Lo Stato nella concezione materialistica della storia

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SERGIO LETIZIA
LO
STATO
NELLA CONCEZIONE MATERIALISTICA
DELLA STORIA
1 9 4 6
I N D I
C
E
IL MATERIALISMO STORICO.............................................................................. 3
SUL CONCETTO DI STATO ................................................................................. 9
GLI AGGREGAMENTI SOCIALI PRIMITIVI .................................................. 15
ORIGINE DELLO STATO ...................................................................................... 26
EVOLUZIONI E TRASFORMAZIONI DELLO STATO ................................... 35
LO STATO ANTICO O SCHIAVISTA .............................................................. 39
LO STATO FEUDALE........................................................................................... 44
LO STATO MODERNO RAPPRESENTATIVO O BORGHESE..................... 49
LO STATO NELLA SOCIETÀ SOCIALISTA .................................................... 53
B I B L I O G R A F I A ................................................................................. 66
IL MATERIALISMO STORICO
Non esiste alcuna opera di Carlo Marx e di Federico
Engels
che
possa
definirsi
appropriatamente
ed
esclusivamente filosofica; .tuttavia i numerosi scritti che di
loro possediamo offrono la possibilità di avere una visione
abbastanza
chiara
e
completa,
anche
se
rilevata
frammentariamente, di quella concezione che va sotto il nome
di materialismo dialettico o storico.
Siffatta esposizione frammentaria ha, ovviamente, lo
svantaggio di nuocere alla comprensione delle idee filosofiche
dei due pensatori tedeschi, in quanto richiede una notevole
facoltà di assimilazione e soprattutto una conoscenza
abbastanza vasta di tutte le loro opere ed è per questo che, fra
gli stessi seguaci di Marx, molti sono coloro che hanno
tacciato il materialismo storico di incompletezza e più
numerosi ancora coloro che, non avendone afferrato
chiaramente i concetti basilari, hanno inteso superarlo con
modificazioni, adattamenti ed errate interpretazioni, che lo
hanno danneggiato più delle critiche frequenti e violente
mosse dagli avversari.
Ciò nonostante il materialismo storico resta ancora la
sola teoria che offra una spiegazione scientifica e razionale dei
fenomeni umani dal punto di vista sociale.
Esso rappresenta il punto di arrivo nello svolgimento di
tutto il pensiero materialistico in senso lato, che Marx libera
dall'empirismo
e
munisce
dell'arma
irresistibile
della
dialettica.
In questo senso la filosofia marxista si può ricollegare da
una parte al materialismo precedente nella persona del suo
ultimo rappresentante L.Feuerbach e dall'altro alla scuola
hegeliana, della quale rigetta i metodi aprioristici e le
premesse idealistiche.
Luigi Feuerbach, sostituendo l'io individuale e sensibile
all'io astratto degli idealisti,. che nel tentativo di superare il
dualismo tra pensiero e essere avevano ridotto l'essere ad
attributo del pensiero, ne capovolge il concetto e giunge ad
affermare che non è il pensiero che determina l'essere, ma è
l'essere che determina il pensiero.
Feuerbach non si accorge tuttavia che l'uomo da lui
analizzato e messo al posto di Dio nella realtà appartiene ad
una forma determinata della società.
Egli, in sostanza, idealizza l'uomo isolandolo in un
momento del suo divenire, senza tener conto che, come
afferma Marx, "l'essenza umana è l'insieme di tutti i rapporti
sociali", i quali continuamente mutano, mutando con se stessi
l'essenza umana. E Marx, modificando il concetto di
Feuerbach, pone una delle pietre miliari della concezione
materialistica della storia: "non è la coscienza degli uomini
che determina la loro maniera d'essere, ma al contrario è la
loro maniera sociale d'essere che determina la loro coscienza."
Hegel, d'altra parte, gli offre con la sua dialettica la
chiave per l'interpretazione dei fatti sociali ed umani: quella
dialettica che si presenta come inutile strumento nelle mani
dell'idealista tedesco che, ancorato alla concezione dell'idea
demiurgo della realtà, non sa andare al di là dell'affermazione
che tutto ciò che ' reale è razionale.
Il materialista Marx trova che il pensiero conforme alle
regole della logica formale è un caso particolare del pensiero
dialettico e che l'affermazione hegeliana, valida per la cosa in
se, il noumeno, sopprime nei fenomeni umani e sociali
l'elemento del divenire, cristallizzando l'essere presente. Sorge
così la nuova formula: "tutto ciò che è reale diviene
irrazionale e viceversa".
A questo punto Marx può essere in grado di affermare: "la
dottrina materialistica, secondo cui gli uomini sono il prodotto
delle circostanze e dell'educazione non tiene conto che le
circostanze sono modificate precisamente dagli uomini e che
lo stesso educatore deve essere educato."
Ormai l'interpretazione dei fenomeni sociali ha il suo
metodo materialistico e dialettico: l'uomo è prodotto e
produttore.
"Lo sviluppo tecnico, giuridico, filosofico, letterario,
artistico, ecc, - afferma Engels in una sua lettera - poggia sullo
sviluppo
economico:
ma
tutti
reagiscono
insieme
e
separatamente l'uno sull'altro e sulla base economica."
Uno dei difetti comuni del nostro secolo è la mania di
voler
sintetizzare
cristallizzazioni
le
verbali,
elaborazioni
che
del
nella
loro
pensiero
in
inevitabile
incompletezza mutilano i concetti e ne snaturano e travisano il
contenuto.
Così si è voluto condensare il materialismo storico ed
esprimerlo
nella
elementare
e
troppo
semplicistica
affermazione che l'uomo è il prodotto dell'ambiente e che i
fenomeni umani e sociali sono determinati esclusivamente dal
fattore economico.
Si è voluta prospettare, in una parola, la concezione
marxista come una teoria nella quale fosse assolutamente
superfluo inserire l'uomo considerato come attività pensante e
cosciente. Questa presunta negazione dello spirito umano non
poteva non ferire la sensibilità dei mortali nella stessa maniera
in cui la ferì la volgarizzazione delle teoria darwininana con
l'affermazione denigratoria che l'uomo deriva dalla scimmia.
Eppure Engels aveva spiegato in termini chiari: "non
esiste dunque un effetto automatico della situazione
economica, come alcuni amano raffigurarsi per comodità.
Sono gli uomini che fanno la storia, ma in un dato ambiente
che li condiziona sulla base di dati rapporti effettivi. ".(lettera
del 1894)
E con ciò egli fa giustizia sommaria di tutte le
speculazioni che si sono fatte e che si fanno intorno
all'automatismo determinante del fatto economico.
L'ambiente e con particolare importanza i rapporti
economico agiscono sull'uomo, il quale ne prende coscienza
modificandoli a sua volta.
Tutto il progresso umano poggia su questo processo
dialettico e la scienza e la storia, vieppiù che si estendono le
nostre cognizioni, lo confermano.
Se questa, è, quindi, la vera essenza del materialismo
storico come dottrina della conoscenza, la deduzione
principale che se ne può trarre è quella che l'uomo, per mezzo
di questo processo di azioni e reazioni, tende, modificando
continuamente l'ambiente, che risulta così progressivamente
arricchito dei prodotti del suo pensiero e della sua attività, a
far scemare nei suoi confronti l'influenza della dell'ambiente
originario, quello fisico naturale, In sintesi l'uomo tende a
dominare sempre più le forze della materia.
Questa deduzione collima perfettamente
con la più
empirica constatazione dei dati di fatto esistenti.
Da quanto sopra esposto risulta evidente ed occorre
tener presente che, a differenza di quanto pretenderebbero
alcuni, il materialismo storico non dà la spiegazione delle
cause dei diversi fenomeni, ma la spiegazione del modo da
seguire per scoprire queste cause.
Ciò significa che l'interpretazione materialistica della
storia ha soprattutto un valore metodologico.
E se oggi, nel tentativo di spiegare tutti i fenomeni
umani e sociali dei tempi passati e il loro svolgimento,
esistono, specialmente nei dettagli, delle lacune, ciò non si
deve imputare al materialismo storico e alla sua validità come
dottrina della conoscenza, ma unicamente al fatto che spesso
si ignorano i dati necessari perché possa aversi una
rappresentazione oggettiva per lo meno approssimativa dei
fenomeni stessi, in un dato momento della loro esistenza.
SUL CONCETTO DI STATO
Stato, secondo la concezione corrente, è ogni ordinamento
giuridico territorialmente sovrano.
A questa definizione crediamo che nessuno possa muovere
obiezioni serie, anche perché essa, anche a corrispondere alla
vera essenza dello Stato analizzato nel periodo storico, è
generalmente accettata da tutti i giuristi, anche se appartenenti
a scuole diverse e divergenti nei metodi e nell'indirizzo.
Tutt'al più si potrebbe ad essa rimproverare una sinteticità
concettuale.
