Rousseau - Roberto Gatti

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Rousseau: critica all’individualismo moderno
e dilemmi del legame sociale
(Roberto Gatti)
1. La «società ben ordinata» tra natura e artificio
L’antropologia filosofica di Rousseau è contraddistinta da una forte critica
all’individualismo largamente condiviso nella science politique moderna. Pur non
potendo approfondire questo aspetto come meriterebbe1, annoto alcuni minimi punti
di riferimento.
Prima di tutto ricordo il Discorso sulla disuguaglianza, in cui la socievolezza è
presentata come facoltà potenziale legata alla «perfectibilité»2; costituisce quindi una
dimensione ontologica, destinata a tradursi in atto nel divenire del singolo così come
in quello della specie. Poi richiamo l’Emilio, nel quale Rousseau scrive che «l’uomo
è socievole [sociable] per natura o almeno fatto per diventarlo»3.
La matrice e lo sfondo aristotelici di tale posizione sono già esplicitati
nell’esergo del Discours sur l’inégalité, tratto dal libro I della Politica e il cui
significato filosofico -sovente trascurato o sottovalutato- sta nel recupero di una
concezione teleologica della natura umana4 che, sola, consente di conferire pieno
significato anche all’idea della sociabilité5. Le forme che via via la socievolezza
assume -passando, nella specie come nell’individuo, dallo stadio nel quale era «en
puissance» a quello in cui si attualizza- manifestano infatti lo sviluppo progressivo
del fine intrinseco dell’uomo, così come la degenerazione che questo sviluppo può
subire e che di fatto ha subito (salvo rare eccezioni) nel corso della storia, indica gli
Mi limito a rinviare a R. Gatti, L’enigma del male. Un’interpretazione di Rousseau, Studium, Roma 1996, pp. 43-68;
181-279.
2
J.-J. Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes, in Oeuvres complètes, a cura
di B. Gagnebin-M. Raymond, Gallimard, Paris 1959-1995 (5 voll.), v. III, p. 142 (d’ora in poi Discous sur l’inégalité).
Di seguito gli scritti di Rousseau saranno citati da questa ed. (indicata come O. C.), facendo seguire al titolo il numero
del volume in numeri romani.
3
J.-J. Rousseau, Emile, O. C., IV, p. 600.
4
«Non in depravatis, sed in his quae bene secundum naturam se habent, considerandum est quid sit naturale».
(Aristotele, Politica, tr. it. a cura di R. Laurenti, in Opere, vol. IX, Laterza, Roma-Bari 1983, p. 10 [I, 2, 1254 a]).
5
Si rammenti: «Fu per una Provvidenza molto saggia che le facoltà che [l’uomo] aveva in potenza [en puissance] erano
destinate a svilupparsi solo con l’occasione di esercitarle, in modo che non risultassero per lui né superflue né onerose
nascendo troppo presto, né tardive e quindi inutili quando ce ne sarebbe stato bisogno. Aveva nel solo istinto tutto
quello che gli era necessario per vivere nello stato di natura; in una ragione coltivata ha ciò che gli è necessario per
vivere in società» (Discours sur l’inégalité, O. C., III, p. 152)
1
1
sviamenti della «liberté», cioè di quella «puissance de vouloir» 6 che, insieme alla
«perfettibilità», contraddistingue la «constitution humaine».
In tale contesto l’«indépendance» dell’uomo nello «stato di natura» connota non
certo -come l’intese, con singolare equivoco interpretativo, Voltaire7- una condizione
verso la quale Rousseau avrebbe desiderato spingere gli uomini a tornare, bensì un
livello ancora pre-umano, che va superato non per semplici motivi utilitaristici (pur
presenti nelle prime forme di società8), ma perché l’uomo acquisisca la sua piena
umanità divenendo una persona morale9. Esiste un indissolubile nesso tra relazione
con l’altro e sviluppo dell’identità morale dell’essere umano: «I vizi e le virtù di ogni
uomo non concernono lui solo. Il loro più grande rapporto è con la società ed è ciò
che sono riguardo all’ordine generale che costituisce la loro essenza e il loro
carattere»10. È dal «commerce» tra gli uomini che «si sono generati le loro virtù e i
loro vizi e, in qualche modo, tutto il loro essere morale»11.
Partendo da tali premesse si comprende come debba intendersi il significato del
passaggio dallo «stato di natura» allo «stato civile»: è infatti concepito da Rousseau
in termini non solo giuridico-politici, ma morali. Emblematico a questo riguardo è il
cap. 8 del libro I del Contratto sociale, in cui Rousseau scrive che tale passaggio
genera nell’uomo «un cambiamento di grande rilievo, sostituendo nella sua condotta
la giustizia all'istinto e conferendo alle sue azioni il contenuto morale che loro prima
mancava». È vero che nell’«état civil» si perdono molti dei vantaggi donati
originariamente all’uomo dalla natura; ma egli «ne guadagna di così grandi […] che,
se gli abusi di questa nuova condizione non lo degradassero sovente al di sotto di
quella da cui è uscito, […] dovrebbe benedire continuamente il momento felice in cui
fu strappato per sempre da essa e che trasformò un animale stupido e ottuso in un
essere intelligente e in un uomo»12. Ecco perché è giustificato affermare che
J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité, O. C., III, p. 142.
Si veda la lettera di Voltaire a Rousseau sul Discours in O.C., III, pp. 1379-1381.
8
Cfr. J.-J. Rousseau, Discous sur l’inégalité, O. C., III, pp. 164-167.
9
Cfr. J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, pp. 364-365.
10
J.-J. Rousseau, Fragments politiques, O. C., III, p. 554.
11
J.-J. Rousseau , Fragments politiques, O. C., III, p. 505.
12
J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, pp. 364-365 (traggo la tr. it. da Il contratto sociale, a cura di R. Gatti,
Rizzoli, Milano 2005, pp. 71-72).
6
7
2
diventiamo «uomini» solo dopo essere stati «cittadini»13: la compiutezza dell’essere
umano come persona morale si realizza infatti unicamente nella società politica.
Proprio per questa ragione «coloro che vorranno trattare separatamente la politica e
la morale non capiranno mai nulla di nessuna delle due»14.
Si colloca entro questo orizzonte di sfondo l’elaborazione dell’idea di società
politica come «communauté»: essa è lo spazio nel quale l’esercizio della sovranità
popolare diretta15, l’educazione pubblica16, la condivisione di usi, tradizioni,
consuetudini17, formano l’identità morale dei cittadini, svincolandoli dall’egoismo
che si manifesta nell’incapacità di considerare il proprio io se non come «entità
assoluta [entier absolu]» rinserrata nella sua autoreferenzialità18. La società politica
non è una semplice «aggregazione [agrégation]», ma è un’«associazione
[association]»19 esattamente per il fatto che in essa la relazione con l’altro non viene
stabilita soltanto in vista della conservazione della vita (secondo il modello
hobbesiano) e neppure per la garanzia della libertà e della proprietà individuali
(secondo il modello lockeano); rappresenta invece un legame intrascendibile per la
realizzazione dell’uomo come soggetto morale.
