli e determinati in cerca di una relazione. E'
anche, insieme, produzione e riproduzione, struttura e sovrastruttura, perchè è vita nel senso
più pieno e politico in senso proprio. La nostra analisi deve calarsi nella giungla delle
determinazioni produttrici e conflittuali che ci offre il corpo biopolitico collettivo. Il contesto
della nostra analisi deve dunque essere lo sviluppo della vita stessa, il processo della
costituzione del mondo e della storia. L'analisi dovrà essere proposta non tramite forme ideali,
ma nel quadro della complessità densa dell'esperienza.
Società e comunicazione
Domandandoci come gli elementi politici e sovrani della macchina imperiale arrivano a
costituirsi, scopriamo che non è assolutamente necessario limitare la nostra analisi alle
istituzioni regolatrici sovranazionali stabilite, e neppure concentrarla su di esse.
Le organizzazioni delle Nazioni Unite, con le loro grandi agenzie multinazionali e transnazionali
per la finanza e il commercio ( il FMI, la Banca Mondiale, l'OMC, etc.,) non diventano
importanti nella prospettiva di una costituzione giuridica sovranazionale che quando le si
consideri nel quadro della dinamica della produzione biopolitica dell'ordine mondiale. La
funzione che esse occupavano nell'antico ordine internazionale- vorremmo sottolinearlo- non è
ciò che dà ora una legittimazione a queste organizzazioni. Ciò che le legittima adesso è
piuttosto la loro funzione nuovamente possibile nel simbolico dell'ordine imperiale. Al di fuori di
questo nuovo quadro, tali istituzioni sono inefficaci. Al massimo, l'antico quadro istituzionale
contribuisce alla formazione e all'educazione del personale amministrativo della macchina
imperiale, all'addestramento della nuova èlite imperiale.
Le enormi società transnazionali e multinazionali costruiscono il tessuto connettivo
fondamentale del mondo biopolitico, sotto certi aspetti essenziale.
Il capitale, in effetti, è sempre stato organizzato nella prospettiva che abbraccia il mondo
intero, ma è soltanto nella seconda metà del XX secolo che le società industriali e finanziarie
multinazionali e transnazionali hanno veramente cominciato a strutturare biopoliticamente i
territori su scala mondiale. Alcuni affermano che queste società sono venute semplicemente ad
occupare il posto che era tenuto dai sistemi colonialisti ed imperialisti delle diverse nazioni
nelle fasi anteriori dello sviluppo capitalista, dall'imperialismo europeo del XIX secolo fino alla
fase fordista dell'evoluzione al XX secolo. Questo è in parte vero, ma questo posto stesso è
stato sostanzialmente trasformato dalla nuova realtà del capitalismo. Le attività delle società
non sono più definite dall'imposizione di un comando astratto e dall'organizzazione dello
sfruttamento puro e semplice e di scambi non equi. Esse strutturano e articolano, piuttosto,
direttamente territori e popolazioni, e tendono a fare delle Nazioni Unite semplici strumenti per
registrare i flussi delle merci, del denaro e delle popolazioni che mettono in azione. Le società
transnazionali ripartiscono direttamente la forza-lavoro sui diversi mercati, attribuiscono
funzionalmente le risorse e organizzano gerarchicamente i differenti settori della produzione
mondiale. La struttura complessa che seleziona gli investimenti e dirige le manovre finanziarie
e monetarie determina la nuova geografia del mercato mondiale, cioè in realtà la nuova
strutturazione biopolitica del mondo.
L'immagine più completa di questo mondo viene offerta in una prospettiva finanziaria. Da
questo punto di vista, possiamo distinguere un orizzonte di valori e una macchina di
distribuzione, un meccanismo di accumulazione e un mezzo di comunicazione, un potere e un
linguaggio. Non esiste nulla, né "vita selvaggia" né punto di vista esterno, che possa essere
sistemato al di fuori del campo controllato dal denaro; niente sfugge ad esso. Produzione e
riproduzione sono rivestiti di panni finanziari e di fatto, sulla scena del mondo, ogni figura
biopolitica si presenta addobbata dai suoi orpelli monetari: " Accumulate, accumulate! Questa
la Legge, questi i Profeti!".
Le grandi potenze industriali e finanziarie producono anche, non soltanto merci ma anche
soggettività. Producono soggettività agenti nel quadro del contesto biopolitico: bisogni,
relazioni sociali, corpi e spiriti- si torna a dire che producono produttori. Nella sfera biopolitica,
la vita è destinata a lavorare per la produzione e la produzione a lavorare per la vita. E' un
grande alveare in cui la regina sorveglia continuamente produzione e riproduzione. Più l'analisi
penetra profondamente, più scopre, a livelli crescenti d'intensità, gli assemblaggi comunicanti
delle relazioni interattiva.
Lo sviluppo delle reti di comunicazione possiede un legame organico con la comparsa del
nuovo ordine mondiale: si tratta, in altri termini, dell'effetto e della causa, del prodotto e del
produttore. La comunicazione non solo esprime ma anche organizza il movimento di
mondializzazione. Lo organizza moltiplicando e strutturando le interconnessioni tramite reti; lo
esprime e controlla il senso e la direzione dell'immaginario che percorre queste connessioni
comunicanti. In altri termini, l'immaginario è guidato e canalizzato nel quadro della macchina
comunicatrice. Ciò che le teorie del potere della modernità sono state forzate a considerare
come trascendente, cioè esterno alle relazioni produttrici e sociali, forma interna, immanente a
queste stesse relazioni. la mediazione è assorbita nella macchina di produzione. La sintesi
politica dello spazio sociale è fissata nello spazio della comunicazione. E' la ragione per la quale
le industrie di comunicazione hanno preso una posizione altrettanto centrale: non soltanto
organizzano la produzione su nuova scala ed impongono una nuova struttura appropriata allo
spazio mondiale, ma ne danno anche la giustificazione immanente. Il potere organizza in
quanto produttore; organizzatore, parla e si esprime in quanto autorità. Il linguaggio, in
quanto comunicatore, produce merci ma crea anche soggettività che mette in relazione e che
gerarchizza. Le industrie di comunicazione integrano l'immaginario e il simbolico nella struttura
biopolitica, non soltanto mettendole al servizio del potere, ma integrandole realmente e di fatto
nel suo stesso funzionamento.
Giunti a questo punto, possiamo cominciare a trattare la questione della legittimazione del
nuovo ordine mondiale. Questo non è nato da accordi internazionali esistenti precedentemente
né dal funzionamento delle prime organizzazioni sovranazionali embrionali, esse stesse create
sulla base di trattati fondati sul diritto internazionale. La legittimazione della macchina
imperiale è nata - almeno in parte - dalle industrie di comunicazione, cioè dalla trasformazione
del nuovo modo di produzione in una macchina. E' un soggetto che produce la sua propria
immagine di autorità. E' una forma di legittimazione che non riposa su null'altro all'esterno di
se stessa e che è riformulata incessantemente dallo sviluppo del suo proprio linguaggio di
auto-validazione.
Un'altra conseguenza dev'essere abbordata partendo da queste premesse.
