Capitolo primo BISOGNI E VALORI GIOVANI DAGLI ANNI ‘70 AL 2000 Gli anni settanta hanno rappresentato un momento decisivo per le società occidentali, e per l’Italia in particolare. Dal punto di vista politico e sociale sono stati segnati da turbolenze varie, dalla contestazione studentesca alla lotta armata, dalle maggiori rivendicazioni sindacali all’aumento di disoccupazione, dalla ridefinizione dei partiti classici (soprattutto della sinistra) alla nascita di nuovi soggetti politici. Per il mondo giovanile indubbiamente il ’68 aveva rappresentato una svolta e, dalle ricerche di quegli anni, si comprende quanto fosse elevato il silenzioso potenziale contestativo dei giovani, quanto fosse viva l'ansia di rinnovare la società attraverso una critica radicale alle sue istituzioni, e quanto fosse allettante la speranza di poter influire sulle strutture politiche. “Dapprima si mise sotto accusa l’autoritarismo nella scuola, poi si lottò per avere parte alla gestione del potere della scuola, infine si tese ad analizzare le interdipendenze tra scuola e società” (Tomasi, 1986, 105). “Considerati i modi in cui quella ondata di ribellione investì il mondo degli adulti, sfuggirono in quegli anni le ragioni profonde, il significato, le istanze di un movimento così diffuso” (Tomasi, 1986, 105). In genere il mondo adulto si sentì minacciato dalla violenza contestativa (verbale e fisica) e si chiuse a riccio, nella difesa della tradizione. Infatti “uno degli elementi più tipici fu il rifiuto della tradizione elaborata e trasmessa dagli adulti; si ingenerò così il fenomeno del ‘giovanilismo’. Il rifiuto della tradizione postulava quello dell'autorità, reputata dannosa alla propria libertà” (Tomasi, 1986, 105). In realtà, ciò che la contestazione esprimeva, al di là delle formule e degli stessi proclami giovanili, era la percezione di un bisogno di rinnovamento di una società, ormai inadeguata ai processi che essa stessa aveva ingenerato. Infatti, mentre gli anni sessanta potevano apparire come il punto culminante di un processo di sviluppo ininterrotto dal dopoguerra in poi, gli anni settanta (ma anche l’ultima parte degli anni sessanta) rivelarono molta più inquietudine e confusione. Dal punto di vista economico mostrarono evidenti segni di crisi, decretando la fine del concetto di “sviluppo illimitato”. La fine di tale concetto non riguardava solo l’economia, ma la stessa concezione del mondo, che aveva guidato fino ad allora la “modernità”. Di fatto, si cominciò a parlare di “svolta epocale” e si tentò progressivamente di ridefinire la nuova epoca, ricorrendo ai “post” (post-industriale, post-moderno, post-fordista, ecc.) per distinguerla dalla precedente, senza però segnarne una cesura definitiva. Anche dal punto di vista dell’analisi sociale si pose l’accento sulle difficoltà crescenti di una società sempre più complessa1 ed ingovernabile, contro le letture dicotomiche e i nessi causali lineari, tipici delle analisi degli anni precedenti. 1. Inizio anni ’70: le teorie del cambio culturale La contestazione, protrattasi per alcuni anni dopo il '68, disorientò molti. Per anni le analisi sociologiche privilegiarono la lettura politica di questo periodo. Ma non tutti si accodarono a questa 1 “Nella tradizione sociologica (da Durkheim a Simmel a Parsons) quando si parla di complessità del sistema sociale in riferimento alle moderne società industriali si istituiscono fondamentalmente due tipi di correlazioni. La prima riguarda il numero e la varietà degli elementi del sistema, la seconda il numero delle relazioni di interdipendenza tra questi stessi elementi. [...] E' quest'ultima - la densità dinamica e morale della società - la caratteristica saliente in senso sociologico che si sviluppa solo con la differenziazione e con l'affermarsi della logica della divisione del lavoro” (Sciolla, 1983, 45). Bisogna però riconoscere che sovente tale situazione viene percepita per le difficoltà che comporta. In effetti, il concetto di "società complessa" ha cominciato a diffondersi con la crisi socio-economica degli anni ‘70, nel momento in cui “l'attenzione non va più alla dinamica di sviluppo delle nostre società, ma all'arresto di questa dinamica, agli imprevisti effetti disgregatori: ingovernabilità, instabilità, differenziazione e disarticolazione dei processi produttivi, dilatazione dei settori distributivi e dell'amministrazione, espansione dell'interventismo statale, disgregazione e moltiplicazione dei gruppi sociali, circolarità tra aspettative e frustrazioni collettive” (Montesperelli, 1984, 25). tendenza. Alcuni autori percepirono che, più che un mutamento strutturale, come invocavano i contestatori, era in atto un cambiamento a livello culturale. Per questo le teorie che indagarono su questa dimensione furono denominate del “cambio culturale”. Tali teorie furono espresse, a livello mondiale, da Inglehart e, a livello nazionale, da Tullio-Altan e dal Grasso. Tali teorie partivano dalla convinzione che l’emergenza di nuovi valori nascesse dalla percezione giovanile di nuovi bisogni, conseguenti allo sviluppo socio-economico di quegli anni. Queste impostazioni di ricerca possono fornire indicazioni interessanti per comprendere la società e i giovani, soprattutto per un’analisi dei loro bisogni. Perciò abbiamo deciso di partire dalle loro indagini per ritrovare una chiave interpretativa dei mutamenti, intervenuti nella società da allora fino ad oggi. Attraverso tali teorie cercheremo di individuare quali bisogni e quali problemi o disagi si sono storicamente manifestati nelle società occidentali, soprattutto a livello giovanile, europeo e italiano, dagli anni ‘70 ad oggi. 1.1. Dal materialismo al postmaterialismo Inglehart, utilizzando una vasta mole di dati ottenuti da varie indagini promosse dalla Comunità Europea, ebbe la possibilità di verificare una sua ipotesi di partenza che, cioè, nei paesi occidentali che avevano raggiunto un notevole grado di benessere, fosse in atto un mutamento sostanziale nei valori che egli chiamò “rivoluzione silenziosa”. Utilizzò come base la teoria gerarchica dei bisogni di Maslow (1973), secondo la quale gli individui soddisfano i loro bisogni in un determinato ordine, secondo l’urgenza in rapporto alla sopravvivenza. La priorità massima viene data ai bisogni fisiologici. Quando questi sono soddisfatti ci si rivolge a bisogni di sicurezza fisica. “Qualora un individuo ha raggiunto la sicurezza fisica ed economica può iniziare a perseguire altri obiettivi non materiali […], il bisogno di amore, di appartenenza e di stima […]; successivamente si profila una serie di obiettivi correlati al soddisfacimento intellettuale ed estetico” (Inglehart, 1983, 47). Questi ultimi vengono chiamati “bisogni di autorealizzazione”. Ora, siccome nei vent’anni precedenti i paesi occidentali avevano goduto di una prosperità economica mai raggiunta prima e di un lungo periodo di pace (e quindi di sicurezza), ipotizzò che notevoli quantità di soggetti stessero spostando il loro interesse da obiettivi di tipo primario (sopravvivenza e sicurezza) ad obiettivi di tipo secondario. A sostegno di quest’ipotesi ritenne che potessero contribuire anche altri fattori: l’espansione dell’istruzione superiore, lo sviluppo delle comunicazioni di massa, le differenti esperienze formative delle nuove generazioni. Dal momento che “la gente tende a mantenere nel corso della vita adulta una serie di priorità dei valori dopo che questi si sono consolidati durante gli anni formativi […], possiamo pensare che i gruppi di giovani, e in particolare quelli cresciuti dopo la seconda guerra mondiale, diano meno enfasi alla sicurezza economica e fisica” (Inglehart, 1983, 47). Pertanto dovrebbero essere soprattutto i più giovani a mostrare i segni di questo spostamento culturale, e quindi a manifestare maggior attenzione ai valori post-materialisti. Inoltre ipotizzò che al mutamento di valori corrispondesse anche uno spostamento nelle preferenze elettorali. In particolare che all’appartenenza di classe si stesse sostituendo un’adesione partitica in base ad orientamenti di valore. Ipotizzò quindi che si sarebbe potuto constatare uno spostamento nelle preferenze elettorali: i benestanti verso sinistra e i più poveri verso destra. Un’altra ipotesi che avanzò, come conseguenza dello spostamento dei valori, fu quella del “declino della legittimità dell’autorità gerarchica, del patriottismo, della religione” (Inglehart, 1983, 26), con caduta della fiducia nelle istituzioni. 2 1.1.1. Gli indicatori Per verificare la sua ipotesi Inglehart ebbe a disposizione i dati dei sondaggi di opinione effettuati a varie riprese negli anni 1970-1982 tra tutta la popolazione di 9 paesi della Comunità Europea. Inoltre, per alcuni anni, anche dei dati di ricerche condotte in Svizzera e negli Stati Uniti. a) Egli, in un primo momento (1970-1971), inserì nel questionario una domanda con 4 item indicatori di “materialità/post-materialità” (indice corto), che suonava così: “Se dovesse scegliere tra le seguenti cose, quali sono le due più importanti per lei? - Mantenere l’ordine nella nazione. - Dare alla gente maggior potere nelle decisioni politiche importanti. - Combattere l’aumento dei prezzi. - Proteggere la libertà di parola” (Inglehart, 1983, 51). b) Nei sondaggi successivi (dal 1973 in poi) aggiunse altre domande per rilevare con maggior precisione lo spostamento dei valori. Produsse un indice con 12 item (indice lungo), che metteva maggiormente in evidenza la dimensione “materialista/postmaterialista”. Tuttavia i risultati non differirono da quelli degli anni precedenti. Il che significava che il primo indice era sufficiente. I due indici vennero utilizzati alternativamente. Ne risultarono delle “scale di atteggiamento” che comprendevano a livello più basso i bisogni fisiologici (o materialisti): bisogni di sostentamento (lotta all’aumento dei prezzi, favorire la crescita economica, assicurare un’economia stabile) e i bisogni di sicurezza (mantenere l’ordine, lotta alla criminalità, garantire la difesa nazionale); a livello più alto i bisogni sociali e di autorealizzazione (post-materialisti): bisogni di appartenenza e stima (maggior potere decisionale nel governo, sul lavoro e nella comunità, società meno impersonale), intellettuali ed estetici (libertà di parola, preminenza delle idee, città più belle/natura). c) Inoltre vennero aggiunte altre domande che rilevano il mutamento degli obiettivi personali in ordine al lavoro, alla dimensione provinciale/cosmopolita, all’innovazione, all’orientamento politico. 1.1.2. I risultati I dati raccolti confermarono tutte le ipotesi di Inglehart. a) Innanzitutto venne rivelata dall’analisi fattoriale l’esistenza di un carattere (o dimensione) post-materialista tra le popolazioni in esame. Infatti nel primo fattore gli item indicatori di post-materialismo risultavano tutti correlati positivamente tra loro e negativamente con quelli materialisti. Solo l’indicatore estetico non risultò significativo per questo fattore. b) Venne confermata l’ipotesi di una ascesa dei valori post-materialisti nelle popolazioni occidentali e la persistenza negli anni del fenomeno. Per la prima volta nella storia questi valori diventavano significativi presso quote consistenti di popolazione fino ad arrivare a competere alla pari con i valori materialisti. c) Venne confermata l’erosione della fiducia verso i partiti e le istituzioni tradizionali. d) Venne confermata l’esistenza di correlazione tra declino dei valori materialisti e avanzamento delle “sinistre”: i soggetti postmaterialisti tendevano a sostenere maggiormente i partiti di sinistra, nonostante notevoli diversità tra paese e paese.2 2 “In ognuno dei dieci paesi il declino dei valori materialisti è associato alla crescita del sostegno di posizioni politiche di ‘sinistra’ 3 e) Venne confermata l’incidenza della socializzazione nella formazione dei valori, per cui i valori riflettono gli orientamenti assunti durante il periodo formativo. Tale orientamento si manteneva negli anni, nonostante fattori contingenti potessero determinare uno spostamento generale di orientamento. f) Vennero scoperte correlazioni significative tra carattere postmaterialista e scelte personali: sul lavoro (più propenso all’espressività: soddisfazione personale e buoni rapporti interpersonali), sull’appartenenza geografica (orizzonte più ampio, carattere universalista), verso le novità (più attratto). g) Venne confermata la dipendenza del tipo di valori dall’istruzione, e quindi che il carattere postmaterialista si correlava positivamente con un più alto livello di istruzione (soprattutto se universitaria). h) Si scoprì che anche altre variabili producevano differenze significative rispetto all’essere materialista o postmaterialista: professione di una fede religiosa (correlazione negativa con postmaterialista), sesso (positiva per l’uomo, negativa per la donna), età (negativa), iscrizione al sindacato (positiva), nazionalità, occupazione del capofamiglia. 1.2. I valori postborghesi Anche in Italia, negli anni ‘70, alcuni studiosi recepirono il mutamento di clima culturale e, almeno inizialmente, indipendentemente dai lavori di Inglehart, condussero delle ricerche allo scopo di cogliere le novità in campo culturale tra i giovani. Il lavoro sociologico di maggior rilievo fu quello di Tullio-Altan, che si muoveva in una prospettiva socio-antropologica. 1.2.1. L’ipotesi La sua analisi non fu motivata dalla volontà di verificare un’ipotesi scientifica, come Inglehart, ma da osservazioni dirette. Tullio-Altan, in base alla sua esperienza universitaria, volle capire i motivi dell’inquietudine che serpeggiava nel mondo studentesco. Si rese conto che alcuni temi suscitavano più intense reazioni emotive: cioè quando si trattavano temi che riguardavano il problema del rapporto con gli altri. In particolare essi “si dichiaravano insoddisfatti del tipo di società in cui vivevano, soprattutto perché i contatti che essi avevano nei rapporti sociali risultavano inautentici e frustranti e dicevano di aspirare ad una socialità diversa, nella quali i rapporti fossero migliori. Ma quando veniva affrontato il tema dell’alterità, del prossimo, allora sembrava scattasse una meccanismo preciso culturalmente ben definito e psicologicamente molto attivo: il prossimo è una realtà negativa, strumentale, con la quale ci si deve costantemente confrontare” (Tullio-Altan, 1974, 17). Da queste osservazioni l’autore trasse spunto per la formulazione dell’ipotesi secondo cui “una delle ragioni dello stato d’inquietudine e d’insoddisfazione che si avverte chiaramente tra i giovani dipende da una contraddizione fra un certo livello di aspirazione a una socialità più autentica, che passi attraverso un rapporto interpersonale gratificante, e un modello dell’altro, culturalmente ben strutturato, che induce al rifiuto, alla strumentalizzazione e alla svalutazione dell’alterità, in luogo di portare ad una positiva accettazione” (Tullio-Altan, 1974, 17). o liberal. In media, circa il 46 per cento degli intervistati che appartiene al tipo materialista puro si colloca a sinistra; del tipo postmaterialista puro si ha invece l’80 per cento. La forza della relazione varia da un massimo in Francia e in Italia a un minimo in Irlanda e Belgio, ma in ogni caso il tipo postmaterialista puro è situato a sinistra di ogni altro gruppo” (Inglehart, 1983, 83). 4 1.2.2. I risultati I risultati confermarono l’ipotesi: “le aspirazioni dei giovani ad una socialità più autentica trovavano un forte ostacolo alla loro realizzazione nel modello culturale – assorbito dall’ambiente sociale e dalla famiglia in particolare – che prospetta l’altro da sé come un’entità strumentale o negativa” (Tullio-Altan, 1974, 19). Questa sfasatura si stava accentuando, indice che “l’esigenza di una nuova società sembra essersi fatta più pressante” (Tullio-Altan, 1974, 19). La spiegazione di tale fenomeno l’autore la attribuì ai processi di socializzazione, che trasmettevano dei modelli culturali, dipendenti dal sistema socio-economico, diversi da quelli di cui i giovani sentivano bisogno3. Pertanto emergevano due sistemi di valore nei giovani italiani, tra loro contrastanti: da una parte valori di tipo acquisitivo o tradizionale, dall’altra valori di tipo espressivo o innovativo. Tali sistemi erano compresenti nei soggetti intervistati, ma con intensità maggiore o minore a seconda della classe sociale, del livello di cultura, del tipo di professione. Applicando la scala di conservatorismo fece una scoperta sconcertante, in contrasto con le aspettative: “i giovani che provengono dai ceti medi e medio-alti si collocano sistematicamente ai più bassi livelli di conservatorismo e quindi in corrispondenza con le scelte politiche considerate di sinistra, mentre i giovani che provengono dalla classe operaia si collocano sistematicamente ai livelli più alti di conservatorismo e di conseguenza sulle posizioni occupate dai giovani che scelgono i partiti di destra” (Tullio-Altan, 1974, 12). Questo venne confermato anche dall’applicazione delle altre tre scale di Berkeley. Nel complesso apparivano evidenti correlazioni, in un forte numero di giovani italiani, tra aspirazione ad una socialità più autentica, accettazione positiva dell’alterità, atteggiamento religioso aperto. A ciò si aggiungevano significative risposte sulla sensibilità alle ingiustizie sociali, disponibilità all’azione politica, interesse ai problemi politico-sociali e accettazione del principio della lotta di classe. Questi dati, riscontrati in soggetti di buon livello culturale e sociale, ponevano notevoli problemi d’interpretazione. 1.2.3. Convergenze e differenze con le teorie di Inglehart Questo tipo di risultati costrinse il nostro autore ad allargare la prospettiva alla dimensione internazionale ed europea e collegarsi agli studi di Inglehart 4. Da questo confronto trasse la convinzione che con l’avvicendarsi delle generazioni si sarebbe prodotta una radicale rivoluzione nella società, perché i valori postborghesi comportavano uno stile di vita che investiva tutti gli aspetti dei rapporti sociali, e non solo quelli economici. Per spiegare i fenomeni che rilevava egli ricorse al contributo di altri studiosi, oltre a Maslow: Marx e Malinowski, che permettevano di tener conto anche delle condizioni storico-sociali (Marx) e culturali (Malinowski). In questi due autori il nostro scoprì delle singolari convergenze con la teoria gerarchica di bisogni di Maslow. Stando al contributo di tali autori emergevano a tre tipi fondamentali di bisogni, più o meno corrispondenti: a) quelli biologici, comuni a tutti gli esseri viventi: i bisogni istintoidi di base di Maslow, i bisogni fisici di Marx e gli imperativi primari di Malinowski; 3 “La concezione dell’altro come strumento, per esempio, è strettamente legata ad un modo di produzione nel quale il lavoro è una merce come un’altra, o nel quale le esigenze dei singoli sono strutturalmente subordinate a quelle dello sviluppo del sistema produttivo. [Invece nelle giovani generazioni stava nascendo] il bisogno di un diverso tipo di socialità, su cui questo modello di sfruttamento come prospettiva sull’alterità direttamente contrasta” (Tullio-Altan, 1974, 20). 4 “I valori postborghesi della ricerca Inglehart stanno sullo stesso piano dei nuovi valori cui si riferiscono i rilievi condotti con gli strumenti usati dalla ricerca ISVET: l’aspirazione ad una socialità più autentica, l’accettazione positiva dell’alterità e la carenza di quelle caratteristiche della personalità tradizionale che hanno come base un ordine garantito da una concezione dogmatica e autoritaria della vita, cui si associa un’etica del lavoro e del guadagno che è quella del capitalismo in fase di affermazione” (TullioAltan, 1974, 58). 5 b) quelli dei sistemi sociali, che possono essere fatti propri dagli uomini che vivono in quei sistemi, sia in condizione di privilegio sia in condizione subordinata (sottoproletariato alienato): gli “imperativi derivati” di Malinowski e, in un certo senso, i bisogni di sicurezza di Maslow; c) i bisogni superiori di autorealizzazione, cioè i “metabisogni” di Maslow, il “bisogno ricco” di Marx, gli “imperativi integrativi” di Malinowski. Secondo queste teorie appariva che tali bisogni si disponevano in una posizione gerarchia, per cui dalla soddisfazione dei primi veniva resa possibile la manifestazione dei successivi. Un aspetto in cui Tullio-Altan si discostò nettamente dalle posizioni di Inglehart fu il ruolo riservato agli intellettuali per la realizzazione di tale rivoluzione. Consapevole degli innumerevoli ostacoli che sarebbe sorti di fronte alla pretesa rivoluzionaria dei giovani, egli riteneva che gli intellettuali, conforme alla lezione gramsciana, avessero il compito di immaginare e delineare il futuro della società. Una società in cui doveva esserci spazio per una socialità più autentica e personalizzata, con un’accettazione positiva dell’alterità; società i cui tratti non si conoscevano ancora e la cui cultura doveva essere immaginata in maniera originale. 1.3. La transizione culturale Già da anni Grasso stava conducendo delle ricerche e delle riflessioni sulla “transizione culturale” in atto tra i giovani. Egli impiegò questo termine per descrivere e spiegare le novità, stavano emergendo tra i giovani italiani.. Quelli che erano i compiti che lo struttural-funzionalismo assegnava allo status giovanile, cioè, il “passaggio dall’ambito familiare (solidaristico, ascrittivi, particolaristico) al contesto sociale generale (individualistico, acquisitivo, universalistico)” (Grasso, 1974, 20), l’autore lo generalizzò per tutta l’Italia. Un paese che, in seguito alla rapida industrializzazione del dopoguerra, si era trovato rapidamente inserito nella società moderna senza averne i requisiti culturali. In Italia, infatti, risultavano profondamente radicati i valori tradizionali e la cultura rurale: una cultura sostanzialmente “familistico-comunitaria”, che “privilegia l’assorbimento dell’individuo nel gruppo familiare e la sua chiusura in un orizzonte di rapporti primari” (Grasso, 1974, 27). Cultura in cui prevaleva un modello di rapporto “egocentricoparticolaristico”. Cultura inadatta ad un paese moderno, che esige un modello di rapporti di tipo “allocentrico-universalistico”. Pertanto, secondo il nostro autore, i giovani avrebbero costituito un osservatorio privilegiato delle trasformazioni culturali proprie di una società moderna: una società in cui, ai valori acquisitivi tipici del primo capitalismo, si andavano sostituendo esigenze di tipo solidaristico, tipiche di una società avanzata. Ma le esigenze manifestate dai giovani erano in conflitto con la struttura tradizionale della società italiana. Questa era, a giudizio dell’autore, il motivo contestazione giovanile: l’espressione del profondo malessere presente nel paese, che i giovani avrebbero percepito in maniera più distinta, proprio perché il loro sistema di valori stava cambiando5. 1.3.1. Valori e istituzioni La ricerca che prendiamo in esame (Gioventù e innovazione, 1974) fu applicata all’intero universo degli studenti superiori medi italiani nell’anno scolastico 1970-71. In essa si registrò l’ascesa di nuovi valori, tra cui emergevano quelli di tipo “sociale”, “con tendenza al 5 “La condizione giovanile rappresenterebbe […] una dimensione della crisi della società di massa e dell’incapacità di gestione realmente democratica dello sviluppo economico-sociale. Nell’assenza sostanziale di un disegno politico, la condizione giovanile esprime con diverse modalità, e anche con esplosioni improvvise e movimenti di timbro collettivo, le più significative contraddizioni della struttura sociale italiana” (Grasso, 1974, 23). 6 superamento delle lealtà particolaristiche (primarie) e apertura ai valori ‘politici’, di solidarietà tendenzialmente universalistiche” (Grasso, 1974, 144). Netta appariva l’aspirazione ad una società più giusta, libera, progressista. Pertanto veniva confermata l’adesione ai valori “progressisti”, mentre erano in declino quelli tradizionali. Infatti, emergeva una concezione della sessualità più libera e disinibita rispetto al passato, senza condizionare l’esercizio della sessualità al vincolo matrimoniale. La famiglia non rappresentava più l’orizzonte entro cui confinare la vita: si dichiaravano più leali verso la società e lo Stato che verso la famiglia. Attribuivano molta fiducia alla scienza, erano favorevoli alla politicizzazione della scuola. Si sentivano democratici, respingendo tentazioni dittatoriali o estremiste. I diritti ritenuti fondamentali erano quelli inerenti l’autorealizzazione della persona. Sul piano morale si manifestavano nuove dimensioni valoriali, soprattutto la convinzione che non fosse più necessaria una fede per un autentico sviluppo morale della persona. La Chiesa non godeva più della loro fiducia incondizionata. 1.3.2. Disagio per i sistemi culturali in conflitto Il contributo più originale di questa ricerca fu la scoperta del motivo della resistenza al cambiamento, sia a livello sociale, nelle istituzioni e nelle strutture sociali, sia a livello individuale, nella tensione tra sistemi culturali all’interno della persona stessa. I giovani, infatti, da una parte erano affascinati dai valori “moderni” e, dall’altra, avvertivano la resistenza interna dovuta ad un sistema di valori ben strutturato già in tenera età. Ciò portò l’autore a sostenere la mancanza “di una struttura psicologica unitaria o di un tratto globale che integri con qualche coerenza i diversi atteggiamenti” (Grasso, 1974, 176). Cosicché anche i valori espressi e/o i diritti difesi non sembravano emanare da una concezione unitaria della persona, bensì dalla loro appetibilità e fruibilità privata o dalla desiderabilità sociale. Ne conseguiva la coesistenza psicologica di due sistemi di valori sovrapposti senza integrazione. La maggior difficoltà d’integrazione si percepiva particolarmente nei soggetti di bassa condizione sociale e culturale, appartenenti alle aree più arretrate del paese (Sud, comuni di piccola grandezza, aree rurali), mentre gli appartenenti alle classi sociali più elevate e culturalmente preparate, e alle aree sociali più avanzate, dimostravano un atteggiamento più critico verso il passato ed una miglior predisposizione ai valori moderni6. Ciò non voleva dire che gli studenti di estrazione inferiore non perseguissero obiettivi progressisti, solo presentavano delle caratteristiche di “immaturità” in parecchie loro reazioni7. Ne conseguiva un aumento di disagio, che colpiva in maniera particolare i soggetti a più alto tasso d’innovazione (aree metropolitane, Nord, allievi di scuole umanistiche), oltre ai soggetti più 6 “Dal confronto sistematico tra originari di classi superiori e originari di classi inferiori sembra potersi dedurre che le differenze culturali si rivelino connesse con la situazione socio-economica del gruppo sociale di appartenenza, nel senso che a tale situazione corrispondono diverse condizioni di sviluppo della personalità, direttamente o indirettamente influenti sull’assunzione di un dato sistema di atteggiamenti. Così, l’inferiorità socio-economica tende a tradursi in inferiorità «mentale» e, quindi, culturale (qui intesa come resistenza all’innovazione). Gli originari delle classi inferiori si rivelano meno «maturi», globalmente, dei loro compagni socialmente privilegiati: in questi ultimi appare, ad esempio, più avanzato il processo mentale di differenziazione e di integrazione degli elementi della realtà sociale, con più diffusa capacità di percepire «universalisticamente» il dato di esperienza e di recepire più criticamente le influenze ambientali” (Grasso, 1974, 362s.). 7 “Si può ritenere confermato anche dalla presente ricerca il carattere immaturativo di parecchie reazioni a significato culturale dei giovani di classe inferiore. Un segno di tale «immaturità» è dato dalla «difensività» che caratterizza maggiormente le risposte di quei soggetti: essi tendono ad utilizzare intensivamente meccanismi inconsci di difesa psichica, piuttosto che procedimenti a carattere razionale e «obiettivo». Si potrebbe vederne una prova nella tendenza impunitiva dei nostri soggetti di estrazione popolare nel giudicare la loro famiglia: piú condizionati all’in-gruppo familiare e alla sua cultura tradizionale, questi soggetti risentono maggiormente del contrasto con le figure parentali censuranti le loro «deviazioni» innovative e i loro tentativi di azione contestativa: di qui la loro tendenza a liberarsi difensivamente del conseguente senso di colpa con razionalizzazioni che minimizzano le responsabilità dei familiari e imputano il contrasto a cause «impersonali», così da non compromettere il clima affettivo familiare da cui dipendono - in modo piú «condizionato» - per la loro tranquillità psichica” (Grasso, 1974, 363s.) 7 esposti alla tensione del cambio culturale (femmine, più anziani). Ciò non fu imputato a cause psicologiche “evolutive”, bensì ad elementi ansiogeni provocati dalla mancata integrazione tra sistemi, sia a livello sociale che personale. Infatti, “la rottura del conformismo sociale e la crisi dei rapporti di solidarietà con le istituzioni più socialmente rassicuranti, comporta senso d’insicurezza e di sconcerto psichico. Che dipendesse da tali fattori i disagio venne dimostrato anche dalla correlazione positiva tra livello di innovazione e stato d’ansia. A ciò si aggiungeva la consapevolezza di marginalità sociale della propria situazione (culturale e strutturale), con sensazione d’isolamento ed estraneità. Ciò poteva spiegare anche il “riflusso” dall’ondata constestativa. Egli lo leggeva nei termini di un “dramma psicoculturale”: “gran parte dei giovani non ha ‘sopportato’ la difficile situazione psicologica di insicurezza e di isolamento conseguente alla rottura di quelle solidarietà e il senso di colpa provocato dalla rinuncia alla conformità con la tradizione culturale (rinuncia percepita più o meno consciamente come ‘tradimento del padre’ e ‘abbandono della protezione affettiva della madre’) […] Molti dei giovani contestatori (la maggioranza della popolazione studentesca) si sono sentiti ‘persi’ e hanno preferito, in definitiva, tornare alla ‘casa del padre’ e alla sicurezza del ‘grembo materno’” (Grasso, 1974, 364-365). C’era quindi un bisogno d’integrazione, accanto a quello di una socialità più autentica. Il Grasso riteneva che fosse necessaria l’istituzionalizzazione dei nuovi valori, per far acquisire da parte della società l’istanza innovativa proveniente dai giovani. 2. Seconda metà degli anni ’70: cambiamento nei valori e nei bisogni dei giovani italiani Le ricerche appena illustrate risentivano del clima particolare creatosi nella società ed in specie tra i giovani alla fine degli anni ’60 e nella prima metà degli anni ’70. Ma nella seconda metà degli anni ‘70 si determinò un profondo mutamento del costume e della condizione giovanili in Italia. All’epoca dell’impegno politico e della militanza attiva per una trasformazione del sistema si andò sostituendo un atteggiamento meno idealista e più pragmatico, in concomitanza con una situazione socialmente più instabile. Il sistema politico tradizionale ed i ceti conservatori si irrigidirono, respingendo ogni domanda di innovazione. Divenne evidente la sua incapacità di gestire le richieste di cambiamento della società civile (Leccardi, 1987, 5). Il movimento del ’68, che aveva puntato tutte le sue carte sulla politica, rimase orfano di punti di riferimento: le organizzazioni della sinistra extra-parlamentare entrarono pesantemente in crisi. L'ottimismo che aveva caratterizzato il clima giovanile all'inizio degli anni Settanta cedette il passo a sempre più inquietanti simboli di morte (Borgna, 1984, 131). Il dissenso prese due strade opposte, o si radicalizzò, trasformandosi in una lotta armata sistematica, o, nella maggior parte dei casi, divenne indifferenza verso la politica ed i progetti di riforma. La prima strada portò al sequestro dell’on. Aldo Moro da parte delle “Brigate rosse” nella primavera del 1978 e alla sua successiva uccisione; la seconda al riflusso, come fu denominato dai media il ritiro dei giovani dall’ondata partecipativa e conflittuale. La crisi economica, iniziata attorno al '72, non si risolse, anzi da congiunturale divenne strutturale. Iniziò in questi anni una serie di ristrutturazioni nel campo industriale che sembrava obbedire alla "spontanea mobilitazione del capitale finalizzata al recupero dei profitti" (Graziani, cit. da Leccardi, 1987, 5) più che a scelte programmatiche. A risentirne fu soprattutto l'occupazione giovanile. Se questo problema accomunava quasi tutti i paesi dell'Occidente industrializzato, in 8 Italia esso assunse proporzioni enormi8. Particolarmente penalizzato fu il lavoro intellettuale, per la mancanza di grosse industrie in grado di assorbire la forza lavoro qualificata9. Il sistema scolastico italiano appariva sostanzialmente immobile. Alla forte espansione di cui era stato fatto oggetto si accompagnava il suo elevato grado di “de-professionalizzazione”, vale a dire, scarsa o nulla capacità di formare quadri intermedi. Il sistema d’istruzione medio-superiore si era andato trasformando in un sistema di scorrimento verso gli studi universitari, perdendo progressivamente le proprie capacità professionalizzanti. La formazione scolastica, priva di sbocchi professionali, perdeva senso e finalità: la figura delle studente finiva per evocare anticipatamente quella del disoccupato (Leccardi, 1987, 5-6). 