La «république» stilizzata nel Contratto sociale si delinea così come un modello di
ordine alternativo, contemporaneamente, all’organicismo di ascendenza platonica 20 e
all’individualismo «atomistico» che connota gran parte della filosofia politica
moderna21.
Un primo punto va dunque fin d’ora evidenziato: il nucleo del pensiero
13
J.-J. Rousseau, Du Contrat social, ou essai sur la forme de la république (prima redazione del Contratto sociale, nota
comunemente come Manoscritto di Ginevra), O. C., III, p. 287.
14
J.-J. Rousseau, Emile, O. C., IV, p. 324.
15
Cfr. J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, pp. 360-364; 368-371; 378-380; 437-453.
16
Cfr. J.-J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, O. C., III, pp. 259-262.
17
Cfr. J.-J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projetée, O. C., III, pp.
956-959 e 959-970.
18
J.-J. Rousseau, Emile, O. C., IV, p. 149.
19
J.-J. Rousseau, Du contrat social, O. C., III, cit., p. 359.
20
Cfr. R. Derathé, Jean-Jacques Rousseau e la scienza politica del suo tempo, tr. it., Il Mulino, Bologna 1993, pp. 489511; di Derathé cfr. anche l’Introduzione a Du Contrat social, in O. C., III, p. 1446. Sulle componenti organicistiche
della filosofia politica di Rousseau si veda, come interpretazione particolarmente autorevole, l’Introduzione di Charles
E. Vaughan a The Political Writings of Jean-Jacques Rousseau, University Press, Cambridge 1915, vol. I, specie pp.
57-58.
21
Cfr. C. Taylor, Atomism, in Philosophy and the Human Sciences. Philosophical Papers, University Press, Cambridge
1985, pp. 187-210.
3
rousseauiano risiede nel tentativo di riformulare, entro la modernità, il modo di
concepire la politica nel senso innanzitutto di sottrarla alla funzione esclusiva di
garanzia dei diritti dell’individuo come «particulier», quella funzione cui invece le
posizioni egemoni nel moderno la inchiodano. Per Rousseau accettare queste
posizioni equivale, senza mezzi termini, a eliminare la possibilità stessa di rendere
intellegibile filosoficamente una sfera politica in quanto tale. La filosofia politica
moderna, pur nelle sue variegate articolazioni ed espressioni, costituisce ai suoi occhi
l’ideologia che legittima l’ «agrégation» incardinata su interessi irrelati e nella quale
non può emergere uno spazio pubblico, ma domina il rapporto tra un «despota» e i
suoi sudditi o si afferma, nella versione lockeana, una fallace e illusoria alternativa al
despotisme, consistente nello sforzo di individuare una mediazione, inevitabilmente
fittizia, di tali interessi attraverso quel meccanismo della rappresentanza che in realtà
è il prodotto della volontà dei singoli di continuare indisturbati a perseguire,
distaccandosi dagli «affaires publiques», quelli «priveés»22. La libertà si rapprende, in
tal caso, nel momento dell’elezione, dopo il quale svanisce, come ben insegna la
prassi del popolo inglese23. È impossibile che dalla procedura rappresentativa proprio nella misura in cui nasce per consentire l’esercizio delle attività dei privati,
che così hanno escogitato il modo di sollevarsi da responsabilità politiche confinando
la libertà nell’ambito delle attività economiche e domestiche- possa nascere la
«volontà generale», intesa quale volontà dell’universale. Quello che può originarsi è
solo la «volontà di tutti», che è una sommatoria estrinseca di volontà particolari24.
Se «volonté générale» indica la «regola di giustizia [règle de justice]»25 che
impone la costante ricerca, attraverso la deliberazione diretta da parte dei citoyens
(quello che Rousseau definisce il «droit d’opiner»26), dell’«interesse» della comunità
nel suo insieme27, allora ne deriva che la caratteristica saliente della forma-Stato
tipica della modernità è l’impossibilità di operare il superamento della particolarità.
22
J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, p. 429.
Cfr. J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, p. 430.
24
Cfr. J.-J. Rousseau, Du Contrat social, p. 371.
25
J.-J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, O. C., III, p. 245.
26
J.-J. Rousseau, Lettres écrites de la montagne, O. C., III, p. 830.
27
J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, p. 368.
23
4
Dunque diventa facile intercettare e far risaltare il carattere impolitico di questa
forma-Stato; infatti senza l’universalità raggiunta nel confronto dialogico di volontà
individuali intenzionate, sulla base del costante esercizio della virtù pubblica, a
raggiungere «le bien du peuple»28 non c’è, nel senso più rigoroso del termine, uno
spazio politico. Nella tematizzazione di questo stretto ed essenziale vincolo tra virtù
pubblica e partecipazione diretta agli affari comuni quali fattori costitutivi del legame
politico emerge una delle componenti più significative che consentono di collegare il
repubblicanesimo rousseauiano al modello aristotelico29.
Eppure, all’interno di questo percorso teorico apparentemente lineare emerge
un’aporia che segna in maniera evidente il Contratto sociale e intacca sia la coerenza
teorica della proposta filosofica della «société bien ordonnée», sia l’aristotelismo
politico di Rousseau al quale quest’ultima si ispira.
Se ne può indicare, pur sommariamente, il senso concentrando l’attenzione sul cap.
7 del libro II, dedicato al Legislatore. La figura del Legislatore è importante non solo
sul piano della riflessione strettamente politica, ma anche perché consente di risalire
alle più marcate
tensioni interne dell’antropologia filosofica di Rousseau, che
intersecano inevitabilmente il nesso tra natura umana e artificio politico così come si
delinea in questo scritto.
Mi limito, per ora, a riportare la conclusione del cap. 6 del libro I: vi si afferma, in
perfetta continuità con l’idea-cardine che aveva guidato la delineazione del patto cioè quella della libertà come autolegislazione collettiva- che le leggi, «condizione
dell’associazione civile», debbono avere il «popolo» come «autore» poiché «solo
coloro che si associano hanno il diritto di stabilire le condizioni della società». Segue
poi una serie di quesiti intorno alla capacità del popolo di darsi le proprie leggi,
quesiti che -sia per la loro collocazione a questo punto del Contratto sociale (cioè
quando, con l’elaborazione dei concetti-cardine di patto, sovranità, «volontà
J.-J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, O. C., III, p. 247.
