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NOVEMBRE 15, 2016 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE LEAVE A COMMENT
Scetticismo: le vie del dubbio
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Con il termine scetticismo si indica una specifica
corrente post socratica, nata in contrapposizione al pensiero platonico e
cresciuta sulla scia della profonda crisi che il mondo ellenico viveva in quegli
anni. Così come lo stoicismo e l’epicureismo queste dottrine enfatizzavano
molto più la componente pragmatica del pensiero a tal punto che vanno a
delineare dei veri e propri stili di vita. Nello specifico lo scetticismo, rispetto ai
tempi classici della filosofia ellenica magistralmente rappresentata da Socrate,
Platone e Aristotele, nel ripiegare dal lato della soggettività singola, non la
intende più come forma assoluta della verità, alla maniera sofista, ma piuttosto
come rifugio da un mondo che cade in rovina. La verità è ancora una volta
oggetto di critica, ma non più nel senso che è la soggettività pura a detenere in
sé le chiavi di accesso a tutte le verità che intende affermare, ma nel senso che
di ogni verità è possibile dubitare e l’unica certezza che posso guadagnare è
del mio solo dubitare.
Lo scetticismo come via d’accesso alla verità
Lo scetticismo diventa così in senso più lato un momento del pensiero,
un’espressione comunque che si riferisce alla necessità di sospendere il
giudizio e con esso la verità di ciò che afferma. Più avanti il momento scettico,
come in un certo senso già in Aristotele la critica ai sofisti, servirà per fondare
la certezza della verità. Già da per Sant’Agostino il dubbio, diventa un dubbio
radicale, ovvero assoluto ed in quanto tale capace di guadagnare certezza
almeno su questa sola verità, che di tutto è possibile dubitare e che esisto
almeno come ente che dubita: “Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi
non esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto”.
Seguirà, con ragionamenti del tutto simili, Cartesio il quale avvierà l’epocale
svolta moderna, che è in sé stessa un recupero del tema profondo dello
scetticismo, ovvero, il passaggio dall’ontologia classica alla gnoseologia, l’idea
per l’appunto che i criteri di verità sono soggettivi, ineriscono vale a dire a
strutture profonde dell’Io e non della realtà in sé. Vista così la svolta moderna
è un recupero dell’antica visione protagoreo dell’Homo mensura. Come è
tuttavia possibile risalire dai gradi di incertezza posti dal dubitare all’oggettività
della conoscenza? Questo è il tema aperto dalla scetticismo e tutt’ora insoluto.
Critica alla verità unica
La critica scettica tematizza intorno all’impossibilità gnoseologica di pervenire
all’in sé delle cose. La conoscenza si fonda, infatti, su sensazioni e opinioni e
né l’una, né l’altra colgono l’intima essenza della realtà. Se la conoscenza è
una adequatio rei atcque intellectus come volle definirla l’aristotelico San
Tommaso e se la nostra conoscenza non arriva mai alle cose, ma resta sempre
circoscritta alle nostre opinioni, allora, qualunque affermazione non può più
essere vagliata, ovvero, rapportata alle cose in sé. Ne consegue che “nulla è,
né bello, né brutto, né giusto, né ingiusto […] di tutte le cose nulla è secondo
verità” (Diogene Laertio IX 61). Il soggetto coglie l’apparire delle cose, il
fenomeno, attraverso schemi e strutture proprie. Resta rinchiusa dentro sé
potendo solo acquistare consapevolezza della sua stessa incapacità di dire
alcunché con certezza. Di pronte al limite onnipotente della soggettività pura la
risposta non è dunque il trionfo sofistico che riteneva l’uomo e non le cose fuori
di lui la reale misura del vero e del falso, ma il silenzio. Lo scettico tace di fronte
al mondo, sospende il giudizio, non riconoscendo più nella soggettività,
capacità normativa: “Sarà possibile sfuggire a questa molestia se molestia se
mostreremo a chi è turbato o per evitare il male o per ricevere il bene, che nella
natura non vi è né bene, né male, ma da parte degli uomini queste cose sono
state discriminate con la mente” (CAIZZI Fr. 64).
L’epoché nello scetticismo
L’epochè è dunque intesa dallo scetticismo non come punto di partenza della
ragione, ma come fuga da essa stessa, come forma di consolazione sul piano
pratico prima ancora che sul piano teorico. Non vale la pena affannarsi nella
ricerca del bene, dell’utile e del giusto ammonisce Pirrone, fondatore dello
scetticismo, visto che queste non sono determinazioni della natura, ma
definizioni arbitrarie dell’uomo. Ecco che allora l’epochè sul piano pratico si
traduce in nichilismo, assenza di motivazioni, vuoto motivazionale: “Vanità delle
vanità” ammoniva Qoèlet, nel celebra libro della Bibbia “vanità delle vanità, tutto
è vanità. Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole?
Una generazione va, una generazione viene ma la terra resta sempre la
stessa”. Colui che vuole essere felice, allora, dovrà conservare “sempre la
stessa disposizione, vivendo senza inclinazioni e senza scosse” (CAIZZI fr. 53).