2.1.1. La ricerca d’identità La sempre più difficile transizione scuola/lavoro e l'assenza di prospettive di mutamento condizionarono pesantemente il tipo di rapporto del giovane con il mondo istituzionale. Sancita la fine del tempo dell'utopia e dei progetti totalizzanti, il futuro divenne incerto, e fu abbandonata l'idea che di poterlo mutare con un'azione collettiva. Di fronte all'insensibilità e alla fondamentale immutabilità del sistema politico ed al prevalere in economia delle leggi del mercato sui diritti e bisogni dell'uomo, prese il sopravvento un senso d’impotenza e di rassegnazione (Leccardi, 1987, 6). I bisogni che emersero con maggior evidenza in tale situazione furono quelli di sicurezza e d’identità. Cambiando lo scenario sociale la ricerca dell’identità diventò il tema cruciale di quegli anni10. Emarginati dalle aree produttive e decisionali del paese, i giovani degli anni ‘70 furono costretti a cercare nuove strade per definirla. Gli adolescenti di quegli anni dimostrarono “una funzione attiva nella determinazione del proprio destino” (Polmonari, 1979, 379). In una situazione di complessità e disorientamento culturale la ricerca dell’identità imboccò percorsi molto diversificati, rispondenti a criteri più soggettivi. La tensione dell’adolescente a definire la propria identità si specificò sia nel tentativo di riconoscere se stesso in rapporto agli altri, sia come chiarificazione a sè delle proprie mete (sé ideale) e dei mezzi necessari per raggiungerle (Polmonari, 1979, 379). Emerse così un tratto caratteristico della gioventù di quegli anni: la ricerca d’identità, invece di concentrarsi su un ruolo, su un modello unico, su un’ideologia ben definita, imparò ad approfittare di tutte le opportunità che la società offriva, senza preclusioni ideologiche. L’identità perdeva “un centro per acquistarne molti” (Leccardi, 1987, 8). L’identità si fece più aperta e componenziale e, nello stesso tempo, più suscettibile di crisi. Infatti, a fronte di questa liberalizzazione dei percorsi dell’identità, si profilava la precarietà e debolezza delle soluzioni. Così si cominciò a parlare di “identità imperfette”. 8 “Nel periodo compreso tra il 1974 ed il 1977, il numero di giovani disoccupati triplica. Nel luglio 1979 il numero di giovani in cerca di prima occupazione sono 1.375.000, vale a dire il 73% di coloro che cercano lavoro. In questo periodo il tasso di disoccupazione è pari al 33% dei giovanissimi dai 14 ai 19 anni e del 21.4% per i giovani dai 20 ai 24 anni. Il fenomeno coinvolge soprattutto le ragazze e i giovani dell'Italia meridionale ed insulare” (Leccardi, 1987, 5). 9 “Tra i giovani in possesso di un diploma tra i 20 e i 24 anni, il tasso di disoccupazione si aggira introno al 36%” (Frey, cit. da Leccardi, 1987, 5). 10 “La ricerca di un’identità socialmente plausibile, e in parallelo, la crisi dei percorsi tradizionali della sua definizione caratterizza lo scenario sociale della seconda metà degli anni ‘70. Questa ricerca è direttamente legata al problema del senso globale da assegnare alla propria esistenza: un problema, specie per chi è studente, di non facile soluzione” (Leccardi, 1987, 6). 9 2.1.2. Nuovi bisogni giovanili Il venir meno delle certezze sociali, economiche, politiche e culturali tradizionali, costrinse i giovani a ripiegarsi su nuovi bisogni. Le risposte organizzate dei gruppi giovanili in questo periodo imboccarono una doppia strada: pratica della violenza come necessità individuale e collettiva da una parte, negazione dello spirito competitivo o esaltazione di componenti ludico-erotiche dall’altra (Rositi, 1978, 125). Di questa sensibilità si fece interprete sopratutto il “movimento del ’77”, denominato anche degli “indiani metropolitani”11. Per una parte di essi l’affermazione dell’alterità dei propri bisogni, rispetto ai fini delle istituzioni, si tradusse nella rivendicazione di un’identità “altra”, per mezzo della quale esprimere, in modo trasgressivo ed ironico, i “bisogni radicali”. La vita privata, l’affettività, le scelte esistenziali, anche minute, acquistarono statuto politico. Ci si definiva in base a ciò che si rivendicava (Leccardi, 1987, 7). Terminata quest’ondata collettiva, rimase solo l’aspetto privato del problema, che comportò un maggior risalto ai bisogni individuali. La ricerca della felicità, di esperienze gratificanti (sia individuali che di piccolo gruppo), il principio del piacere, la rinuncia all’impegno furono il denominatore comune che contraddistinse la generazione “fine decennio”. Dopo anni di turbolenze i giovani abbracciarono un individualismo non conflittuale e difensivo (Borgna 1979, 407). Di qui il rilievo dato al tempo libero, al divertimento, alla libera espressione dei propri bisogni ed ad una ricerca della propria autorealizzazione intesa come autoespressione. I nuovi interessi giovanili furono “l’amore, la sessualità, la nuova coppia, il corpo, la poesia ed ogni espressione creativoartistica” (Leccardi, 1987, 7). Presero corpo fenomeni nuovi come: a) L’aggregazione, fondata prevalentemente sul calore del gruppo, sulla dimensione affettiva e relazionale, con preferenza per la comunicazione gestuale su quella verbale. b) La musica, con l’esplosione della “febbre del sabato sera”, l’invasione di balere e discoteche12, favorita anche dalla nascita e diffusione di miriadi di radio (circa 4.000 nel ‘79) e TV private (600 circa). c) Il “ritorno del sacro”, con manifestazioni quali il “culto dell’Oriente”, la diffusione di sette e movimenti religiosi, la ripresa della pratica religiosa. Tuttavia il ritorno al sacro solo in pochi casi coincise con un ritorno alla religione di Chiesa, sovente si tradusse in una ricerca di significato, con l’esplorazione personale di percorsi di senso al di fuori delle istituzioni tradizionali (Borgna, 1984, 137-141). Rispetto, invece, agli atteggiamenti politici e culturali, Ricolfi e Sciolla (1980), scoprirono che esisteva ancora una notevole quota di giovani impegnati (soprattutto nelle associazioni) per i quali i valori della contestazione erano ancora vivi13. Piuttosto, era mutata l’intensità della partecipazione, “l’aggressività ideologica” dei “sessantottini” (quelli più politicizzati). I giovani del ‘78 apparivano più “disincantati”, credevano meno negli strumenti politici per realizzare i valori di cui si sentivano portatori. 11 Gli “indiani metropolitani” furono un movimento composto prevalentemente da studenti universitari non frequentanti, di Bologna e d’altre città italiane. Essi fecero dell’esperienza dell’emarginazione un punto “forte”, quasi una nuova identità della condizione giovanile. L’esclusione dal lavoro, dalla scuola, dal flusso delle decisioni politiche furono da essi rielaborate in chiave d’autoidentificazione. “Il movimento del ‘77 è un tipico esempio dell’innesto di nuove domande giovanili legate all’identità, sui problemi prodotti dalla crisi economica, dagli squilibri tra scuola e mercato del lavoro, dall’aumento della disoccupazione giovanile e intellettuale e dal ruolo di parcheggio assunto dall’università. Il movimento è diviso tra la ricerca della creatività personale e la coscienza della marginalità sociale degli studenti, privi di sbocchi professionali” (Melucci, 1982, 113). “Nel breve periodo della sua esistenza il movimento si incarica di sancire la fine del tempo dell’utopia e dei progetti totalizzati” (Leccardi, 1987, 7). 12 “Ogni fine settimana 3 milioni e mezzo di italiani […] invadono 3.500 balere, 500 delle quali aperte di recente proprio per assorbire l’aumento della domanda. Nel ‘78 le sale da ballo sono oltre 5.000, e, secondo stime della SIAE, le presenze del pubblico sono aumentate del 40-50% rispetto al ‘77” (Borgna, 1984, 147). 13 Sono simili alla generazione precedente “in quanto i loro orientamenti rappresentano in molti casi una generalizzazione di tematiche tipiche del movimento studentesco: dalla critica dell'autorità, al riconoscimento della non-neutralità dei ruoli sociali, alla critica dell'etica della prestazione. Anche su un piano più immediatamente politico […] il consenso all'insieme delle forze politiche della sinistra è cresciuto […]. Ma l'aspetto forse più rilevante è che questa estensione ha coinvolto, la componente femminile della popolazione studentesca” (Ricolfi – Sciolla, 1980, 10). 10 Il nucleo centrale del cambiamento risiedeva nella ripresa di attenzione per l'individuo e per le sue problematiche. Ma non mostravano i caratteri dell’individualismo classico, “legato all’etica della prestazione, ad uno spirito competitivo che attribuiva massima importanza al successo personale, alla carriera e al prestigio professionale” (Ricolfi – Sciolla, 1980, 242). Così, in merito all’orientamento intimista, essi sottolineavano il carattere politico del “personale”, che acquistava valore di storia. Per quanto riguarda i modi attraverso i quali questi orientamenti culturali si formavano, gli autori sottolinearono l’importanza delle dimensioni cosiddette “orizzontali” del processo di socializzazione. Alla famiglia come centro si era andata progressivamente sostituendo una struttura policentrica, in cui il gruppo dei pari e le altre reti relazionali autonomamente definite, l’associazionismo, la scuola e le esperienze lavorative andavano acquistando una crescente centralità. 3. I giovani di fronte alla società negli anni ’80: pragmatismo e presentismo Gli anni ‘80 rappresentarono la normalizzazione della condizione giovanile rispetto alla “mobilitazione” degli anni ‘70, secondo linee già emerse alla fine degli anni ’70. Tale mutamento di strategia dipese da un processo interattivo tra giovani e società. Si ebbe, infatti, sul piano sociale un’evoluzione della società che diventava sempre più post-industriale, post-moderna, complessa e, nello stesso tempo, maggiormente flessibile. I giovani dovettero imparare a convivere con tale realtà: visto che il tentativo della generazione precedente di contrapporsi alla società era fallito, non rimase loro che adeguarsi. L’adattamento divenne la principale strategia giovanile in quegli anni. Infatti, la ricerca che segnò una svolta nell’interpretazione della gioventù in quegli anni fu quella di Garelli (1984), in cui l’adattamento fu assunto come criterio interpretativo fondamentale ed il quotidiano come luogo dove i giovani cercavano la propria autorealizzazione. Si era venuta a delineare una situazione di questo tipo: cadute le grandi mete collettive che avevano caratterizzato i decenni precedenti, persa la speranza di influire sull’orientamento ideologico ed organizzativo della società, complicatasi la transizione scuola/lavoro, sfumata l’attesa di mobilità sociale ed inserimento lavorativo attraverso la scuola non rimase che lo spazio del tempo libero e dei rapporti informali come luogo di autorealizzazione. Esso si presentava come ambito in cui non solo sviluppare dei rapporti, giocare dei ruoli al di fuori del controllo degli adulti e delle istituzioni, ma anche come spazio dove elaborare una cultura alternativa al modello prevalente, dove sperimentare dei comportamenti, degli stili di vita in grado di fornire un sostegno alla ricerca di una soluzione alla crisi d’identità tipica dell’età e particolarmente acuta in momenti di trapasso culturale e di travaglio sociale. L’adattamento si presentava come “una strategia di basso profilo, sommersa, senza differimenti di bisogni ed aspettative, portata avanti da una soggetto debole che in ultima istanza costruisce la sua identità quasi per differenza” (Cipolla, 1989, 19). Questo notevole capacità di adattamento alla realtà ebbe come prezzo l’incoerenza, che stava diventando, insieme alla soggettivizzazione dell’etica, uno degli aspetti più caratteristici della cultura giovanile. Le contraddizioni, emergenti dai comportamenti e dalle scelte giovanili, erano senza dubbio indici della frantumazione della cultura giovanile e della pluralizzazione dei percorsi biografici di maturazione personale. Ma esse rimandavano anche alle strategie di adattamento di fronte alla crescente complessità sociale. Era la complessità ad esigere comportamenti “incoerenti”. Essa poi, interiorizzata, diventava condizione esistenziale: segno della flessibilità e dell’adattabilità ai mutamenti richiesti dal contesto 14. 14 "La contingenza stessa, che per Luhmann è una proprietà dell'ordine temporale degli eventi esterni, diventa, per così dire una proprietà della percezione interna degli eventi, la matrice psicologica di quella sindrome complessa - destrutturazione, sperimentazione, paradigma della reversibilità - che tante ricerche sulla condizione giovanile hanno messo in luce” (Ricolfi Scamuzzi – Sciolla, 1988, 111). 11 3.1. I mutamenti di scenario nella società degli anni ‘80 Le strategie di adattamento dei giovani rappresentavano, pertanto, solo una faccia della medaglia, l’altra faccia era rappresentata dalle imponenti trasformazioni a livello economico, politico e sociale che caratterizzarono quegli anni. Pertanto l’analisi dei bisogni e valori giovanili non può prescindere dai mutamenti strutturali e culturali che stavano avvenendo nell’intera società. Furono essi a condizionare pesantemente la risposta giovanile: il mutamento dei bisogni manifestati dai giovani era frutto dell’interazione con un ambiente profondamente mutato. 3.1.1. Mutamenti a livello economico Negli anni ’80 l’economia riprese il sopravvento sulla politica, che negli anni ’70 aveva avuto un ruolo egemone. L’economia risolse le sue crisi cambiando radicalmente il modo di produzione e di distribuzione delle merci, e le stesse concezioni che l’avevano guidata per tutta la fase dell’espansione industriale. Per questo motivo questo periodo fu denominato “post-industriale”. A livello industriale la tendenza prevalente fu la “deverticalizzazione” dei grandi stabilimenti, con l’attribuzione all’esterno (piccole imprese) di parte del ciclo produttivo. Iniziò in quegli anni la rivoluzione microelettronica ed informatica. Il modello produttivo che s’impose fu quello della “Toyota”, che rese obsoleta l’organizzazione “fordista” o “taylorista” del lavoro. I termini emergenti furono “flessibilità”, “creatività”, “qualità”, “piccolo è bello”, superando le logiche disumanizzanti della catena di montaggio. La nuova industrializzazione comportò la dislocazione degli stabilimenti in aree più convenienti per il costo della manodopera. Nacquero i fenomeni della “delocalizzazione” delle industrie e della “globalizzazione” dei mercati. La terziarizzazione dell’economia si estese sempre più. L’intreccio tra terziario e cultura comportò una razionalizzazione dei comportamenti ed una ristrutturazione dei processi decisionali, un allargamento delle capacità conoscitive. Crebbe la domanda di qualità nella produzione. La scienza e la tecnologia ebbero un ruolo sempre più rilevante nei processi produttivi. Vennero incrementati i consumi. Per poter reggere all’aumento di produzione necessitavano nuovi bisogni che potevano essere soddisfatti solo da prodotti sempre più sofisticati. La spinta ai consumi fu sostenuta dalla pubblicità e dall’opera suadente dei mass-media. La nascita di tante radio e TV private si reggeva su questo presupposto. Il modello di vita occidentale e consumista venne diffuso capillarmente in tutti i continenti, creando un’omogeneizzazione della cultura e dei consumi, funzionale alla grande distribuzione, ma con effetti distruttivi sulle culture locali e disgregativi sul tessuto sociale. Un altro effetto di questa rivoluzione fu il problema occupazionale. La rivoluzione microelettronica e informatica, la “deverticalizzazione” e la “delocalizzazione” consentirono di ridurre notevolmente la manodopera o di avvalersi di manodopera a basso costo. La nuova fase espansiva creò lavoro in attività interstiziali, con proliferazione di tante piccole attività produttive precarie, si diffuse il lavoro occasionale, part-time, ecc. Tutto ciò permetteva di sfuggire più facilmente al controllo dei sindacati e degli ispettori del lavoro, con aumento del lavoro nero, sottopagato, senza protezione sociale. Questo tipo di produzione comportò, infatti, oltre all’espansione industriale, un aumento significativo di incidenti e i morti sul lavoro. La crisi occupazionale segnò significativamente la condizione giovanile di quegli anni. Se gli anni di transizione (1979-80) furono di ripresa economica, ciò non durò, perché legato a fattori effimeri (lavoro nero, economia sommersa, dilatazione spesa pubblica). Il resto dei primi anni ‘80 registrò un aggravamento del problema. Da una parte c’era l’urgenza di reinserire nel lavoro i disoccupati, prevalentemente adulti; dall’altra di accogliere i giovani alla ricerca del primo posto. Le misure legislative adottate per risolvere i problemi occupazionali dei giovani, pur lodevoli nelle intenzioni, non riuscirono a determinare una vera inversione di tendenza a causa della consistenza 12 quantitativa del fenomeno. Così il tasso di disoccupazione continuò a crescere nella prima parte del decennio, con allungamento dei tempi di ricerca della prima occupazione. Ciò favorì anche, tra i giovani, l'interesse per il lavoro indipendente, benché, l'occupazione dipendente conservasse una forte attrazione. Insieme ne venne una notevole flessibilità e mobilità, la disponibilità a "provare" professioni diverse, a "crearne" di nuove, a passare dal ruolo di studenti a quello di lavoratori a quello di inoccupati con notevole disinvoltura. In genere prevaleva un atteggiamento pragmatico, dove convivevano esigenze espressive accanto a quelle strumentali. Le difficoltà occupazionali, insieme all’allungamento del tempo di formazione e la procrastinazione del momento d’entrata nella vita adulta fece parlare della condizione giovanile come di un periodo di obiettiva “emarginazione”. Nel rilevare tale situazione Cavalli parlò di una trasformazione della fase giovanile da “processo” a “condizione”, con effetto macroscopico di allungamento della fase di socializzazione, ma anche di mutamento nei modi di vivere la giovinezza e nell’evoluzione verso la maturazione personale e sociale. 3.1.2. I mutamenti a livello politico La riscossa dell’economia segnò anche le vicende politiche. In vari paesi, a cominciare da Gran Bretagna e USA, salirono al potere partiti con programmi neo-liberisti. Ciò diede il via alla deregulation, che comportò riduzione di limiti, dei controlli e delle tasse all’iniziativa privata, privatizzazioni degli enti statali, ampie dismissioni e ristrutturazioni degli apparati produttivi. Ciò ebbe forti ripercussioni anche in Italia. Negli anni ‘80 la politica risentì di una certa stanchezza, frutto sia del lungo impegno dei partiti italiani nel combattere il terrorismo e confrontarsi con l’estremismo politico, ma anche della percezione dell’inadeguatezza nelle strategie politiche rispetto ai mutamenti sociali, economici e culturali. Mentre all’estero si facevano esperimenti neo-liberisti, in Italia prevalevano tentativi di riformare i partiti tradizionali adeguandoli alle mutate esigenze sociali. Ciò fece assumere alla politica italiana un orientamento molto pragmatico, nel tentativo di rispondere direttamente alle esigenze della società. Ciò consenti all’Italia di ottenere alcune progressi, “verso una libertà politica reale, sulla strada dell’uguaglianza e nella partecipazione alla vita sociale” (Malizia – Frisanco, 1991, 21). Accanto a questi progressi non mancarono le ombre. La politica, ispirata a questi criteri, si presentava vivace e dinamica, ma anche spregiudicata. In quegli anni, accanto alla soluzione di alcuni annosi problemi, all’impulso per nuove opere pubbliche e ad un trend migliore dell’economia, aumentò anche il debito pubblico e la corruzione nei partiti. Questi problemi si innestavano nella cronica lentezza della macchina burocratica italiana e nell’incapacità di fronteggiare realmente le emergenze di una società in rapida evoluzione. Emblematico, a questo proposito, fu il tentativo di risponder alla crisi del welfare state: adottando gli stessi principi dell’economia liberale: riduzione dell’intervento statale e promozione dell’iniziativa privata. Questa situazione generale non poteva non avere analoghi riscontri sul costume sociale. Anche in Italia si andavano diffondendo “i valori cosiddetti neo-borghesi come la competitività, la personalizzazione e la privatizzazione dei bisogni sociali, il rifiuto della mediocrità, la rivalutazione della professionalità e della responsabilità e la voglia di imprenditorialità” (Malizia – Frisanco, 1991, 22). Con essi, si estendevano individualismi esasperati, competitività rampante, prassi egoistiche e corporative. Si notava aumento di conformismo determinato dalla pubblicità, livellamento verso il basso, assemblearismo improduttivo, emergenza di un individualismo egoistico e corporativo. Anche molti giovani finirono per assumere questo tipo di valori. Da una parte infatti si assisté ad un progressivo disinteresse e allontanamento dalla politica e dalla militanza politica attiva; dall’altra, un certo nucleo di giovani fece propri i valori della competitività e li portò alla esasperazione, dando luogo a fenomeni sociali come lo “yuppismo”. 13 3.1.3. La scuola La scuola non rappresentò più, negli anni ottanta, un banco di prova e di scontro sociale, come nel decennio precedente. Nonostante alcune manifestazioni di protesta, rigorosamente “apolitiche”, nel complesso la maggior parte degli studenti (4/5) sembrava soddisfatta dell'istruzione ricevuta. La percentuale variava a seconda della percorso scolastico e lavorativo (Cavalli - de Lillo, 1988, 25). Si profilava ormai sempre più la convinzione che la scuola, anche se non obbligatoria oltre i 14 anni, lo fosse nella pratica. Chi la evitava sapeva di precludersi molte opportunità d’inserimento sociale e professionale. La condizione di studente diventa un passaggio obbligato dell’essere giovane, un referente ordinario dell’identità giovanile15. Ciò non voleva dire però che la scuola fosse amata: la pretesa di trasmettere il sapere a senso unico, lo sforzo che richiedeva, l'obsolescenza di tanti dei suoi metodi, l'incapacità di preparare effettivamente ad affrontare la vita, ad un'attività professionale la rendevano poco interessante. Però il giovane anni ‘80, molto realisticamente, aveva capito che, se la scuola non pagava più, non essere istruiti era oggettivamente un fattore di penalizzazione (Franchi, 1988, 11). Per cui era indispensabile rimanere nella condizione di studente, per approfittare delle opportunità offerte dal sistema scolastico, insieme a quelle offerte dall’extra-scolastico. In effetti in quegli anni ci si trovò di fronte ad un duplice andamento della domanda formativa: da un lato la crescita del numero di coloro che passano dalla scuola media inferiore alla superiore, dall’altro il calo di chi proseguiva gli studi con l’università. Venivano perciò privilegiati gli studi “brevi” finalizzati all’inserimento immediato nel mercato del lavoro (Bobba – Nicoli, 1988, 51). Va però riconosciuto che la scuola si trovava di fronte a problemi enormi, che superavano la sua portata: un mercato del lavoro sostanzialmente bloccato, la mancanza di strumenti adeguati per un effettivo coordinamento tra esperienze scolastiche e sistema occupazionale, compiti impropri di parcheggio della forza-lavoro. Tutto ciò rendeva difficile il rapporto tra scuola e società. Ecco allora il duplice sentimento di amore-odio che essa suscitava: si avrebbe voluto farne a meno, ma non se poteva. Scomparsa la conflittualità delle generazioni precedenti, c’era stato un ritorno all'impegno scolastico, pur in senso strumentale. “Visto che comunque a scuola bisogna andarci è meglio starci bene” – poteva essere il ragionamento di molti. Infatti la scuola era apprezzata per le possibilità di stabilire buoni rapporti con i compagni; anche con i professori si cercava, per quanto possibile, di stabilire relazioni accettabili (Cavalli - de Lillo, 1988, 26). Accanto a questo modello di adattamento positivo, si registravano quote minori di giovani che vivevano un rapporto conflittuale o fallimentare con la scuola. Erano i cosiddetti "drop-out", che avevano interrotto il loro rapporto con la scuola. Il fenomeno delle uscite dal sistema scolastico si intensificò tra i 15 ed i 18 anni, “in parte da attribuirsi al ritardato completamento del ciclo dell'obbligo o alla frequenza di cicli brevi post-obbligo, in parte a veri e propri abbandoni delle scuole medie superiori” (Cavalli - de Lillo, 1988, 20). A questi vanno aggiunti coloro che avevano subito gli effetti negativi della selezione scolastica. A fronte di un 54% che non aveva subito interruzioni nel ciclo di studi, un 30% aveva avuto percorsi “irregolari” ed un 16% “molto irregolari”. Questi dati erano correlati con condizioni sociali e culturali svantaggiate. 3.1.4. L’importanza strategica del tempo libero Lo sviluppo del tempo libero16, ottenuto sia con la riduzione o modifica dei tempi di lavoro, sia con la scolarizzazione prolungata, stava diventando una realtà molto importante negli anni ‘80, 15 16 “Essere giovani e essere studenti sta diventando (e certamente lo diventerà) un sinonimo” (Franchi 1988, 12). Non vogliamo in questa sede entrare nel merito della definizione di tempo libero, che è ancora oggetto di dibattito tra gli 14 tale da far credere imminente il compimento del vaticinio marcusiano di una società senza lavoro. Il tempo libero divenne un tempo strategico, su cui si concentrarono conflitti decisivi per il controllo del potere17, soprattutto attraverso i “media” e l’industria del tempo libero. Le ricerche IARD rilevarono una forte esposizione dei giovani ai mass-media: era l’attività che occupava la maggior parte del loro tempo libero. La parte del leone spettava alla televisione e alla musica, ma il cinema, pur meno frequentato, contava tra i giovani il pubblico migliore. La televisione assumeva sovente una funzione di “intrattenimento”, cioè di passatempo divertente e leggero, contribuendo ad alimentare forme di consumo passivo. Invece la lettura di libri e di quotidiani o riviste era riservata a pochi (Cavalli - de Lillo, 1988, 130). I giovani di quegli anni cercarono in quel tempo quella via di autorealizzazione che la scuola ed il lavoro rendevano sempre più incerta. In una ricerca sul “tempo dei giovani” (Cavalli, 1985) si constatò che quote consistenti di giovani vivevano il tempo libero come momento autentico di autorealizzazione ed autoespressione. Per alcuni il tempo libero era una risorsa da utilizzare per la costruzione di un progetto di cui ci si sentivano artefici e per cui si tentava di utilizzare tutte le opportunità offerte dalla società. Già la ricerca IARD dell’83 aveva rilevato l’importanza di questo settore nelle scelte dei giovani, che veniva subito dopo valori come la famiglia, il lavoro, gli affetti. Erano circa il 90% i giovani per i quali il tempo libero risultava “molto” o “abbastanza importante”, anche se solo il 70% ne era soddisfatto: segno di una certa discrepanza tra aspettative e realtà. Coloro che risultavano più soddisfatti erano quelli che avevano maggiori potenzialità materiali e culturali, che consentivano loro una miglior organizzazione dei propri bisogni. Dove queste potenzialità mancavano, o erano scarse, prevalevano atteggiamenti passivi nei riguardi del tempo libero. Infatti, risultò che, per altri, l’abbondanza di tempo produceva noia, indifferenza, apatia, abulia. Se il tempo fortemente strutturato, con richieste troppo elevate, creava facilmente ansia, il tempo lasciato ampiamente a disposizione dell’individuo rischiava di dare origine alla noia, per lo stress che veniva dal sottoutilizzo delle risorse. Si profilava così la “sindrome di destrutturazione temporale”, “caratterizzata da una forte frammentazione e labilità della memoria storica; da una contrazione dell’orizzonte temporale dei progetti; dall’assenza di criteri stabili di allocazione del tempo quotidiano” (Leccardi, 1987, 10; cfr. anche Cavalli, 1984, 39-40). La conseguenze furono frammentazione del tempo psichico, segmentazione del vissuto individuale, disturbi alla percezione temporale, difficoltà per la soluzione della crisi d’identità. Infatti, l’identità non passava più necessariamente per il lavoro, il successo professionale, ma piuttosto attraverso il tempo libero, che veniva sempre più investito da attese di autorealizzazione. 3.2. Materialismo e postmaterialismo negli anni ‘80 Le tendenze sociali, economiche e politiche emerse a livello nazionale ed internazionale suonarono come una smentita delle previsioni di Inglehart e misero in questione il suo modello interpretativo. In effetti, in quegli anni, accanto ad una crescita della tendenza postmaterialista, si registrarono significativi ritorni, anche nei giovani, a posizioni e valori di tipo materialista, effetto delle precarie condizioni, soprattutto a livello economico. Ma furono soprattutto i successi elettorali delle destre a mettere più profondamente in questione il modello di Inglehart. studiosi, e che le stesse ricerche IARD non chiariscono. Ricordiamo solo che esso può essere inteso come il tempo non occupato dai tempi sociali, oppure come tempo lasciato libero dal lavoro, o da altri impegni. Ma lo si può anche intendere come il contenitore delle attività, o delle attese, o degli atteggiamenti che si assumono in tale tempo. 17 Secondo Lalive d'Epinay sarebbero stati trasferiti nel tempo libero i rapporti di forza che prima erano agiti nel mondo del lavoro. I conflitti che caratterizzano la società sarebbero giocati “nella pratica delle attività di tempo libero, concepite come pratiche di consumo culturale” (Lalive d'Epinay, 1980, 87). 15 3.2.1. L’accentuazione della variabile “cultura” nel modello di Inglehart Inglehart, di fronte alle critiche rivolte al suo modello, non si limitò a registrare le provocazioni, ma rispose con vari articoli che raccolse in un libro: Culture Shift in Advanced Industrial Society (1990). In tale libro egli affermava che il carattere postmaterialista non andava misurato con le fortune politiche del momento, bensì con i valori ed i comportamenti della gente. Osservando i dati delle cross-national surveys18, egli sostenne essere in atto una progressiva, anche se lenta, affermazione del carattere postmaterialista nelle popolazioni dei paesi più evoluti. A conferma di ciò, citava il maggior favore che godeva tra i giovani la permissività sessuale, il controllo delle nascite, l’aumento dei casi di divorzio e la denatalità in tutto l’Occidente. In questo senso andava letta anche la maggior tolleranza e accettazione a livello pubblico dell’omosessualità. Certamente il processo si presentava lungo: bisognava aspettare che la socializzazione compiuta in epoche di prosperità e sicurezza producesse i suoi effetti. Una socializzazione lenta e progressiva, che subiva i contraccolpi delle varie situazioni ambientali. Momenti di crisi economica o politica producevano un aumento del carattere materialista, mentre periodi di tranquillità o sviluppo economico e sociale più facilmente davano luogo a caratteri postmaterialisti. Inoltre, bisognava considerare la possibilità di ridefinizione da parte dei partiti politici, che potevano fare o non fare proprio il programma postmaterialista. Così poteva esserci una nuova destra che favoriva più iniziativa e libertà nelle persone: e ciò si accordava con il carattere postmaterialista. Mentre poteva anche darsi una sinistra che si attardava a difendere l’intervento statale nella produzione ed il controllo sugli individui (come avveniva in quegli anni nell’URSS di Breznev). Succedeva allora che in alcuni paesi, “comunismo” fosse sinonimo di conservatorismo, e “destra” di progresso. Inoltre potevano verificarsi fenomeni di reazione di fronte all’affermazione dei valori postmaterialisti o ad altri fenomeni sociali che minacciavano una comunità. Per esempio, l’aumento di movimenti xenofobici contro gli immigrati rappresentava la reazione di fronte a ciò che sembrava minacciare l’identità nazionale, cioè i valori e le norme introiettati nel periodo della socializzazione. Nell’opera ribadiva ciò che aveva già avanzato come ipotesi nel ’71, che due sono gli elementi fondamentali che permettevano l’affermarsi del carattere postmaterialista: l’abbondanza e sicurezza sociale, la socializzazione. In quest’opera preferì soffermarsi sull’importanza della cultura nella strutturazione della personalità, soprattutto nel periodo “pre-razionale”. Le norme, interiorizzate a quell’età, affermava, risentevano del sistema culturale in cui si era cresciuti. Certe norme tradizionali rispondevano alle esigenze sociali dei tempi e ai bisogni in cui erano state formulate. Tempi in cui si cercava di controllare gli istinti perché non potevano essere soddisfatti altrimenti i bisogni elementari. “Non uccidere”, “non rubare” costituivano norme presenti in quasi tutte le culture e rispondono al bisogno di disciplinare socialmente bisogni di sicurezza e sopravvivenza generalizzati, creando un carattere cooperativo invece che competitivo. Queste norme venivano interiorizzate e funzionavano come un “poliziotto interiore”, più efficace del controllo armato. Ogni nazione aveva elaborato la sua cultura, le sue norme ed i suoi valori, a cui socializzare i suoi membri. Questo aveva determinato il “carattere nazionale”: elemento di assoluta importanza nella valutazione dei mutamenti a lungo termine. A questo punto introdusse una correzione importante alla teoria della “rational choice”, originariamente era basata esclusivamente su variabili economiche. Tale teoria, affermava, non teneva conto dei fattori culturali, i quali si rivelavano importanti nel lungo termine più che quelli economici, utili invece nelle spiegazioni dei mutamenti a breve termine. Ricorrendo alla teoria weberiana dell’importanza della cultura, svolse un’ampia dissertazione dimostrando come il carattere nazionale, rappresentato dalla religione, spiegasse molti fenomeni della modernizzazione e della rivoluzione industriale. Sottolineò come la rivoluzione industriale avvenne prima nei paesi di cultura protestante, poi cattolica e poi di altre religioni (soprattutto confuciana). Tale consequenzialità rimaneva una costante nel tempo (tolta qualche eccezione). Le nazioni a cultura 18 All’epoca dell’uscita del libro (1990) erano già 40 i paesi che avevano applicato il questionario Inglehart. 