«In fondo Rousseau è Aristotele […]. Nei due casi, attraverso il télos della Città e il patto generatore della volontà
generale, si tratta di far apparire la coincidenza di una volontà individuale e passionale con la volontà obiettiva e
politica, e quindi di far passare l’umanità dell’uomo per la legalità e la costruzione civile» (P. Ricoeur, Il paradosso
politico, in Id., La questione del potere. L’uomo non-violento e la sua presenza nella storia, tr. it., Marco Editore, Lugo
di Cosenza 1992, pp. 77-78). Ringrazio il Dott. Luca Alici per la segnalazione di questo articolo di Ricoeur.
28
29
5
generale», legge, il cerchio dei principi del «diritto politico» sembra ormai essere
chiuso), sia per il loro stesso contenuto- sono invero non poco enigmatici: «ma come
le stabiliranno? […] Da se stesso il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre, da
se stesso, lo vede […]. I singoli vedono il bene che rifiutano, mentre la collettività
vuole il bene che non vede. Tutti hanno allo stesso modo bisogno di guide: è
necessario costringere gli uni ad adeguare le loro volontà alla loro ragione e insegnare
all’altra a conoscere ciò che vuole. Allora dall’opera di rischiaramento della
collettività risulta l’unione dell’intelletto e della volontà nel corpo sociale, la puntuale
collaborazione delle parti e infine la maggior forza del tutto»30. Ottenere questa
«unione di intelletto e volontà» nel popolo è appunto il compito del Legislatore.
È inevitabile lasciare da parte molti importanti aspetti di questa singolare figura del
Legislatore per concentrarsi su quello più denso di significati in relazione al percorso
che qui vorrei indicare continuando a riflettere sulla relazione che si stabilisce in
Rousseau tra premesse antropologiche e stilizzazione dei «principi del diritto
politico».
Aggiungo, per stringere su questo punto, solo un’altra citazione, in cui emerge
quello che credo sia il senso più profondo di questa parte del Contratto sociale: in
quanto soggetto chiamato a cimentarsi con «l’impresa di dare istituzioni a un
popolo», il Legislatore «deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura
umana [changer, pour ainsi dire, la nature humaine]; di trasformare ogni individuo,
che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, nella parte di un più grande tutto, da
cui questo individuo riceva in qualche modo la sua vita e il suo essere; di trasformare
la costituzione dell'uomo per fortificarla, di sostituire un’esistenza relazionale e
morale [existence partielle et morale] a quella fisica e indipendente che noi tutti
abbiamo ricevuto dalla natura»31.
Il paradosso è evidente: perché mai -al fine di ottenere «une existence partielle
et morale»- è necessario «changer la nature», se essa contiene già in se stessa, come
sua potenzialità intrinseca legata alla «perfectibilité», la socievolezza e se lo stesso si
30
31
J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, p. 380.
J.-J. Rousseau, Du Contrat social, O. C., III, p. 381.
6
può dire della «liberté morale», che insieme alla socievolezza dovrebbe svilupparsi
fino a dare tutti suoi frutti più maturi nella comunità politica? Perché la teleologia
interna della «constitution humaine» non si concretizza nell’evoluzione progressiva
delle forme della socialità, come avveniva in Aristotele, e necessita invece di un
intervento esterno che non serve semplicemente a porre i cittadini nelle condizioni
più idonee per esprimere le loro virtualità morali e per diventare buoni soggetti
politici (sin qui non ci sarebbe un vero e proprio problema posto dalla figura del
legislatore), ma deve, secondo quanto il passo sopra riportato esplicita chiaramente,
portare la natura a realizzare quel fine che -come a questo punto si scopre- da sola
evidentemente non arriverebbe ad attuare? Qual è insomma la radice teoretica di
questa sorta di teleologismo incompiuto che ipoteca la continuità del Contratto
sociale e ne mina la coerenza?
Per cercare di offrire una interpretazione plausibile di questo punto cruciale del
pensiero rousseauiano credo sia opportuno far risaltare un aspetto raramente
evidenziato ed approfondito dagli interpreti. Enuncio molto in sintesi il nucleo della
questione così come mi pare possa essere presentata: ci troviamo di fronte, in tutto il
corso della filosofia di Rousseau, a una palese frattura tra due nuclei concettuali
compresenti nell’antropologia dell’autore del Contratto sociale, ma che rimangono
privi di una conciliazione, creando un forte debito teorico nella concezione dell’uomo
che dovrebbe stare a fondamento dei «principes du droit politique».
Il primo nucleo è costituito da un resoconto della natura umana declinato nei
termini di un finalismo in cui traspare l’influenza aristotelica, che qui ho evidenziato
puntando l’attenzione sull’idea di socievolezza come facoltà potenziale; è un’idea già
presentata, come si è visto, nel Discorso sulla disuguaglianza e secondo la quale tale
facoltà è un dato costitutivo dell’essere umano. Il secondo nucleo è rappresentato
invece da un complesso insieme di contenuti che confluiscono in un’immagine
dell’uomo i cui tratti fondamentali fanno emergere un marcato debito verso
l’antropologia cartesiana -con al centro il dualismo tra «être sensitif» ed «être
7
intelligent»32-
filtrato
attraverso
l’influenza
agostiniano-pascaliana.
Questa
componente dell’antropologia rousseauiana va assumendo via via un’importanza
crescente man mano che si accentua la polemica con le correnti materialistiche della
philosophie illuministica, finendo per diventare un vero e proprio filo conduttore
dell’Emilio.
Si ricordino, come esempio quanto mai indicativo, le parole che Rousseau mette in
bocca al vicario savoiardo: quest’ultimo afferma che, «meditando sulla natura
dell’uomo», vi ha scoperto «due principi distinti»: l’uno eleva l’essere umano allo
«studio delle verità eterne, all’amore della giustizia e del bello morale, alle sfere del
mondo intellettuale», mentre l’altro lo rapprende in se stesso, lo piega «al dominio
dei sensi». Dunque «l’uomo non è affatto uno»: «io voglio e non voglio, sento di
essere al tempo stesso schiavo e libero; vedo il bene, lo amo, e faccio il male: sono
attivo quando ascolto la ragione, passivo quando le passioni mi trascinano, e il mio
peggior tormento, quando cedo, è di sentire che avrei potuto resistere»33. Sul piano
più strettamente morale il vicario sostiene, contro il materialismo, la libertà del
volere; al contempo mette in risalto anche la fragilità di questa libertà, che è esposta
alle tensioni create dalla coesistenza di anima e corpo34.
