Il nostro Salvatore nell`ultima cena, la notte in cui fu

Il nostro Salvatore nell'ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio
eucaristico del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli fino al suo
ritorno il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il
memoriale della sua morte e della sua resurrezione: sacramento di amore, segno di
unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene
ricolma di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura. (SC 47)
Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o
muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e
nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente e
attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del
Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le
mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in
giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro,
di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti. (SC 48)
Le due parti che costituiscono in certo modo la messa, cioè la liturgia della parola e
la liturgia eucaristica, sono congiunte tra di loro così strettamente da formare un solo
atto di culto. Perciò il sacro Concilio esorta caldamente i pastori d'anime ad istruire
con cura i fedeli nella catechesi, perché partecipino a tutta la messa, specialmente la
domenica e le feste di precetto. (SC 56)
«La celebrazione della messa, in quanto azione di Cristo e del popolo diDio
gerarchicamente ordinato, costituisce il centro di tutta la vita cristiana per la chiesa
universale, per quella locale, e per i sin goli fedeli». L'affermazione netta e solen ne
con cui inizia l'introduzione al nuovoMessale (= PNMR 1), facendosi eco di tante
prese di posizione delVat. II, non è dif ficile a giustificarsi, se nella celebrazione
della messa si coglie la presenza dinamica e irradiante del mistero di Cristo o in sin
golare, cioè nella globalità dell'atto della sua redenzione, o in plurale come presen za
dei misteri di Cristo, cioè degli aspetti o momenti dell'unico evento salvifico. Il
ripetersi delle celebrazioni infatti non fa al tro che mettere in contatto o canalizzare
nel tempo le «inesauribili ricchezze» di Cri sto, per cui è vero che qui si ha il centro,
il culmine e la fonte da cui deriva ogni altra grazia nella chiesa (cfr. SC 10).
L'eucaristia è totalizzante e finalizzante sia rispetto al complesso dei sacramenti (vi
sti come insieme organico), sia rispetto al l'intera celebrazione liturgica della chiesa
nella sua dimensione più vasta, che ab braccia il ciclo dell'anno liturgico e il curs us
settimanale e quotidiano ritmato dalla liturgia delle ore, quasi costellazione di mo
menti oranti e adoranti che girano intornoal sole. È noto infatti come l'officium
laudissgorghi in fondo dalsacri ficiumlaudis del l'altare, come una sua dilatazione e
prolungamento (cfr. PO 6). Non c'è aspetto del la vita e della missione della chiesa
che non sia in stretta relazione con la messa, e que sto senza cadere nell'ingenuità del
«panlit urgismo» ( cfr. SC12).
La messa domenicale non è so lo un precetto giuridico da soddisfare ouna
tradizione del proprio ambiente da ri spettare; non è mai un atto "che va da sé"; ma,
se ben compresa, è sempre adesione nuova e libera (nella fede) alla convoca zione
(espressa eventualmente anche in un segno come le campane) che è nello stes so
tempo ecclesiale ed eucaristica. Al di là,anzi, dell'obbligo giuridico e della routine, il
cristiano illuminato sa che è festa in quel la pasqua settimanale, e vuol fare festa in
sieme coi fratelli. L'incontro col Signore ri sorto, insomma, lo si può godere non iso
landosi o mettendo tra parentesi i fratelli, bensì facendo prima di tutto chiesa-comu
nità con loro. L 'assemblea eucaristica do vrebbe diventare come una epifania-evi
denziazione di quello che è la chiesa, quan do sa mobilitare e valorizzare per il bene
comune tutti i carismi e i ministeri presenti nella comunità, non esclusi i talenti natu
rali (necessari per es. a un buon lettore, cantore o organista).
Svolgendo ciascuno il proprio ruolo e facendo «tutto e solo quello che è di
sua competenza» (cfr. PNMR 58) -a cominciare dal celebrante, che presiede e guida
l'azione comune ma non impone i suoi gesti e le sue scelte, an zi si fa aiutare e anche
consigliare dai suoi collaboratori e dal popolo stesso per la par te che ad esso spetta
(PNMR 73.113)- non sarà difficile cogliere la fisionomia specifica e la perfetta
armonia tra sacerdozio ge rarchico e sacerdozio battesimale, come pu re sviluppare,
fra i dati proposti dal rito e accolti con sincero rispetto, le capacità crea tive
emergenti nella comunità o nei singoliattori della celebrazione.
Saper tradurre la ricca teologia della comunità, che si raduna in assemblea
eucaristica,in segni e gesti, cioè in espressione ed esperienza con creta per tutti i
presenti. Alla base sta cer tamente la fede con cui uno accetta la "convocazione" e va
verso i fratelli, colcuore e l'abito già in festa. Sulla soglia dell'edificio sacro, perciò,
sta molto bene un gesto di accoglienza fraterna, completato dalla migliore
distribuzione dell'assembleaentro l'aula e in rapporto all'altare, che è il perno di tutta
la celebrazione (il che ri chiama anche l'importanza dei segni ar chitettonici e
liturgici nella loro bellezza< /span> e relativa funzionalità).