16 protestante raggiunsero per prime un buon livello di sviluppo economico-capitalista (come già Weber aveva dimostrato): una volta raggiunto un buon livello, il tasso di crescita economica, rallentò, mentre aumentava molto in altri paesi di cultura cattolica (Francia, Italia, Irlanda, ecc.) e confuciana (Giappone, Cina, Corea), che ebbero un tasso di sviluppo notevole negli anni successivi. Ma il livello di partecipazione democratica, di soddisfazione per la vita, di sviluppo dei valori postmaterialisti rimaneva ancora appannaggio dei paesi a tradizione protestante. Da questi dati Inglehart non trasse però la conclusione, come Weber, che fosse la cultura a determinare il tipo di sviluppo economico, bensì che le due cose erano interconnesse e interdipendenti. Anzi, non solo la cultura ma anche la politica. Perciò, cultura, politica ed economia erano, a suo giudizio, interdipendenti. Chiedersi quale fosse la più importante e venisse per prima era come chiedersi se fosse “nato prima l’uovo o la gallina”: non aveva senso, perché tutti e tre i fattori intervenivano nel delineare i tratti di una nazione. Un certo tipo di economia non era possibile se non c’era una cultura ed una politica che ne permettesse e favorisse lo sviluppo, e viceversa. Sviluppo economico, democrazia e carattere postmaterialista erano, per lui, tre aspetti tra loro collegati che si sostenevano a vicenda. Qualora se ne togliesse uno, anche gli altri sarebbero entrati in difficoltà. Se non ci fosse sviluppo economico non si darebbe carattere post-materialista (perché la gente sarebbe ancora preoccupata dei bisogni fondamentali), ma non si darebbe democrazia stabile nemmeno se non ci fosse una cultura adeguata che la sostenesse (ed il postmaterialismo favorirebbe la democrazia). Così pure non si darebbe sviluppo economico se non ci fosse un regime democratico, e così via. Quindi esisterebbe, a suo giudizio, una perfetta interdipendenza tra i tre sistemi. Inglehart concluse facendo notare la continua tendenza verso un’economia postindustriale, una maggior democrazia ed una cultura postmaterialista. Questo sembrava, a suo parere, essere il futuro del mondo, nonostante resistenze, involuzioni, contraddizioni. Queste tendenze andavano colte nel lungo periodo, osservando una grande mole di dati. Sul breve periodo agivano meglio previsioni che tenevano conto delle variabili economiche, che sovente davano origine a preoccupazioni o a senso di sfiducia, che a loro volta influenzavano le scelte elettorali e i valori di riferimento. Questo poteva spiegare, a suo giudizio, il momentaneo successo delle destre o le reazioni xenofobiche o fondamentaliste. 3.2.2. Indicazioni dalle ricerche europee Gli spostamenti valoriali furono colti da varie inchieste del tempo. Tra le più significative vanno annoverate le ricerche al livello europeo19. La ricerca EVSSG dell’81 evidenziò che, in Europa, alcune certezze morali si stavano dissolvendo: solo un quarto degli Europei dimostrava dei principi sicuri che consentivano di distinguere sempre il bene dal male. Molte credenze religiose si erano indebolite, quasi cancellate. Non solo la chiesa, ma anche altre istituzioni pubbliche venivano messe in discussione: i sindacati e la stampa, i parlamenti e le pubbliche amministrazioni, la politica. Reggeva solo la famiglia e il lavoro. Se da una parte alcuni valori tradizionali conservavano la loro importanza, era evidente uno spostamento verso posizioni “postmaterialiste”. Le giovani generazioni non davano più la stessa 19 Oltre alle ricerche promosse dalla CEE (Eurobarometro), vanno sottolineate quelle che ebbero luogo per iniziativa della Fondazione “European Value Systems Study Group” (EVSSG), costituita ad Amsterdam nella seconda metà degli anni ’70 con lo scopo di monitorare l’evoluzione del sistema di valori in Europa. Questa fondazione condusse delle inchieste ad intervalli regolari a livello europeo. La prima inchiesta fu condotta nel 1981 in 9 paesi della CEE (+ Irlanda del Nord) ed affidata per la cura del rapporto al prof. Jean Stoetzel. Un approfondimento per l’Italia fu affidato a persone del CENSIS e venne pubblicato a cura di C. Calvaruso e S. Abbruzzese. La seconda inchiesta fu condotta nel 1990 e seguita, per l’Italia, dall’Università di Trento (R. Gubert) che divenne il punto di riferimento per l’EVSSG in Italia. Fu poi ripetuta nel 1999. Un analogo progetto venne studiato al livello mondiale dando origine al World Value Surveys (WVS), coordinato da Inglehart, che coinvolge ormai 70 paesi. In analogia, l’EVSSG divenne più semplicemente EVS (European Value Study). 17 importanza alle virtù tradizionali che sostituivano con nuove virtù, come l’immaginazione e lo spirito d’indipendenza. Tuttavia le loro posizioni non coincidevano nemmeno con quelle degli “estremisti di sinistra”, che potevano, per certi versi, essere assimilati ai “postmaterialisti” di Inglehart. Solo metà dei giovani approvava una completa libertà sessuale e la convivenza senza essere spostati riguardava una debole minoranza. Certamente l’arrivare vergini al matrimonio era considerato sempre meno importante, tuttavia i tre quarti degli Europei rifiutavano di considerare il matrimonio un’istituzione superata: la fedeltà tra i coniugi era considerata importante ed augurabile. Un’eventualità spesso rifiutata era lo smembramento della famiglia. I dati emersi da questa ricerca indicavano una situazione fluttuante, non omogenea: il sistema di valori che aveva retto l’Europa fino a qualche anno prima sembrava non tener più, ma non appariva ancora all’orizzonte un nuovo sistema di valori, che potesse rimpiazzarlo. Le persone sembravano aderire in parte a valori tradizionali e in parte essere alla ricerca di nuovi. Ciò provocava una frantumazione nelle adesioni valoriali e nei mondi simbolici che poteva dare l’impressione di una crisi dei valori. Pertanto, il bisogno di senso o di significato divenne uno dei valori più avvertiti in questo tempo, anche se non più espresso attraverso l’adesione ad una religione di chiesa, bensì come ricerca individuale e personalissima di un senso e significato alla vita. 3.2.3. I valori dei giovani italiani La sezione italiana della ricerca EVSSG rilevò molte convergenze tra il campione italiano e quello europeo. Le differenze più notevoli riguardavano: lo scarso livello di scolarizzazione; la percentuale di giovani, tra i 18 ed i 24 anni, conviventi con i loro genitori (80%, contro una media europea del 64%); la bassa percentuale di aderenti ad organizzazioni di qualsiasi tipo. Le scelte dei giovani non apparivano molto diverse da quelle del campione adulto, al massimo si segnalavano per un’accentuazione delle tendenze in corso. In particolare, nella sfera religiosa, essi dimostravano maggior relativismo morale, scarsa fiducia nella chiesta cattolica, una minor pratica religiosa. Non ritenevano che il comportamento sessuale dovesse essere sottomesso a delle regole morali indipendenti dalle scelte degli individui. Alla caduta di attenzione nei confronti dell’insegnamento morale della chiesa e alla messa in discussione della sua validità non corrispondeva però un’analoga flessione nella sfera del sacro. Analoghi riscontri erano riscontrabili nella sfera della famiglia. Il 72% era d’accordo sul fatto di amare e rispettare i propri genitori. Se per la maggioranza il matrimonio non era un’istituzione sorpassata, alla riuscita contribuivano la fedeltà, la stima ed il rispetto reciproci, la comprensione e la tolleranza ed, infine, l’accordo sessuale. Assieme al riconoscimento dei valori radicati nell’etica collettiva emergevano i tratti di una nuova moralità: il 78% dei giovani individuava nella fine dell’amore di uno dei coniugi verso l’altro, uno dei motivi sufficienti per chiedere il divorzio. Anche i partiti politici stavano perdendo consenso: il 46% dichiarava di non sentirsi vicino ad alcun partito politico. Ma il 69% affermava che “bisogna migliorare a poco a poco la società con la riforma”. Le istituzioni non godevano in genere di molta fiducia. Quella che ne godeva di più era la polizia (56%), seguita dall’università (52%), e poi dalla chiesa (48%). Poca ne godevano le istituzioni politico-sindacali (28%). Il futuro si preannunciava incerto, ciò produceva contrazione dell’orizzonte temporale, per cui il 64% preferiva “vivere alla giornata”. Nel lavoro era importante la sicurezza del posto e una buona paga, ma molto più importante “svolgere un lavoro interessante”, che servisse a qualcosa e fosse utile alla società, piuttosto che un lavoro “rispettato dalla gente”, “non pesante” o “con lunghe vacanze”. Più in generale il 60% non era d’accordo nel dare, in futuro, meno importanza al lavoro. 18 Per i grandi interrogativi esistenziali, il 41% dei giovani intervistati ammetteva di pensare spesso al senso ed allo scopo della vita, il 41 % dei giovani dichiarava di avere pensato non di rado che la vita non avesse alcun senso. Nonostante tali elementi di incertezza, solitudine e crisi di significato, ben 1’82% si dichiarava “molto” o “abbastanza felice”. Appariva evidente che la famiglia e la professione continuavano ad essere sede di valori sociali e non si riducevano a semplici strumenti di gratificazione personale. In esse si rielaboravano valori nuovi come l’onestà, le buone maniere, il senso di responsabilità e la lealtà, la tolleranza e rispetto per gli altri. Nessuna delle qualità indicate era individualistica, ma tutte rinviavano al sistema sociale nel quale il singolo era inserito. In altri termini, erano tutte qualità relazionali, che trovavano la loro estrinsecazione nel momento in cui l’individuo entrava in rapporto con gli altri (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 172-173). Riemergeva anche in questa ricerca quella dimensione civica della vita associata, già riscontrata qualche anno prima da Ricolfi e Sciolla (1981). Pertanto gli autori registrarono “una profonda ed estesa vocazione civile, che, scavalcando spesso le singole istituzioni, ricoglie la radice di valori collettivi di fondo” (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 176). Insieme a questa riscoperta notarono che non appariva “né una progettualità specifica di mutamento dell’esistente, né un riconoscimento gratuito alle singole istituzioni” (Calvaruso Abbruzzese, 1985, 176). Se la rivolta generazionale, la critica radicale sembravano scomparsi, al loro posto emergeva un rispetto profondo per le idee altrui ed una vocazione sociale, ciò non significava una delega in bianco per nessuna istituzione, la quale, in ogni caso, doveva riconquistarsi la propria legittimità (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 177). 3.2.4. Bisogni materialisti e postmaterialisti nelle indagini IARD La ricerca IARD dell’87 inserì una domanda specifica sui valori materialisti/postmaterialisti impiegando l’indice corto di Inglehart20. Le risposte rivelarono l’influenza dei fattori politico-economici e sociali sui giovani italiani, con un ritorno a valori e bisogni di sicurezza che sembravano superati nel decennio precedente. I ricercatori, infatti, rilevarono “un forte bisogno di ordine e sicurezza economica” (Cavalli - de Lillo, 1988, 83), non controbilanciato da altrettanta attenzione ai valori postmaterialisti. Incrociando ed elaborando le risposte i ricercatori ottennero delle indicazioni importanti, espresse nella seguente tipologia: a) materialisti-autoritari (lotta all’inflazione o alla disoccupazione e mantenimento dell’ordine): 35.2%; b) liberal-materialisti (libertà di parola e lotta all’inflazione o alla disoccupazione): 26.6%; c) materialisti (lotta all’inflazione e alla disoccupazione): 20.8%; d) democratico-materialisti (maggior potere alla gente e lotta all’inflazione o alla disoccupazione): 14.2%; e) postmaterialisti (libertà di parola e maggior potere alla gente): 2.7% (Cavalli - de Lillo, 1988, 83). Da questa analisi appare evidente, oltre alla prevalenza dei valori materialisti ed del bisogno di sicurezza sociale ed economica, la mescolanza di valori post-materialisti con preoccupazioni materialiste, mentre i postmaterialisti “puri” non arrivavano al 3%! Anche un approfondimento su questi dati mediante analisi fattoriale, condotto per proprio conto da Ricolfi, rivelò che “gli items materialisti hanno un impatto sul livello generale di soddisfazione per la vita in generale di oltre cinque volte superiore rispetto a quello degli items postmaterialisti” (Ricolfi, 1990, 501). Proseguendo nella sua analisi, fece osservare come il quadro 20 Per un incidente tecnico in quest’edizione della ricerca fu inserito un item in più (“combattere la disoccupazione”) che ottenne un’adesione plebiscitaria (57,6% per il primo posto, 28,8% per il secondo), rendendo difficile la comparazione sia con i dati delle ricerche di Inglehart sia con le altre ricerche IARD. 19 si presentasse frastagliato e di non facile lettura. Apparivano posizioni contraddittorie all'interno dell’universo culturale giovanile. I giovani italiani risultavano “materialisti sul piano dei valori e dei modelli culturali e postmaterialisti sul piano delle preferenze” (Ricolfi, 1990, 522). Tuttavia, a parziale conferma delle ipotesi di Inglehart, si può far osservare che i valori postmaterialisti erano più presenti tra i ceti più progrediti e in grado di gestire meglio la propria vita (impegno politico e sociale, visione più chiara del futuro), mentre “le componenti materialistiche ed autoritarie si rafforzano in combinazione con quei tratti culturali e di personalità che tendono al fatalismo e al senso di impotenza nel governare il proprio futuro” (Cavalli - de Lillo, 1988, 84). Ciò confermerebbe l’ipotesi che si accede ai valori postmaterialisti solo quando siano stati soddisfatti i bisogni di tipo materiale e che questo si correli con il tipo di cultura interiorizzata nel periodo formativo. 3.3. Valori prevalenti nella coscienza giovanile degli anni ‘80 Dai dati analizzati appare una certa contraddittorietà nelle interpretazioni del verso di marcia dei giovani e della società. In particolare il carattere postmaterialista per alcuni sembrava in aumento e per altri in regressione. Forse erano vere entrambe la proposizioni: si sa infatti che una certa ambivalenza è insita nei fatti sociali, soprattutto in tempi di complessità. Nel tentativo di comprendere l’andamento della gioventù in tema di bisogni e valori, possiamo tentare una lettura più accurata di alcuni dati. Dalle ricerche, sia IARD che di altra fonte, emerse la seguente gerarchia valoriale dei giovani negli anni ‘80: a) preminenza dei valori affettivi, relazionali, espressivi; dei sentimenti, del privato (famiglia, amicizia, amore) b) persistenza della tensione autorealizzativa (lavoro, salute, viaggiare, tempo libero, divertimento) c) sempre minor importanza, ma non scomparsa, di alcuni dei valori acquisitivi (carriera, successo, affermazione, stima sociale),. d) poco impegno sociale, politico, religioso; scarsa risonanza di temi quali l'uguaglianza, la giustizia, la solidarietà sociale. Ciò che colpisce è la scarsa rilevanza dell'impegno socio-politico e la preminenza dei valori espressivo-affettivi, soprattutto se posti a confronto con quelli della generazione precedente. Molte delle scelte valoriali degli anni ‘80 non si ponevano però in senso antinomico, bensì palesavano una buona capacità di composizione, frutto del pragmatismo tipico dell’epoca. Ciò permetteva di combinare insieme valori e bisogni in sé molto diversi e ritenuti, in altri tempi, incompatibili. Questa situazione di frammentazione dei comportamenti e dei sistemi di valore all'interno del mondo giovanile rendeva difficile una lettura unitaria e mettevano in crisi i tradizionali modelli di spiegazione causale lineare. Non appariva più un unico fattore capace di spiegare i mutamenti né una cultura giovanile dominante o un carattere prevalente, cui rifarsi. L'identità giovanile si mostrava sostanzialmente frammentata, dispersa: più un miscuglio di culture che una cultura a sé. Anche i comportamenti individuali rivelavano una vocazione all'eclettismo e all'indifferenza. Soprattutto non appariva più un tipo "puro" che aderisse totalmente ad un’area di valore. Si assisteva in quegli anni alla compresenza in uno stesso individuo o gruppo sociale di elementi di espressività e di acquisività, di competitività e di solidarietà, di tradizionalità e di ultramodernità. Così anche i bisogni non apparivano più disposti in forma organica e gerarchica, come Maslow ed Inglehart avevano ipotizzato. Ciò non consentiva però di affermare che essi non apparissero, solo che la combinazione di scale di valore diverse manifestava una diversa coscienza del bisogno. Non erano cambiati i bisogni, era bensì venuta meno la percezione di una priorità nella soddisfazione. Il giovane di quegli, se impossibilitato a soddisfare un bisogno, preferiva cercare un 20 altro modo per placarlo, ed eventualmente cambiava l’ordine d’importanza da attribuire ad un singolo bisogno. I modelli interpretativi prevalenti del momento erano orientati a leggere tali comportamenti come risposte adattive alla complessità emergente e alla sostanziale ingovernabilità dei sistemi. In questo modo, agire strumentale e agire comunicativo non si escludevano, ma si integravano a vicenda. Lo stesso concetto di autorealizzazione, come quello di identità, non scomparvero, ma si adattarono, cercando delle vie di soddisfazione accessibili ai propri mezzi. Ma era soprattutto la ricerca di un “senso” che caratterizzò quell’epoca, come riconobbe un autore: “autorealizzazione è, infatti, la consapevolezza di non volere rinunciare ai propri interessi personali; autorealizzazione è anche l'attribuzione di senso ai rapporti con gli altri e con il mondo quotidiano; autorealizzazione è infine il coinvolgimento verso nuovi obiettivi sociali e civili” (Buzzi, 1986, 74). D’altra parte, come riconosceva un altro, “la ricerca di senso è un comportamento tipico di tutti gli uomini quando attraversano momenti particolarmente densi di difficoltà” (Milanesi, 1982, 4). 3.3.1. La caduta della solidarietà sociale Il distacco dei giovani dalla politica, intesa come militanza o come “dimensione pervasiva che informa di sé tutte le attività e le relazioni umane” (Cavalli - de Lillo, 1984, 85), nel corso degli anni ’80 si fece sempre più evidente. Ciò poteva indicare che le ideologie e la militanza politica non costituivano più una fonte di identificazione e non erano più capaci di mobilitare le masse giovanili. In compenso cresceva l’adesione a temi, come la pace, il disarmo, la scuola, l’ambiente. Su tali temi si registravano improvvise, quanto discontinue ed episodiche, mobilitazioni giovanili, soprattutto studentesche. Ciò poteva indicare il venir meno di un concetto classico di partecipazione politica, intesa come “una forma di agire dotata di un minimo di organizzazione e di continuità” (Cavalli - de Lillo, 1988, 92). La tendenza a mobilitarsi su temi “issue oriented”, poteva invece dare ragione alle ipotesi di Inglehart, che la interpretava come una “democratizzazione” della politica; ma poteva anche confermare l’ipotesi della “strategia dell’evitamento, descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi” (Ferrarotti, 1986, 15). Lo stesso aumento di partecipazione a forme di volontariato, all’associazionismo e all’aggregazione di base, o ad iniziative localistiche indicava la rottura di solidarietà socialmente consolidate ed il ripiegamento su solidarietà “corte”, immediatamente controllabili, fungibili, e fonti di gratificazione immediata. Il venir meno di un mondo di realtà condivise spezzava le solidarietà faticosamente costruite nel corso delle lotte operaie dell’800 e della prima metà del ‘900. Tutto ciò veniva ricondotto, dalla lettura di alcuni autori, alle logiche della società complessa, che frammentava gli universi simbolici e scomponeva le appartenenze, per cui tutto diventava relativo. Mancando delle "strutture di plausibilità", che rendessero comprensibile il proprio mondo ed evidenti i motivi per cui impegnarsi in esso, ne nascevano movimenti tendenti a supplire a tale mancanza. Ecco allora la frantumazione delle esperienze e dei sistemi di significato. Di qui la "sindrome privatistica" (Ardigò, 1980, 74): mancando un progetto collettivo ci si ritirava nella sfera individuale, privata. Si pensava solo a salvare se stessi, avendo perso ogni prospettiva e speranza di salvare gli altri. Non percependo le mete della società come proprie, si preferiva ripiegarsi su se stessi, sulla sfera privata, rinchiusa nell'orizzonte della quotidianità. Ciò portava a forme di “narcisismo” e di “solipsismo sociale”, che non era autarchia o segregazione, ma “apertura al contesto per singole dosi, senza precedenze sociali, […] morte dello spazio pubblico, […] disincanto e disimpegno” (Cipolla, 1989, 10). “La solidarietà o è posta al servizio di un ideale esterno che la eleva e la purifica, per così dire, o rimane un fatto in fondo narcisistico, di pura gratificazione personale, particolaristico” (Cipolla, 1989, 8). 21 3.3.2. La crescita dei rapporti interpersonali come domanda di senso La realizzazione di sè, pur non escludendo il riferimento alle grandi mete ideali, era ricercata invece nel confronto e nella comunicazione interpersonale da vivere in piena aderenza alle esigenze offerte dal "quotidiano". Venendo meno le evidenze comuni e condivise, si cercavano sistemi di significato che aiutassero a superare il senso di vuoto, che dessero senso al proprio agire contingente, senza pretese di validità universale. Queste evidenze venivano cercate nel mondo vitale, "regno di evidenze originarie". Ma tra esso ed il sistema sociale non c’era più connessione (Ardigò, 1980, 23). Di conseguenza veniva meno il consenso verso le istituzioni e diventava assai più difficile l'integrazione sociale. Il mondo vitale diventava l'unico produttore di senso ed in esso ci si rifugiava di fronte alla complessità della vita ed alla sua incomprensibilità. Così si cercava "un nuovo senso comune attraverso la festa, la poesia, la musica, anche attraverso aggregazioni informi di masse di spettatori, soggettività ormai emarginate o autoemarginate" (Ardigò, 1980, 57). La strategia adottata dalla maggior parte dei giovani fu quella di valorizzare i rapporti del “mondo vicino”, luogo di evidenze originarie e nei rapporti faccia a faccia, per ricostruire un senso, un rapporto sociale. D’altra parte queste esperienze si rivelavano anche funzionali a ricostruire un’identità altrimenti scomparsa a livello sociale. L’esperienza del gruppo, per esempio, risultava funzionale alla crescita dell’autonomia sociale dell’adolescente. Esso acquisì un ruolo fondamentale nel processo di formazione dell’identità: “luogo di elaborazione di senso” e “mondo vitale”. Esso inoltre soddisfaceva i bisogni di amicizia e amore. L’esperienza di coppia servì alla ragazza anche per negoziare maggior autonomia dalla famiglia e per partecipare più attivamente alla vista sociale esterna. Il fatto, poi, che la famiglia fosse riuscita a adattarsi alle esigenze dei suoi membri (Cavalli - de Lillo, 1988, 110), rendeva possibile sviluppare la propria autonomia senza produrre rotture insanabili e fuoriuscite precoci dalla famiglia. In tal modo si delineavano le tappe della socialità e dei rapporti primari: dalla famiglia al gruppo per concludersi nel rapporto di coppia: “la famiglia sarebbe il luogo della strumentalità materna e dell’espressività paterna, mentre il gruppo assumerebbe la funzione di ambito privilegiato di comunicazione celata agli adulti, libera e capace di superare nella sua concretezza l’astrazione impersonale, concepita come valorizzazione della soggettività, ed infine, la operazione autarchica di coppia porterebbe ad un amore più romantico nella ragazza e più pragmatico nel ragazzo” (Cipolla, 1989, 59). 3.3.3. Ruolo del tempo libero e dei consumi nella definizione dell’identità Anche le attività di consumo risultarono funzionali alla costruzione dell’identità. Diventando sempre più incerte e precarie le possibilità di inserimento professionale, agli adolescenti non rimase che il ruolo di consumatori per sentirsi protagonisti nella società. Il consumo stava così acquistando un ruolo sociale “ben diverso da quello storico di mera sussistenza, di pura soddisfazione dei bisogni primari o di necessario complemento alla produzione” (Cipolla, 1989, 35). Esso divenne un’espressione di “opzione di valore, di senso, cioè indicatore forte e non occasionale di identità personale” (Cipolla, 1989, 36). In esso “il giovane tenderebbe ad esprimere fino in fondo le proprie vocazioni, a manifestare la propria carica ideale, a mostrare la direzione delle proprie fedi, a suggerire strategie o tattiche di innovazione sociale” (Cipolla, 1989, 57). Ciò spiega il forte investimento economico-culturale sui consumi. Questa sostituzione del tempo di lavoro e delle capacità professionali con il tempo libero e le possibilità di consumo "come sede della identificazione individuale e sociale dell'individuo" (Ancona, 1988, 18), produsse, come esito, un’identità sempre più passiva e dipendente dal consumo: i valori della produzione furono rimpiazzati da quelli del consumo. Tale tipo di identità 22 non poteva farsi progetto, perché “non rinvia al domani, né al ieri, ma all’oggi; [… ] non è dunque tradizione né innovazione, non è bisogno primario, ma neppure post-materialismo […]. È comunicazione visiva, […] è esteticità, attenzione a se stessi, preminenza delle proprie idee e dei propri desideri. Esporsi, vedere, essere visti, aprirsi al mondo attraverso la musica […]. Essi ci indicano una forma della coscienza giovanile sempre più forma” (Cipolla, 1989, 58). Dagli incroci delle inchieste IARD appariva però evidente la diversità nell’approccio ai consumi in relazione al livello culturale: più la famiglia era colta ed il figlio preparato, più questi risultava capace di scegliere consumi culturali o associare attività consumistiche ad attività colte e quindi di cogliere meglio le opportunità a disposizione nel tempo libero. Chi invece non aveva adeguati supporti culturali era più indifeso di fronte al potere persuasivo dei media e delle strutture di consumo (Cavalli - de Lillo, 1988, 124-132). 3.3.4. La domanda di senso come “bisogno religioso”? Di fronte al riemergere della domanda di senso qualcuno si chiese se ciò poteva essere interpretato come segnale di un “bisogno religioso”? L’inchiesta “Oggi credono così” (Milanesi, 1981), distinguendo tra bisogno (o domanda) e risposta, rilevò che: a) Esisteva una domanda esplicita di religione, anche se non maggioritaria. Il “ritorno al sacro” era più sul piano qualitativo che su quello quantitativo. b) Questa domanda religiosa rischiava molto quando cercava i canali entro cui esprimersi: parte di essa si vanificava in una privatizzazione che era funzionale solo ai bisogni di sicurezza e di equilibrio psicologico, mentre soltanto una piccola parte cercava un costante equilibrio tra fede e prassi, tra identità settaria ed integrazione ecclesiale, rischiando anche forme di ghettizzazione, forme di integrismo, o forme di secolarismo (Milanesi, 1981, 361-368). In pratica si riconobbe che la religiosità dei giovani di quella generazione era sottoposta ad una forte spinta verso la soggettivazione e la privatizzazione, da intendersi sia come "psicologizzazione" della religione, cioè come utilizzazione della religione a strumento di soluzione e risposta ai propri problemi psicologici, sia come tendenza al consumo passivo ed individualistico della religione. Il carattere soggettivo era presente però anche in termini di domanda di protagonismo dei giovani nei riguardi della religione. Essa era riconoscibile come una spiccata disponibilità alla riappropriazione del fatto religioso in chiave personale, accompagnata da un certo distanziamento dal modello istituzionale e da una esplicita richiesta di fare esperienza religiosa in aggregazioni vivaci (Mion, 1986, 514). Pertanto il bisogno di senso poteva anche incontrare la risposta religiosa, ma sempre in una prospettiva che riguardava “l’autorealizzazione, l’autoassicurazione (e cioè la capacità di darsi autonomia e sicurezza da soli), l’identità individuale, le proprie esperienze strettamente personali, emotive ed affettive, i rapporti interpersonali immediati” (Milanesi, 1982, 6). La domanda di senso nasceva là dove i bisogni della sfera del privato risultavano minacciati dalle incongruenze del pubblico e perciò come prevalente domanda di liberazione personale, più che collettiva. 3.4. Conclusione: ricerca di senso e di identità in un contesto mutato Sintetizzando, si potrebbe dire che la “filosofia” sottesa agli atteggiamenti emersi dalle ricerche sui giovani degli anni ‘80 manifestava: 23 a) una tendenza alla cultura del privato, nel senso della personalizzazione autorealizzatrice del sistema bisogni/interessi/ideali/valori ed una propensione verso la soddisfazione privata di tale sistema; b) una tendenza ad una certa segmentazione del vissuto individuale che si manifestava come frammentazione del tempo psichico (incapacità di riconciliare insieme passato, presente, futuro} e frammentazione del vivere quotidiano, (incapacità di comprendere in modo unitario le diverse esperienze di vita attorno a dei valori fondanti); ciò faceva supporre una difficile integrazione interna dei sistemi di significato che si manifestava come gap tra «bisogni» e «progetti», tra «percezione valoriale» e «condotta operativa», tra «vissuto intenzionale» e «vissuto esperienziale»; c) una tendenza ad un modesto livello di fiducia nella possibilità di realizzare grandi ideali ed una propensione pragmatica, invece, verso progetti di concreto profilo direttamente controllabili dai giovani; ciò non significava assenza di ideali quanto il bisogno e l'esigenza di verificarli nel quotidiano, senza abbandonarsi a grandi e globali progetti di rinnovamento (Bucciarelli, 1988, 164-165). Tali tendenze erano il frutto delle strategie di adattamento ad un società sempre più complessa, “veloce”, indecifrabile. Le tecniche di adattamento indicavano una notevole soggettivizzazione dei processi e degli obiettivi. In tutto questo si manifestava “il passaggio tra un modello antropologico ed etico oggettivo e naturale, giocato sulla assimilazione dei progetti che investono la persona dall'esterno e un modello che tende a fondarsi sulla personale autonomia, legato alla coscienza di sé, la cui forza normativa è espressa dal consenso soggettivo” (Bucciarelli, 1988, 165). Era visibile in tutto ciò un diffuso bisogno di riscattare la propria soggettività, con tendenze pragmatiche e povere di mediazioni (tendenza alla deistituzionalizzazione e alla deideologizzazione). Di qui il contrasto tra una marginalità oggettiva e il tentativo di recupero di una centralità soggettiva attraverso una riduzione intenzionale della complessità. La domanda verso i nuovi valori veniva perciò espressa in termini di realismo: ideali, valori, progetti, aspirazioni, attese di senso risultavano “eventi” segnati da una visione a corto respiro; vi era nei giovani una certa tensione etica, mai disgiunta dalla propria soggettività o dal proprio progetto di “piccolo e concreto profilo”, ma tale tensione era più nutrita di “buon senso” e di un pragmatico narcisismo esistenziale che di scelte ideali o di progettazioni alternative. Si trattava di giovani realisti e disincantati, risucchiati nel quotidiano; con un’esistenza senza chiaroscuri violenti e senza progetti omnicomprensivi. Essendo tutto consegnato alla soggettività ed ad un pragmatismo immanente, era difficile decifrare in tali manovre una precisa linea di manifestazione dei bisogni. Se questa c’era, essa rispondeva più a dinamiche personali, che a strategie comuni e oggettive. Tuttavia nei vari metodi di adattamento molti autori riconobbero il perseguimento di due bisogni essenziali: definire l’identità e dare un senso all’esistenza. Solo che questi bisogni si manifestavano in maniera diversa rispetto al passato. 3.4.1. L’emergenza di un’identità fragile L’identità appariva di gran lunga il bisogno più urgente nel nuovo contesto sociale. Ma era un’identità cercata e definita su indicatori e con processi ben diversi dal passato. Nel passato, infatti, la definizione dell'identità era affidata prevalentemente alle istituzioni, responsabili della socializzazione e dell’educazione. Negli anni della contestazione essa era stata assolta dalle ideologie e dalla mobilitazione politica, che tentava di rendere operativo il progetto sociale. Dalla fine degli anni ‘70 la costruzione dell'identità risentì profondamente del nuovo contesto, caratterizzato da forte complessità culturale e strutturale e segnato da un intenso pluralismo 24 ideologico; era inoltre tramontata la possibilità di governare il processo attraverso agenzie di riferimento e di controllo. I giovani degli anni ’80 considerarono la propria identità come “provvisoria” e continuamente da ricomporre perché esposta ai flussi complessivi dell'esperienza sociale, per questo tendevano a prediligere nei rapporti personali una comunicazione più diretta e privatizzante, il piacere immediato e momentaneo, la sensazione maggiormente espressiva, la crescente coincidenza tra fini collettivi e bisogno individuale di scambio emotivo, la soddisfazione dei desideri che spesso scambiavano per bisogni reali, l'assunzione del relativismo valoriale. Al modello tradizionale d’identità, definito come “forte”, contrapposero un’identità “fragile”: il soggetto perdeva la forza di un’identità innestata su fondamenti sicuri. L'identità “fragile” risultava così più ricca di interrogativi che di punti esclamativi. Tuttavia, chi la viveva, non la percepiva pero come una situazione patologica, che producesse sofferenza; essa era ciò che gli serviva in quel momento e ciò gli bastava. Non era un'identità in crisi, ma un'identità per un tempo di crisi; non un'identità debole nell’accezione dell'incertezza, ma della parzialità e della frammentarietà; non un'identità debole perché disattenta di sé, ma una fragilità dovuta al fatto che la realtà giovanile si presentava spesso come un arcipelago di isole autarchiche, non eccessivamente interessate a giocarsi a fondo nella comunicazione (Bucciarelli, 1988, 166). 