L’atarassia è lo stato conclusivo al quale perviene il saggio e non per particolare
predisposizione o quale forma di sapienza, ma come costante esercizio della
volontà, che nel suo volere vano, può solo con forza desiderare di non volere
niente. L’imperturbabilità di fronte alle cose che accadono è dunque la forma
dell’azione che incapace di motivarsi verso il mondo, concepisce come motivo
supremo la fuga da esso.
La felicità si risolve allora in un incessante conflitto dell’individuo con se
stesso, come tensione costantemente repressa del volere che da un lato
desidera la vita dall’altro soffocarne ogni manifestazione. La felicità consiste in
un “combattere per quanto possibile prima con le azioni nei confronti delle
cose e se non ci si riesce con i ragionamenti”. CAIZZI fr. 15.
Radicalizzare il dubbio: via di uscita dallo
scetticismo
La ragione scettica è tale perché si ostina nel dubbio lo eleva a forma di vita,
prassi e comportamento (atarassia), è la forma “autistica” della ragione,
smarrita per ciò che vede fuori e tutta rinchiusa al suo interno. Essa è la
metafora del dileguare che nella sua forma assoluta dilegua sé stesso, come
ebbe a dire più tardi Hegel nella sua Fenomenologia dello Spirito. La soluzione
al dubbio è la sua radicalizzazione, si esce dal vuoto mutismo della ragione non
già provando a dimostrare la solidità di alcune verità su altre, minando le ragioni
del dubitare, ma elevando il dubbio a forma assoluta della ragione. Pensare
vuol dire dubitare, dubitare vuol dire esistere se non altro come atto del dubbio.
Se l’uomo è il discrimine del bene e del male, la via di fuga è allora riconoscere,
seguendo la nota espressione agostiniana che in interiore homine habitat
veritas: “Riconosci dunque quale è la suprema armonia, non uscire fuori di te,
rientra in te stesso la verità abita nel profondo dell’uomo; e se troverai che la
natura è mutevole trascendi anche te stesso” (Agostino, De vera religione,
XXXIX, 72). Per Sant’Agostino si tratta ancora di una verità rivelata, che abita
l’uomo, ma non gli appartiene, eppure, nel suo tentativo di ostacolare lo
scetticismo trova la via verso la modernità. Si fallor sum chi dubita, coglie sé
stesso nell’atto di dubitare e guadagna questa certezza, come principio
dell’autocoscienza. Essere e sapere di essere sono le due certezza desumibili
dal dubbio, cui si aggiunge l’amore per questa stessa esistenza: “E a questi
due elementi, cioè che sono e che mi apprezzo e mi stimo, aggiungo un terzo,
cioè l’amore per tale essenza” (Ibid.). Il dubbio ha dunque rilevato una trinità
interiore di essere, sapere e amore impronta della somma trinità, di
Onnipotenza, Onniscienza e Bontà infinita.
Lo scetticismo in età moderna
Si ripropone così in forma diversa l’antico atteggiamento razionalista, che coglie
le giuste ragioni nella critica relativista al vero, ma che si oppone ad essa
sfruttandola e non semplicemente negandola. Si tratta della strategia del dubbio
radicale, che eleva il dubbio a forma metodologica, criterio di verità.
Lungo il corso della storia i nouveaux pyrrhoniens contribuiranno a porre le
fondamenta di una nuova forma di soggettività, non più riflesso della divinità ma
autofondata, radicata su sé stessa, come fonte autonoma e indipendente di
conoscenza. Nei corsi e ricorsi del pensiero succede allora Michel de
Montaigne con il suo saggio riattiva l’esigenza antica del dileguare, demolire le
fondamenta di ogni pretesa individuale: “La peste dell’uomo è la sua
presunzione di sapere, ecco perché l’ignoranza ci è stata raccomandata dalla
nostra religione come qualità proprie alla fede e all’obbedienza” (Montaigne,
Apologia, 636). La presa di coscienza dei limiti della conoscenza è ancora
accettazione di un’autorità a noi superiore, dalla quale deriva certezza e verità
rivelata. Lo scetticismo di Montaigne sottolinea ancora una volta l’incapacità di
rapportare la conoscenza alle cose perché ostacolata dagli stessi strumenti con
il quale coglie la realtà che inevitabilmente ne viene deformata:
Ora dato che la nostra condizione adatta le cose a sé e le trasforma
secondo sé stessa noi non sappiamo più quali esse siano in verità,
poiché niente ci perviene se non falsato e alterato dai nostri sensi. Se
il compasso e la squadra sono storti tutte le proporzioni che se ne
traggono, tutti gli edifici che si costruiscono sulla loro misura sono
necessariamente imperfetti e difettosi. L’incertezza dei nostri sensi
rende incerto tutto ciò che essi producono (Mointagne, Saggi, 799).