La comunità che si raduna ( Assemblea e Rito di ingresso)
Per muovere bene i primi passi quandotutto è già preparato (anche le persone
chedevono svolgervi una parte attiva), abbia mo l'apposito «rito d'ingresso», che, se
non è tra le strutture più importanti della messa, né risale alle origini, offre tuttavia
buo ne possibilità da sfruttare intelligentemente.«Quando il popolo si è radunato»,
come si esprime il nuovo Rito della messa,si snoda la prima processione introitale
del sacerdote e dei ministri, accompagnata dal canto, che riveste qui una particolare
importanza sia per affiatare l'assemblea presente (che per la prima volta si esprime in
comune), sia per offrire la chiave- quando testo e musica sono veramente adatti-che
introduce al senso della festa e del relativo tempo liturgico. Giunto alla sede, il
celebrante saluta il popolo (anche al di là delle forme suggerite) per creare il
climaadatto al momento e alla situazione concreta che si sta vivendo.
Succede una breve pausa di silenzio peruna interiore presa di coscienza
davanti aDio dei nostri peccati e della solidarietàche ci lega ai peccati dei nostri
fratelli e di tutto il mondo. Di qui la comunitaria e reciproca confessione di colpe con
l'implo razione della misericordia espressa eventualmente con un canto litanico
(Kyrie, oqualcosa di simile), che nelle domenicheordinarie e nelle feste si completa
con uninno di lode(Gloria),quasi annuncio della grande lode eucaristia che risuonerà
poial centro della messa. La comunità radu nata è fatta di peccatori, ma perdonati, ri
conciliati in Cristo, che sentono già la gioia della salvezza dopo l'umile riconoscimen
to della loro verità esistenziale.
Il rito d'ingresso si chiude con l'orazio ne presidenziale o "colletta", dove il
sacerdote si fa interprete di tutti, presentando a Dio voti e sentimenti comuni,
quasisempre legati alla festa o al mistero che si celebra. È una delle tre grandi
orazioni sacerdotali che, come pilastri portanti (al principio, a metà e alla fine),
sostengono, conla preghiera eucaristica, l'edificio o il dinamismo della celebrazione.
Formulatespesso nello stile classico, conciso ed efficace dell',eucologia romana
(specialmente la colletta), talora sono dei veri gioielli chesintetizzano con pochi tratti
il senso dellafesta o il messaggio centrale racchiuso nelle letture seguenti, quasi
aprendo gli ani mi ad accogliere la Parola che sta per risuonare (specialmente con le
collette do menicali degli anni A, B, C, preparate perla nuova edizione del 1983 del
Messale Romano in italiano).
Comunità di ascolto (Liturgia della Parola )
Dopo il radunarsi insieme e il primo avvio della comunità celebrante,che nel
rito d'ingresso ha già rivelato la sua fisionomia e le sue componenti, secondoi vari
interventi del sacerdote, dei ministri,dei cantori, del popolo, ora la liturgia del la
Parola costituisce il primo grande poloche forma l'ossatura della messa insieme con
l'altro polo essenziale: la liturgia sacrificale (dall'offertorio in poi).
Quando tutta l'assemblea si siede e nelsilenzio religioso di tutti viene proclamata la parola del Signore, si ha come la visibilizzazione della chiesa in quanto "comunità dell'ascolto", che è uno dei suoi li neamenti fondamentali. Sappiamo comela
messa più antica iniziava proprio con questo momento caratteristico, che esprime
l'essenziale della religione biblico-cristiana in quanto non inventata o costruita a
partire dallo sforzo e dalla ricerca del l'uomo-che dal basso tenterebbe di mettersi in
comunione con Dio-, ma tutto al contrario: Dio ha preso l'iniziativa, Dio haaperto il
dialogo rivolgendosi al suo po polo, Dio insomma «ci ha amati per primo» (cfr. 1Gv
4,10) e ci previene sempre.
Certo, Dio rivelandosi intende stabilire un rapporto con tutti gli uomini di
ieri, di oggi e di sempre; ma molti ancora non sono venuti a conoscenza di questo
dono, eallora la chiesa è quella porzione di uma nità che, prevenuta
misericordiosamentedalla benevolenza divina, è stata raggiun ta e convocata da
quella Parola, e perciòcon la fede si mette in ascolto, si apre aldialogo, si lascia
interpellare e anche met tere in questione, quand'è necessario. Sitratta di un momento
estremamente im portante non solo nello svolgimento del rito, ma nell'arco intero
della storia della sal vezza sempre in atto anche per noi: quella Parola infatti, rivelata
tanti secoli fa per bocca del Profeta, o di Gesù, o di s. Paolo, nell'intenzione dello
Spirito santo, au tore principale, mirava fin da principio anche a questa comunità di
uditori, ma solo ora, entrata in contatto con questi fedeli,essa attende la loro risposta,
chiede di in carnarsi nella vita di ciascuno. In un certosenso si può dire che il disegno
di Dio non è completo, non ha raggiunto lo scopo chesi era proposto in partenza,
finché la comunità di oggi e i singoli fedeli non han no dato quella risposta, unica e
irripetibile, che spetta a ciascuno secondo la chiamata e la misura dei doni ricevuti.
È assai importante, quindi, che nella celebrazione concreta questo momento
sia molto curato sotto tutti gli aspetti: dallaproclamazione, che (anche tecnicamente)
sia percepibile da tutti, alla dizione chiarae posata, al modo o all'arte del leggere,
chepuò aiutare in buona misura la comprensione del testo (e questo suppone non im
provvisazione, ma preparazione prossima e remota del lettore avente certe doti), fino
al profondo raccoglimento che avvolgetutta l'assemblea, nella convinzione che il
Cristo in persona sta parlando al suo popolo ( cfr. SC33). Merita attenzione anche il
salmo responsoriale, che dovrebbe essere normalmente cantato (tra solista e co
munità), come eco lirica all'interpellazione divina, e l'acclamazione alleluiatica pri
ma del vangelo, che mette in risalto questo come momento culminante della litur gia
Verbi,dopo la tradizionale lectio prophetica (dall'AT) e la lectio apostolica (per lo
più s. Paolo).