Se la comunicazione è uno dei settori egemonici della produzione ed influisce sulla totalità del
campo biopolitico, allora dobbiamo considerare la comunicazione ed il contesto biopolitico
come coesistenti e coestensivi. Questo ci conduce ben lontano dall'antico terreno come lo ha
descritto, ad esempio Jurgen Habermas. In effetti, quando Habermas ha sviluppato il concetto
di azione comunicatrice, dimostrando così fortemente la sua forma produttrice e le
conseguenze ontologiche che ne derivano, partiva sempre da un punto di vista esterno a questi
effetti della mondializzazione, da una prospettiva di vita e di verità che poteva contrastare la
colonizzazione dell'individuo da parte dell'informazione. La macchina imperiale, comunque,
dimostra che questo punto di vista esterno non esiste più. Al contrario, la produzione
comunicatrice e la costruzione della legittimazione imperiale si muovono di concerto e non
possono più essere separate. La macchina è auto-validante e auto-poietica - cioè sistemica -.
Costruisce strutture sociali che svuotano o rendono inefficaci tutte le contraddizioni; crea
situazioni nelle quali, anche prima di neutralizzare la differenza con la coercizione, sembra
assorbirla in un gioco di equilibri auto-generatori ed auto-regolatori.
Come abbiamo detto altrove, ogni teoria giuridica che tratta le condizioni della postmodernità
deve mettere in conto questa definizione specificamente comunicatrice della produzione
sociale. La macchina imperiale vive producendo un contesto di equilibri e/o riducendo le
complessità; pretende di proporre un modello di cittadinanza universale ed intensifica a questo
scopo l'efficacia del suo intervento su ogni elementi della relazioni di comunicazione,
dissolvendo completamente identità e storia in un modo interamente postmoderno. Ma
contrariamente al modo in cui molte messe in conto postmoderne l'hanno fatto, la macchina
imperiale, in luogo di eliminare i racconti di fondazione, li produce e li riproduce nella realtà (i
principali racconti ideologici, in particolare), per rendere valido e celebrare il proprio potere. E'
in questa coincidenza di produzione tramite linguaggio, di produzione linguistica della realtà e
di linguaggio di auto-validazione che si trova una chiave fondamentale per comprendere
l'efficacia, la validità e la legittimazione del diritto imperiale.
Identità e solidarietà
Chiunque osservi le società contemporanee dal punto di vista psicologico rimane colpito da un paradosso: da un lato,
alcuni processi epocali (di cui tratteremo poco oltre) tendono a limitare, negare e perfino rimuovere il diritto alla
soggettività (1). Dall’altro, proprio perché le società contemporanee appaiono come molto individualizzate, emerge
con maggior enfasi il modo in cui gli individui si confrontano con la loro "identità personale", con chi propriamente
essi sono nel loro più profondo e di come pertanto vogliono essere riconosciuti. L’impressione è che essi attribuiscano
alle relazioni con gli altri un ruolo minimo, mentre sembra piuttosto che vivano con allarme il rischio che si disgreghi la
società in cui sono impegnati a ricercare la propria "identità personale". Parallelamente, emerge con frequenza la
paura che, di fronte alla complessità e varietà dei diversi ruoli sociali a cui ciascuno deve esporre la propria identità,
quest’ultima si frammenti (2). I tentativi di definizione del concetto d’identità sono molteplici e da questi dipende
anche il tipo di analisi e di risposte che possono venire date alle osservazioni sopra presentate.
In questo contributo, pur aperto a tutti gli apporti che sono pertinenti al tema dell’identità, ci limitiamo ad un
approccio strettamente psicodinamico e per questo ci sembra che l’ambito più adeguato per descrivere l’identità sia il
concetto di personalità in termini di un sistema probabilistico estremamente complesso, risultante dall’insieme dei
processi che consentono all’individuo umano di interiorizzare ed integrare in modo omeostatico le informazioni
provenienti dall’ambiente, cioè coerentemente alla sua specificità e singolarità psicobiologica (3). Questo sistema è
formato principalmente da tre sotto-sistemi: quello biologico, quello della cultura e quello psichico/mentale.
In questa prospettiva, l’identità personale può essere vista come quella funzione o aspetto centrale della coscienza di
sé, che consente la rappresentazione e la consapevolezza della specificità e continuità del proprio essere personale e,
al tempo stesso, della sua diversità in rapporto agli altri e alla realtà. In quanto esperienza empirica del sentimento
d’identità (4), (o, se si vuole, della propria irrepetibile singolarità psicobiologica) - il quale, con caratteri relativamente
durevoli benché non necessariamente stabili, rappresenta un fattore di continuità nel tempo – l’identità personale
implica, a sua volta, sia una permanente coerenza con se stessi, sia una persistente condivisione di qualche carattere
essenziale con altri (5). Questa condizione coinvolge la soggettività nella globalità della sua esperienza cosciente che -
in modo non astratto, bensì nel concreto del contesto ambientale - affonda le proprie radici nell'inconscio e lo
manifesta nella sfera cosciente. Per tale ragione, la ricerca sullo specifico dell'identità umana ha risentito in modo
incisivo delle condizioni storiche determinate in cui si è svolta e dei cambiamenti epocali a queste associati, in
particolare di quelli relativi al significato dei concetti di natura e di storia.
Costruire l’identità: il processo d’individuazione
Quanto detto dell’identità non prefigura, tuttavia (come forse è avvenuto talora in passato), un modello
definito ed in certo modo rigido a cui ispirarsi o conformarsi, bensì un "fattore" che, partendo da condizioni minimali
viene costruendosi attraverso un processo, che costituisce poi un compito essenziale e diremmo irrinunciabile per la
personalità umana: quello di portare a compimento la propria identità. Questo processo viene comunemente detto
processo di individuazione, in conformità all’iniziale denominazione di C.G. Jung (6). Nei suoi termini generali, tale
processo può essere descritto come l’impegno umano ad agire con operazioni complementari di differenziazione e di
integrazione, in modo che la personalità si costituisca in un tutto unitario ed organico e la sfera inconscia si integri con
quella della coscienza, permettendo all’individuo di giungere alla sua pienezza o, se vogliamo, ad una identità
compiuta (7).
I fattori del processo di individuazione
tra le condizioni che tutta la tradizione psicodinamica (e non solo) ritiene necessarie per poter vivere adeguatamente
il processo d’individuazione vi è la ricerca di senso, la quale implica a sua volta la scelta di una "filosofia" dell’esistenza
e di valori che siano assunti, almeno soggettivamente, come "assoluti" (8). Questa componente si è però molto
modificata nel contesto di pluralismo e di relativismo etico che stiamo vivendo, il quale sembra richiedere nuovi
paradigmi (9) e dunque anche un tipo diverso di attenzione, per coglierne orientamenti e prospettive.
Trasformazioni epocali ed identità
La collocazione stessa dell’identità in riferimento al sistema di personalità esige che essa venga considerata
strettamente solidale con la storia, sia personale che sociale, ed è pertanto necessario tracciare - almeno
schematicamente - la mappa del contesto storico culturale contemporaneo (10).
Concetto di natura e valori
Il cambiamento epocale forse più gravido di conseguenze sul concetto stesso di personalità - e quindi di identità - che
non si estende solo alle loro rappresentazioni sociali, ma che sta determinando una mentalità che si esprime in scelte
etiche, politiche, economiche fino ad oggi inedite per l’umanità, è il diverso modo d’intendere e di conferire valore al
concetto di natura. Quest’ultimo è infatti passato da una visione statica della realtà, connessa a precisi indirizzi di
pensiero filosofico, ad una concezione dinamica, forse originariamente sollecitata dalle teorie evoluzionistiche, ma che
comunque presenta un’ampia gamma di interpretazioni. Tale cambiamento ha inciso profondamente anche sul
concetto di valore, giungendo fino a mettere in discussione - come valore assoluto - la vita stessa e,
conseguentemente, l’identità individuale. Si sono venute così determinando ripercussioni tali, che noi tutti - pur
testimoni sovente partecipi di questo processo - ancora non riusciamo, tuttavia, a valutarne compiutamente neppure
la portata.