Santi Romano, che non può essere sicuramente accusato di
aver nutrito simpatie per il materialismo storico, ha reso ancor
più chiaro il concetto, aggiungendo: *Lo Stato è una unità
ferma e permanente: ha una esistenza a sè oggettiva e
concreta, esteriore e visibile: ha una organizzazione e struttura
che assorbe gli elementi che ne fanno parte e che è superiore e
preordinata così agli elementi stessi, come alle loro relazioni,
in modo che non perde la sua identità, almeno sempre e
necessariamente, per singole mutazioni di tali elementi."
Questi concetti, appunto perché corrispondenti alla realtà
ed universalmente riconosciuti, rivestono una importanza
fondamentale.
Da essi possono trarsi due principi veramente interessanti:
1) lo Stato è un ente territoriale:
2) lo Stato ha una esistenza a sè ed è collocato al di sopra
degli individui ad esso sottoposti.
Tali principi evitano di creare inutili e dannose confusioni
tra società e Stato. L'idolatria per quest'ultimo ha generato una
specie di suggestione che fa vedere lo Stato anche dove esso
non esiste, dove esiste invece una semplice convivenza
umana.
La società è una cosa, lo Stato un'altra.
La prima presuppone soltanto un insieme umano in
qualche modo ordinato e regolato per un fine comune; il
secondo
presuppone
una
relazione
con
un
territorio
determinato, che è la principale sua caratteristica, ed un potere
che esiste al di fuori e al di sopra degli individui ad esso
sottoposti.
Non è necessario, come afferma lo Stammler, che una
norma, per essere diritto, venga emanata da quella
organizzazione sociale che noi chiamiamo Stato. La stessa
esistenza, dai tempi remoti dell'antichità sino ai nostri giorni,
di un diritto immediatamente e spontaneamente originatosi
senza l'intervento dello Stato, lo dimostra. Non ogni potere,
continua lo Stammler, non ogni istituzione, non ogni
assemblea è Stato, nel vero e proprio senso della parola.
E ciò risulta ancor più evidente quando ci si riferisca, ad
esempio, alla libera assemblea di una qualsiasi comunità
primitiva, anche se questa ponga delle norme di carattere
giuridico, poiché in questa assemblea rudimentale manca
"l'esistenza a sè oggettiva e concreta" di un potere superiore e,
possiamo affermare, estraneo alla comunità.
Così pure possiamo considerare le orde e le tribù nomadi
come viventi in un ordinamento giuridico, ma non in uno
Stato, perchè manca in questo caso la relazione con un
territorio determinato.
Ora è evidente che questo rapporto tra Stato e territorio
implica un rapporto tra individuo e territorio: in una parola
implica un determinato rapporto di proprietà.
Ciò porta A. Labriola ad affermare che lo Stato è un
reale ordinamento di difese per garantire e perpetuare un
metodo di convivenza, il cui fondamento è o una forma di
produzione economica o un accordo ed una transazione tra
diverse forme: in breve lo Stato suppone o un sistema di
proprietà o l'accordo fra più sistemi di proprietà.
Parimenti, per la stessa relazione tra individuo e
territorio, lo Stato esclude la relazione naturale del sangue,
che assume un carattere secondario e trascurabile.
"I rapporti giuridici - dice Marx - e così pure le forme
dello Stato non possono essere spiegati nè da se stessi, nè da
ciò che si chiama evoluzione naturale dello spirito umano; essi
hanno le loro radici nelle condizioni generali di esistenza."
Dall'analisi delle caratteristiche fondamentali dello Stato
risulta chiaro che esso presuppone un determinato sistema di
proprietà e un legame tra gli uomini non basato sul sangue,
ma sul territorio. Inoltre l'esistenza a sè di un potere statale
superiore presuppone un contrasto di interessi e delle antitesi
sociali, che sono la diretta conseguenza delle differenziazioni
economiche alle quali ha portato un determinato sistema di
proprietà.
Se,quindi, in un determinato momento della storia
umana noi riusciamo a trovare una società che è fondata su
vincoli di sangue e non di territorio; se essa ha per base un
sistema di proprietà che è quello comunistico, il quale elimina
la possibilità delle antitesi sociali e delle differenziazioni
economiche, nulla più ci vieta di affermare che lo Stato in
quella determinata forma sociale non è necessario e non esiste.
Questa determinata forma sociale esiste ed c'
l'ordinamento gentilizio. Sorge così il problema dell'origine
dello Stato. Alla luce del materialismo storico uno dei più
importanti fenomeni sociali trova cos' la sua spiegazione
razionale e e scientifica. Lo Stato, considerato come una realtà
immutabile che trova la sua spiegazione e la sua ragion
d'essere ora nella mitologia, ora nella religione, ora nella
filosofia, viene da questo momento sezionato ed analizzato nel
suo aspetto dinamico.
"In tal modo
- per dirla con A. Labriola - il
materialismo storico, per ora idealmente almeno, ha superato
lo Stato e superandolo lo ha inteso a fondo, così nel suo modo
di origine, come nelle ragioni della sua naturale sparizione. E
lo ha inteso appunto perché non gli si leva contro in modo
unilaterale e soggettivo, come fecero già più volte in altri
tempi cinici e stoici ed epicurei di ogni maniera, e poi settari
religiosi e cenobiti visionari, e utopisti da conventicola, e da
ultimo anarchisti di ogni tinta e colore."
"I termini entro i quali si aggira la genesi e lo sviluppo
dello Stato, dal suo punto iniziale di apparizione entro una
determinata comunità, in cui cominciò la differenziazione
economica, sino a questo momento, in cui la sua sparizione
principia a disegnarsi nella mente, ce lo rendono ormai
comprensibile."
GLI AGGREGAMENTI SOCIALI PRIMITIVI
Uno dei problemi che hanno maggiormente assillato gli
studiosi del XIX secolo è stato quello della ricerca delle
origini delle prime aggregazioni sociali.
Dopo avere acquistato un carattere autonomo come
scienza nei confronti della storiografia, la sociologia con
l'aiuto dell'antropologia, dell'etnografia, della paleontologia e
della glottologia, nel tentativo di trovare e di formulare una
legge generale di formazione e di svolgimento della società,
dette
vita
a
due
concezioni
teoriche
sulle
origini
dell'aggregazione sociale.
La prima, sostenuta dal Morgan, dal Mac Lennan e
soprattutto dallo Spencer, ricercò tali origini nell'orda, di cui
ancor oggi si trovano tracce presso i popoli selvaggi; la
seconda, invece, sostenuta da Sumner Maine, nel gruppo
gentilizio, che si riscontra presso i popoli storici e soprattutto
in quelli di origine aria.
Mentre l'orda, per adoperare la stessa espressione dello
Spencer, rappresenta una nebulosa sociale, in quanto massa
incoerente di uomini, donne e fanciulli, viventi in un regime
di promiscuità che non può definirsi propriamente società, il
gruppo gentilizio rappresenta una aggregazione sociale che
possiede già una propria organizzazione ed è fondata su
vincoli di sangue ben determinati.
Il Carle ritiene che le due teorie si integrino a vicenda e
che il gruppo gentilizio si origini da quei nuclei di vita umana
e sociale che cominciano a formarsi nella stessa nebulosa
dell'orda e che, svolgendosi, unendosi e confederandosi
variamente fra di loro, condurranno poi alla formazione di una
vera e propria organizzazione sociale.
Già nell'orda, infatti, alla quale talvolta l'umanità sembra
voler ritornare specialmente in periodi di grandi cataclismi
sociali, i membri, in determinati momenti in cui si presenta
più grave la necessità dell'offesa o della difesa, si concentrano
e cooperano in maniera tale che essa finisce per assumere il
carattere di una organizzazione, differenziandosi nel capo
supremo, nei suoi consiglieri e nella massa dei subordinati.
Certamente non è molto facile avere, sia pure
approssimativamente, una idea chiara e precisa di tutte le
manifestazioni di questo fenomeno sociale, che potremmo
definire abbastanza appropriatamente l'anello di congiunzione
tra il mondo animale e l'umanità. Né, d'altronde, si può
pretendere che il processo di formazione delle prime
aggregazioni sociali sia stato identico e simultaneo per tutti i
gruppi umani, i quali hanno operato e vissuto in condizioni
ambientali molto diverse.
Flora, fauna, clima, fiumi, montagne, pianure nel primo
periodo di formazione sociale hanno avuto importanza
preponderante, perché sono stati i coefficienti che hanno
condizionato il sistema di vita degli uomini primitivi ed hanno
influito sulla velocità e sul contenuto delle formazioni e delle
prime trasformazioni sociali.
Gli anzidetti coefficienti non vanno dimenticati se si
vogliono risolvere determinati problemi, in quanto ne
costituiscono il filo conduttore.
Un enorme lavorio cerebrale si è svolto attorno alla
questione se l'umanità abbia esordito col gruppo matriarcale o
con quello patriarcale. L'indecisione è derivata principalmente
dal fatto che in identiche formazioni sociali, come ad esempio
quella gentilizia, a volta si è riscontrato vigere il sistema
matriarcale, altre volte quello patriarcale e talvolta un sistema
misto.