Vale la pena di portare l’attenzione sul ruolo focale che assume l’«amor proprio»
come movente e manifestazione del cattivo uso della libertà, quell’amor proprio che,
com’è stato giustamente notato, fa trasparire l’ «iperagostinismo» di Rousseau 35, base
della sua teoria delle passioni.
Mentre «l’amor di sé […] considera solo noi stessi [ed] è soddisfatto quando i
nostri bisogni sono appagati», «l’amor proprio» – che nasce con i rapporti sociali, con
lo sviluppo dei bisogni, con l’urto degli interessi – spinge a confrontarsi con gli altri:
«non è mai soddisfatto e non potrebbe esserlo perché questo sentimento, nella misura
32
J.-J. Rousseau, Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, à Christophe de Beaumont archevêque de Paris, O. C.,
IV, p. 936.
33
J.-J. Rousseau, Emile, O. C., IV, p. 583.
34
Cfr. J.-J. Rousseau, Emile, O. C., IV, pp. 585-588.
35
C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, tr. it., Feltrinelli, Milano 1993, p. 438.
8
in cui ci spinge a preferirci agli altri, esige anche che gli altri ci preferiscano a loro,
cosa impossibile»36.
Nel pensiero di Rousseau l’«amor proprio» è la passione-tipo, in cui ritroviamo gli
elementi costitutivi essenziali di tutte le altre passioni e a cui tutte -orgoglio, vanità,
ambizione, ipocrisia- fanno capo37. Nella misura in cui le passioni si sottraggono al
governo della «raison» e della «conscience», si creano le condizioni per un disordine
che ha luogo sia all’interno del soggetto sia nelle relazioni sociali; spinti da «sospetto
e ostilità reciproci», incapaci di risolvere positivamente «il conflitto tra i loro diritti e
i loro interessi», gli uomini diventano «tutti concorrenti, rivali o piuttosto nemici»38.
Mettere in risalto questo scacco, sempre possibile e sempre in agguato, del legame
sociale consente di segnalare quello che costituisce forse il punto più importante sul
quale soffermarsi: la versione della «constitution humaine» esemplata sull’
«iperagostinismo» di cui parla Taylor finisce per acquistare progressivamente, nel
passaggio dal Discorso sulla disuguaglianza all’Emilio e al Contratto sociale, una
prevalenza talmente decisa da oscurare la componente che in precedenza avevo
definito aristotelica dell’antropologia filosofica di Rousseau.
Poiché questo punto non può essere qui essere esaurientemente analizzato, mi
limito a rammentare l’illustrazione del conflitto sociale esposta nella lettera
all’arcivescovo di Parigi Christophe de Beaumont successivamente alla condanna del
Contratto sociale e dell’Emilio. Dopo una serrata critica al dogma del peccato
originale come spiegazione del male, Rousseau fa osservare che «l’uomo non è un
essere semplice; è composto di due sostanze». Se accettiamo questa premessa ne
deriva che anche «l’amore di sé non è più una passione semplice; ha invece due
principi, vale a dire l’essere intelligente [être intelligent] e l’essere sensitivo [être
sensitif], il cui benessere non è lo stesso. L’appetito dei sensi tende a quello del
corpo, l’amore dell’ordine a quello dell’anima». Prosegue Rousseau: «Quando […]
J.-J. Rousseau, Emile, O. C., IV, p. 493. «[…] Non c’è nessuno che non si metta al di sopra di tutti gli altri e che non
anteponga il proprio bene e la conservazione del proprio benessere e della propria vita a quella di tutti gli altri […]» (B.
Pascal, Pensieri, tr. it. condotta sull’ed. Chevallier, in Pensieri, opuscoli, lettere, a cura di A. Bausola ,Rusconi, Milano,
1978, p. 455 [fr. 138]). Vedi comunque tutti i frammenti dal 130 al 158.
37
È sensibile qui la ripresa, da parte di Rousseau, di Abbadie , L’art de se connoitre soy-même, ou la recherche des
sources de la morale, chez Pierre Vander Slaart, Rotterdam 1692, v. II, pp. 259-262.
38
J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité, O. C., III, pp. 190-191.
36
9
gli uomini cominciano a rivolgere lo sguardo verso i loro simili, cominciano anche a
scorgere i rapporti con essi e i rapporti con le cose, a nutrire le idee di proporzione, di
giustizia, di ordine. A questo punto essi hanno delle virtù e, se hanno anche dei vizi, è
perchè i loro interessi si intrecciano e l’ambizione si risveglia mano a mano che le
conoscenze si ampliano. Ma finché l’opposizione degli interessi è minore del
concorso delle conoscenze, gli uomini sono essenzialmente buoni». Siamo a quello
che Rousseau definisce il «secondo stadio [second état]» della filogenesi successivo
all’uscita dallo «stato di natura», stadio che prepara il successivo: «Quando infine
tutti gli interessi particolari, come agitati, si urtano tra loro, quando l’amore di sé,
messo in fermento, diventa amor proprio, allora la coscienza, più debole delle
passioni esaltate, viene soffocata da queste […]. Ognuno allora finge di voler
sacrificare i suoi interessi a quelli della collettività, e tutti mentono. Nessuno vuole il
bene pubblico se non quando si accorda con il suo bene particolare»39.
Questa è, mutati solo i termini, la ripresa della «diagnostique du mal»40 già
tracciata nel Discorso sulla disuguaglianza; in questo scritto l’attacco a Hobbes si
basava sul tentativo di mostrare che l’uomo, naturalmente (cioè al tempo delle
origini, almeno per quanto è dato ricostruirle), non è malvagio, poiché nello «stato di
natura puro» vive in una condizione che rende contemporaneamente impossibile e
inutile il conflitto41. Ma il fianco che comunque, già nel Discorso, rimane offerto
all’autore del Leviathan è la constatazione dell’esito storicamente inevitabile del
bellum omnium contra omnes, che inizia non appena gli uomini iniziano a intrattenere
rapporti tra loro: «Non indugerò -scrive Rousseau- a descrivere l’invenzione
progressiva delle altre arti [oltre cioè la metallurgia e l’agricoltura]. […] Mi limiterò
soltanto a gettare un colpo d’occhio sul genere umano in questo nuovo ordine di cose.
Ecco dunque tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in
gioco, l’amor proprio sensibilizzato, la ragione resa attiva e lo spirito pervenuto quasi
al culmine della perfezione di cui è suscettibile». Essendo queste le sole «qualità» in
39
J.-J. Rousseau, Jean-Jacques Rousseau, citoyen de Genève, à Christophe de Beaumont archevêque de Paris, O. C.,
IV, pp. 936-937.
