NOTE TCHAKERIAN/PROSSEDA Johann Sebastian Bach Ciaccona dalla Partita Seconda in re min. BWV1004 per violino solo (con accompagnamento pianistico di Robert Schumann) “A un dato momento Guido domandò il violino. Faceva a meno per quella sera dell’accompagnamento del piano, eseguendo la Chaconne […] Giammai, né prima né poi, arrivai a sentire a quel modo la bellezza di quella musica nata su quelle quattro corde come un angelo di Michelangelo in un blocco di marmo. […] Bach procedeva sicuro come il destino. Cantava in alto con passione e scendeva a cercare il basso ostinato che sorprendeva per quanto l’orecchio e il cuore l’avessero anticipato: proprio al suo posto! Un attimo più tardi e il canto sarebbe dileguato e non avrebbe potuto essere raggiunto dalla risonanza; un attimo prima e si sarebbe sovrapposto al canto, strozzandolo.” Con queste parole Italo Svevo ne La coscienza di Zeno racconta Bach e la Ciaccona, il brano che chiude in modo magistrale la Partita n. 2 per violino solo e che viene ricordato, oltre che la bellezza oggettiva, per la grande difficoltà di esecuzione. Bach considerava il violino -che grazie a lui conobbe una grande evoluzionecome uno strumento ideale, capace della potenza espressiva dell’organo e della sensibilità e duttilità della voce umana; tutte queste doti vengono esaltate nella Ciaccona che assume una grandiosa magnificenza proprio perché affidata alle risorse del solo violino. Bach la suddivise in tre parti: in minore, in maggiore e poi di nuovo, per il finale, in minore; da un semplice movimento ostinato in quattro battute vengono generate una serie di variazioni in cui abbozzi di melodie, stacchi improvvisi, frammentazioni ritmiche e sincopi suscitano, in maniera imponente e universale, sentimenti contrastanti tra di loro: la tristezza e la malinconia si alternano con la gioia e la tenerezza; la quiete e la serenità con la drammaticità più grandiosa. Molti compositori si sono cimentati con la scrittura di accompagnamenti pianistici per la Ciaccona, tra questi Schumann che scrisse il pezzo poco prima di morire, lasciandoci un’armonizzazione raffinata e virtuosistica. Il brano è di rara esecuzione e, particolare che renderà l’ascolto ancora più prezioso, non esistono registrazioni di riferimento. Marilisa Lazzari Johannes Brahms (1833-18979 Sonata in re minore op. 108 Conclusa con la Quarta Sinfonia la fase “titanica” della sua opera, Brahms si rivolgeva di nuovo alla dimensione intima della musica da camera, creando tra il 1886 e il 1888 una magnifica serie di lavori di musica strumentale e vocale. In particolare la Sonata in re minore –con dedica a Hans von Bulow- venne concepita pensando all’amico Joseph Joachim, il grande violinista mitteleuropeo, come gesto di riconciliazione per appianare gli screzi –essenzialmente di natura personale- nati tra loro negli anni precedenti. La prima esecuzione del pezzo avvenne a Budapest nel febbraio del 1889 con il giovane violinista ungherese Jeno Hubay interprete accanto a Brahms; solo pochi giorni dopo la Sonata venne replicata a Vienna, in un’esecuzione che deve essere stata sicuramente commovente e che vedeva Joachim e Brahms, messi da parte i risentimenti, suonare di nuovo assieme. Nell’Allegro iniziale, scritto in una forma di pura eleganza, colpisce l’idea di legare il breve sviluppo centrale a un pedale ostinato del pianoforte sulla nota La, ossia il grado di dominante di Re minore, ribattuta dalla mano sinistra. Questo processo ripetitivo permetteva a Brahms di mescolare con molta libertà episodi di natura diatonica e cromatica, rispecchiando l’idea singolare di questo sviluppo nella coda conclusiva. Lo splendido Adagio successivo è un’oasi lirica ricca di incanto che riluce senza sfolgorare: quasi una foresta di querce in un pomeriggio d’estate. Il terzo movimento era quello amatissimo da Clara Schumann, l’amica di sempre, che sentiva in questo Un poco presto e con sentimento come Brahms fosse riuscito a coniugare, come non mai, leggerezza e trasparenza di suono con uno struggimento profondo e nostalgico; l’arte di “comporre senza melodie” trova in questa pagina una modernità sorprendente sì che viene da pensare che sia una strada verso l’astrattismo musicale del secolo seguente. La Sonata si chiude in modo convenzionale, con un Presto agitato dallo slancio appassionato e dell’espressione vibrante. Note di Marcello rivedute Ludwig van Beethoven (1770-1827) Sonata op. 47 «Kreutzer Caposaldo dell'intera letteratura violinistica, la Sonata op. 47 «Kreutzer» incarna lo spirito innovativo di Beethoven sia nelle componenti strutturali ed espressive che nella tecnica violinistica. Composta nei primi mesi del 1803, la Sonata op. 47 è rimasta legata al nome del violinista Kreutzer anche se fu scritta per un altro virtuoso, l'inglese G. P. Bridgetower. La scadenza ravvicinata della prima esecuzione fece sì che Beethoven ripescasse il finale della Sonata op. 30 n. 1. La prima esecuzione, con Beethoven al pianoforte che accompagnava Bridgetower, fu un successo anche se, a detta dell'allievo Ries, il compositore fu costretto ad improvvisare l'accompagnamento del secondo tempo basandosi su alcuni appunti: non era riuscito a terminarlo in tempo! Al momento della pubblicazione (1805), però, i rapporti tra Beethoven e Bridgetower si erano irrimediabilmente compromessi per cui il compositore, che vedeva adesso nel virtuoso francese Rudolf Kreutzer l'incarnazione dell'interprete ideale per la Sonata, cambiò il destinatario della dedica. Kreutzer non eseguì mai in pubblico la "sua" Sonata anche se essa si confaceva perfettamente alle leggendarie doti di virtuoso. La Sonata op. 47 si pone come la vetta di uno stile concertante nel quale l'interazione tra i due strumenti raggiunge un grado di complessità mai verificatosi fino ad allora. Una solenne Introduzione conduce al Presto iniziale, vero fulcro della Sonata, una pagina travolgente e passionale, basti pensare al giudizio dato da Tolstoj nel racconto che porta il titolo della sonata: "Conoscete il primo Presto? È un'opera tremenda, sopratutto in quella parte (...). Secondo me l'esecuzione dovrebbe essere assolutamente proibita". Segue un Andante concepito in forma di variazioni su un tema molto semplice e lirico. Prima, seconda e quarta variazione arricchiscono il tema di figurazioni virtuosistiche, la terza lo presenta il modo più pacato così come la coda, uniche parentesi di equilibrio nella tensione spasmodica dell'opera. Il Finale è nuovamente un movimento impetuoso che si sviluppa attorno ad un ritmo caratteristico, una sorta di tarantella, con un effetto di "moto perpetuo" focoso e inebriante. Giorgio Spugnesì Note di Marcello rivedute