È come vivere ogni volta in sintesi la sto ria della salvezza in cui siamo tutti
coinvolti fino al suo apice (il Cristo), quando Dio stesso si fa parola per noi. La
bellausanza liturgica di accompagnare la lettu ra del vangelo coi ceri e l'incenso resta
sempre opportuna, come segno che educa il popolo di Dio a percepire la solennità
el'efficacia di quel momento in cui tutti stan no per entrare in contatto con Cristo, luce e Parola definitiva del Padre rivolta anoi. Altro aspetto della liturgia della
Parolanella messa che merita di essere sottolineato è che qui l'ascolto non avviene
isolatamente, ma nel momento preciso in cuisi fa chiesa con gli altri fratelli. Un
uomocome s. Gregorio Magno, appassionato let tore e commentatore della Scrittura,
arri va a confessare di se stesso che più volte,leggendo e rileggendo un testo, non era
riu scito ad afferrarne il senso, ma «messo davanti ai fratelli l'ho capito» (In Ez.1. II,
Hom.II, 1). Non fa meraviglia che il teso ro della Parola di Dio, consegnato alla chiesa comunità, abbia qui il locus proprius per la sua autentica lettura e comprensione,
siache ci riferiamo alla chiesa in grande, op pure alla legittima comunità radunata insieme, specialmente per rivivere la totalitàdel mistero di Cristo.
Da questo angolo visuale appare chiaroche la liturgia della Parola non è da
considerarsi solo preludio o preambolo alla celebrazione propriamente sacramentale,
ma è già comunione al Verbo (nella fede e nell'adesione di amore), tanto efficace e
tanto necessaria-stando alla mente dei padri- quanto l'altra comunione. Origene non
aveva torto nell'insistere che bisogna mangiare il Verbo sotto la specie della Parola, e
per questa via si arriva alla manducazioneperfetta, anche sacramentale, del corpo
edel sangue di Cristo: come dire che unacomunione immette nell'altra [1] .
L’o melia: atto propriamente liturgico, perché non si limita a illustrare il
messaggio oggettivo delle lettu re come in una lezione esegetica o catechetica, ma
deve provocare la "comunità dell'ascolto" ad andare sino in fondo nelle esigenze
della fede, della conversione, del seguire Cristo, costi quello che costi, anche
portando dietro di lui la croce ospendendosi come lui in una donazione diamore.
Col Credola comunità esprime come in un grande Amen la sua adesione di
fede a tutte le grandi opere di Dio e al messaggio della sua Parola.
Come atto conclusivo, pri ma di passare alla seconda parte della messa, la
comunità dell'ascolto e dell'unica fe de, confessata insieme, si fa comunità orante con
la «preghiera dei fedeli» per tutte le necessità proprie, dei fratelli e del mondo intero.
Comunità conviviale (Offertorio )
Con l'offertorio si entra nella parte strettamente sacramentale della messa,
dovecambia completamente lo scenario (anche se prima abbiamo sottolineato la
profonda continuità): il sacerdote coi ministri e tutto il centro dell'interesse ormai si
spo stano dalla sede della liturgia della Parola e dall'ambone alla mensa dell'altare
(spostamento dall'uno all'altro polo della cele brazione, che dovrebbe essere reale e
messo in evidenza).
I nuovi elementi che entrano in gioco richiamano chiaramente una comunità
conviviale: si vede una mensa-altare che vieneapparecchiata (ora, e non prima) con
pa ne e vino e relativi vasi sacri e tovaglie da tavola. Per sé il significato originario
ed essenziale di questa prima tappa, che si chia ma "offertorio", si riduce a ben poco:
apportare e disporre sulla mensa la materia che serve al sacrificio e al banchetto. Ba
sterebbe pronunziare su quegli elementil'apposita «orazione sulle offerte» (la se
conda delle tre grandi orazioni presidenziali), e l'offertorio sarebbe perfetto, anzi
sarebbe contenuto nei suoi giusti limiti, esprimendo ciò che è essenziale alla sua
funzione, senza gonfiature che possonocreare malintesi per i fedeli e specialmente
andare a scapito del grande centrale «offerimus»che non si trova a questo punto, ma
dopo la consacrazione, quando la chiesa ha nelle sue mani, per affidarla al Padre, la
Vittima di valore infinito. Lo svi luppo del rito offertoriale, quindi, pur contenendo
elementi anche positivi se bencompresi, rischia sempre di oscurare per il popolo la
percezione della vera offerta es senziale della messa.comunque la semplice
preparazione e disposizione sull'altare della materia delsacrificio ha portato, con
l'andar del tem po, a vari sviluppi anche interessanti: dalla solenne processione
offertoriale (ac compagnata dal relativo canto), in cui i fedeli stessi o alcuni loro
rappresentanti por tavano il pane e il vino al celebrante, unen dovi spesso altre
offerte per i poveri o perla chiesa (di cui è rimasto un vestigio nell'elemosina che
tradizionalmente si racco glie a questo punto); all'attenzione rivolta alla stessa
materia del pane e del vino, cheha portato a notevoli approfondimenti (fin da s.
Ireneo, difensore della bontà della materia contro gli gnostici).