Quando si cerca la verità in un buio così fitto, almeno
sino ad oggi, come quello della preistoria umana, non è
certamente facile raggiungere la meta.
Tuttavia, per chi ammette una promiscuità primitiva, e
la grande maggioranza dei sociologi sembra orientata verso
questa soluzione, il problema non può avere che un'uica via di
uscita. In questo regime l'unica relazione sicura e manifesta è
quella che lega i figli alla madre e intorno alla donna
dovevano necessariamente polarizzarsi le forze costituenti i
primitivi gruppi umani.
Nel mondo animale, che possiamo immaginare del
resto non molto lontano dall'uomo primitivo, la cosa rientra
nella normalità.
Il Carle, sempre nel tentativo di conciliare opposte
teorie, afferma che l'umanità ha esordito con un gruppo che ha
del patriarcale e del matriarcale nello stesso tempo,
giustificando questa affermazione col fatto che il vincolo
materno e paterno hanno entrambi le loro basi nei sentimenti
spontanei dell'umana natura.
Ma,
per
essere
valida,
questa
affermazione
presuppone che l'uomo abbia sempre potuto individuare o
supporre il proprio padre, dato che il sentimento dell'umana
natura poggia sempre su vincoli reali o supposti tali: e non è
sufficiente a convalidare l'ipotesi il far riferimento alla pratica
della couvade, che
sembra un uso particolare di alcune
popolazioni e comunque deve essere apparso in periodo molto
posteriore ai tempi cui ci riferiamo.
Engels, nella sua opera sulle origini della famiglia, ci
offre una spiegazione di quella che Marx chiama la sconfitta
storica mondiale del sesso femminile e che segna il passaggio
dal matriarcato al patriarcato, giustificandola colla progressiva
esclusione dai rapporti sessuali dei parenti più prossimi,
esclusione che tende a creare la possibilità
individuazione
del
vincolo
paterno
nella
della
famiglia
sindiasmatica, e con la formazione progressiva di un possesso
naturalmente ed esclusivamente maschile dei mezzi di
produzione (armi, bestiame, chiavi), che dà la possibilità
all'uomo di rovesciare il computo della discendenza in linea
femminile e quindi il diritto ereditario materno.
Questa legge di carattere generale non esclude le
eccezioni, là dove il processo evolutivo non crea le condizioni
necessarie perchè si possa compiere questa rivoluzione. Qui ,
infatti, il matriarcato continuerebbe a sussistere in forme più o
meno pure, in diretta relazione alle condizioni di vita e di
ambiente.
Le nostre cognizioni sul gruppo gentilizio, dalla
dissoluzione del quale sorge quel particolare sistema sociale
che va sotto il nome di Stato, seppure insufficienti, sono molto
estese, in quanto la costituzione gentile prolunga la sua
esistenza sino agli albori della storia.
Il periodo della aggregazione gentilizia dovette
certamente essere il più lungo che l'umanità abbia percorso.
Lo stesso Carle ammette che la forma patriarcale della gens,
che ebbe una configurazione così accentuata presso le
popolazioni italiche, dovette essere il frutto di una lunga
evoluzione anteriore; il che collima perfettamente con la tesi
di Engels, che riporta le origini del patriarcato al
perfezionamento e all'aumento dei mezzi di produzione.
Come nota Fustel de Coulanges, le difficoltà per lo
storico che voglia conoscere la gens antica sono molto grandi,
perchè le informazioni che si hanno su di essa datano da un
tempo in cui era divenuta solo l'ombra di se stessa.
Sia ad Atene che a Roma, infatti, nel periodo al quale
risalgono le prime notizie storiche, essa era stata trasformata
dalle rivoluzioni anteriori. In Roma la "gens" si presenta
ormai come una aristocrazia chiusa in mezzo ad una plebe
numerosa, stante fuori di essa. priva di diritti, ma tenuta a
doveri; mentre in Atene la sua natura originaria è
profondamente alterata dalla democrazia.
Tuttavia, alla luce delle nostre cognizioni e della
logica non è difficile individuare quelle caratteristiche che
dovettero costituire il fondamento dell'ordinamento gentile e
che servono a differenziarlo da qualsiasi altro ordinamento
sociale.
I caratteri distintivi del gruppo gentilizio sono:
l) il vincolo del sangue che lega i membri attraverso il
culto e la discendenza da un comune antenato;
2) il regime comunistico che in esso impera.
Per quanto riguarda il vincolo del sangue nessun
dubbio dovrebbe esistere in proposito e molto acutamente
Fustel de Coulanges fa osservare che l'antica legislazione che
dà ai gentiles il diritto di eredità, le credenze religiose che non
vogliono comunità di culto se non dove sia comunità di
nascita e i termini del linguaggio, che attestano nella gens una
origine comune, si pongono decisamente contro quella
formulazione teorica che tende a far passare i vincoli che
legano i mmbri della gens come una parentela artificiale.
Il difetto più grande di coloro che negano la parentela
naturale è, secondo il pensiero dello storico francese, quello di
supporre che la società umana abbia potuto cominciare per
via di una convenzione o di un artificio.
Questa sola considerazione è sufficiente a togliere alla
teoria
della
parentela
artificiale
qualsiasi
fondamento
seriamente scientifico.
Una società come quella gentile, necessariamente
fondata su vincoli di sangue, presuppone altresì logicamente
un regime comunistico e le tracce di questa proprietà comune
si trovano nella mitologia e nella storia di tutti i popoli.
I libri di Mencio e di Meng-tse parlano di una
proprietà comune familiare nell'antica Cina e così pure il
Codice indiano di Manù e la Bibbia ebraica. La proprietà
collettiva si ritrova, inoltre, nelle istituzioni germaniche della
"marca" e delle "allmende", come nel "mir" russo.
A Roma stessa il possesso dell'"ager publicus" ci
autorizza a supporre che anticamente esistesse una forma di
proprietà che non fosse quella individuale.
A Sparta, ancora il tempo di Licurgo, esiste una
divisione dei beni in parti uguali ed indivisibili, il divieto delle
alienazioni e una specie di comunione, perché a ciascuno è
lecito, in caso di necessità, di servirsi degli animali domestici
e dei frutti degli altri.
Il Morgan, soltanto centocinquanta anni fa, vivendo in
mezzo agli Irochesi, tribù indigena dell'America del Nord,
ebbe modo di constatare come la loro costituzione fosse
basata ancora sulla proprietà collettiva.
La proprietà privata, evidentemente, è una istituzione
molto recente, che implica una organizzazione economica e
sociale del tutto diversa da quella gentile.
Per quanto riguarda l'evoluzione della gens, nessun
dubbio sussiste sul fatto che essa fosse non una associazione
di
famiglie,
ma
la
famiglia
stessa,
che
poteva
indifferentemente comprendere un ramo solo o più rami, La
gens originaria, certamente, con l'aumento dei suoi membri,
dovette scindersi in due o più gens, le quali continuavano a
collegarsi in un organismo che le comprendeva, la fratria,
che, a sua volta, costretta a seguire lo stesso processo, dà vita
ad un altro organismo, la tribù (nell'accezione odierna
generalizzata), che in definitiva comprende tutti i discendenti
della "gens" originaria.
Nella società gentile, basata sul vincolo del sangue e su
di un regime comunistico non v'e posto, come abbiamo già
detto, per lo Stato.
Il semplice meccanismo economico-produttivo che le dà
vita, rendendo impossibile la proprietà privata e la divisione
del lavoro, elimina qualsiasi possibilità di differenziazioni
economiche e la conseguente formazione di contrasti sociali.
In tal modo qualsiasi autorità rimane nell'ambito della
collettività e viene esercitato nel modo più semplice e
naturale.
Le
poche
spontaneamente
norme
e
si
giuridiche
tramandano
che
di
si
formano
generazione
in
generazione, allo stesso modo che i Greci si tramandavano i
loro poemi epici, vengono imposte ed osservate dalla
collettività stessa. Così, come afferma Engels a proposito
della società irochese, senza soldati e senza poliziotti, senza
prefetti e senza giudici, senza prigionie senza processi, tutto
ha il suo corso regolare.
In sintesi, ogni membro della collettività compartecipa
di quelle funzioni, che, in epoche posteriori, sono state
progressivamente attribuite in modo esclusivo a individui, ceti
o caste, in relazione alle particolari condizioni sociali in cui si
sono venuti a trovare per effetto della differenziazione
economica.
Solo posteriormente all'ordinamento gentile sorge la
necessità della formazione di un potere pubblico particolare
separato dalla collettività dei rispettivi cittadini.
Come questo potere si sia venuto a formare e
lentamente si sia innalzato al di sopra della collettività per poi
finire da ultimo a porsi contro di essa dopo avere esaurito la
propria funzione, sarà dimostrato in seguito.