40
A. Philonenko, Jean-Jacques Rousseau et la pensée du malheur, Vrin, Paris 1984, vol. I (“Le traité du Mal”).
41
Cfr. J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité, O. C., III, pp. 136-137; 140-141, 152-157.
10
grado di conquistare la stima degli altri, «fu necessario ben presto averle o fingerle.
Fu necessario, per il proprio tornaconto, mostrarsi diversi da quello che si era
effettivamente». L’«ambizione», «la brama di elevare la propria fortuna», lo spirito di
competizione, la «concorrenza», l’ «opposizione degli interessi», il «desiderio
nascosto di procurare il proprio profitto a spese degli altri» creano il «più orribile
stato di guerra»42.
È evidente che, se si segue la linea interpretativa cui questi passi indirizzano,
diviene inaccettabile ogni resoconto della genealogia del conflitto sociale e, più in
generale, dell’origine del male che -seguendo la traccia della notissima lettura
proposta da Ernst Cassirer43 e poi diventata quasi una vulgata- riconduca l’una e
l’altra semplicemente alle dinamiche della società nel suo sviluppo storico e, in
particolare, alla introduzione tra gli uomini della proprietà privata e della divisione
del lavoro. Infatti per cercar di rendere ragione, nei limiti di quanto umanamente si
può, dello scacco del legame sociale e della radice del male bisogna andare molto più
a fondo, rinunciando a vederne solo le manifestazioni esterne e cercando invece di
sondare quei moti di cui il «peccato sociale»44 è solo la sedimentazione storica. Ed è
proprio in questo cruciale passaggio che risulta evidente l’influenza del resoconto in
termini agostiniano-pascaliani del comportamento umano, con la ricca e variamente
articolata descrizione -che Rousseau mutua evidentemente dai Pensieri di Pascal,
oltre che dalla tradizione dei moralisti francesi, a partire da Montaigne- del contrasto
tra «essere» e «sembrare», della corsa alla reputazione, dell’antagonismo degli
interessi mascherato dalla politesse, della menzogna, della cura esclusiva per se stessi
celata dietro l’apparenza della bienveillance, e così via. Insomma: il male che si
produce nella storia va distinto dall’innocenza premorale dello «stato di natura», ma
quel male rinvia comunque ai luoghi profondi dell’interiorità, cioè all’abuso della
libertà da parte di un essere esposto alle lusinghe delle passioni e interiormente diviso
42
Ivi, pp. 174-176.
Cfr. E. Cassirer, Il problema Gian-Giacomo Rousseau, tr. it. in E. Cassirer-R. Darnton-J. Starobinski, Tre letture di
Rousseau, Laterza, Roma-Bari 1994.
44
P.-M. Masson, La religion de Jean-Jacques Rousseau, Slatkine, Genève 1970 (rist. dell’ed. 1916), pp. 244 e 278.
43
11
tra la voce dell’anima e la voce del corpo45. Con una chiara reminiscenza paolina
Rousseau confessa, per bocca del vicario: «Vedo il bene, lo amo e faccio il male» 46.
Il dualismo antropologico subisce, in tale contesto, una torsione radicalmente
pessimistica: il cattivo uso della libertà segna con tale profondità e ricorrenza l’agire
umano che la «virtù» è relegata a ideale pressoché irrealizzabile (se non da pochi
eletti), mentre ad essa viene sostituita la «bontà», che non è il risultato della difficile
lotta contro le passioni, bensì l’accorta strategia consistente nell’evitare le occasioni
del male. Si tratta di un aspetto ben conosciuto e variamente commentato della
filosofia morale di Rousseau; non c’è bisogno quindi di illustrarlo nei particolari.
Considero sufficiente il rinvio a un significativo passo dei Dialoghi: «Nell’ordine
della natura non c’è vero male se non il male positivo. Spesso non c’è altro modo di
astenersi dal nuocere se non quello di astenersi del tutto dall’agire e [...] la miglior
regola di vita, sia morale che fisica, è una condotta puramente negativa». Questa
massima si lega a un’altra, che consiglia di «non mettersi mai in una situazione che
[...] faccia trovare il proprio vantaggio nel danno di un altro». Invece la maggior parte
degli uomini, con un eccesso di fiducia riguardo alla loro forza morale, «provocano
senza timore le tentazioni alle quali si sentono così superiori». Per quanto lo
concerne, nutrendo una più realistica consapevolezza delle sue possibilità, «il debole
Gian-Giacomo» preferisce «fuggire le tentazioni che doverle vincere, poiché è troppo
poco sicuro del successo in una simile lotta»47. Montaigne insegna, ed è evidente che
Rousseau non lo ha dimenticato: la «virtù» è «cosa diversa e più nobile delle
inclinazioni alla bontà», legate a una naturale spontaneità irriflessa e non alla difficile
disciplina della ragione: «Colui che, con dolcezza e mitezza naturale, disprezzasse le
offese ricevute, farebbe cosa bellissima […]; ma colui che, punto sul vivo da
un’offesa, si armasse delle armi della ragione contro questo furioso desiderio di
vendetta, e dopo un grande conflitto arrivasse infine a dominarlo, farebbe senza
dubbio molto di più. Quello agirebbe bene, e questo virtuosamente: il primo modo di
Sia concesso rinviare, per un approfondimento del tema, a R. Gatti, L’enigma del male…, cit., pp. 127-188.
J.-J. Rousseau, Emile, O. C., IV, p. 583.
47
J.-J. Rousseau, Rousseau juge de Jean-Jacques. Dialogues, O. C., I., p. 855. Vedi su questo punto R. Derathé, Le
rationalisme de Jean-Jacques Rousseau, P. U. F., Paris 1948, pp. 119 ss.
45
46
12
agire potrebbe chiamarsi bontà; l’altro virtù»48. Ma agire virtuosamente è da pochi;
più alla portata dell’uomo comune, di cui Montaigne si propone come esempio
paradigmatico, è agire secondo «bontà»49.
Nella recezione rousseauiana di Montaigne la «bontà» diventa innanzitutto un
istinto spontaneo, un’inclinazione alla quale sono estranei lo sforzo, il conflitto, il
sacrificio, dunque tutto ciò che connota l’esperienza morale nella sua pienezza e
integralità. Inoltre non consente l’espansione del soggetto se non entro confini molto
ristretti. Essa, come era stato già evidenziato nel Discorso sulla disuguaglianza a
proposito dell’uomo che vive nello «stato di natura», emerge direttamente dalla
confluenza dell’ «amor di sé» e della «pietà» ed è conforme alla massima di fare il
proprio bene, per quanto possibile, con il minimo male per gli altri50. Ma va incontro
allo scacco quando le relazioni umane si ampliano e richiedono il ricorso ad altri
principi, che sono poi quelli del «diritto naturale ragionato» e non più dettato solo
dall’istinto51. In ultimo, la «bontà» è fragile, cioè non regge, per i motivi appena visti,
all’attacco delle passioni, inscindibilmente connesso allo sviluppo delle relazioni
sociali e che può essere fronteggiato solo dalla «ragione» e dalla «coscienza». È
quindi evidente che l’esercizio della «bontà» comporta la riduzione dei rapporti
sociali, giacché, meno intensi e profondi questi saranno, tanto più agevole risulterà
preservarla da tutto quanto la insidia.