La dimensione del tempo
In conseguenza del riferimento debole tra tempo e natura e, ancor più, sotto la spinta sia delle aumentate complessità
sociali sia delle facilitazioni tecnologiche che consentono velocità mai prima immaginate, è divenuto molto difficile per
ogni persona inquadrare e fronteggiare la dimensione del tempo. Relativizzato (forse opportunamente) sia il tempo
cronobiologico che quello legato alla natura (stagioni, luce solare o notte ecc.), abbiamo bisogno di una molteplicità di
indicatori per estrapolarne il tempo soggettivo, quello vissuto, quello che è realmente fruito in funzione del processo
d’individuazione e che si integra nell’identità. Il tempo vissuto è infatti una sommatoria di spazi legati a determinazioni
per lo più indipendenti da noi e dalle nostre esigenze: tempo di lavoro e tempo libero o vacanze, calendari che variano
a seconda che siano riferiti all’anno economico o a quello sociale o ad altri parametri. E tutto questo incide talmente
sulla nostra identità che, quando si tratta d’impegnare del tempo di cui possiamo o vogliamo realmente disporre, lo
leghiamo subito alla nostra identità relazionale: se p. es. - alla richiesta di un appuntamento o di un impegno rispondiamo "non ho tempo", sovente intendiamo esprimere in realtà un dato relazionale, cioè "non ho tempo per
te", così come inversamente diciamo "per te troverò il tempo". Da questi brevi cenni è abbastanza agevole rendersi
conto di quanto sia problematico integrare tale frammentazione del tempo in un processo unitario di crescita della
personalità, e della difficoltà di gestire armoniosamente questa variegata gamma di esigenze. Nella generazione in
crescita, soprattutto adolescenti/giovani, questa situazione dà luogo ad una dispercezione del tempo, sia nel senso
dell’accelerazione (che si esprime come incapacità di attesa, di accettare che la nostra evoluzione avviene cogliendo le
esperienze per frammenti e per gradi), che determina spesso conseguenze di fragilità nella costruzione dell’identità o
anche esiti drammatici (11), sia nella completa irrilevanza della distinzione giorno/notte, anzi con marcata preferenza
per quest’ultima.
La riflessione su questi dati evidenzia quanto sia oggi rilevante il valore del tempo e come la scelta di dedicare o no
una parte di esso ad attività pro-sociali o legate alla solidarietà, acquisti - purché sostenuta da motivazioni adeguate una valenza molto pregnante in rapporto al progetto di compiutezza dell’identità.
La relativizzazione della storia
Un’altra dinamica che segna le trasformazioni epocali è quella che potremmo chiamare la relativizzazione della storia,
talmente marcata che nelle generazioni giovani si presenta piuttosto come un’amnesia, se non addirittura come una
vera e propria rimozione. Le ragioni sono molteplici, due le principali. La conoscenza odierna è di tipo
prevalentemente, se non esclusivamente, esperienziale e proprio questa dimensione è scarsamente trasferibile da
parte delle generazioni più adulte. Se prendiamo un qualsiasi ambito - p. es. il lavoro - è facile constatare come i
modelli che hanno caratterizzato le diverse forme del lavoro fossero fondati sulla trasmissione di conoscenze e di
esperienze, che oggi invece - proprio perché contrapposte al concetto d’innovazione - sono, di fatto, poco utilizzabili e
quindi relegate nell’immaginario patetico (il medico di famiglia, l’artigiano che vediamo solo nelle mostre
dell’artigianato, il contadino-filosofo ecc.) o anche semplicemente scomparse. Questi elementi costituiscono il terreno
su cui si sta alimentando la crisi - non già, credo, dell’identità - ma dello stesso modello dell’identità personale e
sociale, facendone una questione a tutt’oggi aperta. Come acutamente osserva U. Galimberti, poiché le basi sopra
indicate hanno dissolto il riferimento della maggioranza delle persone ad un modello d’identità sostanziale collegata
direttamente ad un certo principio naturale e hanno messo, di fatto, tra parentesi la possibile assolutezza della verità,
è emerso di conseguenza un interesse sull’identità - legato attualmente al progresso delle scienze - considerata nel
suo aspetto funzionale nei confronti della rete di relazioni con le varie dimensioni che costituiscono il mondo (12).
In questa dinamica è stata coinvolta anche la spinta evolutiva che, per secoli, è stata la ricerca della sapienza oppure
della salvezza, nel cui contesto si radicava la costruzione dell’identità nel suo aspetto riflessivo. Le grandi tradizioni
religiose o filosofiche sono tutte narrazioni storiche e - come tali - di faticoso approccio, mentre il riservarsi del tempo
per riflettere in modo introspettivo non sembra essere oggi una pratica frequente. Avviene così che, per grande parte
delle persone almeno nel mondo occidentale, l’autocoscienza della propria identità non passerà attraverso uno scavo
nella propria interiorità, bensì attraverso uno sguardo rivolto, non più a se stessi, ma fuori di sé, a quelle regole o
norme che, in un dato periodo ed in una data società, descrivono che cos’è una persona normale o sana o adeguata.
In tale contesto, dove il soggetto è sempre meno "individualizzato", mentre aumenta la complessità delle relazioni, dei
rapporti interpersonali e degli spazi di libertà interiore, la scienza che sembrava (e per alcuni tuttora è) l’ultima deriva
dell’avventura umana si avvicina talmente al concetto di tecnica, da sembrare quasi appiattita su di essa.
La logica tecno-logica
È importante tenere presente che la tecnologia non è solo una delle possibili forme - o forse, al momento attuale, la
migliore - di assicurare la produzione di oggetti materiali, che si svolge nel rigore dell’oggettività di rappresentazioni
formali, ma dà luogo ad una logica sua propria, che diviene poi visione della realtà.
Sulla base delle premesse già descritte, la logica tecnologica dischiude la mente ad un orizzonte in cui il futuro è dato
effettivamente dalla proiezione di pensieri e desideri che divengono teoricamente possibili/realizzabili. È ovvio che,
almeno fino ad oggi, la "salvezza" tecnologica, come pure l’ancoraggio dell’identità a questa novella religio finora del
tutto inedita e quindi sconosciuta, abbia avuto dei costi elevati. Senza voler in alcun modo negare quanto ha prodotto
in termini di miglioramento della qualità di vita, va però detto che essa ha determinato anche lo strutturarsi,
implicitamente o forse inconsciamente accettato, di una perdita di soggettività e quindi di libertà. Non è forse vero, p.
es., che per la maggioranza delle persone l’identità non si esprime nel libero pensare/scegliere il proprio modo di
evoluzione, bensì nello scegliere all’interno di quanto è già stato disposto? e che, se così non avviene, la scelta di una
data persona verrà ritenuta atipica, talora un po’ ironicamente originale, oppure folle?
Due ricadute specifiche sulla costruzione e sul vissuto dell’identità
Fra le molteplici conseguenze prodotte dalle trasformazioni epocali descritte, sia sul processo di costruzione
che sul vissuto dell’identità, mi sembra che due - forse più facilmente rilevabili dal versante della clinica psicodinamica
- siano più immediatamente ricollegabili alla relazione con gli altri e quindi alla solidarietà.