Cercheremo così di tracciare a grosse linee, dalla
nascita alla morte, la vita di quel prodotto della società che va
sotto il nome di Stato.
ORIGINE DELLO STATO
"Ad un certo periodo della loro evoluzione - afferma Carlo
Marx nella prefazione alla "Critica delle economia politica" le forze produttive della società si trovano ad essere in
contraddizione con i rapporti di produzione esistenti nel seno
di queste società. Da forme favorenti l'evoluzione delle forze
produtive, questi rapporti divengono catene che ostacolano
queste ultime. Allora incomincia un'epoca di rivoluzioni
sociali, Con la trasformazione della base economica, tutta la
sovrastruttura edificata su di essa si trasforma ad una andatura
o volte più lenta, a volte più rapida."
Soltanto tenendo presenti queste considerazioni basilari,
si può riuscire a comprendere il significato e la portata e nello
stesso tempo individuare le cause di quel profondo
rivolgimento
sociale
che
ha
portato,
come
ultima
conseguenza, alla formazione dello Stato.
Dalla disgregazione della società gentile, nel cui seno si
erano sviluppate forze produttive che contrastavano con
l'ordinamento della società stessa, sorgono nuovi rapporti di
produzione che implicano nuovi rapporti sociali; in una
parola, sorge una società nuova.
Questo processo rivoluzionario è molto lento, nè
d'altronde poteva essere diversamente, perché in questa prima
infanzia dell'evoluzione umana e sociale i mezzi rudimentali a
disposizione dell'uomo non permettono una trasformazione
rapida del processo produttivo.
Il fatto che i rapporti sociali siano in stretta con le
forme di produzione è indiscutibile, altrimenti non si
spiegherebbe mai come i moderni beduini vivano in una
forma di società che, per quanto i fatti ci consentono di
giudicare, è rimasta sostanzialmente identica per 5.000 anni e
più, nonostante l contatti con le società adiacenti.
Nè questo caso è unico, perché la medesima cosa si può
rilevare, sia pure in modo meno appariscente, per gli
esquimesi e per la maggior parte dei popoli che vivono allo
stato selvaggio.
Certamente non è molto facile individuare nel
tempo, sia pure approssimativamente, il momento in cui la
rivoluzione che ha portato alla formazione dello Stato, e che
potremmo
definire
abbastanza
appropriatamente
la
rivoluzione schiavista, ha auto inizio; nè d'altra parte è
possibile seguirne il processo in tutte le sue fasi, sia perché le
nostre cognizioni, almeno sino ad oggi, sono molto limitate,
sia perchè e principalmente questo rivolgimento sociale si è
manifestato ed attuato in epoche diverse ed in diverse maniere
presso i popoli antichi, viventi in condizioni di ambiente
dissimili.
Occorre, infatti, tener presente che in questo periodo
della storia umana il fattore geo-fisico predomina su tutti gli
altri e nella sua naturale varietà determina condizioni generali
di vita molto differenti.
A grosse linee, però, possiamo individuare le fasi
principali che l'umanità percorre per arrivare a quel periodo
che Engels chiama della "civilizzazione" e che si compendia
nella nascita e nell'affermazione dello Stato.
Dalla produzione comune e per l'uso, che caratterizza
la società gentile, si arriva alla produzione mercantile, che
caratterizza la nuova società statalista attraverso la divisione
del lavoro e la conseguente appropriazione individuale.
È nella fase terminale della produzione mercantile che
noi troviamo sovvertiti tutti i rapporti di produzione mediante
l'introduzione della proprietà
privata fondiaria, del lavoro
schiavo come forma di lavoro dominante, dei commercianti
come classe mediatrice tra i produttori e da ultimo della
moneta.
In questo periodo sorge la necessità della creazione di
un potere pubblico particolare che, ergendosi al di sopra della
società, eserciti la funzione precipua di comporre i dissidi ed i
contrasti sociali scaturiti dalla differenziazione economica. ma
che per la sua stessa natura finisce per estraniarsi dalla società
e per divenire uno strumento di dominazione nelle mani della
classe prevalente economicamente.
Questa nuova società basata sullo Stato, le cui unità
costituenti non sono più gruppi di consanguineità,ma di
località, è una società nella quale l'ordinamento della famiglia
è interamente dominato dall'ordinamento della proprietà e in
essa si sviluppano liberamente quegli antagonismi e quelle
lotte di classe che, secondo la concezione materialistica della
storia, costituiscono la sostanza di tutta la storia a noiu nota,
Lo Stato, si può affermare senza tema di smentita,
incomincia a sorgere con la divisione del lavoro.
La divisione del lavoro porta necessariamente al
progressivo frazionamento della proprietà comune, alla
appropriazione individuale dei prodotti e alla istituzione della
proprietà privata.
La divisione del lavoro trasforma la produzione
comune e per l'uso in produzione mercantile, con la
conseguenza della scomparsa del dominio dell'uomo sulla
produzione e della creazione della moneta come mercanzia
generale.
La società basata sui vincoli di sangue si fraziona
sempre più, Il diritto paterno con devoluzione della fortuna ai
figli favorisce l'accumulazione della ricchezza nella famiglia e
la famiglia diviene un potere di fronte alla gente.
Parallelamente altri fenomeni sociali si manifestano
a completamento della profonda trasformazione sociale. La
schiavitù, sconosciuta prima, prende consistenza.
Il prigioniero di guerra, condizione ignota alla
società precedente perchè il vinto veniva generalmente ucciso
e in casi eccezionali ammesso a far parte della "gens" con gli
stessi diritti dei membri, viene ora considerato come forza
lavoro, come fonte di arricchimento e ridotto in schiavitù.
Nella nuova società, dove vi è posto come uomini
soltanto per coloro che posseggono, la guerra degenera in
ruberia sistematica per terra e per mare e diviene una fonte
normale di acquisto di bestiame, schiavi e tesori.
La prima grande divisione sociale in possessori e in
non possessori, liberi e schiavi, patrizi e plebei, clienti e
cittadini, è ormai un fatto compiuto.
Gli uomini incominciano ad essere classificati
secondo la proprietà, e quindi secondo il territorio, e gli affari
sinora amministrati dalle singole tribù vengono deferiti, come
ad Atene con la costituzione attribuita a Teseo, ad un
consiglio comune, ossia ad una amministrazione centrale, che
rappresenta la forma embrionale dello Stato.
"Ma con ciò - come nota Engels a proposito della
formazione e della evoluzione dello stato -città ad Atene nacque un diritto popolare comune che stava al di sopra dei
diritti consuetudinari delle tribù e delle genti, Il cittadino
ateniese ha, come tale, determinati diritti e una nuova
protezione giuridica anche sul territorio dove era estraneo alla
tribù. Ma con ciò era dato il primo passo allo sfacelo completo
della costituzione gentile".
La successiva divisione in classi, l'introduzione
dell'ipoteca e dell'usura e l'impoverimento della maggior parte
dei cittadini liberi, costretti a darsi essi stessi schiavi o a
formare parassitarie clientele, finiscono per permettere alla
classe predominante, quella dei possidenti di impossessarsi
dell'amministrazione centrale, ossia dello Stato.
Questa è in sintesi la genesi dello Stato secondo i
fautori della concezione materialistica della storia ed il
problema da essi posto trova così spiegazione razionale e
scientifica.
Il prof. Ercole, valente storico di diritto pubblico,
tentò in un interessante studio sulle origini dello stato-città di
dimostrare la erroneità della interpretazione marxista.
Partendo dalla confutazione di quella teoria gentilizia
in precedenza illustrata, volle dimostrare come lo Stato debba
presupporsi coevo all'apparire del genere umano sulla
superficie tarrestre.
Tutta la sua opera, però, risente di un errore
fondamentale, quello di confondere società e Stato, cosicché
le conclusioni da lui formulate, sebbene frutto di studio
accurato e profondo, non sono condivisibili.
"La società politica - egli afferma - non ha avuto
origine storica, perché è sempre esistita da che più uomini si
sono trovati a vivere insieme sulla terra."
Nessuno può mettere in dubbio che esiste società
quando più uomini, vivendo insieme sulla terra, cooperano;
ma
ciò non autorizza l'affermazione che questa società è
politica.
Ancor oggi il fatto semplice ed elementare che più
uomini si associno e cooperino per un fine comune importa
una società che, a seconda del fine, può assumere
denominazioni diverse, ma che non può confondersi con la
società
in senso generale, nè tanto meno con la società
politica in senso proprio, la quale trova la sua espressione
nello Stato.
Il concetto di società poliica è un concetto molto
complesso, in quanto essa assorbe in se stessa tutti i possibili
fiini che in un determinato momento della evoluzione sociale
una società può avere, fra i quali predomina di gran lunga
quello politico, proprio esclusivamente di questo tipo di
società.
Società politica è, quindi, quella forma che la società
umana assume in un determinato momento del suo sviluppo.