3.4.2. Un modo nuovo di ricercare il «senso» della realtà personale e collettiva Anche il bisogno di senso, già fin dalla ricerca europea EVSSG, apparve come uno dei bisogni perseguiti con più insistenza dai giovani anni ’80. Ma anche la domanda e la ricerca di senso risentiva della situazione sociale appena descritta. Dalle ricerche sui giovani intervistati, apparivano prevalenti valori/interessi più di natura autocentrica che allocentrica, con progetti centrati su obiettivi immediati, realistici, quotidiani, particolaristici, familistici con scarso respiro solidarista. Pertanto il senso e significato era cercato più dentro di sé, o nel proprio “mondo vicino”, che nell’“ulteriore”, società o trascendente che fosse. Giovani così realisticamente assennati e pragmatici dal punto di vista esistenziale da diventare individualisti da un punto di vista sociale. La ricerca del “senso” della vita e delle cose, depurata da ogni riferimento ideologico o metafisico, non era più un qualcosa da comprendere, ma da sperimentare e da vivere; l'attenzione si spostava dalla sfera cognitiva alla dimensione esperienziale. Il “senso” non era un dato da scoprire e da accogliere, ma da produrre, momento per momento, nel frammento di vita concesso. Ciò indicava “il passaggio dal tradizionale confronto con i valori, intesi come indicatori del senso oggettivo del reale, alla ricerca di valorizzazioni, come espressioni soggettive di quello che una persona valuta importante per sé” (Bucciarelli, 1988, 167). Tutto ciò poneva problemi sul “peso” che poteva avere un “senso”, i cui riferimenti non andavano oltre il contingente e l’esperienza immediata. Parecchi autori ritenevano che questo bisogno si manifestasse piu con i caratteri dell’assenza che della presenza; che nei giovani di quell’epoca ci fosse una certa vergogna o pudore a rivelare aspirazioni “più alte”. Ciò poteva essere letto come una manifestazione di “vuoto”, un appello indiretto a qualcosa d’altro che non si voleva nemmeno nominare, per non evocare traguardi impossibili. Poteva essere indice sia della lezione appresa dalla disillusione della generazione precedente, sia dell’accentuato pragmatismo di fronte all’insensibilità e immodificabilità del sistema sociale. Ma poteva anche essere visto, dal punto di vista dei bisogni, come segno di una «generazione appagata», “non più «figlia di un benessere desiderato», ma di un «benessere goduto», […] tentata di adagiarsi sui risultati ottenuti (beni strumentali ed espressivi), mortificando il gusto di scoprire e soddisfare nuovi bisogni e valori o cedendo, sulle ali dell’immaginario simbolico, ad una qualità del vivere quotidiano il cui senso è più nella linea dell’artificio effimero che dell’autenticità umana” (Bucciarelli, 1988, 167). 25 4. Gli anni ’90: i giovani in una cultura postmoderna Nel quadro relativamente tranquillo e scontato degli anni ottanta, si inserirono avvenimenti di portata internazionale che sconvolsero gli assetti tradizionali e rimisero in discussione il quadro politico consolidato. Questi hanno preso l’avvio con il sovvertimento politico avvenuto nel blocco sovietico alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90. L’avvenimento più rilevante fu, simbolicamente, la caduta del muro di Berlino (1989), con l’implosione dell’impero sovietico, la sua dissoluzione in tante repubbliche nazionali e, di conseguenza, la frantumazione dell’Est europeo. Tali vicende sconvolsero la storia e cambiarono la geografia politica del pianeta. L’effetto più rilevante, a livello mondiale, fu la caduta del principale baluardo dell’ideologia comunista, la conseguente crisi delle visioni del mondo ispirate a forme di egualitarismo sociale o socialiste, e l’egemonia indiscussa del modello liberista. Anche i partiti legati a quel particolare tipo di pensiero entrarono in crisi, dissolvendosi o rinnovandosi profondamente. 4.1. La politica italiana dopo l’89 Con la caduta del muro di Berlino e gli avvenimenti dell’Est europeo risultò non più così essenziale il baluardo della democrazia eretto dalla DC e dagli altri partiti che dal dopoguerra avevano, con formule diverse, governato l’Italia e assicurato la sua permanenza nell’area occidentale. Così si ritenne che fosse giunto il momento di cambiare. La corruzione che aveva caratterizzato in maniera più marcata l’ultimo decennio divenne l’occasione per dare una spallata al sistema. Attraverso una serie di processi ad amministratori dei partiti di governo, avviata da un pool di giudici di Milano, si diede inizio alla stagione di “Tangentopoli” che raccolse e condensò la voglia di pulizia morale e di onestà dei cittadini, insieme alla volontà di riscossa dei partiti rimasti da sempre all’opposizione. Ciò portò alla progressiva dissoluzione o cambiamento dei vecchi partiti che avevano per cinquant’anni governato l’Italia: DC, PSI, PSDI, PRI, PLI. Nello stesso tempo nuove istanze politiche e nuovi partiti nascevano dalla frantumazione del vecchio quadro politico. Già prima dell’89 in Italia erano emerse forti spinte particolaristiche, con manifestazioni di xenofobia ed esaltazione delle tradizioni locali. La nascita del movimento politico della “Lega Nord”, fornì una base ideologica ed un’organizzazione politica a queste istanze, provenienti soprattutto da ambienti dell’artigianato, proprietà terriera, media e piccola industria delle aree pedemontane e rurali del Nord Italia. Anche l’esperimento politico di “Forza Italia”, promosso da un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, fu in qualche modo una conseguenza del caduta del muro di Berlino. Esso, con alcuni principi del neoliberismo economico, ma soprattutto con un elevato senso di pragmatismo, raccolse parte delle istanze dell’elettorato moderato, rimasto orfano di punti di riferimento dopo la dissoluzione della DC. Ciò consentì a Berlusconi di presentarsi alle elezioni del 1994, insieme con AN e la Lega Nord e di vincerle. Ma le divergenze tra questi partiti portarono ad una crisi di governo e, dopo un semestre affidato all’opposizione, a nuove votazioni vinte dalla coalizione dell’Ulivo, che raccoglieva le forze della sinistra, dagli ex DC fino agli ex- comunisti, confluiti nel Partito Democratico della Sinistra. 4.2. L’economia Gli avvenimenti a livello nazionale e internazionale ebbero notevoli ripercussioni a livello 26 economico. La caduta del regime sovietico comportò l’oblio delle teorie interventiste dello stato e l’adozione a raggio universale dell’economia di mercato. L’indirizzo neo-liberista dalla Gran Bretagna e dagli Stati si estese a tutta l’Europa, occidentale prima e poi orientale, con non indifferenti problemi a livello sociale. Ma, nonostante l’entusiasmo suscitato da questi avvenimenti e la fiducia incondizionata nelle regole del mercato e nel capitalismo, dopo qualche anno la situazione economica non fu così brillante come ci si era illusi. “L’Occidente, finita la grande contrapposizione [con l’impero sovietico], ha conosciuto una lunga congiuntura negativa, con alti tassi di disoccupazione” (Detragiache, 1996, 107). In un primo momento infatti (fine degli anni ’80, inizio anni ’90) la situazione economica sembrò avviarsi verso un deciso miglioramento ed il tasso disoccupazione si contrasse 21. Ma qualche anno dopo (’93) la situazione precipitò nuovamente e le condizioni lavorative peggiorano di molto. Una leggera inversione di rotta si registrò alla fine degli anni ’90, inizio 2000, non per effetto del miglioramento del quadro economico, ma per la maggior flessibilità del mercato e la capacità dei giovani di adattarsi alle nuove situazioni. 4.3. La cultura post-moderna Le trasformazioni a livello strutturale si ripercossero a livello culturale con andamento circolare e interattivo: la cultura risentiva delle trasformazioni sociali e si adeguava; ma è anche vero l’incontrario: la società sceglie il tipo di cultura che le fornisce gli strumenti migliori per interpretare la situazione e adattarsi. Ovviamente, con effetti di feed-back continui, per cui è difficile decidere “cosa influenzi chi”. Ciò risultò particolarmente vero in quegli anni. Le accelerazioni che aveva assunto negli ultimi anni la modernità, assunsero un ritmo così rapido e vorticoso da far pensare di trovarsi in un altro tipo di civiltà, affatto diversa da quella che l’aveva preceduta. Tale mutamento fu etichettato come “postmoderno”. Con tale termine, inventato dall’architettura ma preso a prestito anche dalla filosofia e sociologia, si volle dare un nome alle caratteristiche che andava assumendo la modernità. Anche se il conio del termine risale agli anni ’70, la sua applicazione sociologica su larga scala avvenne proprio in quegli anni, come si può evincere da varie pubblicazioni dell’epoca: segno che solo allora si cominciò prendere coscienza di trovarsi non solo di fronte ad un diverso modo di produrre (postindustriale), o di organizzarsi della società (più complesso), ma anche ad una vera svolta epocale. In realtà è questione dibattuta tra i teorici se si tratti di un mutamento radicale, oppure semplicemente un’accelerazione della modernità. C’è chi pensa che la modernità sia un periodo non ancora concluso, per cui la interpreta come un progetto incompiuto (Habermas), una modernità radicale (Giddens e Luhmann), una modernità esplosa (Touraine)22. Altri invece intendono con il termine “postmodernità” una rottura radicale rispetto al passato. Gli elementi assolutamente nuovi sarebbero: “l’assenza di una descrizione unitaria del 21 “Osservando i dati relativi alla forza-lavoro compresa tra i 14 e i 29 anni di età si riscontrano nel nostro paese segnali positivi che invertono la tendenza negativa rilevata negli anni '70 e '80. Infatti, pur rimanendo una situazione pesante, vi è una relativa diminuzione della percentuale di giovani disoccupati: dal 71.3% al 69.4% sul totale tra il 1988 e il 1989. Tuttavia il numero dei disoccupati in Italia subisce nello stesso periodo una diminuzione di solo 22 mila unità, evidenziando come il mercato del lavoro abbia reclutato in prevalenza manodopera giovanile. D'altra parte i tassi di disoccupazione giovanile nel loro andamento storico - dal 27.8% del 1987 al 26.8% del 1989 - farebbero ritenere che tale fenomeno costituisca un problema destinato a perdere di drammaticità nell'arco di un decennio, anche a causa dei primi effetti del decremento della natalità che si è registrato in Italia a partire dai primi anni '70 e in ragione di un mercato del lavoro in cui la domanda si indirizza soprattutto verso la componente più giovane e qualificata penalizzando la forza lavoro adulta e i bassi livelli di istruzione. Va altresì rilevato che la disoccupazione giovanile colpisce maggiormente il Sud del paese e la componente femminile, con tassi nel 1988, rispettivamente del 45.2% e 34.5%” (Malizia – Frisanco, 1991, 46-47). 22 Con tali termini si indica che il progetto illuministico non è stato portato adeguatamente a termine, oppure che è stato talmente estremizzato da comportare più conseguenze dannose del previsto (libertà che diventa licenza, scienza che si diventa anti-umana, ecc.) (Ungaro, 2001, 16). 27 mondo, di una razionalità valida per tutti, di un concetto di giustizia condiviso, ma anche la riscoperta dei limiti delle azioni umane, la tolleranza della diversità, il rifiuto di basarsi esclusivamente su valori materialistici” (Ungaro, 2001, 20). Alla forza delle ideologie o delle “grandi narrazioni” che avevano caratterizzato la “modernità”, succederebbe un atteggiamento più rinunciatario e insicuro. E’ di quei tempi “la scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i precedenti fondamenti dell’epistemologia si sono rivelati inattendibili; il fatto che la storia è priva di ogni teleologia e che di conseguenza non si può difendere plausibilmente alcuna versione di progresso; e infine la nascita di un nuovo programma sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazione ecologiche e forse i nuovi movimenti sociali in genere” (Giddens, 1994, 53). Prendeva così corpo una forma mentale che metteva radicalmente in dubbio la stessa possibilità di un fondamento non illusorio per le convinzioni che fino ad allora avevano guidato la cultura moderna. Entrò così in dubbio la validità del ragionamento umano23, i valori e le convenzioni sociali e soprattutto l'idea stessa di uomo e di società24. Il tipo di pensiero a cui ci si faceva riferimento era piuttosto quello di Nietszche o di Heidegger, di Gadamer, di Derida, di Lyotard. Sul versante scientifico il “principio di indeterminazione” di Eisenberg diventò la pietra di confronto per tutte le teorie. 4.3.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno La relativizzazione del pensiero classico occidentale e lo scetticismo sui suoi atteggiamenti mentali aveva comportato degli innegabili vantaggi: una maggior flessibilità e differenziazione nella società; il declino delle ideologie totalizzanti; la diminuzione di individui dalla personalità autoritaria e l'accresciuta tolleranza ed accettazione delle "diversità" etniche, sociali e religiose; la tendenza alla parità tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro; l'accresciuta sensibilità verso i diritti di tutti i cittadini, e in particolare delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di handicap); l'indebolimento del formalismo sociale e della deferenza verso l'autorità politica e sociale (Vaccarini, 1990, 121). Però esso rappresentò anche la distruzione di tutto ciò che era collegato al passato più che la effettiva costruzione di una nuova razionalità. Ciò ha voluto dire crisi delle agenzie di socializzazione tradizionali25; egemonia ideologica dell’ "individualismo radicale" e svuotamento di valore del lavoro, dell'amore e del matrimonio, della comunità democratica26. Crisi dei valori e delle concezioni base su cui aveva costruito finora il consenso e le motivazioni all’azione. 23 Il pensiero postmoderno, comprende tutte quelle filosofie e posizioni teoriche che, fin dalla fine del secolo scorso, hanno espresso una forte critica alla ragione, intesa come "capacità progettuale di una soggettività che si dispiega verso un orizzonte di fini di cui ritiene di possedere la chiave" (Villani, 1985, 5-6). Esso reagisce ad un'impostazione classica della razionalità, non riconoscendole più la validità di cui aveva goduto fino ad allora, ponendo con ciò in crisi i fondamenti stessi su cui poggiava, particolarmente quello epistemologico e quello ontologico. Nello stesso tempo rinuncia, per principio, a cercare un proprio fondamento, in quanto ritiene che la ragione umana non sia, di per sé in grado di raggiungere la verità e di trovare un fondamento ad una forma di pensiero che non sia ideologica. 24 "L'idea forza della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione ai valori ultimi, fondati sulla capacità dell'uomo di esercitare la ragione per un'opera di chiarificazione, di illuminazione (di qui il nome di illuminismo come tratto qualificante la modernità) nei confronti del mondo e di se stesso. Ora - come hanno puntualizzato, sia pur da angolazioni contrapposte, J. F. Lyotard e J. Habermas -, ciò che definisce l'essenza della condizione postmoderna è proprio la negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si impernia sul disconoscimento dei valori ultimi, in grado appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordinamento della società (fosse anche rivoluzionario o riformatore), di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un'effettiva intelligibilità alla vita umana e alla società" (Vaccarini, 1990, 128-129). 25 "Famiglia e scuola hanno perduto la capacità di trasmettere immagini del mondo, modelli di azione e un senso profondo del legame con gli altri, fattori questi che danno significato, intensità ed autenticità all'esistenza" (Vaccarini, 1990, 121). 26 "R. Bellah chiarisce che la modernità è stata promossa da una concezione, rispettivamente, del lavoro, dell'amore e del matrimonio e della comunità democratica, che è contrassegnata dall'interdipendenza e dalla sintesi tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività. [...] Il risultato di questa integrazione tra sfera privata e sfera sociale è la prospettiva di formare delle personalità dotate di carattere e di capacità autonome e responsabili delle proprie azioni. Ora, l'«io» ribalta la suddetta concezione 28 Insieme ne era venuta la "cultura del narcisismo", ispirata alla rigida dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica; perdita di potere e di funzione sociale dell'intellettuale; perdita di credibilità intellettuale della nozione stessa di soggetto umano, e quindi della possibilità di definire una identità qualsiasi. Crisi di senso e di orientamento generale. La condizione dell’uomo moderno appariva sempre più simile a quella descritta da Berger: un “homeless mind”, una “mente senza fissa dimora”; uno sradicato in patria, errabondo, inquieto, senza un punto fisso, un punto di riferimento sicuro. Questa cultura fu il segno della profonda crisi che stava attraversando la società. 4.3.2. Postmaterialismo e postmodernità I valori postmaterialisti vennero da vari autori e dallo stesso Inglehart, associati alla nuova cultura. Fu lo stesso autore a trattare la cosa in maniera sistematica nel suo libro: “Modernization and postmodernization. Cultural, economic and political change in 43 societies” (1996), uscito in Italia col titolo “La società postmoderna” (1998). In essa affrontò il rapporto tra “posmaterialismo” e “postmodernizzazione”, affermando che il postmaterialismo è un processo che contribuisce in maniera cospicua alla “postmodernizzazione” e ne definisce contenuti e prospettive. Per dimostrarlo indicò le convergenze tra le sue ricerche sul postmaterialismo e i tratti della società postmoderna. 4.3.2.1. Correlazione tra sviluppo economico e culturale I risultati delle ricerche condotte in 43 paesi, da quelli più avanzati a quelli più arretrati, gli avevano fornito conferme convincenti all’ipotesi materialismo/postmaterialismo. Oltre a registrare una costante aumento del postmaterialismo tra le società avanzate dell’Occidente, in particolare tra i giovani ed i settori più benestanti e colti della popolazione, egli andava scoprendo che i paesi più poveri si trovavano ancora alle prese con i bisogni materiali di sopravvivenza, mentre nei paesi più ricchi il processo di “postmaterializzazione” si andava affermando sempre più, pur con alterne vicende. Il lavoro più interessante fu di accostare i tassi di sviluppo al tipo di cultura. Apparve evidente che, a seconda del livello economico raggiunto, ogni società riproduceva un pattern culturale preciso. Le società che vivevano in un’economia di sussistenza, riproducevano anche una cultura in cui la tradizione aveva un ruolo molto importante, e le norme erano ancorate ad un’autorità trascendente. Mentre le società in via di modernizzazione tendevano ad attribuire molta importanza alla scienza-teconologia, al successo, ad avere un’autorità di tipo razional-secolare, e quindi ad interessarsi di più della politica e a darsi norme che derivavano dal consenso sociale. Infine, le società che avevano superato il livello di sopravvivenza e vivevano nell’abbondanza, tendevano a mutare i loro criteri in base ai nuovi bisogni che la loro condizione evidenziava: meno importanza alla scienza-tecnologia, preferenza per i temi ecologici e per la qualità della vita, depotenziamento dello stato e della burocrazia, più libertà, più fantasia ed autoespressione27. Ma nello stesso tempo continuava il processo di secolarizzazione messo in atto propria della modernità postulando la dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività, e valorizzando in modo esclusivo la sfera individuale e privata a scapito della sfera sociale e pubblica. Secondo questa ideologia individualistica l'«io» è completamente libero da vincoli, e peculiarmente da vincoli dettati da un fine morale e stabile. La base teorica di questa libertà è l'assunto che non esiste alcun criterio oggettivo di discernimento del vero dal falso, del bene dal male; pertanto sono soltanto i nostri sentimenti a poter fungere da guida morale delle nostre azioni. L'«io» si trova dunque atomizzato, e indotto a scavarsi una nicchia in cui cercare l'auto-espressione e adottare un proprio stile di vita. All'interno di questa nicchia l'«io» è illimitatamente libero; per contro, tutto ciò che è all'esterno di questa nicchia gli è fondamentalmente indifferente. Ma, a ben vedere, l'indifferenza permea l'«io» anche nella sua nicchia privata: infatti la nozione di un «io» assolutamente libero conduce all'esperienza di un «io» assolutamente vuoto. Cioè ad una identità destrutturata e frammentata" (Vaccarini, 1990, 122-123). 27 “L’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia era stato l’elemento centrale della modernità. Ma le popolazioni di paesi 29 dalla modernizzazione: la riduzione dell’importanza della famiglia, la maggior tolleranza verso il diverso, la parità di diritti tra uomo e donna, ecc. Cioè, il carattere postmaterialista sembrava correlarsi più probabilmente con le tendenze postmoderne che con quelle tipiche della modernità (secondo il modello weberiano). Pertanto, concludeva l’autore, “il postmaterialismo costituisce una componente centrale dei valori postmoderni” (Inglehart 1998, 126). 4.3.2.2. Correlazione tra postmaterialismo e postmodernizzazione Sulla postmodernizzazione Inglehart aveva avanzato alcune osservazioni, distinguendo tra aspetti che erano a suo avviso accettabili ed altri che non condivideva. a) Riconosceva, con i tanti autori postmoderni, che fosse in atto una “deenfatizzazione” della: i. efficienza economica; ii. autorità burocratica; iii. razionalità strumentale, scientifica. b) Condivideva la richiesta di una società più umana, in cui ci sia: i. più spazio per l’autonomia personale, per la cultura; ii. maggior tolleranza per la diversità, contro l’uniformità e la gerarchizzazione precedente; iii. maggior spazio per l’autoespressione e l’autoaffermazione; iv. più spazio all’estetica; v. recupero selettivo del passato; vi. ricerca della qualità della vita. Condivideva anche una certa critica all’eccessiva fiducia nelle “metanarrazioni” (ideologiche, politiche, religiose), ma rifiutava posizioni estreme come quelle di Lyotard e Braudillard che tendevano ad assolutizzare la cultura, quasi fosse tutto. Per lui postmodernità voleva dire aumento dell’influenza della cultura sulla vita sociale, ma non riduzione alla sola cultura. La realtà rimaneva con la sua componente oggettiva, non riducibile a solo pensiero. Natura e cultura erano egualmente presenti ed solo dal loro rapporto è possibile la vita dell’uomo e della società. Come già aveva sostenuto in un’opera precedente (1990) egli concepisceva la società come un’interazione continua tra fattori economici, politici e culturali. Ciò che caratterizzava la società postmoderna era l’importanza che stava acquisendo la dimensione culturale rispetto a quella economica e politica, tipica della società moderna. Respingeva anche il radicalismo estremo che negava ogni fondamento sul quale fondare criteri morali universali. Egli invece condivideva con Habermas la convinzione che fosse possibile “una base razionale per la vita collettiva […] quando le relazioni sociali sono organizzate in modo tale che la validità di ogni norma dipende al consenso raggiunto in una comunicazione libera dal dominio” (Inglehart, 1998, 45). con alte percentuali di postmaterialisti (alla fine del continuum postmoderno) tendono ad avere poca fiducia che i progressi scientifici aiuteranno piuttosto che ledere l’umanità […]; analogamente tendono a mettere in dubbio che assegnare una maggiore importanza alla «tecnologia» sarebbe una buona cosa. Al contrario, le stesse società hanno alti livelli di consenso nei confronti dei movimenti per l’«ecologia». Il fatto che le società informate alla sicurezza tendano a rifiutare la scienza e la tecnologia è il punto principale di allontanamento dalla fiducia fondamentale della modernizzazione - un’altra ragione del perché questa dimensione riflette un cambiamento nella direzione postmoderna” (Inglehart, 1998, 124). “Oltre all’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia, un’altra caratteristica chiave della modernizzazione è stata la tendenza a burocratizzare tutti gli aspetti della vita. Ma i valori postmoderni sono connessi con il declino del consenso per un governo grande: credere che lo Stato (piuttosto che l’individuo) possa assumersi più responsabilità per assicurare che ciascuno «provveda a» («responsabilità dello Stato»), è legato ai valori di sopravvivenza, e non ai valori di benessere; lo stesso accade per la «gestione pubblica/dei dipendenti» piuttosto che per la gestione privata. Il consenso per un governo grande era la componente principale per la modernizzazione. Il fatto che non sia connesso con i valori postmoderni è un’altra indicazione che la postmodernizzazíone rappresenta un fondamentale mutamento di direzione” (Inglehart, 1998, 126). 30 Come pure rifiutava il pregiudizio anti-occidentale di Derida. Egli sosteneva che, se è vero che la società industriale e moderna è nata in occidente, essa non è solo occidentale. Gli elementi fondamentali della “modernizzazione” sono stati l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la secolarizzazione, la burocratizzazione e una cultura basata sulla burocrazia: “una cultura che richiedeva il passaggio da una status ascritto ad uno status acquisito, da forme diffuse a forme specifiche di autorità, da obbligazioni personalistiche a ruoli impersonali e da leggi particolaristiche a leggi universali” (Inglehart, 1998, 50). Tali aspetti non sono esclusivi della società occidentale. Se hanno preso l’avvio in occidente fu per merito dell’etica protestante che cambiò il sistema di valori: l’accumulazione economica non più osteggiata o tollerata, ma incoraggiata. Tale mutamento culturale aprì la strada al capitalismo e all’industrializzazione. Ma laddove si danno gli stessi mutamenti culturali, come per esempio in Estremo Oriente dove prevale la cultura confuciana, avviene lo stesso processo. E l’industrializzazione è perseguita come una meta desiderabile da tutte le nazioni, indipendentemente dalla loro posizione geografica o culturale. 4.3.2.3. Cambio epocale Ciononostante, egli affermava, siamo di fronte ad un cambiamento culturale senza precedenti. Il cambiamento dalla società moderna a quella postmoderna veniva fatto risalire ai limiti raggiunti dalla società moderna, che egli spiegava con la tesi dell’ “utilità marginale decrescente dei profitti economici”. Questa motiverebbe il fatto che, una volta raggiunti certi livelli di vita, non interessa più accumulare ricchezza, ma invece acquisire una maggior qualità di vita. Quindi, anche per lui, come per Habermas, la società postmoderna si presentava come un “progetto incompiuto”, che richiede di essere rivisto, ma non rifiutato. La postmodernizzazione doveva rappresentare il completamento del processo di modernizzazione, non la sua negazione. Secondo lui, la modernizzazione aveva finito il suo tempo perché aveva raggiunto il suo scopo. Infatti l’industrializzazione aveva prodotto due beni fondamentali: a) maggiori possibilità di sopravvivenza (aspettative di vita); b) più alti livelli di benessere soggettivo. Tali realtà non andavano dimenticate o sottovalutate, anche se era ormai giunto il momento di cambiare corso, perché la modernizzazione aveva imposto alti costi non più necessari. I valori del successo con i sacrifici che chiedeva, che limitavano l’autoespressione, non erano più così urgenti. Così pure avevano raggiunto il loro limite le organizzazioni gerarchiche burocratiche che erano state l’ossatura della società moderna. Ma erano giunte ad un punto di svolta per due ragioni: “primo, hanno raggiunto i limiti della loro efficienza funzionale; secondo, stanno raggiungendo i limiti della loro accettabilità di massa” (Inglehart 1998, 48). Così ecco emergere nuovi valori e stili di vita, più funzionali alla situazione determinatasi in seguito al raggiungimento di una notevole sicurezza materiale. Ma il “postmaterialismo” implica il superamento del “materialismo”, ma non il suo rinnegamento: “i postmaterialisti non sono non materialisti, e neppure antimaterialisti. Il termine «postmaterialista» indica un set di fini che sono ritenuti importanti dopo che le persone hanno ottenuto la sicurezza materiale e proprio perché l’hanno ottenuta. […] L’emergere del postmaterialismo non riflette un capovolgimento delle preferenze, ma un mutamento delle priorità: i postmaterialisti non attribuiscono un valore negativo alla sicurezza economica e fisica – la valutano positiva come tutti -- ma, diversamente dai materialisti, danno priorità all’autoespressione e alla qualità della vita” (Inglehart 1998, 57). La società postmoderna attribuisce molta più importanza ai problemi della qualità della vita ed esige livelli molto più alti di prestazioni sociali. Le attese sono per un lavoro sicuro, un aumento degli standard di vita, guide illuminate, un governo generoso, un’assistenza sanitaria d’alta qualità, l’armonia razziale, un ambiente pulito, città sane, un lavoro soddisfacente e soddisfazione personale. 31 Questi elementi costituiscono per la società moderna «entitlements», “titoli” o diritti espressi con una convinzione nuova, una maggiore sensibilità che definisce gli atteggiamenti degli occidentali nei confronti delle condizioni sociali, delle istituzioni nazionali e anche del mondo. Sempre più si crede che certe cose sono (o dovrebbero essere) garantite. Non è che la gente non si preoccupi, ma si preoccupa di cose diverse. Questi atteggiamenti sarebbero destinati, sempre a giudizio dell’autore, a diffondersi progressivamente e a diventare patrimonio comune di quote sempre maggiori di popolazione, non solo nelle nazioni occidentali, ma in tutti quegli stati che intendono intraprendere la strada verso la modernizzazione. Perciò il pattern culturale postmoderno e/o postmaterialista starebbe per affermarsi come un modello culturale universale verso cui tutto il mondo sarebbe incamminato. Ovviamente se perduravano le condizioni economiche e politiche. 4.4. L’Italia fra tradizione e postmodernità Il problema se ci si trovasse di fronte ad un cambio epocale o solo ad un mutamento di valori venne affrontato anche dalla versione italiana della ricerca europea EVSSG (Gubert, 1992). Si trattava di capire dove stesse andando la società, se verso un riequilibrio dei valori, come sosteneva il coordinatore italiano della ricerca, dopo le accelerazione dei decenni precedenti, oppure verso una nuovo civiltà, dai contorni ancora poco definiti. L’analisi dei valori divenne allora la cartina di tornasole per verificare l’ipotesi più probabile. 4.4.1. I valori degli italiani Per quanto riguarda i valori della famiglia, della sessualità e della coppia negli anni ’90, si rilevarono comportamenti e valori contraddittori: si era assistito ad un calo di accordo tra le coppie, era aumentata la disponibilità alla libertà nei comportamenti sessuali; ma nel contempo era aumento il consenso al matrimonio come istituzione (auto-fondata sulla relazione), l’amore incondizionato dei figli per i genitori, la soddisfazione per la vita di famiglia. Per i valori del lavoro: era aumento il peso, già elevato, delle motivazioni strumentali, come il guadagno, ma anche le motivazioni di tipo espressivo-comunicativo, specie tra i giovani. Era ulteriormente calata la partecipazione ad associazioni, specie in quelle religiose, sindacali, politiche, di volontariato sociale, ma per alcuni tipi (associazioni culturali, associazioni che si occupano del “Terzo Mondo”) essa era cresciuta. Si voleva che la società assegnasse meno peso al denaro, al lavoro, all’acquisizione di beni materiali a favore, invece, di una maggiore attenzione alla crescita della persona, alla vita di famiglia, alla qualità all’ambiente, ma a livello concreto si dava più importanza a mete di natura economica, anche se cresceva pure la preoccupazione per garantire i diritti di libertà di parola e di partecipazione sociale e politica. Era calata la fiducia nello Stato, nelle sue istituzioni, l’impegno nei partiti e nei sindacati, ma era cresciuto l’interesse e la partecipazione politica. C’era stata una perdita delle posizioni politicamente conservatrici, ma era aumentato di molto il favore per l’autonomia dell’imprenditore e la fiducia nel grande padronato. Era cresciuta la convinzione che dovessero esserci dei criteri validi in ogni circostanza per decidere ciò che è bene e ciò che è male, ma nel contempo era aumentano il permissivismo e l’incertezza di giudizio etico su azioni un tempo ritenute sicuramente immorali. Era aumentata la riflessione sul senso della vita e della morte, l’importanza del riferimento religioso per sé e nell’educazione dei bambini, la pratica religiosa, ma era diminuita l’affiliazione 32 alla chiesa e la credenza nelle “verità”, specie di tipo escatologico, che tradizionalmente avevano fatto da supporto all’esperienza religiosa e che costituivano parte importante del patrimonio di fede cristiano. Era aumentato il senso di soddisfazione per la vita che si conduceva, ci si sentiva meno annoiati e meno soli, meno tesi ed insoddisfatti, era aumentato il senso di fiducia nella gente, ma si era rilevato più desiderio di star lontani da categorie o gruppi che potevano portare disturbo, più desiderio di cambiare la società. 