DON GIUSSANI VOCAZIONE E TRASFIGURAZIONE Omelia nel secondo anniversario della morte San Remo, 3 febbraio 2007 Il 22 febbraio 2005 moriva nella sua abitazione di Milano don Luigi Giussani. Lo vogliamo ricordare non tanto per perpetuarne la memoria, che non tramonterà mai, quanto per poter sostare alcuni istanti insieme con lui ed assaporare ancora, in tal modo, la sua viva presenza, nonché i suoi illuminati insegnamenti. Coloro che lo hanno seguito per anni vorrebbero poter risentire dal vero la sua voce roca e penetrante, suadente, capace di risvegliare le coscienze più sopite e far battere i cuori di tanti, soprattutto dei giovani. Egli era l’uomo che conquistava per la sua semplicità e affabilità; il sacerdote e maestro delle libertà; il testimone che convinceva con la forza della ragionevolezza e con un’indefettibile coerenza al pensiero di Cristo. Il suo cammino spirituale è bene evocato dalle letture bibliche che abbiamo ascoltato e ci dice come chiunque voglia seguire Cristo debba lasciarsi coinvolgere in una storia di salvezza che parte dall’esperienza di Abramo e giunge alla trasfigurazione totale e finale della persona. In questo “esodo” ci accompagna la visione luminosa del Tabor in cui l’esperienza dell’incontro con Cristo si approfondisce nella relazione dell’ascolto e del dialogo. Portati da Gesù sul monte a pregare, gli apostoli Pietro, Giovanni e Giacomo, avvinti dalla sconvolgente esperienza della trasfigurazione di Gesù, chiedono al Maestro di prolungare, fuori dal tempo, l’estasi beatificante della visione divina. Non possiamo pensare di essere noi esclusi da questa visione di paradiso e che in essa non vi sia la stessa presenza di don Giussani. Lo vogliamo pensare tra gli Apostoli o, meglio, vicino al volto trasfigurato di Cristo, anche lui in santa conversazione come Mosé ed Elia, giunto ormai al traguardo dopo un cammino lungo e impegnativo, misterioso, ma, nel contempo, illuminato dalla parola irrevocabile della promessa di una straordinaria fecondità, la stessa fatta ad Abramo: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle…. Tale sarà la tua discendenza» (Gen 15,5). Don Giussani era profondamente convinto che la vocazione di Abramo fosse fondamentale per comprendere che Dio è tutto per l’uomo ed è il Signore della sua storia personale: «Con Dio l’uomo deve vivere e camminare». Da questo pensiero egli era catturato e, pertanto, la sua vita fu sempre più un riferimento costante, seppure a volte faticoso, a quel “punto” verso cui – come scriverà successivamente – «tutte le energie della nostra sensibilità, della nostra affettività, della nostra intelligenza convergono in un’attesa di compimento» (Alla ricerca del volto umano; Rizzoli, Milano 1995, p. 21). Sospinto da questa forza interiore, egli non solo non si fermò davanti ai numerosi ostacoli che via via si presentarono davanti a sé, ma sempre seppe attingere forza e audacia di annuncio da quel Mistero verso cui tutto converge e da cui tutto fluisce. Scrisse: «Il Signore è tutto non in forza di un nostro sentimento, perché “sentiamo” che è tutto; non in forza di un atto di volontà, perché “decidiamo” che sia tutto; non moralisticamente, perché “deve” essere tutto, ma per natura» (ivi, p. 22). La ragione di questo fatto “naturale”, ossia che il Signore “sia tutto per natura”, egli non la vede come frutto di una riflessione filosofica, ma come risultato dell’irruzione nella storia dapprima di una voce e, successivamente, di un volto, quello di Cristo. «Svelando se stesso, – scriverà ancora nell’opera citata – ha fatto conoscere il nome del destino umano attraverso la Sua Presenza, è intervenuto Lui a ricordarci di essere il destino per l’uomo, l’ “unum” capace di rendere umana la vita dell’uomo» (ivi, p. 22). Se il racconto biblico di Abramo è la storia di ognuno di noi, lo è ancor più di chi, il giorno dopo la sua morte, fu definito “Profeta del coraggio” (GIULIO ANDREOTTI, Il Tempo, 23 febbraio 2005). Come Abramo, anch’egli accettò di vedere sconvolti i suoi progetti umani perché diventassero opere di Dio. Tali progetti non furono subito facilmente riconoscibili, come dovette ammettere lo stesso Card. Montini quando di don Giussani affermò: «Non capisco le sue idee, ma vada avanti» (cfr. ANDREA TORNELLI, Il Giorno, 23 febbraio 2005). L’esperienza insegna che, quando Dio irrompe nella vita di un uomo, è sradicata ogni sicurezza umana perché tutto lo spazio e il tempo dell’uomo possa basarsi soltanto sull’incrollabile fiducia nelle proposte divine. Ciò che Dio prospetta supera sempre, di gran lunga, anche ogni attesa e previsione: 1 soltanto nella consapevolezza di questa verità, il cammino di fede diventa possibile e capace di operare il miracolo della discendenza. Questo è quanto guidò la