Se all'origine, forse, il binomio pane-vino nell'area mediterranea indicava la
tota lità di una comunione conviviale e nel caso di Cristo la totalità di una vita (corpo
e sangue) consumata e offerta per amore [2],la tradizione cristiana fin dalla Didaché
ha amato vedervi il mistero di unità simboleggiato dal pane formato da tanti chicchi
di grano e dal vino spremuto da tanti acini. La sensibilità moderna a sua volta è portata a sottolineare un altro aspetto che può essere integrato nella sintesi eucaristica:
ogni tozzo di pane (come ogni sorso di vino)non è frutto semplicemente della terra
edella natura, ma del lavoro e dell'industria dell'uomo, che dalla fatica dei campi al
pane già imbandito sulla mensa suppone lacollaborazione di molti intermediari.
Questo aspetto trova oggi un'eco nella preghiera sul pane e sul vino
(«Benedetto sei tu, Signore...»), chiaramente ispirata all'antica "benedizione" ebraica
che anche Gesù dovette usare. Il mettere noi stessi, poi, nell'offerta del calice, può
essere collegato col piccolo rito di infondere nel vi no qualche goccia d'acqua, gesto
nel quale già s. Cipriano amava vedere l'offerta della comunità inseparabile
dall'offerta delsangue di Cristo(Ep.63, 13). Gli altri segni dell'attuale offertorio o
sonoseconda ri (come il lavarsi le mani per esprimereancora un bisogno di
purificazione), op pure, insistendo eccessivamente sull'ideadi offerta, rischiano di
togliere importanza alla classica oratio super oblata opiù ancora alla vera offerta
centrale espressa dall'anafora. La base cosmica e umana del l'offertorio è positiva se
resta punto di partenza che abbozza appena un gesto di offerta nell'attesa di ben altri
sviluppi.
Comunità che rende grazie (Preghiera eucaristica)
a. Proclamando le ope re di Dio- Se prima vi è stato qualche ac cenno, ora la
dinamica celebrativa entra nel cuore dell'eucaristia quando in tono lirico e solenne,
mediante un dialogo vi brante (e antichissimo), invita l'assembleaa portarsi sulle
vette (per dir così) della par tecipazione interiore ed esteriore-«è ve ramente cosa
buona e giusta, nostro do vere e fonte di salvezza»-per cantare un inno di lode a Dio
in riconoscenza di tutte le meraviglie che ha operato a nostra sal vezza. La prima
parte di questo "assolo"del celebrante si chiamapraefatio(origina riamente non tanto,
sembra, un "dire prima", quanto un "dire davanti", come rivolgendo un appello a
qualcuno), ma l'in vito si allarga coinvolgendo angeli, santi,l'universo intero,
formando come un immenso coro che canta la gloria di Dio coltriplice Sanctus.
Nella liturgia latina la proclamazione dei magnalia Dei talora riveste una forma assai
sintetica (come nella II anafora), e nei prefazi delle varie feste si concentra spesso sul
mistero celebrato in quel giorno; ma in altri casi (come nella IV anafora) tra il prefazio e il Vere Sanctus(formula di raccordoche va daltrisagioal racconto dell'istitu
zione eucaristica) il discorso si apre a tutto l'orizzonte della storia salvifica culmi
nante nella pasqua di Cristo e nel dono delsuo Spirito. Però il centro, la nota domi
nante resta sempre una sola: l'incontenibile bisogno di lodare e ringraziare Dio per
tutto quello che ha operato in Cristo perla nostra salvezza. È chiaro che anche pa
storalmente e liturgicamente è carente esfasata una celebrazione che non educhi e
non sappia rendere partecipe l'assembleadi questa gioiosa gratitudine propria
deisalvati (almeno col canto del Sanctus ).
b.Celebrando il memoriale della pasqua del Signore- La chiave di volta che
spiega perché la preghiera eucaristica è diventata unaproclamazione di loderingraziamento sta nel rapporto intrinseco, già sottolineato sopra, che lega l'eucaristia
alla pasqua del Signore. Qui però al centro della celebrazio ne non si tratta solo di
esprimere un sentimento gioioso per le meraviglie operateda Gesù nel passato.
Dietro suo comando, narrando e ripetendo parole e gesti compiuti da lui nell'ultima
cena, noi «facciamomemoria» (non solo psicologica e menta le), o (in linguaggio
biblico-liturgico)
noi«celebriamo
il
memoriale»,
che
vuol
dire
ripresentiamo/riattualizziamo ciò che alla cena egli ha voluto realizzare ed esprimere
in intima connessione con l'offerta sa crificale cruenta che stava per consumarenel
giro di poche ore sul Calvario.
c. Invocando lo Spirito Santo - L'efficacia delle parole di Cristo,pronunziate e date in
consegna nell'ultima cena, non esclude, ma implica l'azione misteriosa della virtus
Spiritus sancti,il quale nelle nuove preghiere eucaristiche viene invocato
solennemente con l'imposizione delle mani sui doni immediatamente prima della
tradizionale consacrazione mediantele parole di Cristo.
d. Offrendo il sacrificio della nuova alleanza -La ragion d'essere, dell'economia
sacramentale sta nella volontà di Cri sto di mettersi nelle mani della chiesa e
diciascuno di noi perché potessimo finalmente offrire, per la salvezza nostra e ditutto
il mondo, la vittima di valore infinito, cioè non più nella misura dell'uomo, perciò
con la stessa ampiezza ed efficacia che quell'offerta ebbe la prima volta sul l'altare
della croce. Allora egli si offriva co me in una splendida e tremenda solitudi neanche se lo faceva per noi-, carico ditutti i nostri peccati e «attirandoci tutti asé»; ora
siamo noi gli offerenti, con lui eper mezzo di lui, presi dentro nello stesso
movimento di donazione, di obbedienza al Padre, di culto vero (quello della sua relazione filiale), di riconciliazione completa con Dio e tra noi. In lui, ci ha detto ilVat.