4.4.2. Postmaterialismo o riequilibrio? Modernità e tradizione nel caso italiano Di fronte a questi dati Gubert propose alcune riflessioni conclusive. Ponendosi il problema se questi fossero indicatori di progresso o di ritorno al passato, di postmaterialismo o di materialismo, di postmoderno o di pre-moderno, egli suggerì un’altra ipotesi, quella del riequilibrio. Con tale termine intedeva dire che, di fronte all’incertezza se cultura post-materialistica stesse crescendo o si se stessero recuperando i valori tradizionali, si stava delineando un duplice andamento: “aspetti trascurati della tradizione riemergerebbero, ristabilendo così un equilibrio più accettabile tra soddisfacimento di bisogni di tipo prevalentemente materiale ed altri di tipo prevalentemente spirituale, tra una socialità da ‘soci in affari’, come la chiamava F. Toennies, ed una socialità più comunitaria ed attenta alla solidarietà (a cominciare dalla famiglia per arrivare allo Stato ed alle organizzazioni internazionali), tra lo sviluppo della razionalità strumentale e l’attenzione, anche razionale, ai valori, alla dimensione del ‘senso’ della vita e dell’universo” (Gubert, 1992, 571). Egli concludeva, sottolineando come “per alcuni aspetti l'ipotesi del riequilibrio può senz'altro sostituire quella evolutiva, ma a patto che essa non interpreti il riequilibrio come riproposizione tali e quali di elementi della tradizione. E proprio le apparenti contraddizioni mettono in evidenza le diversità rispetto al passato” (Gubert, 1992, 572). Tra le principali contraddizioni rilevò quella della famiglia, dove il recupero era fondato solo (per la gran parte delle persone) “sulla gratificazione derivante dalle relazioni tra i suoi membri” (Gubert, 1992, 572); del lavoro, con la compresenza di motivazioni strumentali e autorealizzative; del modello di sviluppo, con richieste di attenzione alle dimensioni umanistica ed ambientale, ma con modi di intervento diversi dall’azione politica classica: l’individuo “vuole mantenere senza deleghe il controllo della sua quota di potere politico” (Gubert, 1992, 573). Ma era soprattutto nel recupero dei criteri per stabilire ciò che è bene e ciò che è male che appariva un cambiamento di rotta in relazione al passato: l’atteggiamento morale sembrava meno intransigente per i valori materiali e le convenzioni sociali, mentre era assai più esigente quando entravano in gioco le persone, il rispetto per esse (Gubert, 1992, 573). A questo punto egli avanzò ipotesi che, per quanto attiene l’etica, la “transizione postmoderna rappresenti solo un ulteriore sviluppo della modernità” (Gubert, 1992, 574). E che i cambiamenti in atto segnassero, per molti aspetti, un recupero di dimensioni che agli inizi degli anni Ottanta sembravano meno rilevanti (Dio e famiglia). Arrivò così a suggerire di utilizzare il termine “postmaterialista” piuttosto che “postmoderno” per interpretare il momento storico-culturale28, in 28 “In un certo senso […] il termine post-moderno sembrerebbe meno adatto del termine post-materialista: questo sottolinea il passaggio dall’accentuazione posta su oggetti e valori di tipo materiale ad altri, ma potrebbe lasciare impregiudicati sia il grado di individualismo, sia quello di edonismo, sia quello di secolarizzazione, in base ai quali si misurerebbe, secondo Thomas e Znaniecki, la modernità in termini socio-culturali. Ed in effetti risulta aumentare l’individualismo, ma neppure l’edonismo sembra conoscere battute d’arresto. […] E’ quindi rischioso ritenere suffragata dai dati l’ipotesi del cambio epocale o dell’esaurimento della spinta culturale della modernità; si è piuttosto di fronte ad un suo sviluppo secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow, ma nei termini essenziali già nota a psicologi, sociologi ed economisti: la disponibilità di un “bene” in dosi crescenti ne diminuisce l’utilità marginale, diminuisce la desiderabilità di quote aggiuntive e quindi le preferenze si orientano verso “beni” relativamente trascurati. Se a ciò si aggiunge l’altra dinamica, del resto assai simile, per cui allo stesso bisogno si tende a dare risposte con “varianti” sempre più ricche e pregiate, si comprende almeno in parte la crescente attenzione verso la “qualità” relazionale della vita, verso la “qualità” del lavoro, verso la “qualità” dell’ambiente; si comprende come le mete per le quali valga la pena “combattere”, mettendo a rischio la propria integrità ed il proprio benessere, siano sempre meno (o siano inesistenti) e come tali scelte siano 33 quanto la tendenza prevalente sembrava indicare un aumento di individualismo e di edonismo, “secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow” (Gubert, 1992, 575). L’Italia, poi, nel contesto europeo, sembrava caratterizzarsi per una maggior tendenza postmaterialista: maggior peso alla famiglia, alla religione, e valori socio-politici più aperti alla dimensione umanistica. Ma anche per un minor permissivismo etico, per una più forte appartenenza alla Chiesa ed una maggiore fiducia in essa, per una più elevata condivisione di valori di giustizia sociale. Questi, egli notava, erano elementi propri della tradizione, che si mescolavano con elementi nuovi. Per questo avanzava l’ipotesi “che la caratterizzazione dell’Italia rispetto alla media europea derivi dal congiungersi di due fenomeni, il permanere più forte di valori tradizionali e l’emergere di valori secondo una prospettiva post-materialista” (Gubert, 1992, 576). 4.5. Valori e bisogni dei giovani europei Gli elementi riscontrati a livello generale, sia mondiale che italiano, trovano parziale conferma anche nelle analisi giovanili, pur con elementi tipici dell’età, che andranno messi in evidenza. Diamo il via con l’analisi del giovane europeo. L’identikit del giovane europeo “medio” che emerse dalle inchieste dei primi anni ‘9029 dava l’immagine di una generazione tendenzialmente appagata sia sotto il profilo delle relazioni sociali (il 75% viveva in famiglia ben oltre i 25 anni) sia per quel che riguarda le condizioni economico-finanziarie. Infatti più dell’80% si dichiarava molto o abbastanza soddisfatto della propria condizione finanziaria e 9 giovani su 10 vivevano una realtà relazionale (amicale e parentale) altrettanto soddisfacente. Confrontandoli con i dati di rilevazioni precedenti appariva sensibile il miglioramento dei livelli di soddisfazione rispetto alle condizioni “materiali” e, soprattutto, una minore variabilità tra gli Stati membri. Tuttavia la realtà era meno idilliaca di quanto appariva a prima vista. Gli inoccupati tra i1525 anni era pari al 7%; 19 giovani europei su 100 vivevano condizioni di difficoltà economicofinanziarie. Il disagio maggiore sembrava però stesse spostandosi verso la sfera valoriale. Si parlava sempre più di un “disagio derivante dall’esperienza della complessità, inteso come profonda sensazione di smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale delle democrazie europee” (Sorcioni, 1992, 7). In questo senso venivano letti i fenomeni di xenofobia e di radicalismo nazionalista esplosi in Germania, Francia e Italia, che avevano visto giovani come protagonisti30. Quindi il disagio sembrava investire sempre più la sfera immateriale dei valori, dell’identità, della capacità di dare senso alla vita31. D’altro canto la dimensione immateriale del disagio giovanile tendeva a generare nuovi bisogni di sussistenza spostando verso l’alto la soglia minima di soddisfazione materiale attraverso la selezione dei consumi e delle aspettative. Ciò comportava un aumento di domanda di beni di riservate esclusivamente al proprio personale convincimento” (Gubert, 1992, 575-576). 29 Nel 1990 la Comunità Economica Europea realizzò un significativo sondaggio sui giovani dai 15 ai 25 anni (Young Europeans in 1990). I dati di questo sondaggio sono stati analizzati da Maurizio Sorcioni (1992), un ricercatore del Censis, e riportati nella rivista “Tuttogiovani Notizie”. Essi sono stati posti a confronto con i dati di qualche anno prima (Young Europeans: 1987) e con le ipotesi di Inglehart. Un’altra significativa ricerca è stata quella EVSSG del ’90, affidata, per la parte italiana, al commento di docenti dell’Università di Trento. 30 “Si tratta di tensioni che esprimono in modo esplicito […] un disagio latente, legato proprio alla difficoltà di vivere dentro quel conflitto sociale della modernità (Darhendorf, 1988) tipico delle società aperte ed in particolare delle democrazie europee. Scriveva Simone Weil, in un articolo comparso su Le Monde all’indomani dell’esito del referendum francese sul trattato di Maastricht, che la perdita di identità evoca l’immagine del precipizio e che spesso dal terrore del vuoto può nascere la rabbia. Ed è verosimile ritenere che proprio la crisi di identità valoriale e sociale costituisca il filo rosso che caratterizza le molteplici forme del radicalismo giovanile” (Sorcioni, 1992, 7). 31 “Ciò che appare ormai chiaro, in buona sostanza, è che i livelli di disagio presenti nel variegato universo giovanile europeo non possano più essere valutati a partire dal grado di soddisfacimento soltanto dei bisogni materiali ma vadano piuttosto riconsiderati a partire dal più vasto universo dei bisogni valoriali: dalle esigenze di autoespressione e qualità della vita fino ai bisogni crescenti di identità” (Sorcioni, 1992, 7). 34 consumo di status, dove i bisogni materiali non erano più causa delle nuove istanze valoriali ma piuttosto l’effetto. 4.5.1. Una cultura postmaterialista ma soprattutto ricombinatoria Il miglioramento delle condizioni materiali rendeva sempre più evidente l’avanzata di più bisogni di tipo postmaterialistico. Il confronto con l’“indice di Inglehart” confermava la tendenza in atto. Prevalevano tra i giovani europei, rispetto alle generazioni precedenti, priorità e bisogni valoriali di tipo post-materialistico e misto. I tassi di scolarizzazione, cresciuti costantemente negli ultimi 15 anni in tutti gli Stati membri, risultavano sistematicamente più elevati tra i giovani che non tra gli adulti. Di conseguenza si manifestava maggiore sensibilità verso istanze e riferimenti valoriali di tipo post-materialistico. Ma quello che colpì in questi anni fu “l’incidenza di bisogni misti32”, che risultò trasversale alle varie classi di età, interessando oltre metà della popolazione comunitaria (cfr. Tab. 1). Tab. 1 - Polarizzazione valoriale nel corpo sociale europeo. Indice Inglehart per classi d’età. Confronto 19871990. Tipologia della priorità valoriali Materialisti Misti Postmaterialisti Totali Giovani (15-24) ’87 ’90 16 10 60 62 24 28 100 100 Adulti (+25) ’87 ’90 35 34 52 53 13 13 100 100 Fonte: elaborazione su dati C.E., Young Europeans, 1987 e 1990 (Sorcioni 1992, 8). Confluivano nella categoria dei bisogni misti esigenze di autoespressione, individualità e partecipazione insieme ad istanze materiali, quali la difesa della propria posizione socio-economica (occupazione e reddito) o dell’identità territoriale. Coesistevano simultaneamente spinte verso modelli di società aperta e chiusure verso l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). “Un crogiuolo di esigenze ed aspettative, tipico dei processi di transizione, entro il quale possono manifestarsi pulsioni integrative e spinte disintegrative, e dove i problemi d’identità possono esprimersi in una logica tanto complessa quanto socialmente dolorosa” (Sorcioni, 1992, 9). Il bisogno di individualità si manifestava come opposizione alla cultura di massa, scomposizione dei principali riferimenti ideologici, rifiuto delle tradizionali forme della partecipazione politica. Superate le logiche di verticalizzazione del conflitto intergenerazionale degli anni ‘70, il rapporto giovani-adulti si era andato orizzontalizzando, con perdita delle gerarchie valoriali. Il che faceva intravedere il vuoto lasciato dalla scomparsa dei vecchi meccanismi di trasmissione dei valori. Di qui le difficoltà delle generazioni adulte e più in generale delle agenzie educative (prima fra tutte la famiglia) ad assumere un ruolo non più autoritario ma autorevole nei confronti delle giovani generazioni 33. Ne conseguiva il carattere misto delle gerarchie valoriali, caratterizzato dalla combinazione di bisogni, comportamenti ed aspettative anche contraddittorie nello stesso individuo. Di conseguenza anche la cultura giovanile appariva tendenzialmente ricombinatoria. Tutti i linguaggi espressivi che interessavano l’arcipelago giovanile si caratterizzavano per un alto tasso di 32 “Rientrano in quest’ultima categoria istanze sociali, esigenze e valori materiali ed immateriali anche opposti tra loro, la cui possibile coesistenza anche in uno stesso individuo tende inevitabilmente a generare gerarchie valoriali instabili, potenzialmente antinomiche e per loro natura in continua trasformazione” (Sorcioni, 1992, 9). 33 “La difficoltà […] di generare nuovi processi di trasmissione valoriale partecipativi (e non solo anti-autoritari) ha finito per produrre una riduzione dell’entropia generazionale. E se la crescita di bisogni ed istanze valoriali di tipo misto all’interno del corpo sociale europeo appare la risultante di una progressiva attrazione della sensibilità collettiva verso quelle esigenze immateriali, di qualità di cui appare portatrice la cultura giovanile, essa è anche il sintomo dell’assenza di quei valori riordinanti di cui invece dovrebbe farsi portatrice la società adulta” (Sorcioni, 1992, 9). 35 contaminazione (influenze etniche, artistiche, tecniche e comunicazionali). Musica, cinema, tecnologie informatiche e in generale ogni forma espressiva consumata o direttamente prodotta dai giovani europei, assumeva carattere combinatorio e ricombinatorio. 4.5.2. Forme di partecipazione e bisogno d’identità Uno degli scopi di queste indagine era verificare a che punto stesse il processo d’integrazione europea tra i giovani. I giovani non manifestavano una esplicita ostilità al processo di unificazione europea (solo 2 giovani su 100 erano negativi) piuttosto non lo consideravano in grado di rispondere alle domande valoriali e di identità che la complessità della società aperta comportava. Questa freddezza al tema dell’integrazione europea contrastava con la forte disponibilità dei giovani verso la lotta al razzismo e gli aiuti al Terzo Mondo. Insieme all’interesse verso le realtà del Terzo Mondo, si notava un’accentuata attenzione alle culture di altri paesi e l’interesse verso la cultura locale. Il tema ambientalista si confermava come uno dei principali argomenti su cui si coagulava l’attenzione dell’universo giovanile. Come pure alta appariva la sensibilità verso i problemi sociali mentre diminuiva l’interesse verso lo sport, lo spettacolo e i movimenti per la pace. Basso appariva l’interesse verso la politica internazionale e nazionale (ed in parte anche verso i tradizionali “movimenti”), bassa l’adesione a partiti politici ed organizzazioni sindacali, oltre alla conferma della scarsa attrattiva per le tradizionali forme di partecipazione politica. Appariva così evidente la frantumazione dei riferimenti politico-valoriali, l’incapacità delle forme tradizionali di fornire risposte alle domande giovanili ed il fallimento dei tradizionali meccanismi di generazione delle identità politiche. In compenso si rivelavano tra i giovani forme di adesione a realtà e valori in antinomia tra loro, dando ragione del sostanziale carattere combinatorio della cultura giovanile. Ciò portava ad escludere forme di radicalismo. Ma era “al centro” che si manifestavano le più forti contraddizioni e tensioni valoriali generate da quella combinazione di esigenze materiali ed immateriali, denominata “dei bisogni misti”. 4.6. Materialismo e postmaterialismo tra i giovani italiani Oltre che dalle ricerche europee, anche da quelle specificamente italiane, giunsero significative indicazioni sull’evoluzione di bisogni e della realtà giovanile. 4.6.1. Le ricerche IARD Anche le indagine IARD continuarono, negli anni ’9034, a monitorare l’andamento dei valori postmaterialisti. Come in Europa, anche in Italia prevaleva la tendenza al rimescolamento. Se da una parte l’esigenza di sicurezza economica sembra saturata, per cui la domanda di combattere 34 Le ricerche IARD degli anni ‘90 si segnalarono per l’ampliamento dell’età del campione (fino ai 29 anni) e per l’approfondimento di alcuni ambiti, come le scelte politiche e associative, diventate particolarmente significative dopo i mutamenti della società e della politica italiana in quegli anni. Quella del ‘92 (febbraio-marzo) si svolse su un campione di 2.500 soggetti, scelti con gli stessi criteri delle precedenti. L’innalzamento dell’età fu motivata dall’allungamento della fase giovanile, che tendeva a spostarsi sempre più in alto, anche per effetto delle difficoltà lavorative. Ma la scelta procedeva pure dalla possibilità di seguire le stesse coorti d’età nella loro maturazione. Quella del ‘96 (primavera), il cui campione era stato scelto con gli stessi criteri della precedente, analizzò con particolare attenzione la propensione al rischio tra i giovani, il tempo libero, i consumi e i nuovi orientamenti culturali. 36 l’aumento dei prezzi ottenne un bassissimo consenso, dall’altra la forte domanda di ordine e sicurezza sociale indicava che tale bisogno non era ancora adeguatamente soddisfatto. Nel compenso i due item postmaterialisti mostravano andamenti divergenti: in calo la richiesta di “dare maggior potere alla gente nelle decisioni politiche”, mentre era in netta ascesa la domanda di libertà di parola, che era diventata nel ‘96 la domanda più frequente. Per quanto sia difficile trarre delle conclusioni su un periodo così breve, sembra che sia possibile ricavare dai dati le seguenti indicazioni: a) I valori postmaterialisti si stavano affermando anche tra i giovani italiani, pur con lentezza, incertezze ed involuzioni. b) Permanevano domande diffuse di sicurezza economica e sociale, conseguenza probabilmente della situazione economica e politica del paese. Soprattutto il problema della sicurezza sociale sembrava molto avvertito, senza escludere quello della sicurezza economica (occupazione). c) Dei bisogni postmaterialisti emergeva con molta evidenza quello di libertà, mentre era decisamente in ribasso quello di partecipazione politica. Segno della prevalenza dei bisogni di tipo individualistico, a scapito di quelli solidaristici e collettivi. d) Non sembra possibile stabilire, dalle risposte fornite dai giovani italiani nel decennio ’90, l’affermarsi di una cultura nettamente postmaterialista, bensì l’emergere di domande che riflettono la necessità di saturare bisogni diversi, che possono essere indistintamente sia materialisti che postmaterialisti, a seconda del momento sociale. 4.6.2. I bisogni nelle ricerche sociologiche dell’Università salesiana Negli anni ’90 fu condotta dal gruppo di ricerca dell’Istituto di Sociologia dell’Università salesiana di Roma una serie di ricerche sui “bisogni formativi dei giovani” in varie realtà territoriali, di cui la più importante, per estensione, fu il Veneto, ma non irrilevanti furono quelle in Abruzzo, Sardegna, Lazio, ecc. Queste ricerche confermarono sostanzialmente dati già emersi nelle altre ricerche, ma con una loro peculiarità. L’obiettivo di tali ricerche era indagare i “bisogni formativi” in aree deprivate del paese, per “evidenziare il rapporto esistente tra rappresentazione dei bisogni in generale, e formativi in particolare, e specifiche esperienze di vita” (Malizia - Frisanco, 1991, 61). I campi in cui si applicò l’indagine furono quelli della vita di relazione sia tra pari che associativa, del tempo libero, del rapporto con i genitori, della scuola e/o lavoro, dei valori, bisogni e comportamenti, dell’esperienza religiosa e di quella trasgressiva. Infatti c’era “l'esigenza di approfondire, da una parte, la condizione giovanile sul versante dei bisogni, degli stili di vita, della capacità di coniugare la crescita con l'adattamento alle condizioni e ai processi sociali complessi e dinamici e, dall'altra, di verificare quanto e come l'essere parte di un'area a rischio di marginalità sia potenziata dalle caratteristiche del territorio di insediamento (Malizia - Frisanco, 1991, 33). Pertanto assommavano la prospettiva formativa a quella del disagio. 4.6.2.1. L’evoluzione verso bisogni sempre più immateriali Era interesse dei ricercatori rilevare, di fronte ad una società sempre più complessa, flessibile, ricca di opportunità, ma anche problematica per i giovani, il cambio della percezione dei bisogni e della loro struttura. Si ipotizzava infatti che, a fronte di maggiori opportunità di soddisfazione dei bisogni di tipo materiale, l’attenzione stesse spostandosi verso l’acquisizione di beni di tipo valoriale o comunque immateriale (relazionalità, partecipazione sociale, autorealizzazione, costruzione dell’identità, ecc.), oltre all'inserimento nel mondo produttivo. Questo miglioramento della sensibilità giovanile, se da una parte poteva essere segno di un’evoluzione dei bisogni (e quindi della cultura) per effetto del miglioramento delle condizioni 37 generali di vita, dall’altra, anche per effetto delle antinomie della società, poteva essere causa di conflitti interni “tra una promessa di opportunità senza limiti (autonomia, autorealizzazione) e la presenza di vincoli molto precisi (sistema scolastico-formativo, mondo del lavoro, struttura delle professioni, processo di omologazione/massificazione dei comportamenti, partecipazione sociale, ecc.)” (Malizia – Frisanco, 1991, 31). Lo stesso conflitto era ipotizzato “tra valori-bisogni di tipo acquisitivo-realizzativo (la competitività, il successo, il guadagno, la capacità di consumo, la possibilità di status e di potere) e quelli di tipo espressivo-post-materialistico (la spontaneità, la fraternità, l'autenticità dei rapporti interpersonali, la libertà personale, la qualità della vita)”. (Malizia – Frisanco, 1991, 31-32). Pertanto agli occhi dei ricercatori due sembravano essere i problemi "cruciali" emergenti dalla condizione giovanile del momento: a) una struttura dei bisogni sempre più "esigente" e omogenea tra i giovani, propensi a chiedere sempre più cose, più opportunità materiali e strutturali ma anche più comunicazione, più partecipazione/appartenenza/identificazione. In tale struttura di bisogni la disponibilità e la soddisfazione dei bisogni formativi, ovvero di crescita culturale, sociale e professionale della persona, erano ritenuti dai ricercatori un accesso privilegiato alla progettualità giovanile; b) una distribuzione delle opportunità formative non omogenea in relazione alle diverse caratteristiche territoriali e familiari (Malizia – Frisanco, 1991, 32). Sottostante a tale ipotesi, ce n’era un’altra, più generale che guardava in modo critico alla fase di aumento di opportunità e chiedeva “di valutare quanto l'eccedenza delle opportunità determinasse e favorisse realmente nel soggetto la capacità di utilizzarle in modo non acritico ma progettuale in un percorso di crescita in cui le istituzioni-guida si innestavano come stimolatrici di potenzialità (Malizia – Frisanco, 1991, 31). Quest’ultima ipotesi nasceva anche dalla constatazione dell’aumento di aspettative grazie alla crescita economica e alle promesse del sistema, alimentate sovente dallo stesso Welfare State. Quest’elemento, coniugato con i fattori della società complessa e flessibile, che rendeva sempre pù precarie e reversibili le scelte, senza un centro organizzatore, favorirebbe in parecchi soggetti un certo disorientamento nella costruzione dell’identità, mentre la assenza di progettualità e di contenuti tendeva ad essere surrogata dal consumismo (Malizia – Frisanco, 1991, 30). A rendere inquieto questo quadro, e più plausibile l’ipotesi, si registrava la crisi delle istituzioni educative e l’allentamento della loro funzione. Per dei soggetti deboli ciò può equivalere ad una maggior probabilità di disagio e di percorsi a rischio. 4.6.2.2. La mescolanza di bisogni Le risposte confermarono una forte domanda di attenzione ai bisogni immateriali più che a quelli materiali. Questa tendenza fu più evidente in aree economicamente più sviluppate (es.: Medio e Basso Veneto più che nel Bellunese), cioè lì dove la domanda di tipo materiale era stata abbondantemente saturata. In particolare i giovani veneti dimostrarono di aver bisogno di: a) relazioni familiari soddisfacenti (domanda di relazioni di tipo affettivo ed emotivo e di libertà e autonomia); b) relazioni amicali (aggregazioni spontanee, richieste di amicizia, di scambiare opinioni su argomenti di interesse comune, di fare attività sportiva spontanea: bisogno di sicurezza); il gruppo fungeva quindi da momento di evasione, da ambito di espressione di sé e da contenitori affettivo (Malizia – Frisanco – Pieroni, 1997, 18). c) di tempo libero e di consumi (sulla strada, in piazza, ai giardini, nei bar, birrerie, pizzerie, discoteche; in letture sbrigative, davanti alla TV o con hobbies e passatempi non impegnativi); 38 d) di istruzione (nella scuola e FP in ordine ad acquisire una maggior professionalità, meno come interesse per la cultura); e) di occupazione e di autorealizzazione (conciliando pragmaticamente aspetti espressivi con quelli strumentali); f) di valori e di significati (gli affetti, il successo nella scuola e lavoro, la grinta per affrontare la vita); meno avvertiti quelli di tipo impegno solidale e di trascendenza; 4.7. Bisogni e valori giovanili negli anni ‘90 Dall’analisi sinottica delle risposte date dai giovani tanto nelle indagini IARD che in altre, si confermò la tendenza, già espressa negli anni ’80, a dare la preminenza ai valori-bisogni di ordine affettivo (famiglia, amici, amore), in secondo luogo a quelli di tipo strumentale (lavoro, successo), infine a quelli di tipo ludico-espressivo (gioco, divertimento, sport, tempo libero), e poi di tipo formativo-culturale (studio). Mentre valori che riguardavano prevalentemente la sfera sociale e l’impegno per gli altri (impegno sociale, religioso, politico, patria) erano costantemente al fondo della scala delle preferenze: tali valori erano percepiti nella loro importanza solo da un’esigua minoranza. Pertanto, è l’emergenza dei valori affettivi che caratterizzò quest’epoca a livello giovanile. In ciò confermando le tendenze già emerse negli anni ’80. 4.7.1. La partecipazione associativa Un altro elemento che può indicare una coscienza “politica” è la partecipazione a forme associative o di volontariato. Secondo Inglehart (1990), è la nuova via della democrazia, che diventa meno rappresentativa e più diretta attraverso l’impegno personale e la partecipazione a movimenti di opinione, a cortei, manifestazioni (“partecipazione politica non convenzionale”). La partecipazione associativa volontaria dei giovani italiani ha visto una crescita notevole negli anni ’80, per poi consolidarsi negli anni ’90 vicino alla media dei giovani europei. 4.7.2. Il senso di appartenenza territoriale Uno dei tratti fondamentali carattere postmaterialista è la vocazione universalista. Infatti, Inglehart prevede che il senso d’appartenenza si stia spostando dal piccolo clan o paese ai confini del mondo intero, fino a sentirsi sempre più cosmopolita. Questo processo sembra aver avuto un arresto ed un’involuzione, proprio in corrispondenza della crisi delle utopie universaliste, (fine delle grandi narrazioni) e con la nascita movimenti xenofobi e particolaristici. In Italia questi orientamenti sono stati raccolti e organizzati dal partito della Lega Nord. Tali spinte vengono lette da Inglehart (1998) come una reazione di fronte alla minaccia ai valori tradizionali, reazione messa in atto da componenti tradizionali della popolazione. In realtà, tra i militanti della Lega Nord si contano parecchi giovani. Il fenomeno leghista può essere spiegato solo come una fenomeno reattivo o è qualcosa di più? Soprattutto, qual è la posizione dei giovani rispetto al richiamo delle tradizioni e al senso di appartenenza locale? Le risposte dei giovani nelle inchieste IARD sembrano non confermare queste pessimistiche previsioni, anche se le loro posizioni divergono alquanto dalle ipotesi avanzate da Inglehart. Per quanto una certa parte di giovani sia stata attratta dalle proposte leghiste e vi abbia aderito, 39 diventandone tra i più accesi fautori, il caso non ha interessato che una parte marginale di loro. La maggioranza dei giovani italiani, pur se interessati da questi movimenti, hanno reagito di fronte alla minaccia separatista recuperando il valore della patria, fino ad allora poco considerato, se non addirittura scomparso. Conseguenza di ciò è il recupero dell’istanza localista senza perdere il senso di un’appartenenza più vasta. La cosa appare già nelle risposte del ‘96, cosicché l’estensore, che pur aveva intitolato il capitolo “l’Italia: un puzzle di piccole patrie” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 145), concludeva definendo i giovani “localisti, italiani e cosmopoliti, senza contraddizioni” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 168). 4.7.3. Il significato del lavoro Rispetto al significato del lavoro, abbiamo due grandi trend nelle risposte dei giovani italiani. Fino al ‘92, gli andamenti sono stati in sintonia con le previsioni di Inglehart: diminuisce l’importanza del lavoro nella gerarchia dei valori (cede il posto agli affetti), in compenso crescono le attese di autorealizzazione e autonomizzazione, con notevole disponibilità alla flessibilità. Ma dopo il ‘92 le attese rispetto al lavoro si invertono: aumentano le domande in merito allo stipendio e al reddito, mentre diminuiscono rispetto all’ambiente, ai rapporti, all’autoespressione, come si può evincere dalla seguente tabella riassuntiva. Tabella.1 – Elenco delle aspettative rispetto al lavoro di giovani italiani nelle ricerche IARD 23. Qual è l’aspetto più importante del lavoro tra le cose di questo elenco? E quale metterebbe al secondo 1992 posto? E quale invece considera meno importante e metterebbe al penultimo e ultimo posto? % di risposta all’item “1° posto” 15-24 a. 15-29 a. Lo stipendio, il reddito Le condizioni di lavoro (ambiente di lavoro, tempi di trasporto…) Buoni rapporti con i compagni di lavoro Buoni rapporti con i superiori, i capi La possibilità di migliorare (reddito e tipo di lavoro) La possibilità di imparare cose nuove ed esprimere le proprie capacità L’orario di lavoro La possibilità di viaggiare molto La sicurezza del posto di lavoro Non indica 1996 2000 15-24 a. 15-29 a. 15-24 a. 15-29 a. 18.6 13.6 19.0 13.4 32.8 14.9 32.0 13.7 29.8 11.4 29.9 10.4 9.8 3.5 15.4 9.2 3.2 15.6 9.4 3.5 12.5 9.6 3.5 13.3 6.1 3.4 9.5 6.0 3.3 10.9 31.1 30.8 22.8 23.4 14.6 16.0 1.5 3.1 1.8 3.0 1.1 1.3 1.4 2.3 3.4 4.0 0.7 0.8 0.8 2.8 13.6 7.9 1.4 2.2 12.9 7.1 Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 614) Lo spartiacque sembra essere rappresentato dai dati della ricerca del ‘96, infatti in tale rapporto viene evidenziato il “deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 55), conseguenza della sfavorevole congiuntura economica verificatasi a metà degli anni ‘90. Mentre la ricerca del ‘92 aveva registrato una bassissima percentuale di giovani in cerca di prima occupazione (3.7%) e il numero più basso da quando erano cominciate le ricerche IARD di giovani in cerca di lavoro (26% sotto i 25 anni, 28.8% sotto i 30), quella del ‘96 registra un debole aumento della ricerca di prima occupazione (5.4%) e più marcato di lavoro in genere (33.3% sotto i 25 anni, 36.8% sotto i 30), con un aumento complessivo di 6-7 punti percentuali di giovani con problemi occupazionali. È indicativo che la domanda cresca più per il lavoro in genere che per la prima occupazione, segno del deterioramento complessivo delle condizioni di lavoro e dell’aumento 40 dei rischi d’espulsione dal mondo del lavoro. Altra caratteristica di questi anni è l’aumento delle disuguaglianze territoriali (favorito il Nord-Est, sfavorito il Sud e le Isole), che comportano differenti opportunità d’impiego per i giovani, disparità nella qualità del lavoro e nella retribuzione, maggiori discriminazioni per sesso e cultura. Questi fattori di tipo strutturale possono dare ragione dei mutamenti registrati nelle valutazioni del lavoro e sono perfettamente in linea con le ipotesi di Inglehart. Infatti, affermano i curatori del rapporto del ‘97 che “l’aumento consistente di importanza attribuita alla retribuzione, cui corrisponde una perdita di attenzione verso la dimensione formativa e realizzativa del lavoro” sia da attribuire “alla crisi economica, al mutato clima del mercato del lavoro e alla maggior difficoltà di trovare un posto, rispetto gli inizi degli anni Novanta” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 81). Le diverse situazioni sociali e culturali influiscono a loro volta nella tipologia delle risposte. I giovani più scolarizzati tendono ad essere relativamente più soddisfatti del lavoro, lo concepiscono più in termini autorealizzativi, ma anche di carriera, mentre i meno scolarizzati mostrano maggior apprezzamento per la dimensione relazionale ma anche per quella retributiva. Pertanto elementi espressivi (o postmaterialisti) si intrecciano con quelli strumentali (o materialisti) in entrambi i casi, rendendo difficile una lettura lineare dell’evoluzione dei bisogni e dei valori giovanili in merito al lavoro. Ciò che appare evidente è che il bisogno immediato è quello che determina la risposta in termini di preferenze e di valori. Anche un altro elemento considerato da Inglehart, la soddisfazione, non sembra dare indicazioni indiscutibili: a dispetto del deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro, aumenta il numero di giovani che attribuiscono molta importanza al lavoro e di giovani occupati che esprimono soddisfazione per il lavoro. Ciò, a detta degli estensori del rapporto, non va attribuito ad “improbabili tendenze culturali emergenti”, ma, più verosimilmente, al “mutato clima del mercato del lavoro”: i giovani occupati, “considerandosi in qualche modo dei privilegiati, esprimono più alti livelli di soddisfazione del lavoro” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 79). 