Il problema del lavoro
Un fattore che sta acquisendo un peso sempre maggiore nella percezione di sé, e quindi nella costruzione della
propria identità. è quello della accresciuta importanza data al lavoro come condizione di identità personale e sociale.
Si tratta di un problema molto ampio, perché non riguarda soltanto - come poteva essere il caso più frequente alcuni
decenni fa - le persone che sono in attesa d’inserirsi nel mondo del lavoro ma, sempre più spesso, coinvolge quanti - in
età adulta, ma ancora piena di potenzialità e di capacità produttive - debbono lasciare un lavoro che avevano,
determinando una sorta di duplice paradosso. Da un lato, l’invasività (13) della tecnologia - forse governata
unidirezionalmente - sta riducendo le opportunità di lavoro, e quindi facilita se non addirittura induce crisi di identità a
vari livelli del ciclo di vita ma, al contempo, la società nel suo insieme si rivolge a chi lavora, a chi ha un’identità
lavorativa, non basta cioè avere delle conoscenze o delle competenze, queste debbono essere riconosciute attraverso
un meccanismo sociale (p. es. un contratto di consulenza o di lavoro). Inoltre, quello che è stato uno dei sogni più
arcaici e ripetuti della persona umana - la liberazione dal lavoro per avere più tempo personale - si sta trasformando in
un incubo. Queste considerazioni ci portano a constatare come la nostra realtà sociale ha fatto coincidere il concetto
di lavoro con il diritto alla vita o con l’essere considerato attivo - è evidente a tutti l'equazione secondo cui chi non
lavora non esiste dal punto di vista sociale: non ha diritti, non ha potere contrattuale, non ha soddisfazioni, insomma
non ha più un’identità in senso pieno - rimuovendo, come sopra detto, in modo molto grave il fattore che è invece
dietro ad ogni lavoro: un uomo o una donna che lavorano (14).
Rispetto all’analisi marxista dell’alienazione nel lavoro (di cui ancora sopportiamo le conseguenze), noi ci
troviamo oggi confrontati con un quadro psicosociale differente, quello dell’alienazione da lavoro che consiste nel
completo appiattimento dell'uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse divenuta l’unico indicatore della
riconoscibilità sociale e sovente anche personale, nel senso dell’autoriconoscimento della propria identità di uomo.
Oggi siamo testimoni, più consapevolmente partecipi, della comparsa e della diffusione di un nuovo "tipo
umano", quasi fosse il risultato di una sorta di selezione adattiva della specie. Si tratta dell’ "uomo che lavora" come
vera tipicizzazione dell’essere umano, che occupa sempre più gli scenari della società e va gradualmente impregnando
di sé l’immaginario collettivo. Questo tipo di individuo umano è già parte talmente radicata dell’identità sociale, che il
dichiararsi disoccupato vuol dire - sotto il versante psicosociale - presentarsi come "senza identità", soprattutto nelle
fasce più deboli. L’assenza di un lavoro riconosciuto e remunerato viene vissuta come assenza dalla vita, essendosi
affermata la convinzione che la vita è qualche cosa di accessibile e fruibile solo attraverso il lavoro ed il denaro.
È il problema dell’identità che ancora non ha trovato il modo di declinarsi nella sua singolarità psicobiologica,
svincolandosi dall’obbligo di modellarsi su quanto la realtà socioculturale - soprattutto politica ed economica propone in modo esigente e fin arrogante. Il modello vincente è quello della persona capace d’iniziativa, di rischio,
d’intraprendenza, che pone in secondo piano il mondo degli affetti, delle emozioni e dell’interiorità, rispetto alla
richiesta d’investire in logiche ed obiettivi che sovente debbono essere accolti in modo acritico e che, comunque,
sfuggono nelle loro reali connessioni con la maturazione umana, ma per i quali - soprattutto nell’area aziendale - viene
richiesto un forte senso di responsabilità e di appartenenza.
Ritengo che, di fronte ad una simile pressione, sorga una forma di depressione collettiva (15), che esprime
l’incapacità - e forse l’impossibilità - di decidere percorsi più individualizzati e personalizzati, aggravata dal logorio di
una realtà epocale in trasformazione, la cui complessità aumenta secondo modalità poco prevedibili, mentre il fattore
"soggettività" non trova spazio se non nelle forme di protagonismo e sovente di narcisismo esibito. In quest’orizzonte,
prendere consapevolezza del proprio stato d’animo come melanconico o depresso è socialmente, ma anche
personalmente, mal tollerato e per questo viene negato. Non sto riferendomi ad un quadro clinico in senso
tradizionale, ma ad una dinamica collettiva che sollecita inconsciamente meccanismi di difesa di gruppo, o appunto
collettivi (come p. es. negare l’esistenza della depressione nel senso da me ora indicato, riducendola a puro fattore di
squilibri biochimici facilmente restaurabili con un po’ di psicofarmaci e una dose di "pensare positivo"), oppure
l’attribuisce all’inadeguatezza delle persone, con giudizi del tipo "non avere fegato", "essere smidollati" ecc. Vorrei
porre in evidenza come la riduzione alla dimensione biochimica di un vasto stato d’animo, quello appunto della
depressione collettiva, non rientra nell’ambito delle erudite disquisizioni che gli specialisti (e anche i non specialisti...)
offrono periodicamente come una sorta di recital diversivo sui vari scenari mediatici, ma è finalizzata - anche se non
necessariamente in modo consapevole od intenzionale - a staccare il problema della depressione, e quindi dello "star
male", da quello del "mal essere" e cioè dalla considerazione del problema in rapporto al come l’identità si colloca e si
confronta nel mondo in cui vive. L’articolazione delle strategie difensive inconsce - e, a mio parere, collettive - non si
esaurisce tuttavia nella negazione, ma determina un agire (un acting out) molto particolare, che si traduce in un
rapporto compulsivo con il lavoro, talmente incistato con le nostre motivazioni profonde che quasi non ci accorgiamo
di come anche le modalità di utilizzare il tempo libero - p. es. le vacanze - tendano sempre più spesso ad essere
"scelte" all’interno di uno dei possibili pacchetti offerti dagli operatori del settore, rappresentando così - a ben vedere
- una sorta di programma di lavoro o almeno di attività a cui adeguarsi.
Già questa prima ipotesi interpretativa di gran parte della realtà sociale pone l’interrogativo su quale spazio e
quale senso possa trovare l’individuo per relazioni ed impegni che sfuggano al mondo del lavoro.
Comunicare senza corpi ma solo con gli organi...