vita di Don Giussani e quanto questo “prete che invocava la laicità” (PAOLO DEL NEBBIO, Il Giornale, 23 febbraio 2005) sia riuscito a fare con l’intraprendenza e la forza della sua fede saldamente radicata nella promessa di Dio: “Ti darò una discendenza”. Nel commentare la vocazione di Abramo, don Giussani scriveva: «Leggiamo qui che il muoversi della vita di quest’uomo ha assunto, nell’improvvisa e misteriosa manifestazione di Dio, uno scopo che non era il suo, anche se ultimamente era del tutto corrispondente alla sua natura. Quella partenza era la risposta ad un comando, il riconoscimento di un’autorità evidente. Dunque il Dio mistero – che gli segnava il cammino – era il padrone del suo cammino, cioè del suo esistere come senso, proprio come senso umano» (Alla ricerca del volto umano, cit., p. 23). Per don Giussani era dunque evidente come il progetto più realistico sulla vita di Abramo non fosse il suo, ma quello di un Altro, così da doverlo accettare a partire dalla sua manifestazione iniziale e verificarlo, quindi, nel tempo. Questa fu l’esperienza di don Giussani che egli seppe trasmettere con tanta passione, con singolare perspicacia intellettuale, con amore di maestro, con autorevolezza di padre, con cuore di amico, proprio come Gesù Cristo che a tutti continua a proporsi come Via, Verità e Vita. Vorrei ancora sottolineare come le parole dette da Dio ad Abramo siano la promessa di un’alleanza eterna e irrevocabile, proiettata in un futuro di luce e di speranza. Agli occhi degli uomini Dio sarebbe rimasto nella vaghezza, se nella persona di Gesù non fosse entrato egli stesso nella storia come fattore determinante di essa, dandole significato, sicurezza e valore. Così scriveva Don Giussani ai suoi amici: «La scoperta di Cristo come centro di tutto elimina la paura e fa sentire all’uomo una capacità di contatto dominatore con tutto... Ogni coscienza è tale proprio in quanto s’accorge di essere destinata ad un compito, e questa consapevolezza è l’incontro fra Dio e il singolo uomo, l’avvenimento della vocazione» (Il cammino al vero è un’esperienza, SEI, Torino 1995, p. 71). L’incontro fra di Dio e l’uomo lo troviamo significato e realizzato nella Trasfigurazione di Gesù che oggi contempliamo. Don Giussani, guardando i personaggi coinvolti, non avrebbe esitato a definire tutto l’evento evangelico: Lo stupore della “presenza”. E subito avrebbe citato l’affermazione di A. Heschel: «L’assoluto stupore è per l’intelligenza delle realtà di Dio ciò che la chiarezza e la distinzione sono per la comprensione delle idee matematiche. Privi di meraviglia, restiamo sordi al sublime». Seppure intorpiditi e oppressi dal sonno, gli Apostoli restarono svegli, ma Pietro soltanto percepì la realtà di una bellezza soprannaturale, fatta di luce e di presenza: «Maestro, è bello per noi stare qui» (Lc 9,33). Nella dinamica della manifestazione, il segno della gloria divina si svelò così tanto da introdurre Pietro nella straordinarietà della visione. Ma l’apostolo, ancora appesantito da categorie terrene, per prolungare il godimento della teofania non poté che far leva su stratagemmi umani: costruire tre tende. L’esperienza di Pietro non è che l’anticipo della nostra condizione finale, chiamati come siamo dall’attrattiva dell’Assoluto. Ma già contemplando questo quadro, don Giussani avrebbe detto senza dubbio che «l’evidenza è una presenza inesorabile», che «lo stupore che desta la domanda ultima dentro di noi, non è una registrazione a freddo, ma meraviglia gravida di attrattiva», che «la religiosità è innanzitutto l’affermarsi e lo svilupparsi dell’attrattiva». Di fronte poi alla paura provata dagli apostoli nel trovarsi avvolti dalla nube divina, egli non avrebbe puntato sul timore provato dalla creatura umana al cospetto del mysterium tremendum et fascinosum di un Dio trascendente e santo, ma ne avrebbe capovolta la ragione col dire che la paura è un’ombra che cala quando temi di perdere un bene prezioso colto seppure per un attimo solo. «La paura – lasciò scritto – sorge come riflesso del pericolo percepito che quella attrattiva non rimanga... che quella evidenza scompaia... temi di perdere qualcosa, quando anche solo per un attimo l’hai avuta» (cfr. Il senso religioso, Jaca Book, Milano 1986, p. 137). Non appena la voce divina del Padre cessò, i discepoli tacquero. Così fu loro imposto da Gesù fino a quando il Figlio dell’Uomo non sarebbe risorto dai morti. Ora, glorificato Gesù, il Figlio di Dio, di fronte alla drammatica perdita di senso dell’uomo contemporaneo, occorre che l’esperienza dei discepoli sul Tabor sappia generare tracce nella storia del mondo e che l’eco fedele della Parola “ascoltata” sul monte continui a riecheggiarer dovunque: per non perdere ulteriormente la strada. 2