Il punto di vista relativistico tuttavia nel pensatore moderno si traduce nel
principio di tolleranza, sospendere il giudizio in questo caso non equivale al
silenzio, ma all’accettazione dei diversi punti di vista. Sul piano morale allora è
possibile sostenere che tutto è concesso, perché tutto va interpretato alla luce
di coloro che compiono l’azione e delle loro ragioni:
Non c’è niente di tanto orribile a immaginare, quanto mangiare il
proprio padre. I popoli che anticamente avevano questa usanza la
intendevano tuttavia come testimonianza di pietà e di grande affetto
cercando di dare ai loro progenitori la sepoltura più degna e
onorevole, albergando in sé stessi e per così dire nel loro midollo.
(Ibidem, 772).
Guardando bene il punto di vista di Mointagne è facile notare come in effetti la
diversità dei punti di vista può comunque interagire, per quanto distante possa
sembrarmi un comportamento esso è in qualche misura “traducibile” nel mio
schema di valori, ancorché non interamente giustificabile in esso. Comprendere
le ragioni che sottostanno un comportamento, significa affermare che
quest’ultimo non è in toto arbitrario e che per quanto gli strumenti con i quali
interpretiamo la realtà siano diversi tra loro essi sono comunque raffrontabili,
possono cioè essere posti in comunicazione.
Cartesio il trionfo del metodo sullo scetticismo
Il passaggio dallo scetticismo moderno alla sua riduzione a momento del
metodo avviene notoriamente con Cartesio. Che torna ad utilizzare il dubbio
come strategia fondativa e contro sé stesso. Egli procede di nuovo alla
radicalizzazione del dubbio:
Poiché allora desideravo unicamente di attendere la ricerca delle
verità pensai che dovevo fare tutto il contrario e giudicare come
assolutamente falso tutto ciò in cui potessi immaginare il minimo
motivo di dubbio. (Cartesio, Discorso sul metodo, 43).
La ragione deve allora rifiutare “come assolutamente falso tutto ciò in cui si piò
immaginare il minimo motivo di dubbio”. L’intuizione ne segue è l’unico atto
della ragione realmente efficace, essa consiste nel rapporto diretto e immediato
con l’oggetto senza alcuna mediazione. Avendo guadagnato il criterio
dell’evidenza, egli può procedere a demolire l’intero edificio della conoscenza,
proprio come prima di lui avevano fatto Mointagne e lo scetticismo in generale.
Il teorico del cogito, ha tuttavia bisogno di guadagnare il dubbio come atto
totalizzante del pensare, deve perciò procedere non soltanto a demolire la
percezione, fondamento della conoscenza, ma l’esistenza stessa della realtà.
Cosa mi rassicura sul fatto che l’intera mia esistenza sia in realtà un sogno?
Se la realtà è un sogno tuttavia continua ad esistere un piano di evidenze e
sono quelle che appartengono alla Matematica, 2+2 continuerà a fare 4, sia che
io sogni sia che sia desto. Ecco allora introdotto da Cartesio l’artificio retorico
più astruso. Ovvero l’ipotesi di un Dio maligno che possa ingannarmi anche su
ciò che io reputo certo ed evidente. La radicalizzazione del dubbio, rende allora
possibile individuare il principio autoevidente che può costituire il perno del
pensare, solido e in grado di reggere “sotto l’urto delle più stravaganti
supposizioni scettiche” (ibidem).
Ma subito dopo mi resi conto che nell’atto in cui volevo pensare così,
che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo
fossi qualcosa. E che cos’è una cosa che pensa? (Ivi. p. 45)
La via dello scetticismo porta per essa oltre essa. Il cogito non rappresenta una
verità assoluta, quanto piuttosto la prova del criterio dell’evidenza, del fatto cioè
che sussista una verità che si offre nella sua immediatezza come inconfutabile.
L’evidenza è nel suo significato originario non una conoscenza ma una prova
che sono possibili certezze: “La scoperta di una verità assolutamente certa
– scrive Popking – può demolire la tesi scettica che tutto è incerto, ma nello
stesso tempo una verità non costituisce un sistema di conoscenze della realtà”
(Popking, 213). L’Io dunque esiste, ma solo come sostanza pensante, res
cogitans, senza che questa sua attività rimandi dall’interno ad una
trascendenza come succedeva nel pensiero di S. Agostino. L’evidenza per
Cartesio costituisce la misura del vero, il criterio che andavamo cercando in
grado di orientarci verso la comprensione del mondo. L’operazione logica
cartesiana non è assolutamente priva di critiche, la strategia del dubbio radicale
è un tentativo di fondare la conoscenza su sé stessa e la sua attività, che
tuttavia non dimostra gli assunti da cui parte. Perché mai dovremmo rifiutare
come false cose dubbie, se il dubbio consiste proprio nel non sapere che siano
vere o false? Rifiutiamo queste verità per guadagnare la certezza del dubbio
che ritorna successivamente come criterio di verità a verificare nuovamente ciò
che avevamo scartato in precedenza come assolutamente falso. L’uso del
relativista contro se stesso, conosciuto già dallo stesso Aristotele con la sua
dimostrazione del principio di non contraddizione non può non soffrire di un
vizio di circolarità di fondo ed è tutt’ora dubbio se la conclusione corretta alla
premessa sia piuttosto l’epoché, la sospensione del giudizio, il silenzio.
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