II (SC 5, citando un'antica orazione liturgica), «nostrae reconciliationis process
itperfecta placatio, et divini cultus nobisest indita plenitudo».
e. Offrendosi in sacrificio spirituale - Non sipuò essere veramente "coofferenti" senzaessere "co-offerti", come ricordava già l'enciclica Mediator Dei di
Pio XII (1947). «La chiesa ogni giorno, offrendo il Cristo, im para ad offrire se
stessa» dice un testo classico di s. Agostino (De Civ. Dei, X, 20),anzi questo è
l'unico modo vero per "far me moria" di lui, non solo ripetendo ritual mente i suoi
gesti e le sue parole, ma en trando nei suoi sentimenti. Per poter rice vere con
sincerità quel "corpo donato", dobbiamo vivere cristianamente la nostra vita
facendoci a nostra volta dono, qualunquesia la nostra vocazione specifica. Per
poterfar nostro e offrire quel sacrificio in cui Gesù si è fatto obbediente fino alla
morte, noi dobbiamo consumare la nostra esistenza in una totale ubbidienza alla
volontà delPadre, attuando pienamente il suo proget to di amore su di noi. «Nessuno
ha un amo re più grande di colui che dà la sua vita per gli amici» (Gv 15,13).
Stiamo proprio celebrando il suo gesto di amore, che esige altrettanto da noi.
Nulla possiamo aggiungere oggettivamente al sacrificio unico eperfetto di Cristo che
ha già meritato tutto, come sappiamo, ed è sovrabbondante per tutti i bisogni di
salvezza e di santifi cazione del mondo intero. Se oggi lo ren diamo presente nella
celebrazione memoriale di questa comunità, è proprio perchéproduca ora il
«sacrificio spirituale» di noi stessi, di cui ci parla tutto il NT (cfr. per es. Rm 12,1ss).
Il sacrificio sacramentale a cui partecipiamo è finalizzato a quello rea le di
noi stessi, e il primo è inutile per noi se non assume in sé la nostra vita concreta con
le sofferenze e le fatiche di ogni giorno, ma anche con le gioie, con le intenzioni e le
preghiere che ci portiamo nel cuore pernoi e per tutto il mondo, con il desiderio o il
bisogno di lodare e ringraziare Dio, di intercedere o di espiare. La celebrazione è ben
riuscita, ha ottenuto il suo vero scopo, quando di tutta la nostra vita noi facciamo una
sola offerta, un solo sacrificio con l'of ferta e il sacrificio di Cristo, o una sola lo de,
ringraziamento, intercessione, espia zione, che da parte nostra non hanno va lore se
non in quanto inseriti nel culto perfetto che solo il Cristo sa esprimere per noi e con
noi; proprio a questo fine egli si rende presente con la sua offerta e il suo sa crificio
sull'altare.
f. Formando tutti un solo corpo - L'unità di sacrificio e di vita porta con sé
anche l'u nità di persone in Cristo. Non possiamo incorporarci in lui con l'eucaristia,
senza "concorporarci" anche tra noi. L'espressio ne tipica deriva da s. Paolo, che ci
vede tut ti (ebrei e gentili) «concorporati» in Cristo (cfr. Ef 3,6).
Tocchiamo qui un effetto caratteristico dell'eucaristia, messo al centro dalla
tradizione patristica e medievale: se finora in gran parte ci è apparsa «la chiesa che fa
l'eucaristia», ora le cose s'invertono, «è l'eu caristia che fa la chiesa», secondo il
notoassioma. Il Cristo ci dà il suo corpo per farci sempre più "suo corpo" e così
costituisce di giorno in giorno la chiesa. «Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (1Cor 10,17).
g. Invocando lo Spirito santo sui comunicanti - Merita un rilievo a parte "la
seconda epiclesi", cioè una seconda invocazione dello Spirito santo non più sui doni,
questa volta, ma sulla comunità dei celebranti e comunicanti, perché siano in grado
di attingere il massimo frutto da un dono così grande. Le nuove anafore collegano
all'azione interiore dello Spirito specialmente i due ultimi frutti dell'eucaristia:
formare veramente con la nostra vita un solo sacrificio-offerta, e "un solo corpo" con
Cristo insieme ai nostri fratelli. Come dunque nella prima epiclesi lo Spirito è
invocato sul pane e vino perché li trasformi nel corpo e sangue del Signore, così qui
è invocato sulla comunità perché la disponga a entrare profondamente nel mistero
che sta celebrando e ne attinga il massimo frutto, ché altrimenti sarebbe impossibile,
perché tutto è dono e procede dal grande Dono che è la persona stessa dello Spirito.
h. Comunicando alla chiesa della terra e del cielo - Con varia collocazione
nello svolgimento della preghiera eucaristica e senza seguire un ordine costante, la
comunità cristiana celebrante l'eucaristia ha sentito fin dai primi secoli il bisogno di
esprimere la profonda unità con la chiesa peregrinante sulla terra, ma anche con
quella che è già approdata alla gloria del cielo. Si disvela così un'altra dimensione
della celebrazione eucaristica e della liturgia in genere: in questo momento forte si
sente che la nostra celebrazione, mentre si svolge sulla terra, è in contatto, anzi fa
parte di una liturgia assai più vasta che abbraccia anche il cielo, dove si canta e si
prega con noi e per noi, come ci fanno intravedere certe indimenticabili scene
dell'Apocalisse.