Un secondo fattore di grande importanza è dato senza dubbio dalle nuove modalità con cui le persone si mettono in
rapporto tra loro, soprattutto dal sistema della rete o Internet. Questo, insieme a TV e computer, è infatti uno
strumento che ha determinato modalità realmente nuove di conoscenza e di relazioni, in quanto sta modificando
radicalmente il nostro modo di pensare, trasformandolo da analitico, strutturato, sequenziale e referenziale, in
generico, globale, e comunque - rispetto alla cultura di poco tempo fa - poco articolato e differenziato. Questa
trasformazione non è necessariamente negativa, ma costituisce una frattura oggettiva tra la cultura dei giovani e le
modalità - come pure, in parte, le tematiche - che vengono trasmesse dalla cultura scolastica. La cultura giovanile è
quanto di più dissonante vi possa essere rispetto alla cultura scolastico-accademica, proprio perché fondata
sull’esperienza vissuta e non sull’analisi delle esperienze o sulla loro spiegazione verbale, tesa all’immediatezza e non
alle lunghe scansioni dei tempi dell’apprendimento scolastico. Nel processo di costruzione dell’identità giovanile, la
scuola e spesso l’università costituiscono delle realtà non solo aleatorie ma museali, tanto che il frequentarle è una
sorta di finzione scenica, mentre la vita autentica, quella che si esprime in emozioni globali, sta altrove: nei loro luoghi
d’incontro (discoteche, p. es. ) ma soprattutto nella cultura della rete, con i suoi linguaggi, mobilità/instabilità,
potenzialità senza confini, assenza di norme rigide ecc. (16)
Questo ha già prodotto dei passaggi nel tipo di intelligenza, nel privilegiare la visione e, secondariamente, l’udito (17)
e, di conseguenza, nella percezione e nell’autodescrizione di un’identità, in cui il soma diviene secondario o almeno
parcellizzato.
Tra vivere e sopravvivere: un nuovo modello d’identità?
L’impatto delle trasformazioni epocali, e in particolare dei fattori che ho sottolineato, è anche la fonte di una
certa delusione che comincia dal declino dell’ottimismo fideista nella scienza, peraltro facilmente osservabile nel
moltiplicarsi non solo di "medicine alternative", ma di tutta una serie di movimenti che ricercano vie alternative, di
salvezza, di guarigione, di serenità, di liberazione (18).
Si tratta di movimenti che esprimono un modo di sentire la vita molto difficile da decodificare e soprattutto da
esplicitare, pur avendo già un suo spessore nel pensiero e nell’immaginario di molte persone. Alle generazioni più
adulte e alle stesse persone che si occupano di politica, educazione e persino di filosofia o di religione, sovente
sfuggono sia le angosce che sovrastano le generazioni giovani, sia i movimenti di reazione in senso costruttivo che già
sono in atto.
Basti pensare che fin dalle più importanti esperienze dell’esistere, come l’iniziazione alla vita sessuale e all’amore,
grava l’ombra p. es. dell’AIDS, come pure la convinzione di non avere una possibilità di essere protagonisti se non a
costo di competizioni e rinunce, unita alla consapevolezza che l’aumento teoricamente illimitato di opportunità è, di
fatto, precluso alla maggioranza dei giovani; questo fa parte dell’opinione consapevole di moltissimi di loro che, con
una visuale non del tutto priva di fondamento, guarda con angoscia latente all’evolversi del problema ambientale, alla
continua riproduzione di conflitti e guerre, alla perversione di strumenti, di per sé neutri o positivi, come Internet, alla
scarsa possibilità di esprimere e di far valere sul serio la propria soggettività.
Per questo non è raro leggere in filigrana l’ambiguità tra il desiderio di vita e il dubbio se la vita non sia un male in sé e
comunque fino a che punto valga la pena di vivere (19). Non dobbiamo lasciarci ingannare su questo punto: p. es., una
buona parte della ricerca scientifica sta reagendo a sua volta alla stessa modalità di depressione collettiva epocale, in
quanto quest’ultima coinvolge anche l’identità dei ricercatori e le loro reali motivazioni, inducendoli a gettarsi in una
sorta di ricerca anch’essa compulsiva, fatta di annunci simili a comunicati di guerra o a spot commerciali, i cui scopi
sono ben difficilmente collegabili con il ben-essere dell’umanità. In otto anni di partecipazione al Comitato Nazionale
per la Bioetica sono rimasto molto dubbioso se il nostro o un qualsiasi altro Comitato bioetico riceverà mai un
sostegno politico, tale da riuscire ad indicare autorevolmente dei fini "etici", p. es. alla ricerca biomedica (in senso
ampio): credo anzi che, sul medio e lungo periodo, nessun Comitato bioetico riuscirà neppure a far mantenere ai
ricercatori dei limiti (20).
Questo scenario, dato che per molte persone il vivere o la vita sono concetti slegati da un impianto religioso e persino
da una filosofia della vita, crea un versante difensivo di tipo maniacale, per cui ogni bisogno e ogni desiderio debbono
trovare nella scienza la loro riposta e, al tempo stesso, la loro giustificazione. Dall’altra parte, vi è una reazione
delusionale e angosciante, allorché ci si rende conto di quanto sia complessa, e per molti versi rischiosa, la potenza di
un mito della scienza che sembra peraltro volere, e sovente riuscire, ad eludere qualsiasi controllo o normativa che
non siano le risorse economiche.
Di fronte alla consapevolezza dell’irrilevanza del singolo rispetto allo strapotere politico e tecnologico, come anche di
fronte alla constatazione del moltiplicarsi delle scelte etiche offerte ma, parallelamente, della loro relativa non
incidenza, si sono venute formando delle aggregazioni di persone che, in modo estremamente variegato, hanno
iniziato a reagire assumendosi delle responsabilità nei confronti dell’ambiente, dei soggetti socialmente deboli, di
alcuni valori come la pace e simili. Questi movimenti, che fino ad ora si sono espressi in forme cooperative o di
volontariato, presentano un connettivo sovente del tutto nuovo rispetto al passato, cioè non fondato
sull’appartenenza religiosa o politica e, al limite, neppure ideologica. Molto spesso, essi sono portatori di valori che
vogliono scegliere in modo consapevole e autonomo, con tendenza a rifiutare ogni forma di morale che dipenda da un
principio di autorità. Al tempo stesso, riflettono tuttavia molto seriamente su come, in un mondo dove tutte le scelte
sono state rese tanto possibili quanto revocabili, sia necessario un forte incremento della coscienza della propria
responsabilità, quale radice e garanzia della libertà e dell’autonomia della propria identità.
I molteplici aspetti che abbiamo preso in considerazione non sono affatto secondari, nel loro insieme, né per una
comprensione odierna dell’identità né per il suo rapporto con la solidarietà. Il giudizio sui dati esposti, infatti, induce
alcuni a parlare di un’identità personale contemporanea come priva di un centro, "multiforme" e "proteica". In ogni
caso, è difficile predire quali saranno le conseguenze a medio e lungo termine di un tipo di mutamenti, che si
traducono soprattutto in un aumento della competizione individuale e della conflittualità sociale, magari latente. Fin
d’ora, un dato è comunque evidente, che cioè questo meccanismo, se per un verso produce ricchezza, per l’altro crea
esclusione.
Si può allora scegliere di sottolineare gli aspetti negativi della cultura laica, razionalista, individualista della modernità,
aspetti che sono sotto gli occhi di tutti. Oppure, al contrario, si può considerarne con equilibrio, insieme a quelli
negativi, anche gli aspetti positivi.
Ma se vorremo capirne qualcosa di più dovremo probabilmente liberarci dall'abitudine a ragionare soltanto in termini
di agenti collettivi, di enti anonimi, per prendere invece in considerazione la tematica del costruirsi dell’identità
personale, e quindi il problema del modo di porsi di ciascuno.
Da un’angolatura strettamente psicodinamica e perfino direi clinica, partendo dall’evidenza che, oggi assai più di ieri,
l’identità non è data alla nascita ma deve essere costruita in un ambiente che senza dubbio produce differenze,
marginalizzazioni ed esclusioni, possiamo però cogliere anche in tutte queste dinamiche il segnale di
un’emancipazione più vasta, di un nuovo modo di vivere il processo d’individuazione (21).