D’altra parte, in Rousseau la «bontà» e la «virtù» non designano due modi di agire
che si escludono a vicenda, per cui diverrebbe necessaria una scelta radicale tra l’uno
e l’altro; e neppure indicano due posizioni antitetiche che determinerebbero una
scissione insuperata e insuperabile nella sua filosofia morale. Costituiscono piuttosto
due modulazioni possibili della vita del soggetto umano52. La «virtù» è senz’altro il
culmine di quest’ultima, ma la difficoltà della sua realizzazione suggerisce al saggio
di scansare, nei limiti del possibile, le situazioni che rendono necessario il ricorso alle
48
M. De Montaigne, Saggi, tr. it. a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 19983, pp. 543-544.
Cfr. ivi, p. 551.
50
Cfr. J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité, O. C., III, pp. 153-157.
51
J.-J. Rousseau, Du Contrat social ou essai… (prima versione del CS), O. C. III., p. 329.
52
Cfr. R. Derathé, Le rationalisme de Jean Jacques Rousseau, cit., pp. 112ss.
49
13
ostiche risorse dell’agire virtuoso e di mantenersi in una condizione che permetta
l’esercizio della «bontà». È per questo che Rousseau può dire che i popoli «felici»
sono quelli presso i quali «si può essere buoni senza sforzo e giusti senza virtù!»53.
Chiarissima nella sua stringatezza su questo aspetto è la lettera a Carondelet del 6
gennaio 1764: «la virtù non è che la forza di compiere il proprio dovere nelle
occasioni difficili; la saggezza, al contrario, sta nell’evitare la difficoltà del dovere.
Felice colui che, accontentandosi di essere un uomo dabbene, si è posto in una
condizione tale da non aver mai bisogno di essere virtuoso»54.
2. Rousseau impolitico?
Certo, tutto quanto pur schematicamente evidenziato sin qui implica, in relazione
al problema della costituzione e mantenimento dell’ordine politico, un singolare
paradosso: la «virtù», che costituisce il vertice della vita morale, è allo stesso tempo
tanto difficile da risultare ai limiti dell’impossibile e però necessaria per la vita della
«società ben ordinata». La soluzione, almeno apparente, del paradosso, una volta
preso atto dell’ostacolo interno alla natura umana che le impedisce di raggiungere
autonomamente i suoi fini (il teleologismo incompiuto di cui si diceva in precedenza),
rende necessario il ricorso a un agente esterno che sblocchi l’impasse e che riesca a
rendere gli uomini come dovrebbero essere (e come però, autonomamente, non
arrivano ad essere). Questo agente è appunto il Legislatore. Dire genericamente, con
riferimento ad esso, di un ruolo taumaturgico e/o demiurgico è dire poco o non dire
tutto quello che in questa figura è contenuto. In realtà, più adatto sembra parlare di
una sorta di trascrizione in chiave secolarizzata della figura del Mediatore quale ci è
consegnata, in forme quanto mai ricche e articolate, dalla teologia cristiana. Il
Legislatore è (se lo si può dire in modo così sintetico) la trascrizione in termini
inframondani della figura del Cristo chiamato a superare e risolvere, per usare il
53
J.-J. Rousseau, Emile, O. C. IV, p. 468.
J.-J. Rousseau, Correspondance générale, a cura di T. Dufour-P.P. Plan, Colin, Paris 1924-1934, vol. X, p. 291. Per
l’approfondimento della parte che precede e per tutto quanto segue sulla figura del Mediatore rinvio alla più estesa
trattazione che ne ho svolto in L’ “impronta di ciò che è umano”. Saggi di filosofia, Plus, Pisa 2006 (cap. II); si può
vedere quest’ultimo testo anche in http://bfp.sp.unipi.it/hj05b/ (Sezione E-BOOKS).
54
14
lessico pascaliano, le contrariétés e la faiblesse della natura umana: naturalmente, in
Rousseau, ciò vale per quanto concerne un obiettivo tutto umano, che è quello della
creazione e della conservazione del giusto ordine politico. Creare e conservare tale
ordine richiede l’esercizio sistematico della virtù da parte dei cittadini, sia perché
siano deliberate buone leggi sia perché ad esse si obbedisca non sotto la minaccia
della spada, ma conformemente alla «loi du devoir»55. Ponendo le premesse per il
raggiungimento dell’ordine dell’anima, il Legislatore, vero e proprio Dio in terra56,
consente che sia costruito, in maniera stabile e non sulla fragile base della
«debolezza» umana abbandonata a se stessa, l’ordine della Città.
Se questa chiave di lettura è condivisibile, allora è innegabile che ci troviamo di
fronte a una delle figure più significative della secolarizzazione nella filosofia politica
moderna; e sorprende alquanto che in tale direzione ben poco si sia scritto sul
Legislatore nella versione offertane da Rousseau, versione che ne fa qualcosa di
molto diverso da ciò che questa figura rappresenta in altri precedenti autori che ad
essa hanno fatto ricorso e che Rousseau ha ben presenti: basta pensare, prima di tutti,
a Platone e a Machiavelli57.
La diversità fondamentale sta nel fatto che il retroterra di tale figura-cardine del
Contratto sociale è cristiano e, più in generale, religioso; ed è incomprensibile senza
tale retroterra, che Rousseau recepisce attraverso il fondamentale filtro pascaliano.
L’inserzione di questo deus ex machina è necessitata dall’impossibilità di chiudere il
cerchio tra le premesse antropologiche che Rousseau precisa progressivamente nel
corso della sua riflessione -e che sono viziate dalla interna tensione che si è
precedentemente cercato di illustrare- e la costituzione del legame politico nella
forma della «communauté» esemplata sul modello della classicità. Insomma, rimane
una fondamentale inconciliabilità tra l’aggancio, da un lato, alla concezione
aristotelica dell’uomo come zoon politikon -in cui ragione e linguaggio manifestano
la destinazione alla vita politica e consentono che sia realizzata la costitutiva
Discours sur l’économie politique, O. C., III, pp. 252 ss.