Ora l'Ercole, per rendere valida la sua teoria, avrebbe
dovuto dimostrare quello che è impossibile dimostrare, ossia
che la società umana abbia potuto far propria e perseguire sin
dalle origini un fine politico, cioè a dire il fine della tutela di
un interesse che si presume generale, ma che, appunto perché
ha
bisogno
di
essere
garantito,
non
coincide
più
immediatamente con l'interesse generale comune e tutti i
membri indistintamente della collettività.
Finchè i membri della società hanno un interesse
comune, il fine politico rimane estraneo. Esso sorge solamente
quando gli interessi individuali non coincidono più, ossia
quando la società gentile, fondata sui vincoli del sangue e su
un regime comunistico, crolla al primo agitarsi nel suo seno
dei contrasti sociali, frutto della divisione del lavoro e della
differenziazione economica.
Da questo momento la storia di tutta la società
svoltasi sino ad oggi è storia delle lotte delle classi, che per
esercitare il proprio predominio hanno sempre avuto bisogni,
come necessario complemento, dello Stato.
EVOLUZIONI E TRASFORMAZIONI DELLO STATO
Il fine di questo studio è quello di cogliere, attraverso
un esame sinteitico dei più importanti e decisivi avvenimenti
storici, che spesso apparentemente si contraddicono e si
confondono, l'invisibile filo che, secondo la concezione
materialistica della storia, li collega e li spiega.
Per il raggiungimento di tale fine è necessario, non già
analizzare le varie forme che lo Stato ha assunto della sua
nascita ai giorni nostri, bensì le cause economiche e sociali
che ne hanno determinato la trasformazione. Quello che
interessa è la sostanza e non la forma dei fenomeni sociali,
perché questa molte volte induce ad astrazioni dalla realtà e
porta a valutazioni arbitrarie dei fatti e degli avvenimenti
storici.
Così, riferendoci allo Stato antico, si sente spesso
parlare di democrazia in contrapposizione ad altre forme
politiche più o meno oligarchiche o dispotiche, ma se
consideriamo le cose nella loro vera essenza, non tardiamo ad
accorgerci che è impossibile conciliare il concetto di
democrazia con l'organizzazione politico-sociale dello Stato
antico, a meno che non si voglia considerarlo in un senso del
tutto relativo.
La tanto decantata democrazia ateniese non era altro
che la democrazia dei padroni di schiavi e in ultima analisi
non può identificarsi che con una forma oligarchica, ossia nel
predominio sulla maggioranza dei componenti ls collettività
ateniese da parte di una minoranza di privilegiati, tra i quali, e
solo per essi, vigeva un sistema democratico.
Nel primo periodo della sua esistenza lo Stato si
presenta già come un sistema di forze che mantiene
l'equilibrio sociale mediante la coazione esercitata sulla
maggioranza delle forze umane produttive, la cui condizione
giuridica è simile a quella delle cose e che sono tenute fuori da
qualsiasi manifestazione della vita pubblica che non sia il
lavoro.
Così si calcola che ad Atene esistessero 90.000
cittadini contro 565.000 schiavi nel periodo della sua
maggiore floridezza.
Se poi a determinare e ad attuare la volontà dello Stato
la classe dominante interviene con tutti i suoi membri o con
parte di essi, questo è un problema di secondaria importanza.
Quello che importa rilevare e che, fatta eccezione - come nota
A: Labriola - di alcuni momenti critici nei quali le classi
sociali, per estrema incapacità a mantenersi in una condizione
di relativo equilibrio per adattamento, entrano in una fase più
o meno prolungata di anarchia, lo Stato ci appare sempre
come
il
garante
differenziazione
delle
antitesi
economica
e
sociali
come
lo
frutto
della
strumento
di
dominazione della classe economicamente prevalente.
Naturalmente intorno allo Stato si forma sempre un
ceto, che, senza essere l'espressione di uno dei particolari
interessi antitetici che si agitano nel seno della società, tuttavia
finisce per identificare il proprio interesse con quello
esclusivo dell'esistenza dello Stato.
Riesce
in
tal
modo
chiaro
come
vengano
progressivamente a consolidarsi aristocrazie e gerarchie nate
dall'uso dei poteri politici e da qui le dinastie, che a lume di
logica sembrano del tutto irrazionali, e come accada talvolta
che gli organi direttivi dello Stato tendano ad isolarsi,
contrapponendosi alla intera società.
Se tutto ciò spiega situazioni del tutto contingenti, non
per questo autorizza a pensare che in un solo momento della
sua esistenza lo Stato sia venuto meno alla sua funzione
sostanziale, in quanto segue sempre dappresso lo svolgersi
delle antitesi sociali e ne garantisce l'equilibrio, cosicché ad
ogni spostamento delle forze sociali segue un adattamento
dello Stato e ad ogni capovolgimento dei rapporti sociali una
sua trasformazione.
Tre sono state le grandi rivoluzioni sociali rispetto alle
quali lo Stato ha subito delle trasformazioni radicali.
Per rendersene conto occorre avere una visione
completa e sinteticamente chiara delle tre fasi corrispondenti
all'evoluzione statale e rilevarne i caratteri essenziali.
LO STATO ANTICO O SCHIAVISTA
La prima manifestazione dello Stato si riscontra in
una società caratterizzata dal lavoro schiavo come forma
predominante di produzione.
Questa fase ha inizio con l'affermarsi della CittàStato e termina con la caduta dell'impero romano.
Lo Stato romano nelle sue forme repubblicana e
imperiale ne realizza la espressione più significativa.
L'organizzazione economico-sociale della CittàStato per la sua stessa natura non tarda a fare della guerra di
conquista una delle sue caratteristiche essenziali. Il lavoro
fondato sulla schiavitù è ovviamente solo relativamente
produttivo per due ragioni principalmente: l) insufficiente
stimolo al lavoro dello schiavo determinato dalla mancanza di
un interesse diretto, che impedisce il normale svolgimento di
tutta la sua capacità produttive; 2) necessità di una produzione
alta che serva a soddisfare nello stesso tempo l'alimentazione
dello schiavo e della famiglia del padrone.
Ove si tenga presente che la tecnica produttiva
agricola in questo primo periodo era allo stato embrionale, si
riesce
a
comprendere
come
l'unica
soluzione
fosse
rappresentata dall'impiego intensivo degli schiavi. Sorge,
conseguentemente, la necessità della guerra come mezzo di
acquisto degli schiavi, il cui aumento comporta la necessità
della coltivazione di aree sempre più estese e quindi nuove
guerre. La guerra, però, richiede un esercito ben organizzato,
donde la formazione di una casta di guerrieri professionisti
che vivono senza produrre.
Accanto a tale casta parassitaria altre ne sorgono,
perchè la classe dominante ha bisogno di un apparato per
mantenere il proprio predominio. La vecchia religione
gentilizia si trasforma e si adegua al nuovo stato di cose e
nuovi potenti dei tengono a freno gli istinti umani compressi
dalla
paura e della superstizione, mentre il dio Termine
garantisce i confini della proprietà terriera. La religione entra
al servizio dello Stato, e quindi della classe dominante, e la
casta sacerdotale prende posto accanto alle altre istituzioni
statali.
Una parte della plebe, formata da liberi cittadini, una
volta proprietari, che l'avversa fortuna e la concorrenza delle
grandi famiglie ha diseredato, non trova possibilità di impiego
in altri lavori produttivi (arti, mestieri e commercio) e, di
fronte alla prospettiva della perdita della libertà, finisce per
formare quel fenomeno tipico parassitario della clientela,
gravitante attorno alle famiglie patrizie che hanno in mano le
redini ed i beni dello Stato.
Alla primitiva divisione in classi secondo il censo segue
una lenta stratificazione sociale, il cui strato superiore è
costituito dall'aristocrazia patrizia, che fonda le sue basi
sociali sul grande possesso fondiario, e, poi, scendendo in
basso, troviamo i cavalieri, un ceto rurale di piccoli
proprietari, un ceto industriale, la plebe nelle sue molteplici
gradazioni e, da ultimo, gli schiavi.
A Roma i due poli opposti del contrasto sociale non
sono rappresentati, come sembrerebbe, dai patrizi e dai plebei.
Questi ultimi costituiscono l'appendice necessaria dei primi e i
contrasti che tra essi sorgono non rivestono il carattere di
antitesi sociali, in quanto non scaturiscono da interessi
economici divergenti. La plebe romana lotta nel periodo
repubblicano per una maggiore partecipazione alla vita dello
Stato, ma questa lotta non acquista mai il carattere di una
rivolta contro l'organizzazione economico-sociale dello stesso,
perché essa trae da questa i suoi mezzi di esistenza. Ciò risulta
ancora più evidente quando si rifletta sul fatto che essa si
inquadra a suo agio nel sistema monarchico-imperiale, che le
garantisce il sostentamento a spese dello Stato per mezzo delle
"frumentationes".