i. Intercedendo per tutti - Di qui il classico memento dei vivi e dei defunti, in
antico con la lettura dei dittici, cioè delle intenzioni più particolari, con la lista delle
persone da ricordare e dei nomi da leggere volta per volta, passando così in rassegna
il papa, i vescovi, le varie componenti del clero, fino alla comunità concreta dei
semplici fedeli, in collegamento con le circostanze e le necessità che si stavano
vivendo nel momento storico. Qui naturalmente trovava posto anche l'antichissima
preghiera per i defunti, che venivano ricordati allorché si facevano dei vuoti nella
comunità e quando erano raccomandati da qualche fedele in particolare.
Così l'eucaristia, soprattutto nell'anafora, diventa sintesi e modello di tutta la preghiera cristiana, in tutti i suoi aspetti, per tutti i nostri bisogni, a cominciare però dalla lode-ringraziamento a Dio per gli immensi e innumerevoli benefici compiuti a
nostro favore, quando ancora non meritavamo nulla o non lo cercavamo, mentre egli
ci ha amati per primo.
l. Dossologia finale - Da quanto detto finora, non stupisce che l'anafora
sbocchi, con una specie di inclusione finale che si rifà decisamente al tema
dominante fin dai primi accenti, in una grandiosa glorificazione conclusiva dove si
rimette vigorosamente al centro l'unico Mediatore e Salvatore («Per Cristo, con
Cristo, in Cristo...»), che «nell'unità con lo Spirito santo» fa ritornare tutto al Padre
(«ogni onore e gloria...»), secondo il classico schema trinitario, che è il supporto di
ogni autentica preghiera cristiana, soprattutto di quella liturgica, e in un momento
solenne come il nostro. Alla grandiosità di questo finale in crescendo, corrisponde la
ratifica da parte dell'assemblea celebrante con l'Amen più importante di tutto il rito
della messa, quell'Amen che, stando alla testimonianza di s. Girolamo (In Gal.
comment. I, 2), risuonava come un tuono nelle antiche basiliche romane, quale
adesione interiore e comunitaria di fede, di partecipazione piena e gioiosa alla
salvezza operata da Cristo.
Comunità di comunione e di condivisione (Rito di comunione e di congedo)
Dopo il rito introduttivo dell'offertorio e la grande preghiera eucaristica, ora il
versante della messa scende verso la consumazione del sacrificio e la parte conclusiva della celebrazione.
Fin dall'offertorio tutti gli elementi più o meno sono scelti e guardano verso
la partecipazione al banchetto sacramentale, avendo indicato Gesù stesso la forma
conviviale dell'incontro con lui.
Al primo posto, almeno da s. Gregorio Magno in poi, troviamo il Padre
nostro, che per la sua dignità serve come da ponte tra la solenne preghiera eucaristica
e il rito della comunione. Alcune sue "domande", specialmente, l'hanno fatto vedere
in stretta connessione con l'eucaristia, come la richiesta del «pane quotidiano» (o
«supersostanziale») - che una certa interpretazione abbastanza diffusa nell'epoca
patristica intendeva del pane eucaristico - e più ancora (specialmente nella
predicazione agostiniana) la domanda del perdono a Dio e ai fratelli («Rimetti a noi,
come...») quale esposizione necessaria per comunicarsi. Il Pater è completato dal suo
embolismo finale («Liberaci, o Signore...»), che sviluppa le ultime domande
dell'orazione del Signore e al quale si annette, oggi anche nella liturgia romana,
un'antica dossologia-acclamazione del popolo: «Tuo è il regno... ».
Segue la preghiera del sacerdote per la pace ad intra e ad extra della chiesa,
cui si aggiunge la formula già ebraica di augurio per la pace (Pax vobis) e allora tutta
l'assemblea dei presenti viene normalmente invitata a scambiarsi un abbraccio fraterno (o altro segno equivalente). Nei testi e nei riti, come sono sistemati oggi, in questa
parte c'è forse anche troppa insistenza sul tema della pace, ma evidentemente si
vuole mettere in risalto il grave monito di Gesù che antepone la riconciliazione
fraterna a qualsiasi offerta sull'altare (cfr. Mt 5,24).
Si compie finalmente la fractio panis, gesto importante già di Gesù
nell'ultima cena, come sappiamo, e che nella comunità primitiva diede addirittura il
nome a tutta la celebrazione eucaristica (cfr. Lc 24,35; At 2,46). Il gesto familiare del
capotavola, che spezzava l'unico pane per distribuirne le parti tra tutti i presenti, era
assai semplice ma insieme significativo per esprimere la condivisione fra tutti, e
difatti Paolo se ne serve (1Cor 10,17) per inculcare la nostra unità in Cristo dal
momento che partecipiamo tutti allo stesso pane spezzato e allo stesso calice.