«Occorrerebbero degli Dei per dare leggi agli uomini» (Du Contrat social, O. C., III, p.381).
57
Per il rinvio che fa Rousseau, rispettivamente, a Platone e a Machiavelli, cfr. Du Contrat social, O. C., III, p. 381 e
384.
55
56
15
relazionalità dell’essere umano- e, dall’altro, il recupero di elementi salienti di una
visione antropologica mutuata attraverso il fondamentale filtro pascaliano -tutta
centrata invece sul tema della faiblesse umana radicata, per l’autore dei Pensieri, nel
peccato originale58 e nella quale l’enfasi cade insistentemente sul conflitto ingenerato
dall’amor proprio.
A meno che non si aggiri l’ostacolo inserendo, come fa appunto Rousseau con il
Legislatore, un escamotage tanto poco convincente dal punto di vista filosofico
quanto significativo per ciò che indica la sua introduzione. Significativo perché che
cos’altro è l’attesa del Legislatore se non un atto di fede in quello che si presenta
come un vero e proprio miracolo inframondano? Infatti, chi mai può garantire che
questo soggetto -cui è affidata la realizzazione dei «principi del diritto politico» e la
possibilità che essi siano sottratti alla dimensione della fredda ragione astratta dei
jureconsultes- appaia sulla terra e lo faccia al momento opportuno, cioè in
corrispondenza dello stato nascente di un popolo? Le letture gianseniste hanno
insegnato a Rousseau i limiti della ragione e la «debolezza» dell’uomo, ma il suo
deismo gli impedisce di pensare questi limiti e il tema della «faiblesse» sullo sfondo
del soprannaturale in senso cristiano59 e di considerare la provvidenza se non come la
garanzia dell’ordine del mondo da parte di un Dio infinitamente lontano dal Dio
personale delle Scritture, che è il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. La figura
del Legislatore rimane inchiodata tra questi due poli e quindi non riesce ad opporre al
razionalismo giusnaturalistico se non uno scatto esigenziale, cioè la speranza,
anch’essa ormai radicalmente mondanizzata, che in un modo o nell’altro, presto o
tardi, il Legislatore faccia la sua comparsa.
Ma, come ha sottolineato Karl Löwith, nella logica tipica della secolarizzazione
permane, con gradi variabili di consapevolezza e in forme quanto mai differenziate,
ciò che viene posto come da superare, cioè il contenuto teologico 60. Per quanto
58
Sui problemi e sulle implicazioni che crea in Rousseau il rigetto del dogma cristiano della caduta cfr. i già ricordati
L’enigma del male…, pp. 127-177, e “L’impronta di ciò che è umano”…, pp. 75-154.
59
Cfr. A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964, pp. XVII ss.
60
Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, tr. it., Net, Milano
2004.
16
concerne Rousseau (autore sorprendentemente ignorato da Löwith) c’è da dire, a
conferma di questa tesi, che, nell’opposizione ai dogmi cristiani dell’incarnazione e
della redenzione (basta rammentare la Professione di fede del vicario savoiardo), egli
mantiene la sua dipendenza dal cristianesimo in ragione del ricorso a figure cui è
demandato, come si è visto, il compito di mediare il passaggio dell’uomo qual è
all’uomo quale dovrebbe essere61, passaggio che la gran parte degli individui non
sarebbero mai in grado di compiere affidandosi unicamente alle loro forze. Si
consideri quanto tutta la sua riflessione, in campo politico, pedagogico, letterario, sia
costantemente attraversata dalla presenza di personaggi i quali, pur in differenti
contesti, adempiono al pressoché sovrumano ruolo di consentire tale problematico
transito: Monsieur de Wolmar ne La nuova Eloisa, il precettore nell’Emilio, il
Legislatore nel Contratto sociale. Sono uomini eccezionali, ai limiti del divino ma
non divini, e nella cui eccezionalità tutta umana si riflettono i caratteri che Rousseau
attribuisce a Cristo62.
Non è qui rilevante illustrare specificamente i modi attraverso i quali il Legislatore
può raggiungere il suo obiettivo, precostituendo le condizioni per la creazione e il
mantenimento dell’esprit publique (la messa in opera di un «sistema di legislazione»,
la cura riservata ai «costumi» del popolo, l’educazione pubblica finalizzata all’«amor
di patria», e così via). È importante semmai far notare che il lessico usato nel capitolo
sul legislatore ha una rilevanza che sarebbe errato sottovalutare: changer la nature
humaine indica, a differenza di quanto avviene nel modello aristotelico relativo allo
sviluppo progressivo e ordinato delle forme della socialità delineato nel libro I della
Politica, una frattura, un salto, una discontinuità: la buona dipendenza dall’altro, la
relazione idonea a fondare e intessere la «communauté», che pure costituiscono
l’espressione di ciò che nell’uomo è in potenza fin dalle origini, non si producono se
non come effetto di qualcosa o qualcuno che rimuova l’ostacolo interno che sembra
interrompere la linearità del passaggio dalla potenza all’atto. Non uso a caso il
termine ostacolo, reso celebre nel contesto delle interpretazioni rousseauiane da Jean
61
62
Cfr. J.-J. Rousseau, Discours sur l’économie politique, O. C., III, p. 251.
Sulla figura di Cristo in Rousseau mi limito a rinviare all’Emile, cit., pp. 625 ss.
17
Starobinski63; infatti mi pare che sarebbe fruttuoso sviluppare le sua lettura nella
direzione che ho cercato di indicare, cioè in una prospettiva in cui il significato del
concetto menzionato potrebbe essere incrementato dal punto di vista teoretico e
collocato in un percorso di approfondimento diretto a meglio intendere il ruolo che
Rousseau viene ad assumere entro una riflessione sulla secolarizzazione della
filosofia politica tra Sei e Settecento.
A questo punto si può inserire, in modo almeno in parte documentato e fondato,
un’ulteriore considerazione, che avvia alla conclusione del cammino intrapreso. La
rilevanza di quello che ho definito il teleologismo incompiuto che caratterizza
l’antropologia filosofia di Rousseau sta nel fatto che permette di sorprendere,
nell’autore del Contratto sociale, una dimensione dell’impolitico su cui vale la pena
di soffermarsi recuperando quanto si è precedentemente sottolineato a proposito del
binomio «virtù»-«bontà», valorizzandone le implicazioni relative alla teoria della
«società ben ordinata».
Che la prosa di Rousseau sia spesso piuttosto ridondante lo sappiamo bene.