Giddens afferma appunto che attualmente, in un ordine sociale globale - che egli chiama "post-tradizionale" - il
costruire in modo libero la propria identità è un progetto, entrato nella cultura come compito individuale inedito e
aperto al rischio. È ben noto che non tutti hanno, a questo riguardo, uguali opportunità, tuttavia gli aspetti
emancipativi sono, nell’insieme, prevalenti. Nella nostra società, che si presenta ovunque in grande cambiamento, le
prospettive di autodeterminazione (ovvero di costruzione di sé, di sviluppo personale secondo le proprie inclinazioni)
che scorrono di fronte agli occhi dei singoli - in particolare dei giovani - sono migliori rispetto al passato, soprattutto se
confrontate con le società tradizionali, con gli aspetti di chiusura che le caratterizzano, come ben sappiamo. La
tendenza alla re-invenzione delle identità individuali, che consegue al dissolversi dei modelli di identità che una
determinata società - magari attraverso la mediazione dei genitori - aveva previsto e precodificato, è un fenomeno
che, per quanto produca nuove drammatiche diseguaglianze, pure ha contribuito e soprattutto contribuisce a liberare
le potenzialità umane. Di queste, la solidarietà è un indice e al tempo stesso una funzione, nell’ambito di un
paradigma nuovo di costruzione dell’identità.
È appunto all’interno di queste osservazioni che la riflessione psicodinamica ha rivisitato e recuperato alcuni dati,
riguardanti la relazione tra soggettività e l’interesse per gli altri. Il termine solidarietà, soprattutto in riferimento
all’identità, non è ancora generalmente usato in psicologia. I primi studi si sono attestati sull’altruismo o anche sul
cosiddetto comportamento pro-sociale, partendo dapprima da riferimenti di tipo etologico (22) per estendersi poi
all’ambito della psicologia sociale (23). Già Freud aveva tuttavia indicato nell’altruismo un compito evolutivo,
necessario per il superamento delle posizioni altruistiche che sono tipiche dello stadio narcisistico dello sviluppo. A
partire da questa considerazione, l’aspetto del comportamento altruistico è stato poi approfondito da autori come E.
Erikson, S. Sullivan e altri, fino a produrre ricerche e pubblicazioni molto approfondite che considerano proprio la
funzione "necessaria" dell’interesse altruistico o del comportamento pro-sociale per il processo di maturazione
dell’identità (24).
Il risultato più stabile e ricorrente degli studi sul comportamento pro-sociale - e quindi sulle diverse forme di
solidarietà, incluse quelle del volontariato - è tuttavia l’emergere di un quadro estremamente complesso e variegato,
per quanto riguarda le motivazioni di questi comportamenti, e quindi il loro rapporto con l’identità. Mi sembra,
tuttavia, che da tale complessità sia anche possibile enucleare alcuni elementi che danno forma al tumultuoso
intreccio degli attuali processi di cambiamento riguardo al nostro tema. Le generazioni in crescita - forse ancor più di
quelle degli anni ’68 - sentono, infatti, in termini molto acuti il tema della partecipazione, come tentativo di risposta al
clima caotico di tensioni, sottese a questo momento culturale e sociale: un narcisismo che sembra rinnegare ogni
legame sociale che non sia di tipo strumentale, la ricerca di forme di fusione totalizzante in cui possa annegare
l’individualità, la tendenza ma anche la spinta all’aziendalizzazione della propria vita o alla chiusura in tribù a forte
inclusione, con esclusioni altrettanto forti. È proprio attorno a questi nuclei caldi che le persone - soprattutto, ripeto, i
giovani - sembrano in grado di trovare motivi di aggregazione, vivendo momenti d’intensa e convulsa ricerca di un
modo di ri-comporre creativamente le tensioni, facendole incontrare e scontrare fino a generare qualcosa d’ignoto ed
inedito eppure più soddisfacente rispetto al senso stesso dell'esistere. Da questo punto di vista, il dato più rilevate è la
diffusione e l’incremento, già in atto da qualche anno, di quella modalità di solidarietà che è il volontariato (25). In
questo contesto, molte persone giovani hanno trovato e trovano la possibilità d’intravedere e d’impegnarsi in un
percorso di individuazione, facilitate dall’essere attivamente partecipi, in uno spazio dove il senso non viene
organizzato secondo i criteri della razionalità strumentale e dell’impersonalità burocratica, ma quasi si fonda sul
mondo delle motivazioni e delle relazioni, opponendolo criticamente al sistema sociale e politico. A quest’ultimo,
infatti, viene contrapposta una sorta di microsocietà giovanile autonoma, esente da quella competitività e dalla
frenesia produttiva che caratterizzano il mondo del lavoro o comunque della società, per creare una sorta di ambiente
straordinariamente fraterno e solidaristico, con una tendenza generale ad elaborare molto pacificamente il conflitto
(26). La solidarietà diviene allora strumento - e al tempo stesso, possibilità - di condivisione, di costruire insieme
percorsi di identità e d’impegno, la cui caratteristica non è tuttavia di natura primariamente etica, bensì eticoaffettiva, cioè di un'etica che si radica nell'affettività. Questi ambienti hanno consentito una cultura aperta alle
informazioni più ampie sulle varie diversità, dall’omosessualità, alla malattia mentale, alle differenze etniche, ecc. A
mio parere, proprio il clima non conflittuale consente a molti giovani di confrontare la propria identità con quelle
diversità che sono insite nel processo d’individuazione di ciascuna persona, imparando a guardare in faccia le loro
ansie, le paure, i pregiudizi e quanto costituisce, in fondo, la loro Ombra o l’ambito del rimosso (27). Da questi percorsi
si genera molto spesso, dapprima la sensazione e poi la convinzione che vale la pena di abbandonare il livello della
soddisfazione narcisistica immediata o la paura di essere come sopraffatti dall’emozione del legame con ideali e
persone, in vista della costruzione di un progetto che diviene un valore di riferimento certo e dove la propria identità
può finalmente sentirsi "appartenente" e "libera" al tempo stesso. Oggi è già possibile riscontrare come, in questi
ambienti, la soggettività riesca ad assumersi responsabilità di tipo parentale, l'attitudine cioè a ‘farsi genitori’ di quelli
che sono in situazioni di disagio, che si dilata poi in una forma più generale di comprensione e compassione - ripeto,
fondata prevalentemente sull’affettività - verso tutto ciò che di prezioso e di fragile occupa l’immaginario di questa
generazione, dall’ecologia all’emarginazione.
Queste modalità di costruzione dell’identità, inclusa la tendenza a coniugarla con la solidarietà, pongono certamente
alcuni interrogativi soprattutto perché, in varia misura, si presentano slegate da filosofie della vita - e, ancor più, da
ideologie o da valori ideali - che siano esplicitati e condivisi. Anche a voler considerare questi percorsi d’identificazione
come espressioni di una sorta di egoismo maturo, che cerca il benessere altrui in quanto funzionale al proprio, questo
tuttavia non esclude affatto che vi sia qui un terreno precursore per una maturazione ulteriore. Del resto, sarebbe
forse auspicabile poter superare il falso dilemma tra egoismo e altruismo, per accedere ad una prospettiva che
consideri i rapporti intersoggettivi come una trama in cui ciascun soggetto e ciascun sistema relazionale si costruisce e
si definisce nell’ambito della relazione stessa.