I due poli opposti del contrasto sociale sono invece
costituiti dai cittadini e dai non cittadini, dai liberi e dagli
schiavi, ai quali ultimi si aggiungono progressivamente le
popolazioni dei territori conquistati, le quali vedono le proprie
terre passare di proprietà dello Stato romano, che ne concentra
il possesso in poche famiglie.
Sono queste ultime le forze rivoluzionarie che
premono e che lo Stato tiene a freno col suo apparato politicomilitare, che diviene necessariamente sempre più formidabile.
Così, quando le popolazioni soggette riescono ad ottenere la
cittadinanza romana, si accorgono
che nuovi legami le
stringono e le mantengono in uno stato simile alla schiavitù.
I liberi fittaioli delle campagne vengono vincolati al
terreno che coltivano, alienabili con esso e rivendicabili se lo
abbandonano; il loro stato è ereditario, come divengono
ereditarie le professioni di interesse pubblico, che nel periodo
imperiale predominano di gran lunga su tutte le altre. Lo Stato
cresce nei suoi compiti e con l'acuirsi dei contrasti sociali si
assume la cura di soddisfare una massa di bisogni economici e
sociali, ai quali aveva sinora provveduto l'attività privata.
Tutta la vasta burocrazia e l'organizzazione sociale
di questo gigantesco impero, il cui possesso terriero si è
concentrato nelle mani di una piccola minoranza che lo dirige,
riflette, come ha notato il Bonfante, un mostruoso socialismo
di Stato che si presenta come una rete di acciaio e vincola
nelle sue maglie ogni attività economico-produttiva.
La grande crisi economico-sociale non tarderà a
manifestarsi e lo stato romano, minato profondamente
all'interno, al primo urto esterno si frantumerà e crollerà,
trascinando con sè tutto un mondo inuna delle più singolari
catastrofi che l'umanità abbia mai veduto.
LO STATO FEUDALE
Dopo la caduta dell'impero romano l'umanità sembra
cadere in preda ad un disorientamento generale e si
manifestano in tutta la loro portata le estreme conseguenze di
una crisi profonda. Si prolunga per tre secoli circa un periodo
di anarchia, reso ancor più torbido e caotico dalle ondate dei
barbari che si susseguono ininterrottamente e che finiscono
inevitabilmente per insabbiarsi in questa società senza
coesione.
Istituzioni, usi, costumi, leggi, consuetudini differenti
e sinora estranee trovano così modo di amalgamarsi e
fondersi.
Da questa catastrofe nella quale tutti i valori materiali
sembrano annullarsi, solo quelli individuali e spirituali escono
intatti e trovano la loro esaltazione nelle idee religiose del
cristianesimo, che si afferma trionfante.
Lentamente, però, le conseguenze materiali fanno
riacquistare all'uomo il senso della propria funzione sociale e
quando gli ultimi effetti della crisi saranno svaniti, lo
troviamo inquadrato in una società nuova, con nuove classi, al
cui vertice sarà sempre lo Stato; ma uno Stato che è
l'espressione di nuove forme di produzione, di nuovi rapporti
sociali, di nuovi interessi. Questo Stato è lo Stato feudale.
L'economia feudale si presenta come una economia
basata quasi esclusivamente sulla produzione della terra. Della
organizzazione della grande industria romana non rimane più
traccia e prende il suo posto un artigianato che produce
esclusivamente per l'uso locale. La mancanza conseguente
della necessità di un esteso e largo scambio dei prodotti
elimina quasi completamente la classe dei commercianti.
In tal modo l'economia feudale ci appare come una
economia chiusa, "curtense", formata di compartimenti stagni
costituiti dai feudi e dagli altri possessi allodiali.
Allo schiavo antico si è sostituito il servo della gleba,
legato alla terra insieme con la propria famiglia per tutta la
vita e tenuto a corrispondere parte dei suoi prodotti al
feudatario, che vive isolato nel suo castello, da cui domina
come un piccolo tiranno.
Se questa è l'organizzazione economico-sociale, la
sovrastruttura politica edificata su di essa deve rispecchiarla
fedelmente. Così lo Stato feudale si presenta non come un
sistema politico compatto e rigidamente articolato, bensì
diseguale e frazionato nei suoi elementi costitutivi, i feudi,
collegati esclusivamente dal rapporto di vassallaggio, all'apice
del quale troviamo il sovrano che esercita il potere per diritto
divino. Accanto ai nobili - baroni, conti e marchesi- si pone,
sullo stesso piano di privilegio il clero.
Ma quando l'economia si evolve, i bisogni si
accrescono, l'industria e il commercio prendono piede, allora
anche in questa società i contrasti tra le classi si acuiscono e
vediamo chiaramente delinearsi e differenziarsi sempre più
signori feudali, vassalli, maestri di corporazione, artigiani e
servi della gleba.
Nuove forme produttive si sviluppano nei borghi
adiacenti ai castelli feudali: sono i borghigiani, avanguardia di
quella classe che da essi prese il nome di borghese, la quale,
sviluppando le nuove forme della produzione, trasforma i
rapporti della società feudale in vincoli che ostacolano la
produzione stessa.
Interprete delle nuove esigenze economiche e sociali
la borghesia si presenta così alla ribalta della storia come la
classe rivoluzionaria che smantellerà e distruggerà la società
feudale.
"La scoperta dell'America e la circumnavigazione
dell'Africa - afferma Marx nel "Manifesto" - offrirono alla
borghesia che emergeva un nuovo terreno. Il mercato indiano
e cinese, la colonizzazione dell'America, lo scambio con le
colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci, dettero
impulso nuovo ed inaspettato al commercio, alla navigazione,
all'industria e insieme favorirono
il rapido sviluppo
dell'elemento rivoluzionario in seno alla società feudale, che
di già veniva sfasciandosi."
"In quel momento il modo della produzione industriale
propria del feudo o della corporazione non bastava più ai
bisogni, che venivano crescendo col crescere dei nuovi
mercati. Ai maestri delle corporazioni si va sostituendo il
medio ceto industriale e la divisione del lavoro fra le diverse
corporazioni cedette il posto alla divisione del lavoro per entro
alle singole officine."
Parallelamente a questo processo rivoluzionario dei
modi della produzione e del traffico si svolge la marcia
rivoluzionaria della borghesia contro la società feudale.
Questa marcia incomincia con la formazione dei primi
Comuni, che, diretti da un gruppo esiguo di industriali e di
mercanti, rappresentano i prodromi della nuova società
borghese, e termina con la presa della Bastiglia,
LO STATO MODERNO RAPPRESENTATIVO O
BORGHESE
Dalla dissoluzione dello stato feudale basato su una
economia curtense, sul diritto divino, sui privilegi di nascita,
sorge un nuovo Stato.
Il rapido perfezionamento di tutti gli strumenti della
produzione, la rapidità delle comunicazioni, la scoperta di
nuova ingenti risorse economiche, la necessità sempre
maggiore dello scambio dei prodotti, implicanonuovi rapporti
sociali basati sull'iniziativa privata libera da ogni vincolo, che
si manifesta in questo periodo della storia umana come la
forma più rispondente alle necessità della produzione.
Per questo la classe rivoluzionaria, rappresentata dalla
borghesia, si libera di tutti i vincoli del feudalesimo e nella
costituzione del nuovo Stato afferma la uguaglianza di tutti gli
uomini di fronte alla legge, ossia la uguaglianza degli uomini
nei nuovi rapporti sociali e la libertà, che si concreta nella
liberazione della produzione e dello scambio da ogni legame.
Anche la società borghese ha bisogno dello Stato,
ossia di un potere pubblico che si colloca al di sopra e al di
fuori della collettività dei cittadini, perché non elimina i
contrasti sociali, ma li pone su un piano nuovo.
L'iniziativa privata, lo sviluppo della produzione, nella
quale il capitale si afferma come elemento preponderante e
decisivo, e da ultimo la libera concorrenza finiscono per
creare le condizioni per cui una minoranza, formata dai più
audaci, dai più esperti, dai più fortunati e anche dai meno
scrupolosi, è messa in grado di impossessarsi dei mezzi di
produzione e di scambio.
I principi della libertà, della uguaglianza e della
fraternità, che erano serviti alla borghesia per combattere la
sua battaglia, si traducono nelle nuove costituzioni statali, ma
non trovano concreta attuazione nella traduzione giuridica.
Dove la democrazia compromette l'affermarsi o il
permanere della nuova classe dominante, come in Francia
dopo la rivoluzione, la borghesia ricorre alla dittatura.
Per effetto della evoluzione economica che tende a
creare la concentrazione delle grandi industrie, nelle quali si
afferma sempre più la divisione del lavoro, si forma in seno
alla borghesia stessa un gruppo capitalistico che predomina,
attorno
al
quale
necessariamente
gravitano,
pur
differenziandosene, quei ceti medi che vanno dal medio
industriale al piccolo proprietario terriero o al burocrate che
vede nello Stato la sua ragion d'essere.