Naturalmente questo suppone "la verità del segno" anche nella materia che
usiamo. Nel modo come vengono confezionate le ostie nei tempi moderni - sempre
più "candide e sottili" per costruirvi sopra una pseudo-mistica molto in voga in una
certa letteratura devozionistica sull'eucaristia ed ancora oggi per es. in certi canti popolari - essa appare assai lontana dal segno umile, ma vivo e concreto e familiare
prescelto da Gesù. Se per questo si può addurre la scusa della praticità delle ostie singole, si dovrebbe almeno prestare fedeltà alle tante raccomandazioni di documenti
ufficiali (non escluso PNMR 56h) che invitano a comunicare regolarmente i presenti
con ostie consacrate nel corso della stessa messa cui partecipano, secondo la logica
delle cose. Il canto dell'Agnus Dei accompagna, secondo la sua durata, la frazione
del pane ed anche il piccolo rito della immixtio, cioè l'immettere nel calice un
piccolo frammento dell'ostia consacrata, probabilmente per significare l'unità dello
stesso sacrificio e della stessa vittima presente nel corpo e nel sangue. A Roma in
antico si mandavano frammenti del genere a celebranti di altre chiese per esprimere
la comunione allo stesso sacrificio.
Dopo una preghiera del sacerdote (detta sottovoce. per conto suo) si entra
direttamente nel rito della comunione: il celebrante mostra il santo pane ai fedeli e
invita tutti al banchetto, mentre suggerisce sentimenti di umiltà con le commoventi
parole del centurione del vangelo: «O Signore, non sono degno...». Subito si comunica al pane e al calice, mentre i fedeli a loro volta si incamminano verso l'altare
possibilmente cantando (secondo l'antichissima e universale consuetudine raccomandata ancora oggi dalla chiesa), per esprimere (se il canto è adatto al momento)
gioia e intima unione sia col Signore, sia con tutti i fratelli commensali alla stessa
tavola imbandita dall'amore divino.
È naturale che un atto così importante come la comunione abbia un prima e
un dopo nel rito stesso: il grande ringraziamento ufficiale è espresso dal sacerdote
con l'apposita «orazione dopo la comunione», una delle tre orazioni presidenziali, in
cui, accanto alla manifestazione della più viva e gioiosa riconoscenza, spesso si
chiede al Signore che i frutti della comunione siano efficaci e duraturi per tutti.
Prima di questa importante orazione detta a nome della comunità, si può inserire
opportunamente un canto di ringraziamento (salmo o inno adatto), ma soprattutto
non dovrebbe mancare una pausa di silenzio per la preghiera personale di ciascuno,
fondendo così le legittime esigenze del singolo con quelle della comunità. Dopo gli
eventuali avvisi all'assemblea, il saluto finale e la benedizione del sacerdote (talvolta
resa più solenne o arricchita da una «orazione sul popolo») chiudono brevemente ed
efficacemente il grande rito, prima del congedo ufficiale.
Comunità invitata in missione
Se il congedo rituale (Ite, missa est) storicamente non è da interpretarsi come un
esplicito rinvio alla missione, è certo che l'assemblea eucaristica è formata da un popolo il quale già in forza del battesimo è tutto missionario e non può chiudersi in se
stesso. Ogni volta che è convocato intorno al banchetto eucaristico, rivive e riaccetta
liberamente la sua chiamata; sa però che questa è universale e vuol raggiungere tutti
gli uomini, servendosi anche dell'opera di tutti.
In attesa del banchetto finale
Illuminata la fisionomia missionaria dell'assemblea eucaristica, si scopre
subito anche la sua dimensione escatologica. Vi alludeva già Gesù nell'ultima cena
(cfr. Lc 22,18), e s. Paolo presenta la celebrazione eucaristica come una solenne
proclamazione della morte vittoriosa del Signore «fino al suo ritorno» (1Cor 11,26).
Non fa meraviglia allora la tensione escatologica della prima comunità cristiana col
caratteristico grido d'invocazione: «Marana tha» («Vieni, Signore Gesù»), ripetuto
specialmente nelle adunanze eucaristiche (fin dalla Didaché, X).
L'eucaristia, memoriale della pasqua del Signore, non ci rimanda solo
indietro, a un evento che si è compiuto nella storia passata, ricordando la passionemorte-risurrezione-ascensione, ma si apre anche alla prospettiva futura: «nell'attesa
della tua venuta», cantiamo dopo la consacrazione. In realtà la risurrezione di Cristo
inaugura già il nuovo mondo del futuro e nell'umanità glorificata di lui è già
incominciata la trasfigurazione «del cielo nuovo e della terra nuova» (Ap 21,1). Per
questo, fin dalla prima generazione cristiana, partecipare all'eucaristia voleva dire
ricevere un «germe di immortalità», un «antidoto contro la morte», un ius ad gloriam
anche per il nostro corpo, un pegno e una caparra, insomma, della risurrezionetrasfigurazione finale.
Con questa triplice dimensione del tempo (passato-presente-futuro), tipica
dell'economia sacramentale, l'eucaristia non è solo un banchetto commemorativo ma
anche anticipativo, perché la pasqua del Signore è già vittoria sicura sulla morte e su
tutte le potenze avverse, è già liberazione-riconciliazione-unificazione di tutto in Cristo.
P. VISENTIN – D. SARTORE
Dal Codice di Diritto Canonico
Can. 899 - §1. La celebrazione eucaristica è azione di Cristo stesso e della Chiesa; in
essa Cristo Signore, mediante il ministero del sacerdote, offre a Dio Padre se stesso,
sostanzialmente presente sotto le specie del pane e del vino, e si comunica in cibo
spirituale ai fedeli associati nella sua offerta.
§2. Nella Sinassi eucaristica il popolo di Dio è chiamato a radunarsi in unità sotto la
presidenza del Vescovo o, in dipendenza dalla sua autorità, del presbitero, che
agiscono nella persona di Cristo, e tutti i fedeli che prendono parte, sia chierici sia
laici, concorrono partecipandovi ciascuno a suo modo secondo il proprio ordine e la
diversità di compiti liturgici.
