Meditazioni cartesiane «Già da qualche tempo mi ero accorto che, sin dai miei primi anni, avevo accolto per vere molte opinioni false, e che ciò che poi avevo costruito su principi tanto malfermi, non poteva essere che assai dubbio ed incerto. Mi ero proposto quindi di cercare seriamente, almeno una volta nella vita, di disfarmi di tutte le opinioni a cui avevo sino ad allora prestato fede, e di ricostruire ogni cosa dalle fondamenta, se pure volevo stabilire qualche cosa di certo e di stabile nelle scienze» Così iniziano le famose Meditazioni metafisiche di Cartesio. Ed in questo inizio è già contenuta l’intenzione di fondo che anima la sua filosofia. «Almeno una volta nella vita» è necessario disfarsi di ogni opinione, di ogni patrimonio acquisito di sapere ed interrogarsi sulla sua validità di principio. Non basta essere già sulla via di un continuo arricchimento della conoscenza. L’esperienza del passato dimostra che io posso sempre cadere in errore, confondere il reale con l’illusorio. Ciò che io ora credo vero e certo, può forse in futuro rivelarsi falso. Non solo: l’intero campo di nozioni di cui ora dispongo ed in cui credo poggia esso stesso in qualcosa di assolutamente certo, da cui risulti in linea di principio legittimo? Il problema essenziale per Cartesio è dunque quello della certezza, o meglio: del fondamento della certezza. Nel continuo procedere della mia ricerca conoscitiva, che eredita conoscenze dal passato e le porta a sviluppo, si inserisce questo momento nuovo della riflessione che vuole verificare se la possibilità permanente dell’errore non si estenda anche ai presupposti di fondo in modo tale da coinvolgere l’intero processo della conoscenza. Perciò bisogna accettare la provocazione scettica, bisogna rilevare la proposta di dubitare di tutto, anche quando siamo intimamente convinti della verità e della validità delle nostre conoscenze. Una conoscenza deve essere considerata malsicura, e quindi da respingere come incerta anche se la credo vera, quando su di essa sia comunque possibile il dubbio. In questo modo di porre il problema vi è evidentemente qualcosa di nuovo rispetto alle classiche argomentazioni dello scetticismo: vi è qui anzitutto la consapevolezza di uno scopo. La possibilità del dubbio dimostra la necessità di porre in tutta la sua estensione il problema del fondamento della certezza. Di conseguenza il dubbio stesso non assume il carattere di una confutazione, ma quello di un procedimento metodico tendente ad accertare se qualcosa si presenti in se stessa come indubitabile. Per questo il dubbio viene esercitato come un atto volontario di verifica e per essere esercitato non ha bisogno di altra condizione di quella della sua possibilità. E inversamente: solo nella presa di coscienza della totale volontarietà e libertà del dubbio - del suo carattere puramente teorico - esso cessa di essere la base di una filosofia della non verità per presentarsi unicamente nella sua funzione metodologica. Cartesio si impegna dunque a dubitare di tutto ciò che è dubitabile. Non solo di ciò che sappiamo dall’autorità o dalla tradizione, dell’intero patrimonio del sapere che noi ereditiamo con il suo senso di validità dal passato, ma persino di ciò che noi crediamo nella nostra vita normale e quotidiana e che ci consente di orientarci tra le cose che ci circondano. La stessa realtà che ci è data dai sensi, con la sua consistenza concreta, può essere indistinguibile dalle immagini che abbiamo nel sonno: «Quante volte mi è accaduto di sognare la notte, che ero qui, vestito, vicino al fuoco, benché mi trovassi svestito nel mio letto! Ora, mi sembra bensì che non con occhi assopiti guardo questo foglio di carta, che questa testa che muovo non è per nulla addormentata, che di deliberato proposito io stendo questa mano, e la sento: ciò che provo nel sonno non è così chiaro e distinto! Ma, ripensandoci attentamente, mi ricordo di essere stato spesso ingannato nel sonno da simili illusioni; e soffermandomi su questo pensiero, mi avvedo con tanta chiarezza che non vi sono indizi tanto concludenti e segni tanto sicuri da distinguere il sonno dalla veglia, che ne resto tutto stupito; e lo stupore è tale da convincermi quasi che io dormo». Se tutto ciò che cade nell’ambito dei sensi può essere messo in dubbio, forse ad esso si sottraggono le verità ideali, che riguardano oggetti non sensibili, come l’aritmetica e la geometria. «Infatti, sia che io vegli, sia che dorma, due più tre faranno sempre cinque, il quadrato non avrà mai più di quattro lati, né potrà mai accadere che verità così chiare ed evidenti