Di contro si forma una classe di salariati, proletariato
in senso lato, che, sviluppandosi le industrie, cresce di numero
e si addensa in grandi masse. Questa classe lotta, dapprima
inconsciamente,
per
un
miglioramento
delle
proprie
condizioni di vita messe in pericolo dalle crisi frequenti della
superproduzione capitalista, e poi, trovando un ostacolo nello
Stato, che gli appare come lo strumento della classe
dominante, cerca di ottenere condizioni migliori di
lotta
mediante l'esercizio di diritti politici sempre più ampi.
"La più alta forma dello Stato - afferma Engels - è la
repubblica democratica, che nei nostri moderni rapporti sociali
diviene necessità di più in più inevitabile ed è la forma dello
Stato nella quale l'ultima lotta decisiva tra borghesia e
proletariato può essere combattuta. Essa non tiene più conto
delle differenze di possesso, tuttavia in essa la ricchezza
esercita i suoi poteri
indirettamente, ma altrettanto
sicuramente."
In altra opera lo stesso Engels ipotizza come la
borghesia termina la propria funzione.
"In un modo o nell'altro, con o senza trust, certo è
che lo Stato, rappresentante ufficiale della società capitalista,
deve assumere la direzione della produzione. Questa necessità
del passaggio alla proprietà dello Stato emerge prima di tutto
nelle grandi imprese di comunicazione: le poste, i telegrafi e
le ferrovie. Se le crisi hanno rivelato l'incapacità della
borghesia ad una ulteriore direzione delle forse produttive
moderne, le recenti trasformazioni delle grandi imprese di
produzione e di scambio in società per azioni, in trust, in
proprietà dello Stato, dimostrano che la borghesia è divenuta
superflua. Tutte le funzioni sociali del capitalismo sono ora
compiute da impiegati salariati. Il capitalismo non ha più
nessuna funzione sociale, salvo quella di incassare i
guadagni."
LO STATO NELLA SOCIETÀ SOCIALISTA
Fin dai più remoti tempi dell'antichità vi sono stati
grandi ingegni come Platone, Campanella e Moro, che hanno
preconizzato o si sono fatti fautori dell'avvento di una società
umana che realizzasse in senso assoluto i principi della lbertà
e della giustizia e nella quale fossero eliminati tutti i contrasti
sociali nelle loro svariate e deleterie manifestazioni.
I sistemi ideati da questi uomini, però, non seppero mai
liberarsi del loro carattere utopistico, in quanto dettati
esclusivamente da esigenze ideali e costruiti al di fuori della
realtà. Per questo essi on poterono realizzarsi, nè tanto meno
trovare rispondenza nelle esigenze immediate della collettività
e rimasero per tutti come l'espressione individuale e
irrealizzabile di spiriti superiori.
"L'umanità - afferma Marx nella prefazione alla "Critica
alla economia politica" - non si pone mai che quei problemi
che può risolvere; a guardare da vicino si troverà sempre che
che il problema non si pone che laddove esistono già le
condizioni materiali necessarie alla sua soluzione o almeno
sono in via di apparizione."
La società, quindi, segue ilsuo corso, che è evolutivo
appunto perchè è la risultante di un processo dialettico.
Tutta la realtà, nel suo incessante divenire, è la risultante
di questo processo, i cui termini l'uomo non sempre è in grado
di individuare e di comprendere, ma che, man mano che le
nostre cognizioni scientifiche aumentano, si manifestano in
misura sempre maggiore.
Se volgiamo lo sguardo, però, alla storia dell'umanità
riusciamo ad individuare i termini di questo processo di azioni
e reazioni, attraverso il quale si manifesta il suo divenire.
Tutta la evoluzione è un dialogo tra l'uomo, concepito
come attività cosciente, e l'ambiente, che dapprima si risolve
esclusivamente nelle forze naturali, alle quali si aggiungono
progressivamente fattori tecnico-economico-produttivi e tutta
la sovrastruttura giuridica, politica, filosofica e morale che si
eleva al di sopra di essi.
Sotto questo punto di vista l'evoluzione statale non è
altro che il prodotto delle lotte di classe, ossia di un processo
dialettico tra forze sociali antitetiche.
Mantenendosi così strettamente nell'ambito della
realtà, la concezione marxista non perde mai il suo carattere
scientifico. Per questo se il materialismo storico preconizza
l'avvento di una società senza classi, che non possa dar luogo
allo sviluppo delle disuguaglianze da cui si genere il dominio
dell'uomo sull'uomo, è perché, come afferma A. Labriola,
"esso annuncia l'avvento della produzione comunistica non
come postulato di critica, nè come meta di una volontaria
elezione, ma come il risultato dell'immanente processo della
storia".
In una società senza classi lo Stato non ha più ragione di
esistere come potere pubblico, e quindi governo degli uomini,
che si eleva al di sopra e al di fuori della società.
Secondo la concezione materialistica della storia,
quindi, quando la borghesia avrà esaurito la propria funzione
e le forze della produzione capitalistica diverranno delle
catene
che
ostacoleranno
le
forze
produttive,
allora
maggioranza della collettività costituita da tali forze con il
proletariato
all'avanguardia si renderà cosciente delle
contraddizioni esistenti nel seno della società e si contrapporrà
alle forze del capitalismo, divenute ormai improduttive e
antisociali, e perverrà alla conquista del potere dello Stato.
La prima esigenza del proletariato una volta pervenuto
al potere sarà, secondo la teoria marxista, la trasformazione
dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato e in questo
modo, chiarisce Engels, "esso sopprime se stesso come
proletariato, sopprime tutte le differenze ed i contrasti di
classe e quindi anche lo Stato come Stato, perché, divenendo
esso effettivamente il rappresentante di tutta la società, esso si
rende superfluo."
"Quando non vi saranno più classi sociale che debbano
essere tenute sottomesse - aggiunge Engels - quando non vi
sarà più il dominio di una classe sull'altra; nella lotta per
l'esistenza, che ha la sua origine nell'anarchia della
produzione, quando saranno eliminati i conflitti e la violenza
che ne derivano, allora non vi sarà nessuno da reprimere e da
tenere a freno, allora sparirà la necessità del potere statale, che
oggi adempie a questa funzione. Il primo atto col quale lo
Stato agirà come vero rappresentante di tutta la società, la
trasformazione dei messi di produzione in proprietà sociale
sarà il suo ultimo atto indipendente come Stato. L'intervento
del potere statale nei rapporti sociali a poco a poco diventerà
superfluo e cesserà di per sè. Invece del governo degli uomini
si avrà l'amministrazione delle cosee la direzione dei processi
di produzione. Lo Stato non si abolisce, lo Stato si estingue".
I critici del socialismo scientifico, e quindi del
materialismo storico hanno trovato, che in prec3edenza si
muovevano esclusivamente sul piano teorico, hanno poi
trovato un valido argomento nell'esperienza russa sul rilievo
che lo Stato nella repubblica sovietica non ha cessato di
esistere, ma al contrario si è imposto come un ente più
necessario e forte che nella società borghese.
Tale argomentazione è apparsa al senso comune
abbastanza convincente e non sono mancati coloro che, dopo
essersi professati marxisti ortodossi, di fronte ad essa non
sono riusciti a far altro che ricorrere all'arma suicida del
revisionismo. Costoro in verità non si sono accorti di essere
loro stessi nell'impossibilità di rispondere alle obiezioni e non
il materialismo storico.
In questo ultimo secolo, infatti, l'acuirsi della lotta
politica ha generato nelle classi sulle quali si ripercuote
direttamente l'effetto nocivo delle contraddizioni esistenti nel
seno della società borghese .un'atttrazione inevitabile verso
quella parte economico sociale della elaborazione marxista
che si trova compendiata nel "Manifesto dei Comunisti". del
1848.
Questa attrazione, che doveva forzatamente acquistare il
carattere di una accettazione dogmatica da parte delle classicui
più direttamente si dirigeva a causa del loro basso livello
culturale ed intellettuale, ha fatto sentire, sebbene in misura
minore, i suoi effetti anche in quei ceti che vanno sotto il
nome di piccolo-borghesi, nei quali prevale l'elemento
intellettuale.
Così noi troviamo tra i fautori del marxismo, da una
parte una classe operaia che, pressata dal disagio economico,
lo ha accettato come una fede e che tende ad afferrarne
coll'evolversi delle proprie condizioni materiali anche la
concezione dialettica; dall'altra un folto gruppo di intellettuali
in senso lato, alcuni dei quali però, per pigrizia mentale, si
sono fermati alle conclusioni economico-sociali, senza
afferrare la concezione filosofica dalle quali sono derivate
direttamente e che serve a spiegarle ed a comprenderle.
Questi ultimi sono i possibili revisionisti del marxismo,
in quanto non avendone colto l'idea centrale, non hanno
compreso che esso o va accettato del tutto o del tutto rigettato.