Anche i contesti familiari concreti delle nuove generazioni, così diversi da quelli del passato, dovrebbero costituire
oggetto della nostra riflessione. Poiché la nostra è prevalentemente una società di figli unici, i giovani di oggi hanno
scarsa esperienza dell’avere fratelli o sorelle. Questo potrebbe in parte spiegare l’impreparazione, e persino lo
sconcerto, di fronte a quelle forme di rivalità, di lotta, ma anche di peculiare cooperazione, che era tipica della
relazione fraterna soprattutto infantile. Da questo modo di crescere soli nasce anche la mancata esperienza delle
caratteristiche d’impetuosità e di violenza della relazione tra fratelli, che determina in seguito una certa inadeguatezza
nel fare i conti con il conflitto, con la violenza, con la differenza che contesta. Da questa, prende avvio la ricerca di una
microsocietà in cui il gruppo sia davvero molto omologato e chieda di mettere in gioco, non le diversità, bensì gli
aspetti comuni.
Il fatto che il progetto sia affettivo e non ideale, concreto e non utopico, forse rappresenta anche una difesa contro le
angosce indotte dalla complessità. La gente è in fuga dalla complessità, ne è spaventata, e questo spiega forse questa
ricerca di forme di partecipazione che siano - a livello sociale - l'equivalente di quanto si realizzava in famiglia, dove
regnavano pace fra le generazioni e una forte adesione al bene comune; in altri termini, la famiglia - considerata come
microsocietà - è partecipativa e solidale, com’è dimostrato dal fatto che è in grado di organizzare lunghissime
convivenze pacifiche; si è formata, pertanto, la tendenza ad esportare nella società tale modello, tuttavia con
l’annesso limite che l’orizzonte della partecipazione si estende fin dove può spingersi il processo di familiarizzazione e
lì poi si chiude.
Come già ho detto, in rapporto alla soggettività, la solidarietà viene considerata (almeno dalla maggioranza dei
soggetti) una funzione di espressività creativa ed anche un bene, tuttavia senza legami chiari e solidi con un sistema di
valori o con una ideologia. Questa situazione presenta rischi evidenti: prevalenza di codici affettivi e parentali che
tendono a privilegiare i propri figli e ad escludere chi non venga riconosciuto come tale, nuove polemiche sociali,
rottura della solidarietà sociale in senso allargato. Tali chiusure sono d’altronde accentuate - se non addirittura
esasperate - dall’opposta tendenza dell’organizzazione internazionale a formare aree comuni sempre più ampie,
connotate da leggi, moneta, regole di mercato ecc. molto forti, ma che alimentano il vissuto d’insignificanza
dell’identità soggettiva e non sembrano presentare, fino ad oggi, proposte valide per una filosofia dell’esistenza...e dei
rapporti.
Identità e solidarietà: un invito alle generazioni adulte
Nell’ambito dell’embriologia è noto come, nella generazione di nuovi tessuti o funzioni, quelli già formati e ben
delineati sono più forti e resistenti, ma meno plastici, mentre quelli nuovi sono ricchi di potenzialità e di plasticità, ma
intrinsecamente fragili. Se osserviamo lo strutturarsi di un nuovo scenario in cui s’inquadra il processo d’identità dei
giovani contemporanei e consideriamo, non solo il suo rapporto con la solidarietà, ma anche la funzione che
quest’ultima ha acquisito nel processo d’individuazione, allora le generazioni più adulte - e soprattutto le agenzie di
socializzazione e di promozione dei valori etici - debbono evitare di guardare al futuro come... allo spostamento in
avanti o alla proiezione dei propri desideri tuttora irrealizzati, riguardo a quella che si vorrebbe fosse l’identità dei
giovani ed il loro legame con i valori e con la solidarietà.
Aver chiare le trasformazioni epocali in atto - e, soprattutto, il concetto dinamico di natura o di creato - implica la
rinuncia ad interpretazioni generali ed astratte riferite a processi o a meccanismi di un ‘altrettanto astratta e
universale "natura umana", quasi già data nella sua forma compiuta. Il nuovo ed inedito legame fra costruzione
dell’identità e solidarietà - proprio e persino in questa forma laica o secolarizzata che spesso, se non addirittura
prevalentemente, osserviamo - esprime quel processo di ricerca del significato che attiva ogni scelta umana, non più
intesa come mitica vicenda di un eroe solitario, bensì come espressione di una storia costruita da testimoni
consapevolmente partecipi, la cui esistenza si dipana all’interno di reti di scambi comunicativi (al limite delle microculture) che danno un senso condiviso alla vita e ne catalizzano i processi psichici e psicosociali. Questa analisi delle
trasformazioni epocali porta di fatto ad una ridefinizione degli ambiti di pubblico e privato, come pure dei loro
rapporti reciproci: ad una nuova concezione del senso di responsabilità verso la comunità si annodano esperienze,
passate attraverso valori post-materialistici, come l'intimità e le relazioni personali, la solidarietà, l’espressività, la
creatività. Si riproduce un’esperienza che - sia pure solo analogicamente - ha caratterizzato l’inizio della chiesa
cristiana e cioè che prima veniva l’esperienza della fede e poi la riflessione o la dottrina su questa esperienza, dove
‘prima’ e ‘dopo’ hanno qui un valore motivazionale e connesso al vissuto dinamico più autentico e profondo.
Per orientarci in questi processi inediti credo che siano dunque validi i criteri di osservazione proposti da A.
Scacciati e P. Paolicchi (28) per le loro ricerche sul tema:
1. è necessario osservare le dinamiche dei nuovi percorsi di costruzione dell’identità con un approccio funzionale
interpretativo delle condotte e delle motivazioni che le sostengono, senza precodificazioni e precomprensioni.
2. Si tratta di accettare l’odierna prevalenza dei nessi e delle relazioni di tipo "simbolico" tra i differenti e variegati
processi di individuazione che osserviamo e nel loro mutevole e talora frammentario collegarsi col senso di
responsabilità, con il bisogno di senso e quindi con la solidarietà accettando, almeno per il momento, che tali processi
non siano connessi da teorie, dottrine o visioni organizzate della vita, quanto piuttosto da lunghi e sovente dispersivi
percorsi; in essi il valore viene accolto per frammenti non seguendo un determinato sistema ordinato secondo una
coerenza logico-formale – come sarebbe stato più usuale per le nostre generazioni – bensì mediante esperienze che si
presentan più o meno come un puzzle o oppure come una narrazione, in cui far emergere e forse anche trovare
spiegazioni dei modelli culturali, delle motivazioni e dei comportamenti "altri", sovente fino ad oggi inediti.
3. Infine, l’ambito dell’identità solidale si colloca - nel quadro della produzione di sistemi di significato - nello scambio
comunicativo tra individui che condividono un comune universo di esperienze, entro il quale i significati e gli scopi
vengono ricostruiti e poi destrutturati e nuovamente rimessi assieme, ma a livello soggettivo, in una continua
interazione con tutti coloro che entrano in relazione con lui.
Si viene costruendo così un tipo di identità (o, se preferiamo, di personalità) che, riguardo (anche) al valore
solidarietà, non può essere confrontata con le altre sulla base di un pattern di tratti stabili o di atteggiamenti specifici
e ancor meno dall’appartenenza ad una qualche dottrina della solidarietà e della responsabilità. Si tratta, invece, di un
insieme di esperienze di vita che producono una generale apertura verso gli altri e forniscono motivi ed opportunità di
dedicare il proprio tempo e la propria attenzione con altri e a favore di altri, per un certo periodo o stabilmente,
impegnandosi in modi ed attività diverse. Credo sia importante sottolineare ancora una volta che non dobbiamo
aspettarci di trovare sistemi di significati e di valori, esteriorizzati ed articolati in principi astratti e universali, ma
"ideologie vissute" o "storie di vita", sorrette da intrecci motivazionali e da atteggiamenti affettivi e cognitivi capaci di
esprimersi in scelte verso l'azione ai quali, proprio il loro sorgere nel concreto scambio comunicativo con un gruppo,
dona (nel sentire del giovane) legittimità e validità oggettiva.