4.7.4. La famiglia Nelle indagini degli anni ‘90 si prende ormai atto di una caratteristica tutta italiana: “il prolungamento della fase giovanile”, che comporta, a differenza dei giovani del Nord-Europa, la “famiglia lunga”: una lunga permanenza in famiglia, matrimonio molto in là negli anni, conseguente ritardo della prima paternità o maternità, con logica diminuzione delle nascite. Il fenomeno viene esplorato nelle sue probabili cause. Da una parte lo si attribuisce alle difficoltà lavorative e abitative, al prolungamento della scolarità e alle incertezze per il futuro, dall’altra si esplora la personalità dei giovani ed i modelli culturali prevalenti. Nel ‘92 si attribuisce alla “sindrome di Peter Pan” (rifiuto di crescere, di assumersi responsabilità adulte e di distaccarsi dalla comodità e dai vantaggi di essere figli) il motivo del prolungamento della moratoria adolescenziale. Ma tali caratteristiche non sono esclusive dell’Italia. Né esistono dei preconcetti morali sulla convivenza. Lo si è anche attribuito alle caratteristiche culturali del nostro popolo: il “mammismo” o il “familismo”. A parte l’indubbia importanza della famiglia nella cultura italiana, al primo posto anche nei sondaggi degli adulti, la ricerca del ‘96 ha fatto giustizia di questi luoghi comuni: per “famiglia” i giovani non intendono solo la famiglia d’origine ma anche a quella di destinazione. Sono “coloro che non vivono più con i genitori, […], che apprezzano in misura maggiore l’item in questione” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 343), mentre quelli che vi danno meno importanza sono i più giovani o quelli che rimangono più a lungo nella casa dei genitori. E conclude: “luogo degli affetti e delle relazioni primarie, rifugio e fonte di sicurezza, la famiglia rappresenta per i giovani il privato per antonomasia. Può anche essere usata strumentalmente per i vantaggi e le comodità che riesce a garantire, ma resta in ogni caso 41 un’area nella quale proiettare la propria progettualità ed investire per il futuro” (ibid., 344). È proprio in questa ricerca degli affetti, delle sicurezze nel privato che va cercata la ragione del permanere di tale valore presso gli italiani. 4.7.5. Valori affettivi Nell’indagine del ‘92 avviene lo scavalcamento, come già visto, dei valori affettivi a scapito del lavoro, indice dell’importanza sempre più strategica che stanno assumendo tali valori nella vita dei giovani. L’analisi più dettagliata di tale fenomeno consente di evidenziare una parabola degli affetti che raggiunge il picco attorno ai 17-19 anni, seguito da una successiva graduale discesa. Tale parabola sembra esprimere in modo chiaro l’andamento dello sviluppo della socialità nell’età giovanile. “Intorno ai 15-16 anni inizia la ricerca di affetti fuori della famiglia, tra gli amici del proprio e dell’altro sesso, che raggiunge il culmine tra i 17 ei i 19 anni. Nelle età più adulte, la maggior sicurezza raggiunta, lo stabilizzarsi delle amicizie e degli affetti, l’ampliarsi delle sfere di vita portano ad una relativa diminuzione del peso di quest’area” (Cavalli, de Lillo, 1988, 78). Le ultime due ricerche confermano sostanzialmente le tendenze già emerse. Ormai appare costante il fatto che, nelle graduatorie valoriali, i primi tre posti siano occupati da aspetti della vita più direttamente legati alla sfera privata ed intima della persona. Nel contempo cala l’interesse e la disponibilità per l’impegno pubblico, necessario per garantire quei diritti e quelle condizioni sempre più esigiti come “titoli” dalla persona moderna. Da ciò emerge “un quadro complessivo dei modi con i quali le nuove generazioni paiono costruire la propria vita decisamente orientato verso il sé ed il privato. Si cerca anzitutto la soddisfazione sul piano delle relazioni, siano essi parentali, amicali o d’amore e si chiede tutela dei propri diritti di cittadino e di lavoratore. Solo dopo sembra si possa cominciare a dedicarsi alla dimensione collettiva (solidarietà ed eguaglianza) ed infine al soddisfacimento dei vari interessi relativi a tempo libero e alla cultura” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 348). 4.7.6. Il tempo libero Negli anni ‘90 si continua nella stessa direzione, con sostanziali conferme rispetto al passato. Qualche dato in più lo registra la ricerca del ‘96, nella quale il tempo libero riceve più attenzione, distinguendo tra consumi culturali ed altre modalità di trascorrere il tempo libero, come l’attività sportiva, che appare in crescita, ma declinante con l’età. Ma è soprattutto nel confronto tra consumo colto e ludico, che appaiono le maggiori differenze con i dati delle precedenti indagini: si riducono drasticamente i giovani che si riferiscono prevalentemente ad un modello di consumo colto oppure ad un modello misto colto-ludico; aumenta, per contro, la componente quasi esclusivamente ludica e i giovani con un basso livello di consumo culturale. A parziale limitazione di questa prospettiva orientata al disimpegno si riscontra, all’aumentare dell’età dei giovani, una crescita d’interesse per l’attualità, l’informazione, il dibattito politico nazionale e locale, veicolati sia dalla televisione sia dalla stampa. “È comunque da rilevare che gli stili di consumo culturali giovanili sono ancora del tutto disomogenei al loro interno, risentendo fortemente dell’origine sociale, del grado d’istruzione, della differenza di genere, del tipo di offerta culturale presente nelle diverse aree regionali e nei comuni a seconda della loro ampiezza” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 357). 42 4.7.7. Il riferimento religioso Altre ricerche condotte in Italia (e in Europa) negli anni ‘90 (ISPES-Famiglia Cristiana 1991, Fondazione Agnelli 1992, Università Cattolica 1995) anche se su campioni adulti (dai 18 anni in su) conferma questa soggettivizzazione in atto dell'esperienza religiosa. Essa si esprime nei giovani (18-29 anni) nella privatizzazione dei comportamenti connessi con la fede, in una maggior sensibilità per la dimensione sociale. Emergono esigenze di una religiosità più autentica, che va alla ricerca delle motivazioni personali per credere e tende ad esprimersi in una preghiera più personale o di piccolo gruppo che collettiva-pubblica (Mion 1991). Pur aumentando coloro che attribuiscono importanza alla religione35, essa viene vissuta in forma individuale, senza molte relazioni con le istituzioni. Il riferimento religioso non si traduce in una partecipazione alla religione di Chiesa, tantomeno in una accettazione dell'autorità morale della gerarchia nei comportamenti soprattutto in materia sessuale ed elettorale36. Anche sui contenuti dottrinali rimane positiva e corretta solo l'immagine di Gesù, per il resto dubbi e incertezze sono quanto mai diffusi. Segni della sempre maggiore assunzione, da parte giovanile, della mentalità post-moderna, nonché del passaggio della mentalità secolarizzata e della razionalità scientifica su questa generazione (Mion 1991, id. 2002 ). I giovani che hanno un atteggiamento più critico verso l’istituzione Chiesa sono i giovani che invitano la Chiesa ad una presenza sociale più rispettosa della propria missione religiosa e ad evitare la ricerca di posizioni di vantaggio sociale e politico; che si discostano maggiormente dalle indicazioni del magistero ecclesiale nel campo della morale sessuale e familiare, con particolare riferimento alle questioni dell'aborto, del divorzio, della contraccezione, della condizione dei divorziati e separati, dei rapporti sessuali prematrimoniali; che rifiutano e non comprendono varie prescrizioni che regolano i rapporti interni al mondo ecclesiastico, tra cui il celibato del clero, la questione del sacerdozio femminile, il significato della vita dei religiosi in convento e la loro separatezza dal mondo (Garelli, Offi 1997, 198). In ogni caso i giovani religiosi (soprattutto se accoppiano la fede alla pratica) tendono ad essere più ottimisti e più soddisfatti della loro esistenza, e ad aver più fiducia nelle istituzioni. Per cui l'appartenenza religiosa si associa ad un più elevato livello di integrazione sociale (Cavalli, De Lillo 1988, 88). A conclusioni simili è giunto la ricerca di Donati e Colozzi (1997) 37 la quale evidenzia, di fronte alla crisi di “generazionalità” che stanno passando i giovani, che in coloro che hanno una “credenza religiosa”, risulta ridotto significativamente tale rischio38. Nel complesso questi giovani sembrano caratterizzarsi per un modello culturale e una visione del mondo che per vari aspetti si diversificano dai modelli prevalenti nella società (Garelli, Offi 1997, 199). Pertanto, quando si parla di «ritorno del religioso» o dello «spirituale» o del «soprannaturale» se ne vuole sottolineare la forma diffusa e libera (la «religione diffusa» di R. Cipriani). Questo vale per la fede cattolica attraversata da: relativizzazione delle credenze, crescita di autonomia, privatizzazione della pratica religiosa, sviluppo del ruolo dei laici di fronte alla scarsità dei sacerdoti, valorizzazione dell'impegno «terreno e sociale» a danno di un'attenzione al Trascendente e alla Storia della Salvezza, affievolimento del senso di colpa e della necessità di una salvezza, nonché 35 Sarebbero oltre ¾ i giovani, secondo l’ultima indagine IARD (2000) ad attribuire importanza alla religione nella propria vita (35.7% molta o moltissima, 42.4% abbastanza) 36 Comunque l’appartenenza religiosa contribuisce a rendere più attenti i giovani nel rispetto di valori tradizionale, soprattutto nei campi dell’etica sessuale e familiare ((Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 380-383). 37 L’inchiesta è stata condotta nel 1996 su un campione di 1.557 giovani rappresentanti l’universo giovanile italiano tra 15-29 anni, su commissione della Chiesa italiana. 38 “Il senso della generazionalità nel giovane trova nelle variabile religiosa i fattori più significativi in senso assoluto” (Donati, Colozzi, 1997, 261) 43 della perdita di coscienza circa la gravità del peccato (crisi della pratica della confessione e dei Novissimi) (Mion 1995, 42-43). Ma vale anche per le nuove forme di credenza (dalla New Age alle sette religiose, passando per le varie forme di credenze orientali), che si caratterizzano per essere libere, individuali, diffuse, fondate soggettivamente e colorate di una patina di scientificità (astrologia, telepatia, vita extraterrestre), piuttosto immanenti, non colpevolizzanti, a orientamento mondano pur nei loro rapporti con l'«aldilà» attraverso lo spiritismo e la reincarnazione (Mion 1995, 42). Sia dentro che fuori le chiese, dunque, emergono istanze religiose innovative, che riflettono l'attuale clima culturale, che si presentano come le forme religiose della post-modernità. Osservando gli andamenti di questi ultimi vent’anni emergono con un certa costanza i caratteri di un nuovo tipo di religiosità, sempre più soggettiva e a forte componente emotiva. Rientrano in questa nuova sensibilità religiosa la riscoperta del carisma, la ricerca di una religione dell'esperienza a forte accentuazione emotiva e comunitaria, la tensione nei confronti di un'integrità spirituale da salvaguardare. In particolare si tratta di un tipo di religiosità che mira a superare le appartenenze formali o istituzionali che ricerca un'espressione della fede più coinvolgente, non esente da vincoli affettivi, che costituisca un fattore di identificazione, che risponda al criterio della "significatività". Un tempo questa identificazione era data dall`osservanza", dalla frequenza alle pratiche religiose, dall'adeguamento alle prescrizioni delle chiese; oggi si ricerca questa identificazione religiosa in realtà meno anonime e burocratizzate, che esprimono una particolare sensibilità religiosa, caratterizzate da maggior capacità di coinvolgimento, informate da un'adesione "volontaristica". La domanda di una religione comunitaria e emozionale si accompagna anche alla ricerca di eventi religiosi straordinari, di luoghi eccezionali in cui si manifesti la tensione religiosa. È la ricerca di "nuovi santuari", di ambienti di conferma della propria tensione sociale e religiosa, che offrano la consapevolezza di partecipare a una ricerca più ampia, che travalica le varie appartenenze e confessioni religiose e accomuna diverse culture e sensibilità. Questa religiosità che si esprime nei momenti forti e in luoghi privilegiati risulta poi difficile da comporre nella vita quotidiana, nelle situazioni sociali e religiose ordinarie. Ancora, si tratta di un tipo di sensibilità religiosa particolarmente attratta dalle grandi personalità, assai sensibile ai leaders carismatici e alle figure che testimoniano nella vita gli ideali che proclamano. Si delinea in tal modo l'esigenza di dare larga evidenza ai valori della fede, in un tempo in cui prevalgono le comunicazioni forti e spettacolari. Sovente ci si identifica anche in personalità che hanno una precisa collocazione nelle chiese, che vengono comunque rivalutate più per le loro qualità personali che per il loro ruolo istituzionale (Garelli, Offi 1997, 200). Sembra che i bisogni a cui queste forme religiose rispondono sia un bisogno di sicurezza di fronte alle molteplici precarietà e incertezze della vita moderna. Ma ciò non comporta un ricompattamento nella Chiesa, anche se c’è una maggior simpatia verso di essa (e verso il Papa), soprattutto quando sembra perdente. Ma l’etica l'etica si sta autonomizzando in rapporto alla religione. Si riscontra infatti tra i giovani un’idea di religione più allargata e generica, tipica di quanti hanno difficoltà a riconoscere il primato di una particolare forma religiosa e a identificarsi con essa […]. Una quota rilevante di giovani sembra aver maturato un'idea assai ampia di religione, considerando tale qualsiasi istanza umana che risponde al problema del senso dell'esistenza. Si sta dunque affermando una religione dalle attese umane, come una generale fonte dei valori, per vari aspetti priva di prospettive trascendenti 44 (Garelli, Offi 1997, 197). D'altra parte, chi aderisce al Cristianesimo, sia nel senso di una forte riaffermazione di identità, sia nel senso di un rinnovato impegno missionario e di adattamento alle prospettive della nuova modernità, dimostra una capacità di scelta molto più alta che nel passato e trova sovente in esso delle risposte ai suoi bisogni. A livello sociale la religiosità sta acquistando oggi più di ieri un valore fondamentale anche nella formazione dell'identità giovanile. Ciò non significa che tutti la assumano, ma piuttosto che per chi la sceglie diventa un tratto centrale, molto importante, attorno a cui unificare le altre dimensioni umane per la costruzione della propria personalità. Ne emergono in particolare due tratti: - il primo, che la religiosità, molto più che nel passato, è diventata oggetto di una specifica scelta, personalmente e liberamente voluta; - il secondo, che fede e religiosità diventano piuttosto funzionali alla propria crescita personale, una tessera importante e tra le più valide con cui dare senso al mosaico della propria vita nel segno dell'autorealizzazione. Ne consegue un rapporto con la fede più centrato sull'uomo. Le sue motivazioni via via dovranno necessariamente purificarsi con il maturare della fede e della propria relazione con Dio (Mion 1995, 46). 4.8. Disagio e rischio negli anni 90 Negli anni ’90 l’adozione dei termini disagio e rischio per descrivere le situazioni prossime alla devianza dei giovani, divenne definitiva. Questo grazie sia ad alcune opere che tentarono una riflessione sistematica dei termini, sia all’adozione da parte di molte ricerche di tali classificazioni, alcune delle quali di un notevole spessore scientifico. 4.8.1. La sistemazione del termini disagio Il termini disagio ricevette un’ulteriore precisazione in alcune opere sistematiche di considerevole valore. 4.8.1.1. Il disagio in “Emarginazione e Associazionismo giovanile” (1990) L’opera “Emarginazione e Associazionismo giovanile” (Mion 1990), a cura dell’Osservatorio della Gioventù dell’UPS, diede un contributo notevole al chiarimento teorico del termine “disagio”, potendosi avvalere delle riflessioni sviluppate sul tema da Milanesi nel decennio precedente e del confronto con l’evoluzione dell’emarginazione in Italia dal ‘45 all’87. Il concetto di “disagio” venne collegato a quello di “emarginazione”, come frutto di situazioni emarginanti e, a sua volta, possibile causa di ulteriore emarginazione e devianza. 4.8.1.1.1. Il disagio dal punto di vista psicologico Il termine venne interpretato, dal punto di vista psicologico, come una “qualità esperienziale che può colpire i sentimenti, gli stati d'animo, il pensiero e la volontà. Può essere provocato da situazioni esterne, ma il più delle volte sorge dall’interno ed è in grado di raggiungere la sfera esperienziale conscia” (Arnold, 1986, cit. da Mion, 1990, 165). Si evinse pertanto che, all’interno di un individuo, esso si presentava come un “sintomo della presenza di un non-equilibrio, di una situazione di tensione a livello di identità personale e di relazione con gli altri, di manifestazione di 45 bisogni non soddisfatti o frustrati, soprattutto quelli attinenti alla propria identità e alla realizzazione del sé” (Mion, 1990, 165). Particolare attenzione fu riservata al tema dell’identità, intesa come «l'insieme delle caratteristiche e delle modalità di comportamento individuali che, nella loro organizzazione e strutturazione, spiegano l’adattamento unico dell’individuo al suo ambiente nella totalità» (Hilgard, 1971, cit. da Mion, 1990, 165): all’interno di una società complessa e competitiva essa diventava sempre più problematica e difficile da conseguire. Ciò provocava senso di insicurezza, con conseguenti sentimenti di oppressione, paura, ansia. Vennero anche segnalati sintomi di scarso adattamento emotivo, riconoscibili in alcuni fattori di comportamento negativistico o antisociale, come: atteggiamenti di tipo oppositivo e di riluttanza a collaborare, difficoltà comunicativa, umore facilmente alterabile, scarsità di motivazioni, notevole dipendenza dagli altri, ansietà, malinconia, ipereccitabilità, sensi di colpa, eccessiva timidezza, scarsa autostima, isolamento, spavalderia, esibizionismo, intolleranza, aggressività fisica e verbale, resistenza a conformarsi alle norme, incapacità di dilazionare la gratificazione immediata, difficoltà di percezione realistica, ecc. Tutti sintomi in qualche modo riconducibili ad un quadro psicologico alterato se non addirittura patologico Anche la sindrome di “vuoto esistenziale” (Frankl), mancanza di significato, noia venne in qualche modo ricondotta al tema del disagio. Gli autori, fondandosi su dati ONU, hanno cercato di individuare alcuni sintomi prevalenti: violenza fisica; carenze o deviazioni dell’amore paterno e materno; assenza di formazione scolastica e professionale adeguata ai singoli casi; frustrazioni varie riconducibili a condizioni materiali ed economiche disagiate o alla situazione di vita della famiglia, frequentemente oppressa dalle difficoltà per vivere, qualche volta delinquente essa stessa; impossibilità di accedere alle professioni e alle attività del tempo libero che interesserebbero; appartenenza ad una cultura marginale o emarginata; riferimento ad una scala di valori radicalmente differenti da quelli della cultura ufficiale (7° Congresso Mondiale dell'ONU su «La prevenzione del crimine e il trattamento del delinquente», Milano 1984, cit. da Mion, 1990, 167). 4.8.1.1.2. Il disagio dal punto di vista sociologico L’analisi del concetto di disagio dal punto di vista psicologico era servito agli autori per mettere a fuoco il concetto nella sua genesi come problema personale. Ma l’intento era quello di coglierne la valenza all’interno di un quadro socio-politico-culturale che ne fornisse le coordinate entro cui aver senso. Questa visione consentiva di collegare l’identità ai processi di socializzazione e di stabilire una linea metodologica di lettura del disagio e della condizione giovanile, ricca di stimoli e prospettive. La prima cornice analizzata fu quella della società nel suo insieme, nella sua strutturazione e organizzazione. Se ne posero in evidenza le caratteristiche di complessità, soprattutto le difficoltà per il singolo di ricondurre ad unità gli elementi del sistema, con conseguente senso di dispersione e di smarrimento: una situazione anomica. Nei giovani tale realtà implicava un senso di “disorientamento, incertezza, perdita di riferimenti valoriali, ansia, pressioni dall’esterno su una identità ancora in formazione e quindi debole” (Mion, 1990, 175). Particolarmente venne denunciata la pressione del sottosistema economico-produttivo, che continuava a “fondare la logica dello sviluppo nel cerchio produzione-consumi privati. E’ una logica sostanzialmente insensibile ai bisogni collettivi, che aumenta l’emarginazione dei ceti sociali 46 non protagonisti dello sviluppo, favorendo invece il potere e il benessere dei ceti già in situazione di privilegio economico, sociale, culturale” (Mion, 1990, 175). Tale logica aveva ripercussione in tutti gli altri sottosistemi della vita sociale: a) nel mondo del lavoro: Il sottosistema economico generava aumento di produzione ma anche di disoccupazione. Aumentavano così i tentativi di accedere al lavoro, non tanto per ricevere da esso identità, ma soprattutto per avere quella quota di reddito che permetteva di soddisfare il bisogno di consumare. Essendo opportunità rara, aumentavano i casi di lavoro nero, irregolare, precario, sottopagato, ecc. Il bisogno che veniva frustrato, oltre evidentemente a quello econmico, era quello dell’autorealizzazione, sempre meno possibile attraverso l’impiego ed il lavoro. Ciò provocava un doppio disagio: sia della scarsità del lavoro come anche del “gap”, fra aspettative e bisogni soggettivi. b) nel sottosistema formativo: “l’impoverimento dei contenuti formativi, il progressivo distacco della cultura scolastica dai problemi della società, la svalutazione dei titoli di studio (soprattutto quelli medio-bassi), la loro irrilevanza ai fini dell'ottenimento di posti di lavoro (Mion, 1990, 176). L’istituzione scolastica, incapace di trasmettere competenza e professionalità, generava sentimenti di sfiducia, incertezza e insicurezza. L’esito era l’accettazione passiva dell’istituzione così com’è, con i suoi pregi e difetti, senza tendere al cambiamento. Il disagio consisteva perciò, oltre che negli abbandoni e fallimenti scolastici, nel sentimento di rassegnazione, che costringeva a stare dentro un’istituzione senza crederci e quindi senza investimenti di risorse. Ciò mortificava la speranza d’autorealizzazione o anche solo la percezione che la scuola potesse essere un mezzo importante per conseguirla. c) nel sottosistema familiare. Anche la famiglia metteva in evidenza una serie di sviluppi problematici: contrazione delle dimensioni medie del nucleo familiare, forte decremento della natalità, allargarsi dello strato di famiglie ai limiti della povertà relativa a fronte di un aumento complessivo dei livelli di consumo, progressivo impoverimento di funzioni e di ruoli. Tali fenomeni espongono la famiglia e i suoi componenti al rischio di una maggiore problematicità nei rapporti interpersonali, di incertezza circa i ruoli dei membri, di conflittualità nei rapporti con la società (Mion, 1990, 177). La famiglia perso il monopolio della funzione socializzante, esposta alla concorrenza dei massmedia, della socializzazione orizzontale, della scuola, aveva abdicato alla sua funzione, accontentandosi di gestire i rapporti interni, dove ogni cosa, essendo basata sulla relazione e non più sul ruolo, era soggetta a negoziazione. Se teneva, non era certo perché “forte”, ma perché aveva saputo adattarsi, ritagliandosi un ruolo “di distribuzione del reddito per i consumi giovanili, da un lato, e di erogazione di prestazioni assistenziali, affettive e morali” (Mion, 1990, 178). Pertanto si poteva parlare di “un disagio contenuto dei giovani nella vita familiare” (Ibidem, 179), perché i giovani trovavano in essa un luogo di compensazione dei conflitti sociali. d) nelle altre forme (istituzionali e non): “le istituzioni politiche, religiose, il sistema di significati, di produzione di valori” (Mion, 1990, 180). Lo sfondo appariva contrassegnato da una situazione diffusa di anomia, definita durkheimianamente come frattura tra sistema normativo e sistema strutturale per effetto di diverse velocità di cambio. Essa determina l'incapacità, da parte del sistema normativo, di governare il rapporto fra società e individuo, in quanto esso non gode più della necessaria fiducia e legittimazione (Mion, 1990, 180). Se gli atteggiamenti dei giovani apparivano complessi e contraddittori, non erano però esenti manifestazioni di disagio “sotto forma di sfiducia, di angoscia nei confronti del futuro, di comportamenti adattivi, di rinuncia alla dimensione di progettualità e di responsabilità individuale e collettiva” (Mion, 1990, 180). Anche le aggregazioni e i movimenti non sfuggivano a simili responsabilità. 47 Spesso il loro trovarsi insieme è una sorta di contenitore, in cui i bisogni idividuali si incontrano e negoziano un terreno di scambio affettivo, di «partigianeria», di confronto sui consumi e sulle mode e sulle proprie piccole vicende quotidiane. Non è un luogo ben preciso né un universo simbolico ben definito: è più un guscio caldo in cui i giovani si sentono accettati e meno soli (Mion, 1990, 180). I segni di malessere potevano essere: a) la povertà degli stimoli che tutto sommato sembrano attraversare i consumi e i luoghi di incontro dei giovani; b) la differenziazione delle opportunità di accesso al consumo di beni culturali più elaborati che cresce con il crescere del livello di istruzione e di reddito (Mion, 1990, 180). 4.8.1.1.3. Disagio, marginalità, devianza In merito al rapporto tra, disagio, marginalità devianza, venne fatto presente la continuità esitente tra questi tre ambiti: Fra conflitto palese (i movimenti) e processi di emarginazione (la devianza) c'è un terreno intermedio che funziona come un continuum fra i due poli estremi. In altri termini il passaggio dall’un polo all’altro, può trovare una spiegazione solo andando a vedere i sintomi di malessere presenti nella “normalità». Tra conflitto ed emarginazione c'è qualcosa di più fluido e nello stesso tempo di più diffuso che è la condizione di marginalità oggettiva e soggettiva nelle quali la maggioranza dei giovani si trova (Mion, 1990, 180). Quindi il disagio, secondo gli autori, prenderebbe sovente le mosse da una situazione di emarginazione, troverebbe nelle pratiche sostitutive delle vie di autorealizzazione all’interno delle opportunità che la società complessa offre, oppure potrebbe tradursi in pratiche oppositive al sistema o di fuga, con aumento, quindi, della marginalità e devianza. Il percorso avverrebbe “dal disagio al disadattamento, alla devianza” (Mion, 1990, 182). In sintesi, il disagio sarebbe espressione delle seguenti problematiche: - i giovani sono proiettati nell'esistenza con responsabilità non assumibili ed autonomia non maturata, sprovvisti di strumenti di analisi critica e di capacità costruttiva di autodifesa dai rischi ambientali; - carenze gravi della famiglia e della scuola nel momento in cui sono chiamate a fornire valori e modelli di orientamento e di comportamento ; - situazione nuova in ambito educativo, caratterizzata dall'esistenza di un sistema policentrico di educazione-formazione cui non si sono adeguate le sedi tradizionali di educazione (famiglia e scuola); - stato di confusione e di disorientamento derivante dalla compresenza di messaggi e stimoli contraddittori: comportamenti e messaggi divergenti dei genitori, degli educatori, e dell'ambiente (mass-media, ecc.); - mancanza di collegamento e coordinamento dei vari interventi a servizio della persona: famiglia, scuola, sanità, assistenza, cultura, sport, inserimento nel mondo del lavoro; - mancanza di una cultura della prevenzione intesa non come affannosa ed esclusiva ricerca di evitare, attraverso moderne e sofisticate attrezzature clinico-diagnostiche, disagi, malattie, devianze, ma come umana e consapevole responsabilizzazione della persona a realizzarsi in quanto tale; e ciò mediante la conoscenza, il rispetto, la stima e lo sviluppo creativo delle potenzialità proprie e altrui, per la promozione di una situazione di «benessere» personale e comunitario (Mion, 1990, 185). 48 4.8.1.2. Il disagio in “Disagio giovanile e politiche sociali” (1992) Il libro che rappresentato lo sforzo più compiuto di sistematizzazione dell’argomento del disagio fu quello di Neresini – Ranci (1992), che raccoglse e tentò di sistematizzare i contributi di vari autori italiani sul tema del disagio giovanile. Essi, rilevarono che l’apparizione di tale termine avvenne in concomitanza con la “dissolvenza” teorica del termine “devianza” e in parallelo con la trasformazione del concetto di “normalità”. Questo per effetto della complessificazione della società e dissoluzione dei sistemi di controllo, per cui “la norma tende a diventare più flessibile e meno rigidamente determinata” (Neresini – Ranci, 1992, 21). Per cui l’apparizione del termine “disagio” rappresentò la logica conclusione di un processo di “normalizzazione della devianza” (Neresini – Ranci, 1992, 23). L’espressione “disagio” fu posta in relazione con la voce “disadattamento”, ed assunse il significato primo di “mancanza o carenza di adattamento” (Neresini - Ranci 1992, 29). Il termine venne applicato sempre più sovente alla condizione giovanile per sottolineare il fatto che “un non completo adattamento caratterizza in misura determinante l’essere stesso della condizione giovanile” (Neresini – Ranci, 1992, 29). Infatti la gioventù sembrava collocabile tutta sotto la categoria dell’emarginazione, ed esposta al rischio di devianza. Pertanto l’attenzione si stava spostando da singoli atti o comportamenti ad uno stato generico che connotava tutti gli adolescenti ed i giovani. Per cui il disagio era assunto come “la manifestazione presso le nuove generazioni delle difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi che sono loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità personale e per l’acquisizione delle abilità necessarie ad una soddisfacente gestione delle relazioni quotidiane” (Neresini – Ranci, 1992, 31) Sovente tale termine era utilizzato quasi come sinonimo di “adolescenza”, per indicare il disorientamento, il malessere e le difficoltà che un giovane incontrava nel processo di maturazione. Si tendeva infatti a connotare la stessa condizione giovanile, particolarmente quella adolescenziale, come una situazione diffusa di disagio, come un periodo di difficoltà di adattamento ad una società che, ai normali problemi di crescita, pone ulteriori ostacoli all'inserimento sociale dell'adolescente e del giovane. Tuttavia questa tendenza non era esente da rischi ed equivoci, poiché, mentre termini come “devianza” e “marginalità” godevano di uno statuto scientifico, con teorie ed indicatori precisi, il disagio diventava il contenitori di ogni malessere, privando lo studioso di parametri precisi per definire il problema e l’operatore sociale, politico o culturale, di precisi strumenti di intervento. Pertanto gli autori ritennero fosse giunto il momento di evidenziare rapporti e distinzioni fra i termini fino ad allora impiegati39. Pertanto precisarono che “la devianza corrisponde sostanzialmente all’acquisizione di un ruolo e di una identità sociale - individuale o di gruppo - che si raggiunge mediante l’assunzione di comportamenti che infrangono una norma socialmente condivisa (= devianza latente) e che diventano socialmente visibili a causa e l’intervento delle agenzie di controllo sociale” (Neresini – Ranci, 1992, 33). Mentre per emarginazione si intendeva “una condizione sociale, caratterizzata dalla permanente esclusione dal sistema di diritti/doveri e dall’accesso a una serie di risorse normalmente disponibili che, al contrario, individuano l’area/condizione della normalità” (Neresini – Ranci, 1992, 33). Per cogliere nessi e differenze tra i tre termini ricorsero ad un grafico, che riportiamo con la corrispondente spiegazione. 39 “Troppo spesso, infatti, questi tre termini vengono usati come sinonimi, mentre pare più conveniente utilizzarli come designazioni di fenomeni diversi che vanno considerati prima singolarmente e poi nel contesto delle loro reciproche interazioni” (Neresini – Ranci, 1992, 33). 