§3. La celebrazione eucaristica sia ordinata in modo che tutti coloro che vi
partecipano traggano da essa abbondanza di frutti, per il conseguimento dei quali
Cristo Signore ha istituito il Sacrificio eucaristico.
Il ministro
Can. 900 - §1. Ministro, in grado di celebrare nella persona di Cristo il sacramento
dell'Eucaristia, è il solo sacerdote validamente ordinato.
§2. Celebra lecitamente l'Eucaristia il sacerdote che non sia impedito per legge
canonica, osservando le disposizioni dei canoni che seguono.
Divieto di concelebrare
Can. 908 - È vietato ai sacerdoti cattolici concelebrare l'Eucaristia con i sacerdoti o i
ministri delle Chiese o delle comunità ecclesiali, che non hanno la piena comunione
con la Chiesa cattolica.
Digiuno
Can. 919 - §1. Chi sta per ricevere la santissima Eucaristia si astenga per lo spazio di
almeno un'ora prima della sacra comunione da qualunque cibo o bevanda, fatta
eccezione soltanto per l'acqua e le medicine.
§2. Il sacerdote, che nello stesso giorno celebra due o tre volte la santissima
Eucaristia, può prendere qualcosa prima della seconda o terza celebrazione, anche se
non sarà intercorso lo spazio di un'ora.
§3. Gli anziani, coloro che sono affetti da qualche infermità e le persone addette alle
loro cure, possono ricevere la santissima Eucaristia anche se hanno preso qualcosa
entro l'ora antecedente.
Materia
Can. 924 - §1. Il sacrosanto Sacrificio eucaristico deve essere offerto con pane e
vino, cui va aggiunta un pò d'acqua.
§2. Il pane deve essere solo di frumento e confezionato di recente, in modo che non
ci sia alcun pericolo di alterazione.
§3. Il vino deve essere naturale, del frutto della vite e non alterato.
Can. 927 - Non è assolutamente lecito, anche nel caso di urgente estrema necessità,
consacrare una materia senza l'altra o anche l'una e l'altra, fuori della celebrazione
eucaristica.
Luogo
Can. 932 - §1. La celebrazione eucaristica venga compiuta nel luogo sacro, a meno
che in un caso particolare la necessità non richieda altro; nel qual caso la
celebrazione deve essere compiuta in un luogo decoroso.
§2. Il sacrificio eucaristico si deve compiere sopra un altare dedicato o benedetto;
fuori del luogo sacro può essere usato un tavolo adatto, purché sempre ricoperto di
una tovaglia e del corporale.
Dal Catechismo della Chiesa Cattolica
La santa Eucaristia completa l'iniziazione cristiana. Coloro che sono stati elevati alla
dignità del sacerdozio regale per mezzo del Battesimo e sono stati conformati più
profondamente a Cristo mediante la Confermazione, attraverso l'Eucaristia
partecipano con tutta la comunità allo stesso sacrificio del Signore. (CCC 1322)
« Il nostro Salvatore nell'ultima Cena, la notte in cui veniva tradito, istituì il
sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, col quale perpetuare nei secoli,
fino al suo ritorno, il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta Sposa,
la Chiesa, il memoriale della sua morte e risurrezione: sacramento di pietà, segno di
unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene
ricolmata di grazia e viene dato il pegno della gloria futura ». (CCC 1323)
L'Eucaristia è « fonte e culmine di tutta la vita cristiana ». « Tutti i sacramenti, come
pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla
sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti, nella santissima Eucaristia è
racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua ».
(CCC 1324)
« La comunione della vita divina e l'unità del popolo di Dio, su cui si fonda la
Chiesa, sono adeguatamente espresse e mirabilmente prodotte dall'Eucaristia. In essa
abbiamo il culmine sia dell'azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del
culto che gli uomini rendono a Cristo e per lui al Padre nello Spirito Santo ». (CCC
1325)
Infine, mediante la celebrazione eucaristica, ci uniamo già alla liturgia del cielo e
anticipiamo la vita eterna, quando Dio sarà « tutto in tutti » (1 Cor 15,28). (CCC
1326)
In breve, l'Eucaristia è il compendio e la somma della nostra fede: « Il nostro modo
di pensare è conforme all'Eucaristia, e l'Eucaristia, a sua volta, si accorda con il
nostro modo di pensare ». (CCC 1327)
Praenotanda del Messale
Missale Romanum (presentazione)
Missale Romanum (tertia editio)
Rito della Messa
Celiaci: cfr. ufficio liturgico
Il giorno del Signore CEI 1984 da CULMINE E FONTE 1994/5
Documento sui Celiaci della CEI
Lettere del papa:
Mysterium fidei di Paolo VI: Mysterium Fidei (3 settembre 1965)
LETTERA DOMINICAE CENAE DEL PAPA GIOVANNI PAOLO II A TUTTI I
VESCOVI SUL MISTERO E CULTO DELL'EUCARISTIA
Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003)
Dies Domini (31 maggio 1998)
[1] Per i riferimenti e gli sviluppi di questa dottrina cfr. H. U. von Balthasar, Parole
et mystère chez Origine, Parigi 1957, spec. 48-49, 79ss, 89-98.
[2] Cfr. per queste idee e documentazione L. Dussault, L’eucharistie pâques de toute
la vie, Parigi, 1972, spec. 13-21; 79-82.