Per questi percorsi, si produce una percezione della propria identità in rapporto con gli altri, oltre i confini della
famiglia o di altri piccoli gruppi stabili, ed il vivere un senso di responsabilità verso talune aree esistenziali, che non
trova altro spazio se non nel sentirsi vicini agli altri e nel farsi carico parziale dei loro problemi. Questo tipo di identità
non può rapportarsi con l’ethos, se non mediante i percorsi del linguaggio più diretto e semplice della solidarietà,
vissuta come modo - non solo giusto - ma personalmente apprezzabile e soddisfacente di vivere con gli altri.
Quando questi percorsi sono seguiti con impegno leale e tenace, allora la nostra identità non chiede più all’altro/altri
conferme, né senso di vita, e diviene dunque possibile instaurare relazioni autentiche con chiunque perché egli non
dipende più inconsciamente da noi e noi non siamo più determinati dal suo comportamento. A questo punto, siamo
diventati così forti da poter manifestare i nostri bisogni al gruppo con cui lavoriamo, chiedendo dignitosamente aiuto,
senz’alcuna garanzia che domani sarà lo stesso gruppo e neppure con la difesa della comune ideologia o filosofia
esistenziale; avendo superato l’aspettativa che la persona che abbiamo di fronte ci capisca, ci accolga secondo il
nostro desiderio, possiamo finalmente guardare all’altro come realmente altro, impariamo ad accoglierci
reciprocamente con il limite creaturale che "siamo": né la nostra persona, né quella dell'altro ci appaiono più come un
peso ingombrante.
Quando l’autocoscienza dell’identità ha raggiunto questi livelli, non abbiamo più la preoccupazione di difendere il
nostro spazio, né quella di invadere lo spazio altrui: il sentirci bene con noi stessi e la riconciliazione con la nostra
interiorità consente, a sua volta, all’altro di sentirsi accolto senza giudizi né pretese e la relazione diviene adulta e
matura. Si sperimenta allora il vissuto della libertà, l’assenza della paura, che cede alla consapevole fiducia che a
ciascuno è dato liberalmente il diritto di essere ciò che realmente è, in altri termini si raggiunge la solidarietà che,
quale frutto della verità dell’identità, diviene un elemento fondante della verità delle relazioni.
Note
(1) Per avere un’immagine intuitiva ma concreta di questo fenomeno, basta pensare a tutto il problema demandato
alla bioetica, soprattutto nel campo della medicina, per non parlare del mondo del lavoro. Cfr. anche WILFRED F.,
Identità soppresse, alienate e perdute, in: "Concilium"2/2000, p.44-55 back
(2) MUSSCHENGA A.W., VAN HARSKAMP A.. (edd.), The Many Faces of Individualism, Peeters, Leuven 2000. back
(3) PINKUS L., Senza radici? Identità e processi di trasformazione nell’era tecnologica, Borla, Roma 1998. back
(4) Una chiarificazione molto accurata dei termini che concernono l’identità, il sentimento d’identità, il Sé e altre
espressioni si trova in: JERVIS G., La conquista dell’identità, Feltrinelli, Milano 1997, Appendice. back
(5) ERIKSON E.H., The problem of ego identity, in: "Journ. Am. Psychoan. Ass.", IV, 1956, 57, p.56-119. back
(6) JACOBI J., The way of individuation, engl.tr., Hodder & Stoughton, London 1967. back
(7) TREVI M., Introduzione, in: JUNG C.G., L'Io e l'inconscio, Boringhieri, Torino 1967, p.9. back
(8) Va rimarcato come per Jung l'individuazione è, o dovrebbe essere, una ricerca di fedeltà alle proprie disposizioni
interiori, un itinerario di autorealizzazione, l'obbedienza ad un appello qualitativamente elevato dell’éthos.; Cfr.
GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 1984; FERRARA A., L’eudaimonia della vita, Liguori, Napoli
1992. back
(9) MIETH D., Continuità e cambiamento degli orientamenti ai valori, in: "Concilium" 3/1987, p. 73-87; POPE S.,
Expressive Individualism and True Self-Love, in: "Journ. of Religion" 71, 3 (1991) P. 383-399. back
(10) PINKUS L., Senza radici? Identità e processi di trasformazione nell’era tecnologica,, cit. back
(11) PINKUS L., Tossicodipendenza e intervento educativo, Erikson, Trento 1999, cfr. Appendice. back
(12) GALIMBERTI U., La psicologia analitica nell'età della tecnica, in: AA.VV., Presenza ed eredità culturale di C. G. Jung,
Cortina, Milano 1987, p.137-156. back
(13) BELLOTTO M. (a cura di), Valori e lavoro, F. Angeli, Milano 1997. back
(14) TOTARO F., Non di solo lavoro, V&P, Milano 1999. back
(15) EBRENBERG A:, La fatica di essere se stessi. Depressione e società., Einaudi, Torino 1999. back
(16) SIMONE R., La terza fase, Laterza, Bari-Roma 1999; CANTELMI T. e coll., La mente in Internet, Piccin, Padova 2000.
back
(17) SARTORI G., Homo videns, Televisione e post-pensiero, Laterza, Bari-Roma 1998 back
(18) ALETTI M. (a cura di), Religione o psicoterapia?, LAS, Roma 1994. back
(19) PELLIZZARI T., 30 senza lode, Mondadori, Milano 1999; NATOLI S., Progresso e catastrofe, Marinotti, Milano 1999.
back
(20) Non a caso, anche dove il Comitato Nazionale per la Bioetica si è pronunciato, i diversi Ministri continuano a
crearsi comitati ad hoc nell’ambito dei diversi dicasteri! back
(21) Faccio qui ampio riferimento al testo di G. Jervis, La conquista dell’identità, cit. back
(22) SMUTS .B.B. e coll. Eds., Primate Societies , The Univ. of Chicago Press, Chicago. London 1987;. HINDE A. R.,
Individui, relazioni e cultura, tr.it. Giunti Barbera, Firenze 1989- back
(23) MCGURK H. (Ed.), Lo sviluppo sociale del bambino, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1984; FONZI A., Il bullismo in
Italia, Giunti, Firenze 1997. back
(24) SCHROEDER D.A. et al, The psychology of helping and altruism, McGRAW HILL, New York 1995; SOBER E., WILSON
D.S., Unto others, Harvard Univ. Press, Cambridge (Massachussets) 1998. back
(25) Ho fatto ampio riferimento ai contributi contenuti in: "Animazione sociale", febbraio 1999. back
(26) Va osservato che le bande trasgressive, che privilegiano la guerra come soluzione ai conflitti, sono effettivamente
una entità numericamente trascurabile. back
(27) Cfr. GALIMBERTI U., Dizionario di psicologia, utet, Torino 1992. back
(28) SCACCIATI A., PAOLICCHI P., Il volontariato come produzione di identità, in: "Orientamenti Pedagogici" 45 (1998)
p. 122-136. back