49 Fig. 1.2. Schema dei rapporti tra emarginazione, devianza e disagio Fonte: Neresini – Ranci, 1992, 34 a) la condizione di marginalità esprime solo la punta emergente di comportamenti devianti molto più diffusi e di una base di disagio ancora più estesa; b) non tutta l’emarginazione giovanile coincide tuttavia con l’assunzione di comportamenti devianti manifesti, ovvero socialmente visibili. Esiste infatti una quota della popolazione giovanile che, a causa della scarsa dotazione di risorse economiche e socioculturali di cui dispone, è destinata a occupare posizioni marginali, connotate dalla precarietà occupazionale e dalla subalternità culturale. D'altra parte, questa situazione rimane un terreno molto favorevole all'assunzione di comportamenti devianti (= devianza potenziale) e al manifestarsi del disagio, anche se non si dà una relazione di causalità automatica e diretta; c) l'assunzione di comportamenti devianti latenti - cioè di comportamenti che pur infrangendo le prescrizioni normative vigenti non raggiungono la soglia minima di visibilità sociale, oltre la quale scattano i meccanismi sanzionatori del controllo sociale e prende avvio il processo di acquisizione del ruolo deviante - è un fenomeno che non coinvolge necessariamente soggetti interessati in misura considerevole dalla situazione di disagio. Ovviamente, la devianza latente costituisce una potenziale causa di emarginazione (= emarginazione potenziale) ferma restando; anche in questo caso, l'esclusione di rapporti di causalità diretta; d) il disagio giovanile si presenta quindi come un fattore di accelerazione verso l'assunzione di comportamenti devianti e dei processi di emarginazione. Non per questo il primo coincide con i secondi, ma dimostra un'estensione notevolmente più ampia. In coerenza con quanto sostenuto precedentemente, è necessario inoltre supporre che quanto rappresentato nella figura […] non si concentri esclusivamente in un'unica zona della condizione giovanile […] ma si distribuisca piuttosto in modo disomogeneo […] così 50 come in modo diseguale si distribuiscono le risorse e la loro capacità/possibilità di utilizzazione ai diversi livelli della stratificazio-ne sociale (Neresini – Ranci, 1992, 33-35). L’analisi poi proseguiva seguendo i vari percorsi a rischio, in cui i giovanili trovavano vari ostacoli all’assunzione di compiti adulti, inserimento sociale e definizione dell’identità. Pertanto il percorso di maturazione dell’adolescente/giovane appariva sempre più come un percorso ad ostacoli, in cui alcuni riuscivano altri meno. Questo grazie alla differenziazione pronunciata operata dalla società complessa, dove lo stesso disagio appariva funzionale all’aumento di differenziazione della società e alla flessibilità richiesta dai rapidi mutamenti sociali. Infine veniva compiuta una rassegna delle principali forme di disagio, lette come strategie di riduzione della complessità. 4.8.1.3. “La gioventù negata” (1994) Gli anni ’90 hanno visto una vera e propria fioritura di ricerche sul disagio giovanile, tuttavia quella del Labos (1994) certamente la più rappresentativa, per ampiezza del campione e per varietà e profondità di approcci 40. Tale ricerca ha indagato a fondo sulle differenze tra “normalità” e “disagio”, così da individuare, in via sperimentale, le componenti specifiche del “disagio” al di là di una “normalità” più o meno agevole. Ciò ha contributo all’individuazione, delimitazione e interpretazione del disagio giovanile. Nello stesso tempo ha gettato uno scandaglio nella vita di molti giovani per scoprire i percorsi attraverso cui un malessere diffuso può evolvere in una situazione deviante, ma anche come quest’esito può essere efficacemente contrastato e, quindi, quali sono le potenzialità giovanili su cui investire. 4.8.1.3.1. L’interpretazione del disagio Rispetto alle interpretazioni di Neresini – Ranci (1992), quest’opera, che era diretta da Pollo e annoverava tra gli autori Milanesi, ritoccò, in base ai dati elaborati con l’analisi fattoriale, i rapporti tra disagio, devianza ed emarginazione. Essi fornirono il seguente schema del rapporto tra disagio, devianza ed emarginazione, dandone la spiegazione che segue. Figura 4.1 – Modello del rapporto tra disagio, devianza ed emarginazione Fonte: Labos 1994, 62 40 Le interviste erano state rivolte a 2.000 soggetti “normali”, scelti con metodo casuale a campionatura stratificata in tutto il territorio italiano (92 comuni di 58 provincie). Inoltre a 350 giovani sottoposti a trattamento da parte dei servizi sociali, scelti con lo stesso sistema di campionamento. Infine a 75 soggetti a disagio conclamato intervistati con il metodo delle “storie di vita”. 51 Secondo la spiegazione fornita dagli autori, il significato dello schema è il seguente: 1) esistono situazioni in cui ognuno dei fattori non è correlato (o sovrapposto) all'altro; cioè devianza che non produce disagio (e viceversa); devianza che non produce marginalità (e viceversa); marginalità che non produce disagio (e viceversa); 2) esistono situazioni in cui la sovrapposizione (o interazione) di due variabili non significa necessariamente la «produzione» della terza; così il disagio associato alla devianza non produce necessariamente marginalità (e viceversa); il disagio associato alla marginalità non produce necessariamente devianza (e viceversa); la devianza associata alla marginalità non produce necessariamente disagio (e viceversa); 3) le coppie devianza-disagio, devianza-marginalità, marginalità-disagio possono trovarsi in contesti diversi in una relazione di causa-effetto intercambiabile, in cui il primo termine della relazione a livello manifesto è premessa probabilistica dell'altro (che in questo caso si colloca a livello latente); 4) relazioni più complesse, con sovrapposizione o interrelazione dei tre fattori possono essere interpretate con approccio sistemico (Labos, 1994, 62). 4.8.1.3.2. La cultura edonistico-consumista 4.8.1.3.3. I fattori del disagio giovanile La ricerca evidenziò la multifattorialià del disagio. Sosteneva che esso “così come d’altronde la devianza, appare come il prodotto di un insieme complesso di cause, nessuna delle quali da sola sembra essere sufficiente a produrlo, ma la cui simultanea presenza eleva notevolmente la probabilità che esso si manifesti nella vita del giovane” (Labos, 1994, 26). Queste cause erano connesse con il sistema di valori della cultura sociale, le condizioni sociali di vita dei giovani e la loro struttura di personalità. 4.8.1.4. I valori della cultura sociale La ricerca scoprì che il fattore principale del disagio giovanile era un preciso sistema di valori41, quello della vita intesa come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione e della novità. Questo sistema di valori è presente in giovani che danno una estrema importanza alla vita eccitante, stimolante, variegata e con molte novità, al piacere, alla gratificazione dei desideri e al godimento attraverso il sesso e il cibo, all’audacia, all’avventura e anche alla creatività (Labos 1994, 26). Aggiungendo: I modelli edonistico-consumistici della società industriale moderna, che hanno bisogno di continue stimolazioni, eccitazioni e novità per trovare la felicità-piacere nella vita. E’ un sistema di valori che spinge i giovani che lo hanno assunto verso la ricerca del senso della vita, o perlomeno dell’appagamento della loro sete di vita, all’esterno di sé, nelle cose materiali e immateriali che li circondano (Labos, 1994, 26). Gli autori sostenevano che questo sistema di valori “è portatore di rischio di disagio per la vita del giovane” (Labos, 1994, 26). Infatti, dall’eccessiva valorizzazione dell’eccitazione, del piacere e dell’avventura conseguirebbe una continua ricerca di nuove forme, luoghi, attività e persone attraverso cui soddisfare il proprio desiderio. 41 “Tra le cause più direttamente legate alla cultura sociale si segnala con la massima evidenza un particolare sistema di valori la cui presenza è significativamente maggiore nei giovani che vivono o hanno vissuto l’esperienza del disagio” (Labos, 1994, 26). 52 Questa ricerca può condurre a esperienze limite e ad accettare proposte e occasioni di consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope, di azioni rischiose per la propria e l’altrui vita, di azioni trasgressive o devianti (Labos 1994, 26-27). Ciò si verificava specialmente se tale cultura non era “limitata, circoscritta da altri sistemi di valori antagonistici” (Labos, 1994, 27). Questo dato confermava il ruolo dei valori negli stili di vita dei giovani e quindi l’importanza della cultura sociale per spiegare la genesi del disagio 42. L’eccessiva accentuazione dell’affermazione individuale, quasi narcisistica, che appariva dominante nella cultura sociale, unita alla ricerca del piacere e dell’eccitazione come fonte di felicità esistenziale, appariva come uno dei fattori di distruttività. Giovani incapaci di difendersi da tali provocazioni erano facilmente esposti ad esperienze rischiose e devianti. Quando gli stessi giovani incontravano invece la proposta di una realizzazione di sé più profonda, legata allo sviluppo dell’interiorità e della solidarietà, essi si aprivano a una realizzazione di sé che li portava lontani dalle secche del disagio e valorizzava la loro capacità di trasformazione evolutiva della condizione umana43. Questo fatto indica con molta evidenza che quando l’espressione del desiderio nel giovane non incontra come suo limite, da un lato, l’Altro da me con i suoi bisogni, il suo stesso desiderio e la sua libertà e, dall’altro lato, la ricerca di una profonda armonia interiore, dei valori della propria dignità di persona umana, della libertà della coscienza critica, esso può innescare dei percorsi di disagio e di distruttività personale (Labos, 1994, 27). Pertanto appariva evidente il ruolo fondamentale della cultura e della socializzazione nell’evoluzione positiva o negativa del disagio giovanile. 4.8.1.4.1. I fattori sociali della produzione del disagio Oltre al sistema di valori, la ricerca individuò in alcune condizioni di vita dei luoghi privilegiati di produzione del disagio. Questi condizioni furono rinctraccaite nella famiglia, nella scuola, nel gruppo dei pari, nell’ambiente urbano, nella carenza di lavoro, nell’incertezza verso il futuro e in alcuni problemi esistenziali e materiali specifici. a) La famiglia La famiglia nucleare manifestava una forte fragilità dal punto di vista educativo in quanto, potendo contare solo su uno o due ruoli educativi adulti al proprio interno, quando andava in crisi uno di essi, o addirittura entrambi, gli effetti all’interno del processo formativo diventavano immediatamente rilevanti. Normalmente le famiglie i cui figli si trovavano in condizioni di disagio erano caratterizzate “svantaggio economico, basso livello di istruzione dei genitori, disoccupazione o occupazione precaria dei genitori, isolamento relazionale nel contesto urbano della famiglia, coppia genitoriale separata o conflittuale, assenza o carenza del ruolo educativo e normativo da parte dei genitori, comunicazione violenta di uno o di entrambi i genitori nei riguardi dei figli. Il ruolo della famiglia è primario nel provocare forme di disagio nei suoi giovani membri, in quanto essa svolge due funzioni essenziali per la vita umana: la prima a livello individuale e la seconda a livello sociale. b) La scuola 42 “Questo dato conferma e precisa come i valori giochino un ruolo significativo nell`influenzare gli stili di vita che possono produrre disagio o al contrario agio nella vita dei giovani e come, quindi, la cultura sociale trasmessa dal mondo adulto alle giovani gcnerazioni abbia in sè i germi del disagio” (Labos, 1994, 27). 43 La ricerca era arrivata a queste affermazioni utilizzando i risultati dell’analisi fattoriale. In essa appariva che i giovani del disagio manifestavano in maniera significativamente più frequente i tratti della cultura edonistico-consumista (cioè la ricerca dell’eccitazione e del piacere, ecc.). Mentre giovani “in cui compare un sistema di valori che può essere definito come quello dell’armonia interiore e dell’alterità solidale (in quanto evidenzia la condivisione dei valori dell’uguaglianza, della giustizia sociale, dell’armonia interiore, del rispetto di sé, della libertà di pensiero e di azione, dell’apertura mentale e della tolleranza, e la negazione dei valori del potere sociale e della ricchezza materiale) sono quelli più immuni dall’esperienza del disagio e della devianza” (Labos, 1994, 27). 53 La dispersione scolastica è uno dei problemi non ancora risolti dalla scuola italiana, nonostante tutti gli sforzi delle competenti autorità in merito. La ricerca Labos ha chiarito l’esistenza del nesso, anche se in modo non deterministico44, tra la dispersione scolastica e le varie forme di disagio o di devianza in cui sfociano alcuni percorsi esistenziali giovanili. Non è perciò un caso che nelle storie dei giovani, vittime del disagio, si riscontri una serie frequente di vicende scolastiche negative. Questo è stato evidenziato anche da altre ricerche. In particolare una ricerca del CEIS di Roma, condotta da M. Pollo, ha messo in luce l’intreccio che si stabilisce tra disagio scolastico e tossicodipendenza. In particolare il metodo delle storie di vita ha permesso di ricostruire la catena causale innescata da incidenti relazionali con insegnanti: “problema relazionale con uno o più insegnanti perdita di fiducia in sé e/o negli insegnanti perdita di interesse per lo studio e abulia” (Pollo, 1999, 226). c) Il gruppo dei pari Il gruppo dei pari è in alcuni contesti sociali urbani uno dei luoghi di formazione del disagio in quanto in queste realtà il sistema di norme che il gruppo, a livello informale, ha elaborato, sono devianti rispetto a quelle tipiche del contesto sociale più vasto. Infatti, per appartenere al gruppo è necessario assumere alcuni valori e praticare alcune condotte, definite come devianti o perlomeno marginalizzanti nella cultura sociale. In questi gruppi, che in alcuni casi sono vere e proprie bande giovanili, se il giovane non si associa nell’esecuzione di un atto vandalico, nel consumare sostanze stupefacenti o alcoliche, nel compiere una bravata o nel compiere un’azione microcriminale, viene stigmatizzato, marginalizzato o espulso. I gruppi giovanili informali di questo tipo sono, per fortuna, una minoranza; tuttavia per molti giovani, abitanti di certi quartieri urbani degradati o marginali, sono l’unico luogo d’aggregazione (Labos, 1994, ). La rilevanza di questi gruppi diventava ancora più forte in presenza di carenze di relazioni significative dei giovani con gli adulti nel determinare i percorsi di socializzazione e i progetti di vita dei giovani che li frequentavano. d) L’ambiente urbano Si è scoperto che l’ambiente urbano, ovvero la qualità urbanistica e, quindi, sociale di un quartiere aveva una qualche influenza sui percorsi di formazione del disagio. Quartieri ghetto costruiti in modo anonimo, lontano dal centro della città, privi di servizi sociali, culturali, ricreativi e commerciali, dove era stata concentrata una forte percentuale di popolazione marginale o deviante e dove non esisteva alcuna identità storico-culturale, apparivano come uno dei fattori classici nella produzione del disagio e della devianza giovanile. e) La carenza del lavoro I ricercatori riscontrarono nei percorsi del disagio sia l’inaccessibilità ad un lavoro regolare, sia una sequela di tentativi falliti d’adattamento al lavoro. Il tutto aggravato dalla carenza cronica, specialmente in alcune aree geografiche, del bene-lavoro per i giovani. Questo faceva sì che la maggioranza dei giovani italiani vivesse una condizione frustrante d’insoddisfazione per le scarse opportunità di lavoro offerte dall’ambiente sociale in cui viveva. Infatti, i più insoddisfatti per le opportunità di lavoro erano per quasi tre quarti quelli del Sud. In questo quadro generale deprivato i giovani più svantaggiati o a rischio si smarrivano nei percorsi dei lavori precari e irregolari o in quelli generati da un’aspettativa irrealistica, che creava una forbice incolmabile tra le loro reali possibilità e i loro sogni ad occhi aperti, oppure ancora nei percorsi di quell’ozio assistito almeno da un minimo di benessere che portava a sperimentare le nebbie del tempo vuoto nel tentativo di dare un senso al proprio esistere. f) Il futuro 44 “La sottolineatura del modo non deterministico vuole indicare che mentre in moltissime situazioni di disagio o di devianza giovanile sono riscontrabili esperienze di insuccesso scolastico, non tutti coloro che sono vittime della dispersione scolastica entrano in situazioni di disagio o di devianza. Nonostante questa doverosa precisazione, rimane il fatto che la ricerca ha evidenziato che la dispersione scolastica è uno dei maggiori fattori di rischio presenti nella condizione giovanile in Italia, specialmente quando è concomitante con altri fattori di rischio come quelli costituiti dalle scadenti situazioni familiari, dal gruppo dei pari deviante, dal degrado urbano e così via” (Labos,1994, 29-30). 54 Fu scoperta, dai ricercatori, una relazione abbastanza definita tra l’incertezza verso il futuro e alcune esperienze di disagio. Infatti, l’atteggiamento d’incertezza era ritenuto sintomo di una certa angoscia o perlomeno d’insicurezza ansiosa verso il futuro, dovuto alla mancanza di un progetto di futuro nell’orizzonte esistenziale di molti giovani. L’insuccesso scolastico e la sua derivata dispersione scolastica potevano diventare veri e propri traumi nel progetto esistenziale del giovane. “I giovani che hanno abbandonato gli studi appaiono in assoluto come i meno ottimisti, seguiti da vicino da quelli che sono stati bocciati” (Labos, 1994, 31). Questo significava che l’incertezza verso il futuro poteva essere un altro luogo di produzione del disagio. 4.8.1.5. I problemi esistenziali, psicologici e materiali più rilevanti nella vita dei giovani Oltre a questi luoghi sociali nella dimensione del disagio, a volte come cause ma altre già come effetti (anche se difficili da distinguere), apparivano altri problemi, emergenti dal vissuto dei giovani. Dall’approfondimento emerse un elenco problemi personali che andava dalla disoccupazione al consumo di droghe. Il problema più diffuso appariva quello relazionale all’interno della famiglia. Al secondo posto i problemi di salute, o fisica o psichica. Un quarto dei giovani manifestava difficoltà di adattamento all’interno della propria attività primaria (in genere scolastica). Ciò confermava che la scuola non riusciva a fornire un’adeguata accoglienza a giovani con problemi. Una buona parte delle difficoltà scolastiche dei giovani avevano un fondamento relazionale. Seguivano i problemi di lavoro, dovuti alla disoccupazione o alla fuoriuscita dal lavoro. Un quinto dei giovani denunciava l’assenza di luoghi di aggregazione destinati a loro. Il problema della droga o dell’alcoolismo, anche se con diversi gradi di gravità e di dipendenza, tocca una quota relativamente alta di giovani (il 7.9%) ad indicare che il disagio conclamato occupa uno spazio tutt’altro che residuale e marginale nella vita sociale. Altri problemi, come quello della casa, quello economico, quello della cura di qualche familiare e quello relativo alle carenze dei servizi, non erano esclusivi del giovane, ma della famiglia, ed egli li viveva alla pari degli altri, anche se influenzano significativamente la sua condizione esistenziale e sociale. L’indagine cercò anche di scoprire con chi il giovane parlasse dei suoi problemi. Risultò che molti giovani non ne parlavano con nessuno45. La comunicazione con i genitori appariva molto debole quando si trattava di problemi giudiziari, di consumo di droghe, di relazionalità all’interno della famiglia e di elaborazione del lutto, mentre era totalmente assente nel caso della violenza agita. La comunicazione in famiglia diminuiva sempre più man mano i problemi si facevano più gravi e si configuravano come espressione del disagio. Proprio laddove il problema era più grave e doloroso, la stragrande maggioranza dei genitori era assente. Tali dati evidenziavano quel disagio sommerso, nascosto e solitario, che non emergeva alla consapevolezza sociale, ma che alimentava, con la sofferenza e la distruttività di cui era portatore, il sottosuolo della vita sociale rendendone più fragili le fondamenta. La ricerca affrontò anche l’analisi della dimensione psicologica. I risultati indicarono, semplificando, due tipi di giovani che potevano essere considerati a rischio di disagio. Il primo tipo, che riguardava prevalentemente le ragazze, attestava la presenza di un 9% di giovani che, dietro ad un’identità di facciata apparentemente funzionante, nascondevano una notevole fragilità interna. Si trattava di giovani che avevano un adattamento acritico alla realtà, che si realizzava attraverso una falsa identità costruita sull’adeguamento alla normalità sociale. Il prezzo di quest’adattamento era spesso la messa in atto di meccanismi di difesa nei confronti della 45 «Basti pensare che il 29% di chi ha vissuto in modo problematico il lutto elabora questo da solo, con tutte le conseguenze che una mancata elaborazione sociale del lutto può comportare sulla sua vita psichica. A tutto questo occorre aggiungere che il 23.7% dei giovani non esprime i problemi affettivo-relazionali familiari, che il 20.1% si tiene per sé i problemi di salute, che il 15.9% non parla con alcuno dei suoi problemi con le droghe o l’alcool, e che vi sono poi percentuali simili di giovani che non comunicano i problemi di violenza agita e subita» (Labos, o.c., 34). 55 conflittualità che questo stesso adattamento generava. Meccanismi di difesa che non consentivano un’adeguata elaborazione dei conflitti, e questo poteva essere la fonte di significative forme di disagio psicologico specialmente nel momento dell’ingresso di questi giovani nell’età adulta. Il secondo tipo, che riguardava il 9.6% di giovani, era caratterizzato dalla presenza di modalità aggressive nei confronti del mondo esterno e di meccanismi di difesa che non favorivano il loro adattamento sociale. Giovani che avevano delle difficoltà profonde di soluzione della propria crisi adolescenziale che si manifestava in un atteggiamento aggressivo di svalutazione della realtà esterna, del mondo adulto e dei suoi valori, al punto da provocare un rifiuto e una rottura con questa stessa realtà. Tale tipo di giovane era quello che più probabilmente viveva negativamente l’esperienza scolastica e poteva accedere a forme di devianza con comportamenti sia auto che etero-distruttivi. Ciò significava che tale dimensione psicologica era quella più fortemente correlata alle espressioni del disagio e della devianza, sia come causa che come effetto. Entrambi questi due tipi di giovani a rischio di disagio indicavano chiaramente la presenza per questi giovani di problemi relazionali con il mondo adulto, frutto di carenti o distorti rapporti educativi e socializzanti. 4.8.2. 2.2.2. Esiti dei percorsi del disagio: i comportamenti devianti La ricerca Labos, accanto alla rilevazione dei problemi che sono alla base del disagio dei giovani, ha esplorato la presenza di quei comportamenti che, secondo i modelli culturali correnti, possono essere definiti devianti. I risultati indicano nell’abuso di alcool, nell’uso di droghe leggere e nei vandalismi i comportamenti devianti più diffusi. L’uso di droghe pesanti appare molto più ridotto sia come consumo abituale che come consumo saltuario. E’ preoccupante, comunque, che un quarto dei giovani italiani abusi, almeno saltuariamente, delle bevande alcoliche e che un quinto faccia uso di droghe leggere. Questo significa che la cultura dell’eccitazione, dello sballo e della soluzione dei problemi attraverso la fuga in stati di alterazione della coscienza sia abbastanza radicata nel mondo giovanile e non solo in esso. D’altronde la presenza di un sistema di valori come quello della vita come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione e della novità, è compatibile con questo tipo di comportamento. Se a questo si aggiunge la presenza di forme di malessere solitario e non espresso, si comprende più facilmente il dato sull’uso di queste sostanze stupefacenti o alcoliche. Anche la violenza sotto forma di vandalismi ha una presenza preoccupante e lascia intravedere, se non controllata e prevenuta, una possibile evoluzione verso quelle forme che affliggono la vita di alcune metropoli statunitensi. In ogni caso essa, pur essendo in molti casi una forma di devianza primaria, non strutturata, può essere la base di partenza verso forme di devianza secondaria e strutturata che i dati indicano già presenti, anche se in misura più ridotta, nel mondo giovanile. Il fatto che, almeno qualche volta se non spesso, il 7.4% dei giovani sia stato implicato in furti, scippi o rapine, 1’1.9% in azioni della criminalità organizzata e il 2.2% nello spaccio di droga, indica la plausibilità di questa ipotesi46. Il dato sulle azioni all’interno della criminalità organizzata, molto più elevato nelle zone a rischio per questo tipo di criminalità nel Paese, pone il problema dell’attrazione della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta su alcuni giovani marginali o devianti occasionali che non appare sufficientemente contrastata dall’azione delle agenzie educative e socializzanti. Non va dimenticata una forma di violenza molto diffusa anche negli ambienti bene, che è il bullismo. Il 41% degli allievi della scuola elementare e il 26% della scuola media inferiore dichiara di essere stato vittima del bullismo. Si ritiene che esso sia praticato da circa il 3% della popolazione 46 Il numero di minori che ogni anno viene denunciato all’autorità giudiziaria si aggira sullo 0.4% e quelli per cui l’autorità giudiziaria avvia un’azione penale si dimezza (0.2%). Ciò non vuol dire che questa sia la fotografia del fenomeno, che probabilmente sfugge ad una rilevazione statistica, anche perché esso dipende da variabili complesse, come il controllo della polizia e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Notevole è il numero di minori stranieri denunciati. «Nel periodo 1991-1998, la proporzione di minori stranieri denunciati è costantemente aumentata fino al 1995, per poi stabilizzarsi nel triennio 1996-1998. Nel 1991 i minori stranieri denunciati rappresentavano il 17.6% del totale dei minori denunciati, valore che sale nel 1998 al 25.9% (ma la punta più alta è stata raggiunta nel 1995 con il 27.6%)» (Presidenza del Consiglio, o.c., 141-142). 56 scolastica47. Esso si manifesta direttamente con «attacchi fisici, come pugni, calci e atterramenti, o verbali, come insulti, minacce e prese in giro»48. Il fatto che esso si manifesti in età così precoce indica un elemento preoccupante di non controllo dell’aggressività e di volontà di imporsi sulla scena attraverso la violenza e la sopraffazione dell’altro. Infine occorre segnalare i dati relativi all’autodistruttività attraverso i tentativi di suicidio49, la guida in stato di ubriachezza50, il consumo di droghe pesanti51. Questo dato deve far riflettere sull’istanza di morte che affligge una parte niente affatto marginale del mondo giovanile, cui l’egoismo del presente, l’assenza di senso della vita al di là della ricerca dell’avere, del piacere e del consumo fine a se stesso, sembra aver tolto la speranza e soprattutto la capacità di cogliere l’amore alla vita e la sua promessa di felicità. Per molti giovani poi il rischio della morte rappresenta il tentativo estremo, o di affermare la propria individualità contro l’anonimato sociale, o di dichiarare quell’unità mistica con il tutto che la vita opaca del presente non consente di cogliere. Infatti, come suggerisce Morin «questa affermazione dell’Io nel rischio di morte contiene molto spesso un’esaltazione del Sé». «La presenza di questa autodistruttività non può essere banalizzata, in quanto interpella la responsabilità del mondo adulto sulla necessità di offrire all’orizzonte esistenziale dei giovani sia la conquista della loro identità, messa in crisi dalla complessità sociale, sia la capacità di alterità che sola può metterli in relazione con l’esperienza di amore che tesse la presenza umana nel mondo. Lo stesso senso religioso della vita ha bisogno di questo fondamento antropologico per aprire il giovane all’invocazione verso l’assoluta Trascendenza. I comportamenti devianti dei giovani che abitano il disagio conclamato sono lo specchio crudele attraverso cui è possibile leggere la finitudine dell’attuale condizione sociale e scoprire le vie da percorrere per il suo superamento»52. 4.9. I nuovi modi del disagio giovanile 1. Guidicini e Pieretti hanno indagato sui nuovi modi con cui si manifesta il disagio giovanile. Il loro campo d’indagine era abbastanza ristretto (la città di Udine), ma è stata interessante la metodologia utilizzata ed il tentativo di cogliere e interpretare con nuove categorie le forme giovanili del disagio. Ne sono emerse indicazioni interessanti: a) l’asintomaticità del disagio, cioè «l’assenza di precisi legami tra quelle che sono le condizioni di disagio […] e la presenza a monte di meccanismi in quanto cause scatenanti»53; b) la presunzione soggettiva di privazione, quale «risultato di una condizione di insoddisfazione rispetto ad un qualcosa di cui si era stati privati»; il disagio «sottende sempre una concezione di bisogno insoddisfatto […]. Di qui il convincimento ultimo di trovarsi di trovarsi di fronte a soggetti che vivono in una costante situazione di tensione e bisogno di un qualcosa che dovrebbe soddisfare un’interna pulsione di crescita, di libertà, di autorealizzazione; la quale trova invece, più spesso, limitazioni oggettive nel sociale. […] Di qui una situazione sempre più spesso sfuggente; se è vero che ad una costante crescita di nuove richieste i giovani credono di trovare limitazioni sociali sempre meno disposte ad offrire tutto e subito. Quello del disagio giovanile diventa quindi vieppiù un percorso di difficile soluzione in quanto il rapporto tra pulsioni da un lato e controlli dall’altro si prospetta sempre più incerto. Ed il raggiungimento di un teorico 47 Ibidem, 157. Ibidem, 155. 49 «Nel periodo 1993-1998 la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri hanno accertato in Italia 300 casi di suicidi e 826 tentati suicidi di minorenni » (Presidenza del Consiglio, o.c., 173). Ma si sa che, almeno nei casi di tentati suicidi, non sempre il fatto viene denunciato. 50 I minori deceduti per incidenti stradali in Italia nel periodo 1966-1999 sono stati 1.108, con un tasso annuo del 3.6%. Molti di questi, almeno per la fascia 15-17 anni, sono da mettere in correlazione con a guida in stato di ebbrezza, soprattutto al sabato sera (Cfr. Ibidem, 175-177). 51 I soggetti in trattamento presso i Ser.T nel 1999 risultavano 143 sotto i 15 anni, 4.629 tra i 15 e i 19 anni. I tossicodipendenti sotto i 18 anni segnalati per la prima volta ai prefetti nel 1999 sono stati 3.390, di cui 3.149 maschi. I decessi di minori per tossicomania sono stati 19 nel 1999 (Cfr. Ibidem, 178-1799). 52 Labos, o.c., 38. 53 P. Guidicini – G. Pierretti, I nuovi modi del disagio giovanile, Milano, F. Angeli, 1995, 13. 48 57 equilibrio mera utopia»54; c) la crescente labilità nelle scelte: «una minor chiarezza ed una crescente genericità nella individuazione di ciò che il soggetto considera come fondamentale nel quadro del suo sistema di riferimenti emotivi»; d) la caduta di valori simbolici ‘forti’, «riferiti a certi elementi che tradizionalmente venivano letti dai giovani come centrali nella propria esperienza di vita quotidiana»55. Donde l’introduzione del concetto delle “microfratture” per indicare la molteplicità di cause e di situazioni che concorrono alla condizione di disagio. «Una molteplicità di elementi insignificanti (se visti singolarmente, per quanto riguarda la storia dei singoli soggetti) che possono però nel complesso determinare una condizione ultima di disagio. Quindi la condizione di malessere/disagio non più come risultato di uno specifico e circoscritto ambito di impatto o di squilibrio del soggetto rispetto alla società che lo circonda, in una immagine evolutiva di bisogno, bensì come sommatoria di un percorso di microsituazioni di rottura il più delle volte difficilmente classificabili e ponderabili»56. Tutto ciò rende difficile la definizione di disagio, la sua misurazione ed infine l’individuazione di misure di prevenzione, contenimento e contrasto del disagio. Certamente la percezione di come i giovani vivono il disagio chiede di «spostare l’interesse sull’informale, sulla cultura, sullo psichico, sulle microfratture che si rigenerano costantemente dentro al sistema relazionale»57. Ma se questa è la prospettiva, quale via percorrere? Sembrerebbe logico investire di tutta la responsabilità la componente soggettiva; ma sono da trascurare del tutto i meccanismi strutturali? La ricerca, senza tralasciare quest’ultima ipotesi, chiama in causa l’area dei valori e della cultura. Se la società è “evanescente” non riesce più a fornire gli elementi necessari per la formazione del soggetto 58. Perciò le forme del disagio “conclamato” (tossicodipendenza, violenza, distruttività, ecc.) sono più che altro espressione di una profonda sofferenza interiore cui la società non riesce a dare risposta. In ogni caso questa ricerca, oltre ad indagare sui percorsi individuali di formazione del disagio, rimanda alle responsabilità sociali, soprattutto in chiave culturale. 