Il
materialismo
storico
pretende
di
offrire
la
spiegazione dei fenomeni sociali: rigettarlo quindi solo in
quanto nella Russia sovietica non è morto lo Stato, senza
chiedersene il perché e tentare di spiegarne le cause alla sua
luce, significa non averlo compreso affatto.
Engels, applicando il metodo della interpretazione
materialistica della storia, giunge alla conclusione che lo
Stato, ad un determinato momento della evoluzione sociale,
muore. Solo quando si dimostrerà che, giunto tale momento,
lo Stato sopravvivrà, si potrà riconoscere che il metodo
marxista è errato.
Obiettivamente, quindi, va posto il problema se
l'evoluzione sociale avesse posto in essere in Russia quelle
condizioni che, secondo il materialismo storico, costituiscono
i presupposti indispensabili per la realizzazione della società
socialista e della morte dello StatoLo Stato muore, secondo il materialismo storico, nella
società socialista, che si affermerà allorquando le nuove forze
produttive che si sviluppano in seno alla società borghese
esigeranno nuove forme di produzione e si troveranno ad
essere in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti
nel seno di questa società. Solo allora avrà inizio il processo
rivoluzionario che porterà al potere la classe che interpreta più
direttamente queste esigenze ed essa, eliminando con la
socializzazione dei mezzi di produzione le differenze ed i
contrasti di classe, renderà lo Stato
interprete di tutta la
società e quindi superfluo quale potere sovraordinato rispetto
alla società in funzione di compositore dei contrasti predetti.
Questo è, a grosse linee, lo sviluppo della società
umana dalla fase capitalista a quella socialista secondo la
teoria marxista..
In concreto, però, il momento in cui la società
capitalista avrà esaurito la propria funzione va individuato,
secondo la concezione materialistica della storia, allorché si
verificheranno le seguenti condizioni:
1) si sarà formata, mediante lo sviluppo e l'accentramento
delle grandi industria una classe salariale che rappresenterà la
stragrande maggioranza delle forze umane produttive;
2) si sarà trasformato il modo di produzione capitalistico da
forma interprete delle condizioni economiche a forma di
produzione anti-economica e anti-sociale, in quanto l'interesse
del capitalista, dopo aver coinciso con l'interesse dell'intera
società, si sarà posto contro le esigenze della stessa.
Ora, per quanto riguarda la Russia non si può affermare
che tali condizioni si fossero verificate nel momento in cui la
rivoluzione instaurò il regime socialista.
La Russia si presenta, ancora al principio del 1900
come una nazione retrograda sotto tutti i punti di vista. Mentre
la borghesia nei Paesi più industrializzati dell'Europa, dopo
un secolo di potere, aveva completamente trasformato la
fisionomia economico-sociale e politica della società, in
Russia viveva ancora lo Stato feudale in tutte le sue
manifestazioni: potere assolutista, aristocrazia, privilegi, servi
della gleba (mugjik), latifondo, produzione in gran parte
curtense.
Naturalmente i rapporti di produzione erano già in
contraddizione con le nuove forme di produzione che in quel
paese si erano venute lentamente sviluppando. Un certo
fermento rivoluzionario, già alla fine dell'800, agitava il
Paese.
Ma, a ben guardare, le forze rivoluzionarie, anche se in
gran parte proclamatesi socialiste - il che è spiegabile con il
parallelismo cronologico di altri movimenti
rivoluzionari
sviluppatisi in Europa -, erano costituite da uomini che
coscientemente
o
incoscientemente
esprimevano
delle
esigenze che non erano socialiste, bensì di carattere borghese.
Il fatto che in mezzo ad essi il nucleo più ardito e
preparato fosse costituito dai comunisti non deve trarre in
inganno, perché la borghesia esprimeva in quel momento
rivoluzionario anche le esigenze ideali del proletariato e le dei
classi si trovavano a fianco in una lotta comune, come già
accaduto e anche in modo più visibile durante la rivoluzione
francese.
Socialisti
rivoluzionari
(non
marxisti),
cadetti,
mnscevichi e tutta l'intellighenzia russa esprimevano più o
meno inconsciamente le esigenze delle classe borghese, pur
lottando talvolta sotto una bandiera ammantata genericamente
di socialismo. Questa confusione ideologica, unitamente con
la incapacità sostanziale della borghesia russa, che non aveva
avuto modo, per ragioni ambientali e politiche, di formarsi le
ossa, serve a spiegare come cessa nel momento conclusivo si
trovò disorientata e mancò dell'energia necessaria per
impadronirsi del potere.
Quando la grande guerra mondiale nel 1918 provocò la
crisi
politica
dello
stato
assolutista
russo,
le
forze
rivoluzionarie, scomparsa la pressione che le tratteneva, si
manifestarono in tutta la loro forza e travolsero l'ordinamento
feudale russo. La borghesia mancò nell'istante decisivo e i
massimalisti, con a capo Lenin, ne approfittarono per
tramutare quella che doveva essere la rivoluzione dell'89 russa
in una rivoluzione socialista.
Ma la storia non si ferma invano: la società segue il suo
processo dialettico ed è appunto perché è l'uomo che fa la
storia, ma in un dato ambiente che lo condiziona, che la
società socialista non nacque in Russia, in quanto l'iniziativa
privata doveva ancora svolgere la propria funzione.
La distribuzione della terra ai contadini sembrò in un
primo momento risolvere tutti i problemi; ed invero la
distribuzione del latifondo feudale è una esigenza delle nuove
forme produttive espresse dal sistema economico borghese,
ma è una esigenza loro anche l'iniziativa privata, perchè esse
possano rispondere appieno alle esigenze economiche che in
questo momento interpretano, Quando però il potere statale in
mano ai bolscevichi interviene per imporre una produzione
socializzata, allora la produzione entra in crisi.
Da questo momento in poi la costituzione delle
repubbliche socialiste sovietiche, in cui erano affermati i
principi massimi del comunismo,è costretta a seguire un
processo di involuzione per adeguarsi alle realtà economica e
sociale.
Tutta la storia russa di questi ultimi venticinque anni si
concreta nel tentativo compiuto dalla classe dirigente
comunista di trovare un punto intermedio di incontro tra le
esigenze economico sociali del paese, che dovrebbero
esprimersi in una forma di produzione capitalista e le
affermazioni programmatiche del comunismo ortodosso.
Per questo la Russia attraversa oggi la inevitabile fase
borghese in una forma degenere che assume il carattere di un
socialismo di Stato. Né davvero la Stato poteva morire, perchè
le contraddizioni ed i contrasti sociali non sono scomparsi,
come non sono scomparse le classi e la proprietà privata. Anzi
lo Stato si è accresciuto di mole e di autorità, perché ha la
funzione di mantenere l'equilibrio sociale mediante un
ordinamento politico-economico-sociale che non è quello
rispondente naturalmente alla situazione reale del paese, ma
che, a torto o a ragione, è imposto coattivamente.
Se lo Stato non muore, non è quindi perché la teoria
marxista di interpretazione della storia è errata, è soltanto
perché il processo dialettico della società non ha creato in
Russia quelle condizioni che costituiscono il presupposto della
società socialista.
Lo stesso Stalin, del resto, in una sua opera sul
materialismo storico si guarda bene dal confutare la tesi di
Engels sulla morte dello Stato e, non potendo per ovvie
ragioni di carattere politico chiarire completamente il suo
pensiero, si limita ad affermare che "non si può estendere la
formula generale di Engels sulle sorti dello Stato socialista in
generale al caso particolare e concreto della vittoria del
socialismo in un solo paese, singolarmente considerato che è
circondato da stati capitalisti, che è esposto alla minaccia di
una aggressione armata dall'esterno; paese che non può per
conseguenza fare astrazione dalla situazione internazionale,
che deve avere a sua disposizione un esercito ben armato,
degli organi produttivi ben organizzati e un forte esercito di
sorveglianza; paese che per conseguenza deve avere un
proprio Stato sufficientemente forte per poter difendere le
conquiste del socialismo da una aggressione esterna."
Queste dichiarazioni confermano implicitamente che
nel 1917 in Russia non è scoppiata la rivoluzione socialista.
Quello che è interessante notare è che in Russia la
società borghese si è manifestata nelle sue conseguenze
pratiche: dallo sviluppo enorme e dall'accentramento delle
industrie (anche se ai capitalisti si è sostituito, acquistandone
tutte le peculiarità, lo Stato e per esso la classe di chi detiene il
potere) all'importanza sempre crescente, almeno sino ad oggi,
della proprietà privata. Né d'altronde si è constatata la
sparizione del proletariato, che al contrario, sebbene sotto altre
forme, costituisce sempre il polo opposto del contrasto sociale
rispetto alla classe dei funzionari di partito che interpretano lo
Stato, assolutista quanto quello zarista.
L'esperienza russa, in conclusione, non rappresenta che
il tentativo di attraversare la fase borghese dell'evoluzione
della società in una forma degenere e coatta che è
socialismo di Stato.
B I B L I O G R A F I A
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