possano essere sospettate di falsità o di incertezza.». Tuttavia: chi mi garantisce che Dio non voglia «che io mi sbagli tutte le volte che addiziono due e tre, o conto i lati del quadrato, o giudico di qualche altra cosa più facile ancora, se è possibile immaginare cose più facili di queste?»: e se non Dio, dal momento che egli è «fonte sovrana di verità», almeno un demone «maligno, potentissimo, astuto, ingannatore». |51| Si tratta evidentemente di una ipotesi del tutto gratuita, a cui io posso anche non credere e di fatto non credo. Ma non vi è nulla che mi impedisca di formularla. Scompare dunque la necessità di una critica approfondita e particolare che dimostri ovunque la possibilità dell’errore: è sufficiente l’invenzione dell’esistenza di un demone maligno che prenda gusto ad ingannarci per farci giungere di colpo al limite del dubbio: «Che cosa vi sarà dunque di vero? Forse questo, che al mondo non vi è nulla di certo!».| Ma, come sappiamo, non è questo il punto terminale a cui conduce il dubbio esteso ad ogni cosa. Io dubito di tutto. Ciononostante vi è qualcosa di cui non posso dubitare: ed è il fatto stesso che io dubito. Lo stesso si può dire per ogni dubbio su cose determinate. Io ho attualmente la percezione di un uomo: questa percezione può essere illusoria. E tuttavia è assolutamente certo che io ho questa e nessun’altra percezione. Nel momento in cui esprimo un giudizio, è assolutamente certo che esprimo un giudizio, sia esso vero o erroneo. Il dubbio condotto nel modo più radicale possibile si rovescia così nella scoperta di un nuovo terreno assolutamente certo ed indubitabile. Io posso dubitare della validità di ogni oggetto della conoscenza: ma non posso dubitare della realtà degli atti soggettivi in cui questo oggetto mi si presenta come oggetto di conoscenza. Di fronte alla semplice verità che se vedo qualcosa, è vero che vedo qualcosa, si deve arrestare anche un demone maligno infinitamente potente. Questo è il nucleo significativo dell’argomentazione di Cartesio: il dubbio deve essere approfondito fino al punto in cui fa emergere come nuovo terreno della certezza la soggettività degli atti della conoscenza. Certo non è l’oggetto che io vedo, ma il fatto che io vedo questo oggetto. Cartesio perviene così all’assoluta certezza dell’ego cogito, cioè al soggetto che pensa, che dubita, che vuole, che desidera, e così via. Tuttavia, se il merito essenziale di Cartesio fu quello di aver rovesciato lo scetticismo nella scoperta della certezza ed indubitabilità del soggetto in ogni suo atto, l’interpretazione che egli stesso presenta di questa sua scoperta apre nuove e gravi difficoltà. Per Cartesio, la verità del cogito è immediatamente accompagnata da una nuova verità. Se è indubbiamente vero che io penso, è al tempo stesso vero che io sono qualcosa che pensa, cioè che io esisto anche se anzitutto soltanto come cosa che pensa, indipendentemente da tutto ciò che mi è dato attraverso i sensi, e quindi anche dal mio corpo. Perciò la formula cartesiana diventa ego cogito, ergo sum e la ricerca successiva che Cartesio sviluppa tende a dimostrare l’assoluta certezza dell’esistenza della cosa pensante che io sono e a chiarire la natura peculiare di questa «cosa» rispetto alle cose materiali, ai corpi estesi. Naturalmente, non è necessario ricostruire qui questo difficile percorso. Ci basterà osservare che seguendo questo sviluppo non possiamo alla fine non ritrovare le aporie che già avevano motivato la critica scettica: questa interpretazione ci riporta infatti, anche se in forma nuova, alla separazione tra il soggetto attivamente diretto verso le cose e le cose stesse come realtà indipendenti e oggettive, che caratterizza, come abbiamo visto, l’atteggiamento naturale. Da un lato vi sono le cose pensanti, e cioè le anime, nuclei di realtà intellettuale e razionale; dall’altro i corpi estesi, del tutto estranei rispetto alle anime, con attributi loro propri. Così si riproporrà il problema che sembrava risolto una volta per tutte: in che modo queste «sostanze» reciprocamente estranee possono «incontrarsi» nell’atto del conoscere? O, in altri termini: che cosa garantisce la validità di ogni mio atto di conoscenza? Ci vorrà allora un deus ex machina che giunga a sciogliere la difficoltà, un deus che questa volta sarà Dio stesso, in persona. L’antica tradizione filosofica ritorna così, con tutti i suoi miti, nella filosofia cartesiana: «Accadde a Descartes come a Colombo, che scoprì un nuovo continente senza tuttavia rendersene conto e credendo di aver scoperto soltanto una nuova via verso le Indie».