4.9.1. Trasgressione e rischio come valore Le ricerche IARD hanno sempre inserito nelle loro analisi un capitolo che raccoglieva le principali risposte in ordine a condotte devianti o a rischio, a valutazioni morali non conformi al pensiero della maggioranza, alla propensione e contiguità con la devianza. Queste risposte forniscono uno spaccato degli orientamenti valoriali e della propensione al rischio dei giovani italiani, indipendentemente dalle loro situazioni oggettivi di marginalità o meno. “La popolazione giovanile si è sempre caratterizzata per una maggior propensione trasgressiva rispetto alle norme morali e legali della società, ma è negli ultimi anni che il distacco si è acuito” (Cavalli, de Lillo, 1993, 179). Pertanto la trasgressione può essere letta come un fatto evolutivo: fa parte del normale processo di crescita, più precisamente di presa di distanza dal mondo adulto e dal modello infantile “eterodiretto”. La propria autonomia e la possibilità di assumersi il proprio posto nella società passa inderogabilmente attraverso la negazione del passato e delle dipendenze, cui il bambino era vincolato. Un secondo tipo di approccio la legge come un fatto culturale che ha ripercussioni su tutta la società: l’aumento di tale fenomeno negli ultimi anni, come affermano i conduttore della ricerca IARD farebbe intravedere un fenomeno nuovo: un cambiamento culturale. 54 Ibidem, 14. Ibidem, 15. 56 Ibidem, 17. 57 Ibidem, 21. 58 “Il rapporto individuo/società, se la società è evanescente, non riesce più ad essere intriso di elementi di indicazione cogenti, è debole, precario, aleatorio. Non riesce, il rapporto individuo/società, ad inserirsi in strutture di significatività forti che permettano una coerente e disciplinata organizzazione psichica della risposta individuale” (Ibidem, 252). 55 58 Infine nelle stesse ricerche IARD è stata introdotta dal 1996 anche la valutazione della componente di rischio come elemento di sviluppo della personalità. Si partirà dai giudizi di ammissibilità di certi comportamenti ritenuti socialmente condannabili 59, per poi indagare sulla disponibilità (o non indisponibilità) a compiere certi atti e terminare con l’analisi del rischio. Una volta i “comportamenti a rischio” erano stigmatizzati ed il rischio era connotato in senso negativo (era un “disvalore”). Ancor oggi l’opinione pubblica è molto preoccupata, oltre che per le manifestazioni trasgressive dei giovani, anche per i “comportamenti a rischio”, come: lanciarsi dall’alto legati ad un elastico, camminare sui cornicioni, attraversare torrenti in piena, guidare a forte velocità, andare contromano, sfidarsi a chi si toglie per ultimo da una situazione pericolosa, come dai binari del treno, o da uno scatolone in mezzo alla strada, oppure gettare sassi dai ponti o contro i treni. Tuttavia non sembra che le preoccupazioni degli adulti trovino corrispondenza nelle considerazioni dei giovani. Infatti, gli adolescenti sono particolarmente attratti dai comportamenti a rischio, come riferisce il 3° Rapporto EURISPES: Molti adolescenti sono attratti da comportamenti "spericolati" che soddisfano il desiderio di vivere sensazioni nuove ed eccitanti: questo fenomeno è noto come sensation seeking, ossia ricerca di sensazioni forti. Spesso tali condotte sono sostenute da un atteggiamento di ottimismo ingiustificato, basato sulla credenza di essere immuni dal pericolo e dall'egocentrismo caratteristico dell'adolescenza. Per un adolescente affrontare sfide che tendono a superare le sue normali capacità è funzionale all'esigenza di "sentirsi adulto" e permette di lenire le ansie legate ai cambiamenti di questo delicato momento di crescita. Il legame con il gruppo dei pari, inoltre, fornisce il "teatro" ideale per la messa in atto di comportamenti trasgressivi, attraverso i quali il/la ragazzo/a dimostra il proprio valore e si sente accettato. La situazione di gruppo, inoltre, facilita un abbassamento nella percezione dei pericoli insiti in una determinata situazione (EURISPES 2002, 140) Queste modalità di affrontare il rischio appaiono, quindi, del tutto connaturate con l’esperienza adolescenziale e con il “farsi adulto”. Inoltre, l’assunzione di rischio è vissuta dai giovani come caratteristica intrinseca di molti ruoli, da quello professionale (o scolastico) a quelli relazionali ed affettivi. Oggi, infatti, si sta imponendo un nuovo modello interpretativo - di ispirazione anglosassone e tedesca60 - che considera il rischio in un’accezione positiva; saper rischiare è, ad esempio, una condizione essenziale per il successo in una società sempre più competitiva e sempre meno garantita. La diversa percezione del rischio segnala lo spostamento di prospettiva da un orientamento verso traguardi di sicurezza ad obiettivi nei quali trova spazio il mettersi in gioco e il non accontentarsi. L'etica del successo sembra avere, in altre parole, contagiato larghe masse di giovani che appaiono consapevoli che il saper rischiare faccia parte delle abilità che la società attuale richiede a chi vuole farsi strada nella vita. Di qui la tendenza ad assumersi sempre più rischi da parte dei giovani e a non calcolare le conseguenze dei loro gesti, come appare dalle indagini dello IARD condotte espressamente su questo tema. Appare preoccupante la ricorrenza di alcuni comportamenti che possono potenzialmente mettere a repentaglio la salute e la sicurezza dei giovani. In particolare può essere notato come la guida spericolata caratterizzi l'esperienza di più di un terzo dei giovani del campione, che alla guida in stato di ebbrezza non sia del tutto estraneo un giovane ogni sette e che un quinto del campione ammetta esplicitamente di aver corso dei rischi nei rapporti sessuali (le incidenze tra i soli maschi di 18-24 anni sono notevolmente superiori). In altra parte del testo è evidenziata l'esposizione alle droghe e all'alcol: il trend che emerge appare registrare un forte aumento, negli ultimi quattro anni, della contiguità del mondo giovanile alle sostanze psicotrope (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 91). Questa tendenza si manifesta soprattutto nei maschi (doppia, rispetto alle femmine, nella guida 59 “I giovani si mostrano tendenzialmente più tolleranti nei giudizi, rispetto a quelli che attribuiscono alla società” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 304). 60 Cfr. gli sudi di Giddens (1994), Luhmann (1991), Beck (1999), Baumann (1999) 59 imprudente, nella prossimità alle droghe e nel gioco, tripla nello sport); ma soprattutto sembra convalidare l'ipotesi che vi sia una significativa relazione tra la valutazione positiva della capacità di accettare dei rischi come mezzo di successo con la percezione di affrontare, volontariamente e frequentemente, pericoli o situazioni che possono compromettere la salute o la sicurezza della persona (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 91-92). In una società del caos i giovani si presentano con comportamenti più spontanei che nel passato, più liberi ed indipendenti. Ciò comporta una maggior esposizione al rischio. Per loro la violazione della norma non costituisce un comportamento riprovevole, bensì un’accettazione della sfida insita in una situazione pericolosa, un modo per affermarsi e realizzarsi. La propria affermazione nel mondo e la definizione dell’identità passa sovente attraverso delle prove di coraggio, di sfida, di confronto col limite61. La rivalutazione del rischio come valore coinvolge innanzitutto i giovani provenienti da un background culturale medio-elevato, più pronti a cogliere i processi di cambiamento culturale ma anche più svincolati da bisogni di sicurezza. 4.9.2. Rischio e reversibilità delle scelte L'accettazione consapevole del pericolo può essere sostenuta solo in concomitanza con un secondo assunto esistenziale, che appare largamente condiviso dai giovani: ogni comportamento per essere desiderato deve essere revocabile; si possono anche compiere scelte rischiose nella convinzione però che non siano irreversibili. È sotto questa ottica che si spiega il forte aumento dell'esposizione alle droghe e all'alcool e la propensione a compiere azioni dannose per la salute e l'incolumità fisica: agirebbe, infatti, la convinzione che qualsiasi comportamento, "se sottoposto al controllo dell'attore, perde, o riduce di molto, il suo, potenziale di pericolosità. Ma non è solo questo: la tensione alla reversibilità delle scelte, modello di riferimento dominante di una società incerta e contraddittoria, sembra accompagnare il giovane anche nelle decisioni importanti che dovrebbero condizionare il proprio futuro. È probabile che il procrastinamento di alcune scelte cruciali, quali il matrimonio o la procreazione, abbia origine dal fatto ché si pongano come eventi irreversibili (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 92-93). Nel complesso, più della metà dei giovani manifesta quest’orientamento. Sono soprattutto i più grandi, quelli delle regioni centrosettentrionali e dalle aree metropolitane o con un background familiare medio-alto: ciò dimostra che sono i caratteri elitari, collegati al maggior sviluppo socioeconomico del territorio, a massimizzare tale tendenza. Tendenza che con il passare degli anni si fa più pronunciata: si rafforza il relativismo etico, la preferenza a non compromettersi e a rimandare le scelte impegnative. La reversibilità, quando è applicata alle decisioni importanti della vita, pone tuttavia un limite all'accettazione del rischio come strumento di successo: scelte che consentano ampie vie di fuga sembrano piuttosto motivate da una certa prudenza (o da un certo timore) (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 93). La ricerca IARD del ’96 ha provato ad incrociare la prospettiva della reversibilità con quella del 61 E’ interessante uno studio promosso in Italia dalla Fondazione Corazin e affidato ad un’equipe di psicologi sociali guidata da C. Castelli (1994) in cui vengono monitorate le esperienze del limite che si ottengonno in discoteca, roccia e deltaplano. L’esperienza del limite viene assunta come fonte di conoscenza, ottenibile attraverso la prova sul corpo, che richiama analoghe esperienza di culture primitive. Attraverso queste esperienze limite l’adolescente arriva a conoscere meglio se stesso, contribuendo con ciò a definire la propria identità. “E’ l’accettare il rischio di assumersi il ruolo del potere istitutivo della situazione nella quale si possono sperimentare i sé possibili” (Castelli 1994, 15). Inoltre, essendo attività condotte davanti ad un pubblico, diventano una forma di presentazione di sé agli altri. 60 rischio. Ciò ha dato origine ai seguenti tipi di orientamento all'azione: a) il primo è costituito da coloro che appaiono orientati ad accettare scelte personali non prive di rischi pur consapevoli che alcune di queste non siano reversibili; sono giovani che si pongono di fronte alle decisioni importanti in modo fermo e risoluto, consapevoli che nessun traguardo può essere conseguito se ci si abbandona a troppi tatticismi; nel complesso sono il 19,5% del campione; b) il secondo individua i giovani che si pronunciano per il rischio reversibile e dunque accanto ad una posizione tesa ad accettare le sfide della vita ve ne è una seconda, contrapposta alla prima, che rivendica prudentemente le possibilità di ritornare sui propri passi; è una tendenza che non riesce a celare una certa ambiguità di fondo; sono il gruppo più esteso (28,7%); c) il terzo raccoglie coloro che non propendono per l'assunzione di rischi e si dicono convinti che le scelte importanti non possano essere riviste; in loro prevale, con tutta probabilità, una visione prescrittiva dell'esistenza, dove tutto è già previsto e irrevocabile; in questo tipo si riconoscono il 18,4% dei giovani intervistati; d) il quarto segnala una posizione ultra-prudenziale: nessun rischio e contemporanea garanzia di poter recedere dalle scelte operate; prevale su tutto il desiderio di non compromettersi, di non assumersi alcuna responsabilità di scelta, sentimento condiviso dal 21,3% del campione; e) il quinto è un gruppo residuale (12,1%) che identifica orientamenti non del tutto chiari o inconsapevoli. La tipologia risulta fortemente legata all'età. Ad esempio la necessità di saper rischiare per avere successo nella vita senza rinunciare alla possibilità di tornare indietro nelle decisioni è una posizione che aumenta notevolmente con l'età mentre, per converso, diminuisce l'orientamento teso all'accettazione del rischio in campi decisionali irreversibili (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 94). Se è vero che rischiare costituisce un’esperienza tipicamente giovanile, oltre che specifica della società post-moderna, ciò si combina con caratteristiche di personalità o ambientali, che possono dare ragione delle diverse posizioni assunte rispetto al rischio. 4.9.3. La dimensione temporale Questi fenomeni, appena rilevati negli anni ‘80, diventano sempre più radicati e diffusi col passar del tempo. Infatti, nell’indagine successiva (‘92), si registra un ulteriore aumento di coloro che rimangono nella fase di “moratoria” e s’innalza l’età di coloro che approfittano di tale concessione, soprattutto tra gli studenti: chi si trova in questa situazione mostra molta più incertezza e “il futuro appare ancora opaco o aperto, non risulta […] possibile fare dei progetti di vita su delle previsioni attendibili” (Cavalli, de Lillo, 1993, 218). Tale atteggiamento accenna a diventare un tratto culturale di una generazione, uno stile di vita che si estende anche ad altre fasi d’età. Applicando le tipologie emerse dalla ricerca sul tempo (Cavalli 1985), risulta che tra i giovanissimi (15-17 anni) prevale la destrutturazione temporale (sia auto che etero), mentre tra i più grandi (25-29 anni) si nota una maggior strutturazione del tempo, ma ancora a quell’età si incontrano dei destrutturati (soprattutto nella modalità “auto”: 13%). Ciò avviene in giovani di famiglie culturalmente elevate, che stanno ancora studiando, mentre i più strutturati si trovano nei giovani che hanno un lavoro. Tuttavia auto-destrutturato non vuol dire aver rinunciato a gestire il proprio futuro, solo aver più possibilità e tempo per progettarlo come si vuole. Infatti, i ricercatori concludono con queste osservazioni: 61 “É interessante notare […] che i due tipi (autostrutturati e auto-destrutturati) che presentano, sia pure con modalità diverse, un orientamento attivo e progettuale nei confronti della costruzione del proprio futuro tendono ad essere presenti con frequenza maggiore nelle regioni del Nord e del Centro. […]. I tipi individuati, […], forniscono indicazioni utili per cogliere altri aspetti della condizione giovanile. Nell’ambito dei comportamenti di consumo, ad esempio, il giovane auto-destrutturato, che combina «moratoria» e ottimismo volontaristico, tende più degli altri tipi verso consumi «ricchi» che uniscono divertimento e accesso a cultura, mentre il tipo che si colloca al polo opposto (l’eterostrutturato) presenta un mix di consumi «poveri» sia sul versante della cultura che delle attività propriamente ludico-giovanili. Tendenze nella stessa direzione si rilevano per quanto riguarda l’associazionismo e il grado di partecipazione sociale e politica. Anche rispetto a queste variabili i due tipi polari appaiono gli auto-destrutturati, molto attivi nelle associazioni e con tassi alti di partecipazione; e gli eterostrutturati, che mostrano invece livelli di attività e partecipazione consistentemente più bassi e ciò è vero soprattutto per le fasce centrali del nostro campione (18-24 anni) dove evidentemente la divaricazione tra giovani che ancora studiano e giovani invece che o lavorano, oppure stazionano nell’area grigia della disoccupazione e del lavoro precario, si fa più marcat a” (Cavalli, de Lillo, 1993, 224). 4.9.3.1.1.1 La sindrome di presentificazione nella ricerca del ‘96 La quarta indagine verifica fino a che punto la “sindrome di presentificazione” è penetrata tra i giovani italiani. Attraverso l’analisi fattoriale individua tre tipologie di atteggiamenti verso il tempo: II primo tipo, denominato “presentificazione passiva”, è tutto incentrato sulla rimozione, del passato. Per lui “non solo il passato è pieno di ricordi tristi ma bisogna dimenticare subito quello che è successo ieri, non farsi condizionare dalle decisioni prese in precedenza, intanto, quel o che è stato è stato e non serve rimuginare rimorsi o rimpianti, del resto, poco si può imparare dalle proprie stesse esperienze e non ha neppure molto senso preoccuparsi troppo del futuro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 28-29). Questo fattore presenta un legame molto forte con il fatalismo ed è più presente nelle situazioni “deboli” (basso livello socio-culturale, Mezzogiorno e Isole, tra coloro che non studiano e non lavorano). Il secondo, chiamato di “presentificazione attiva”, ha due tratti comuni al fattore precedente: “«ciò che è stato è stato», e non bisogna quindi lasciarsi troppo influenzare da azioni o omissioni compiute, e non bisogna neppure preoccuparsi troppo di ciò che potrà accadere in futuro (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 29). Tuttavia, si discosta dal precedente in queste due particolarità: “non è vero che il passato sia pieno di ricordi tristi e che bisogna dimenticarlo il più presto possibile; infatti, si può imparare molto dalle proprie esperienze, e, comunque, fare esperienze interessanti nel presente é più importante che pianificare il futuro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 29). L’accento, in questo caso, é posto sull’esperienza presente, come processo di esplorazione e di crescita. Il futuro è ancora avvolto nelle nebbie, ma questo non è fonte di preoccupazione. Questo fattore non ha nessun legame col fatalismo. Il terzo fattore, chiamato di “progettualità”, si riferisce a quei giovani “che hanno idee abbastanza chiare su quello che sarà il loro futuro e che ritengono importante pianificarne le tappe. Questo fattore presenta una connessione moto forte (ma negativa) con l’indice di fatalismo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 29). Da queste tre tipologie appare chiaro un diverso rapporto col tempo, da parte dei giovani. Essi 62 hanno imparato a rapportarsi ad esso, ad accettarne la sfida. Infatti, i ricercatori ne ricavano l’impressione “che i nostri giovani hanno imparato a muoversi in un orizzonte di incertezza, senza tuttavia nella maggior parte dei casi, farsi schiacciare dall’angoscia che potrebbe derivarne” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 30). La capacità poi di gestirlo in termini costruttivi per la propria identità, oppure remissivi e rinunciatari, può dipendere dall’atteggiamento che ognuno riesce ad assumere nei suoi riguardi. Capacità che dipende sovente dal background culturale e sociale della famiglia, dal suo status attuale, ma anche dal suo impegno e dalla volontà che ognuno riesce a esprimere nei confronti del futuro. Di certo non bisogna attendersi gli stessi atteggiamenti ed esiti di anni fa, perché sono cambiate le condizioni sociali, ci avvertono i ricercatori. “É difficile, in un mondo che muta rapidamente in modi largamente imprevedibili, elaborare progetti di lungo periodo; gli unici progetti che hanno prospettiva di durare sono quelli flessibili che scontano la necessità di doversi adattare alle circostanze mutevoli che di volta in volta si presentano. Quello che agli occhi di molti adulti, cresciuti in orizzonti sociali e culturali più consolidati, può sembrare un atteggiamento ripiegato sul «giorno dopo giorno, poi, si vedrà», palesa invece una capacità di «adattamento non rinunciatario» alle opportunità e ai casi deva vita in condizioni di incertezza che molti giovani sembrano aver sviluppato in misura notevole” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 30). Un altro lavoro significativo sulla dimensione temporale è stato condotto da Donati e Colozzi (1997). Attraverso la tecnica del budget time hanno indagato su due dimensioni essenziali: quella della scelta tra attività alternative e quella della durata. Globalmente emerge Come la vita dei giorni feriali sia fortemente ipotecata dai tempi scuola/lavoro e da quelli di studio a casa e come invece nei giorni festivi tenda a prodursi una significativa redistribuzione verso i tempi trascorsi con gli amici e in attività ludiche (Donati, Colozzi 1997, 219). Anch’essi hanno creato una tipologia di giovani rispetto alla dimensione temporale: 1. Gli strutturati istituzionali (giovani con un tempo vincolato): 36.7% del campione. Sono giovani inseriti nel mondo del lavoro e di fascia d’età elevata. Sono giovani cui materialmente manca il tempo per svolgere altre attività oltre il lavoro e quello dedicato al partner. Costoro credono nei valori della vita e della religione, come attribuiscono notevole importanza a valori come la correttezza. Questo gruppo presenta una positiva correlazione tra strutturazione della vita quotidiana in termini di selezioni temporali, e capacità di percepire positivamente il proprio futuro personale (Donati, Colozzi 1997, 236-237) . 2. I programmati (giovani con il tempo della conformità sociale): 29.2%. Sono studenti, di fascia d’età bassa, che dedicano molto tempo anche allo studio pomeridiano. Dedicano pure abbastanza tempo al dialogo con i genitori e ad attività ludiche. Sono impegnati in attività associative, in genere in ambito cattolico. Si distinguono per una duplice dipendenza (dai genitori e dall’impegno scolastico). A questa eteronoma strutturazione temporale corrisponde però, in ogni caso, una positiva percezione del futuro personale (Donati, Colozzi 1997, 237). 3. Gli esploratori (i giovani con un tempo scelto con volontà autonoma): 20.7%. Sono giovani impegnati nella scuola o lavoro, ma vi dedicano meno tempo rispetto al gruppo precedente. Dedicano molto più tempo agli amici, al divertimento e all’attività associativa e poco al dialogo familiare. I loro valori appaiono fondamentalmente esterni alla famiglia e danno poca importanza alle religione organizzate. Il vero tratto distintivo dell’ “esploratore” è il limitare i tempi obbligati per dare maggiore spazio a quelli della comunicazione interpersonale, dell’impegno 63 associativo e del divertimento. A questa mappa temporale si associa una percezione della vita come sopravvivenza, ma anche il desiderio di prefigurarsi un concreto futuro professionale (Donati, Colozzi 1997, 238). 4. I destrutturati (giovani privi di tempi obbligati): 13,4%. Non dedicano tempo ad attività di tipo scolastico o lavorativo, per cui la loro giornata è piena di altre attività come comunicazione interpersonale, televisione, divertimento. Soprattutto tendono a trascorrere molto tempo con gli amici, il partner, TV, ecc. I giovani appartenenti a questo gruppo in gran parte si dichiarano agnostici o cattolici non praticanti e politicamente si distribuiscono sulle due posizioni estreme della destra e della sinistra. I «destrutturati» tendono a percepire la vita come semplice sopravvivenza, prevalentemente sono sicuri che non formeranno una famiglia e si dichiarano scettici circa l'effettiva possibilità di diventare protagonisti della società del futuro. Per questi giovani il tempo non si presenta né come risorsa né come vincolo ma viene distribuito tra più attività apparentemente senza un vero senso unitario e pur trascorrendo essi molto tempo a dialogare in famiglia non presentano precisi orientamenti valoriali. In questo ultimo gruppo la destrutturazione della vita quotidiana raggiunge il suo massimo livello ed anche la capacità di prospettare positivamente il futuro personale appare compromessa. 1 destrutturati percepiscono la vita come sopravvivenza e sono convinti che non riusciranno a diventare protagonisti della società di domani (Donati, Colozzi 1997, 239). In conclusione essi rilevano che: un alto grado di strutturazione della giornata essenzialmente tra attività lavorative, di studio ed altri impegni implica un maggior grado di progettualità. Dedicare molto tempo ad attività ludiche tende a ridurre le capacità progettuali e tra chi dichiara di avere progetti, l'orientamento alla professione si trova in forte correlazione positiva con il crescere delle ore dedicate a studio e lavoro al contrario di quanto non accada per l'orientamento alla famiglia. I «tempi forti» della progettualítà sono dunque quelli del lavoro, della scuola, dello studio a casa, dell'impegno associativo e della religione. […] Riservare tempi cospicui alle attività ludiche, agli amici e alla televisione si associa ad una debole capacità progettuale. Questa indagine quindi ha evidenziato una scissione tra coloro che organizzano la loro giornata secondo un alto livello di strutturazione e coloro che invece tendono ad assecondare il fluire degli eventi e delle esperienze senza un preciso disegno organizzativo. Strutturazione della vita quotidiana/ progettualità e destrutturazione/non progettualità appaiono così come due modalità alternative di vivere la condizione giovanile. I giovani in un mondo delle possibilità eccedenti, cercano criteri di selezione che corrispondono a diversi modi di vivere e di rappresentare il tempo. Le possibili attività della giornata appaiono così, fondamentalmente, selezionate secondo modalità differenti: secondo una modalità procedurale (di un tempo vissuto come impegno in un gran numero di attività) o secondo una modalità di piena contingenza (vivendo in un presente esteso fatto di scelte sempre reversibili) e coloro che prediligono la prima tendono a mostrare una più solida capacità progettuale. Molto netta appare anche la contrapposizione, sempre in termini di progettualità, tra coloro che presentano una positiva propensione verso i valori della famiglia e della religione e coloro che invece attribuiscono a questi valori una rilevanza inferiore. I primi presentano una maggiore fiducia nel futuro e una maggior capacità progettuale rispetto ai secondi (Donati, Colozzi 1997, 243-244). Tuttavia l’obiettivo di questa ricerca non era tanto studiare la temporalità ma la “generazionalità”, 64 cioè il sentirsi generati e sentirsi capaci di generare, in senso ampio. Questo concetto implica il rapporto con la generazione dei padri e quella dei figli. I risultati di quest’analisi dicono che esiste ancora un senso di generazione tra i giovani italiani maggiore di quello che si potesse sperare. Ma non è assoluto. In particolare i giovani pensano di avere ricevuto molto dalle generazioni degli adulti, ma non si ritengono in grado di dare altrettanto a chi verrà dopo di loro. Per cui agli autori viene da concludere che “il senso della relazionalità non ha futuro” (Donati, Colozzi 1997, 273), anche se poi attenuano il pessimismo dell’affermazione appellandosi al principio di resilienza. In ogni caso appare che progettualità e generazionalità si correlano positivamente tra loro: dai dati emerge una stretta correlazione tra aiuti della famiglia a diventare grande, ad aver fiducia in se stessi, a programmare il futuro e sviluppo della capacità progettuale. Tra chi dichiara di non aver ricevuto a questo proposito nessun aiuto dalla famiglia, il 62,7 % non ha indicato per il proprio futuro alcun progetto. La percentuale scende al 39% per chi invece dichiara di aver ricevuto molto aiuto dalla famiglia. Infine il grado di progettualità cresce anche al crescere della componente attiva della relazione intergenerazionale, così chi attribuisce molta importanza al problema di cosa trasmettere alle generazioni future presenta un più alto grado di progettualità rispetto a chi considera questa componente poco o per niente importante (Donati, Colozzi 1997, 243). 4.9.3.2. La neutralità morale A questo quadro, fornito dalla sempre maggior complessificazione della società, vanno ad aggiungersi i cambiamenti avvenuti sul piano culturale: la crisi delle “grandi narrazioni”, l’emergenza di un pensiero nichilista, il pluralismo ideologico che si sono tradotti, in pratica, in una specie di “neutralità morale”. Viene così meno da parte della società la capacità di orientamento, di offrire punti di riferimento sicuri: il che rende più difficile all’adolescente una soluzione efficace dei suoi problemi. In un momento in cui ha estremamente bisogno di aiuto da parte della società, perché in preda a nuove pulsioni e in allontanamento dalla famiglia, la latitanza “normativa” della società provoca in lui disorientamento. È probabile che, in questo stato, assuma direzioni di sviluppo non funzionali alla sua piena realizzazione, o comunque che la sua crescita segua “un’incerta traiettoria” (Bobba, Nicoli 1987). Da più parti infatti si parla di una sindrome di caduta di senso, fenomeno che sembra colpire molti giovani, con sintomi di perdita dell’autostima, sentimenti di inutilità, venir meno del protagonismo, interiorizzazione dell’emarginazione come modello totalizzante di comportamento, con esiti di autoemarginazione in subculture separate. Ci si trova probabilmente di nuovo davanti ad una situazione anomica come quella indicata da Durkheim, allorché registrava il passaggio da una società rurale e tradizionale ad una urbana e moderna. E’ proprio la ricerca di Donati e Colozzi (1997) a mettere il dito su questa piaga. I risultati della ricerca […] dicono che le odierne generazioni giovanili debbono crescere come generazione - in risposta a difficoltà peculiari, decisamente diverse da quelle delle altre generazioni passate e compresenti, che assumono una valenza etica di mondo vitale diversa dal passato (Donati, Colozzi 1997, 24-25). La novità consiste nel dover “fare delle scelte etiche in una vita quotidiana che non ha più paletti da nessuna parte” (Donati, Colozzi 1997, 25). E ciò perché la società viene percepita come sempre più anomica (priva di regole), a-morale (in-differente alle scelte etiche), quando non immorale (cioè corrotta). Con un termine di Zigmunt Bauman 1993, trad. it. 1996], una società adiaforica, che riduce le scelte etiche a questioni tecniche, ossia è indifferente al problema del bene e del male (Donati, Colozzi 1997, 25). Pertanto questi giovani devono affrontare la difficoltà di vivere in una società eticamente neutra, che, cioè, non fa scelte etiche, non le 65 indica, ma dice a ciascuno: la scelta d'azione è personale, tu devi fare la tua, dato che non c'è regola sociale comune, e le opzioni non sono più confrontabili, anzi non fanno più differenza (Donati, Colozzi 1997, 25). Così si crea il paradosso: ognuno può seguire la propria regola, come se la regola potesse essere un fatto soggettivo, quando invece è sorta per “regolare” i rapporti intersoggettivi. Vivere in una società così fatta può essere esaltante, ma non è certo facile. Essa non aiuta a prendere decisioni. Decide di non decidere, cioè decide di non avere norme morali in comune, ma invia un messaggio paradossale: segui la regola che ti sei dato. Come se ciascuno potesse seguire la sua regola privata. Una siffatta cultura può risultare comoda e può ridurre i conflitti, ma non serve per crescere (Donati, Colozzi 1997, 25). I giovani devono da soli, senza esperienza e senza indicazioni, decidere quale via seguire, cosa è importante o no, cosa porta alla vita e cosa alla morte. Addirittura devono scegliere quando invece la società non sceglie. Questa sarebbe, secondo gli autori, la causa vera della profonda sofferenza giovanile. Il giovane percepisce, con un senso più acuto di quanto non avvenga negli adulti e negli anziani, che sta a lui/lei scegliere, e che dalla sua scelta - non da altri - dipende il fatto di vivere o di morire. In questo sentimento della vitalità della decisione etica sta il fatto nuovo di essere o non essere generazione (Donati, Colozzi 1997, 25). In conclusione, il messaggio che si ricava dalla ricerca è questo: crescere in una società eticamente neutra significa non avere punti di riferimento per le proprie scelte, se non nel privato della famiglia e del proprio «io», finché reggono. Crescere in una società che sceglie di essere eticamente indifferente rende le cose più difficili, non certo più facili, per i giovani, e tremendamente più rischiose per essi, cosicché rimane tutta da dimostrare la tesi oggi dominante secondo cui la vita dei giovani è tanto migliore quanto più ampie sono le loro possibilità di scegliere fra questo e quello, laddove nessuna di tali scelte possa essere intesa come avente un valore ultimo, non negoziabile. Potrebbe essere vero esattamente il contrario. Come dimostra il fatto che il senso generazionale dei giovani, con l'annessa capacità di costruire il futuro, aumenta laddove vengono fatte precise scelte etiche, che rinunciano a qualcosa, in quanto selezionano certe possibilità a scapito di altre, mentre il senso della generazionalità crolla laddove si sceglie di vivere secondo compromessi, negoziazioni e opportunismi che conseguono al pensare le scelte come sempre reversibili (Donati, Colozzi 1997, 3334). In effetti, le cose sono facilitate lì dove ci sono dei punti di riferimento, che aiutano ed indirizzano verso scelte con un preciso codice etico. I giovani mostrano un miglior senso di “generazionalità”, sentono maggior fiducia nel futuro e dimostrano una certa progettualità quando aderiscono ad un credo religioso e/o hanno ricevono hanno ricevuto una trasmissione sapiente da parte della famiglia. Se mancano tali sostegni, il peso e l’aleatorietà delle scelte lasciate al singolo diventa talmente opprimente che il giovane non ne regge il peso e la sua capacità generazionale (e quindi anche la sua identità e capacità progettuale) si dissolve. Alcuni indicatori […] dicono che gruppi consistenti di giovani hanno già attraversato il confine oltre il quale vi è la perdita radicale di senso generazionale, e si stanno dissolvendo come soggetti del loro futuro (Donati, Colozzi 1997, 31). 66