Cercando di mettere in secondo piano questa componente retorica, è possibile
rintracciare, fin dal Discorso sulla disuguaglianza, il filo del percorso che vorrei
seguire in quest’ultima parte e così rintracciare già in questo scritto, almeno in nuce,
l’alternativa politica che nel binomio «virtù»-«bontà» è implicata. Rivolgendosi in
modo alquanto ampolloso al genere umano, in una nota molto celebre del Discorso
Rousseau scrive: «Voi, a cui la voce del cielo non si è fatta sentire e che non
riconoscete per la vostra specie altra destinazione che di concludere in pace questa
breve vita […]; recuperate, poiché dipende da voi, la vostra antica e primitiva
innocenza; andate nei boschi, a cancellare la vista e la memoria dei crimini dei vostri
contemporanei […]. Quanto agli uomini simili a me, le cui passioni hanno distrutto
per sempre l’ originaria semplicità, che non possono più […] fare a meno di leggi e
di capi; […] tutti costoro si impegneranno a meritare, con l’esercizio delle virtù che si
obbligano a praticare
63
imparando a conoscerle, il premio eterno che devono
J. Starobinski , J.-J. Rousseau. La transparence et l’obstacle, Gallimard, Paris 1971.
18
attenderne; rispetteranno i sacri legami delle società delle quali sono membri […].
Ma non disprezzeranno di meno una costituzione che non può mantenersi se non con
l’aiuto di tante persone rispettabili, che sono più facili da desiderare che da
trovare»64.
Emerge chiaramente la possibilità di collegare la citazione a quanto
precedentemente si era osservato, appunto, su «bontà» e «virtù». Se si opera questo
collegamento, ne risulta quello che mi pare sia il punto focale: l’esistenza vissuta
secondo un’innocenza recuperata passando per quel ritiro dal mondo che evita o
riduce la retroazione distruttiva dei rapporti sociali sviluppatisi nella storia corrotta
costituisce l’alternativa all’esistenza politica. Questa alternativa, costantemente
presente nel pensiero di Rousseau, assume il significato di un’opzione sempre aperta
per ogni individuo posto di fronte alla sovrumana difficoltà, e al possibile scacco,
della vita conforme ai «principi del diritto politico». La distanza dal modello
aristotelico del bios politikos -che pure rimane lo sfondo di tutta la filosofia politica
di Rousseau, pronto in ogni momento a esibire la sua ammirazione per le republiche
antiche- è abissale, poiché in quel modello la vita politica è la realizzazione del telos
interno della natura e, in quanto tale, esprime una precisa valenza ontologica. Il bios
politikos non si sceglie, ma costituisce la destinazione già da sempre data della natura
umana. L’apolide -che in Rousseau assume le sembianze dell’ «aimable étranger»,
cioè del soggetto in cui la libertà interiore diventa il rifugio di un uomo, come Emilio,
cui è ormai stato sottratto ogni possibile autentico spazio pubblico 65 e che quindi non
ha una Città dove abitare e condividere «parole e azioni» nella sfera politica66- non è
semplicemente un individuo che ha compiuto un’opzione diversa da un’altra. È
piuttosto, nel senso letterale del termine, un essere non umano: è una bestia o un Dio,
ma non un uomo67.
La distanza in questione non è casuale. La sua radice affonda infatti in una
ontologia dell’interrelazionalità che non giunge mai a completa coerenza. La fragilità
J.-J. Rousseau, Discours sur l’inégalité, O. C., III, p. 207.
Cfr. Emile, O. C. IV, pp. 855 ss.
66
H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, tr. it., Bompiani, Milano 19913, pp. 18-21; 24; 37-43; 127-153.
67
Cfr. Aristotele, Politica, cit., p. 6 (I, 2, 1253 a).
64
65
19
dell’impianto ontologico apre lo spazio a una legittimazione dell’esistenza nonpolitica e, più radicalmente ancora, a quella che sovente diviene in Rousseau
l’apologia di un’esistenza in cui si può fare a meno della relazione con l’altro (o
ridurla ai minimi termini). L’alternativa impolitica alla vita nella buona società trova
la sua giustificazione attraverso il rinvio alla «debolezza» dell’essere umano
chiamato a rispondere a doveri che sono ai limiti delle sue capacità. Il tema della
faiblesse, che lascia chiaramente intravedere, per il modo in cui Rousseau lo
interpreta e lo trascrive, l’influenza di un agostinismo radicalizzato attraverso la
mediazione pascaliana -insomma questa traccia di un peccato senza Dio- incrocia
quello della sociabilité come facoltà potenziale e, come si è già fatto notare in
precedenza, ipoteca la tenuta del secondo in ragione della preminenza che acquista
progressivamente nella riflessione rousseuiana (e l’Emilio qui è il testo di riferimento
obbligato, soprattutto per quanto riguarda la Professione di fede del vicario
savoiardo).
Certo, la scelta per la vita non politica costituisce una scelta subordinata, visto che
la «liberté morale» è conseguibile solo nella «société bien ordonnée». Ma è scelta che
conserva comunque un suo preciso valore e significato. Infatti rappresenta una carta
che può essere sempre giocata non semplicemente contro la corruzione di un
determinato regime -o anche, con senso più forte, contro un’intera epoca storica (per
esempio il moderno come tempo delle «aggregazioni», stigmatizzate nel Contratto
sociale, e non più delle «patrie» e dei «cittadini»68)-, bensì contro la vita politica in
quanto tale. La sfera privata qui non è più, come in Aristotele, la sfera della
privazione, e neanche, come in Hobbes e in Locke, lo spazio delle attività individuali
che richiedono la protezione da parte dello Stato. Diventa piuttosto la dimensione
alternativa rispetto alla politica, cosicché l’apolidìa assume, dal punto di vista
teoretico e morale, una configurazione del tutto particolare rispetto ai due modelli
citati: è la forma per eccellenza della sagesse, così stridente rispetto all’ideale
repubblicano del Contratto, ma importante -oltre che per tanti altri motivi qui non
68
Cfr. anche Emile, O. C. IV, p. 250.
20
esplorabili- perché ne illumina le interne aporie. Il punto è che il significato più
profondo e anche interessante del pensiero di Rousseau emerge alla fine del percorso
che esso traccia, cioè in quegli scritti autobiografici il cui valore politico -così poco
considerato dagli interpreti- sta appunto nel far toccare con mano quanto l’esito
impolitico della riflessione rousseuaiana sia non dipendente da motivi esistenziali e
personali, più o meno patologici, ma sia invece filosoficamente necessitato: e da
questo punto di vista l’autobiografia di Rousseau andrebbe approfondita, non solo
(come invece quasi sempre è avvenuto) dal punto di vista letterario e/psicologico, ma
anche (e direi soprattutto) teoretico.
Un aspetto risalta comunque chiaramente, aspetto che è il paradosso più eclatante
del pensiero di Rousseau, naturalmente se lo si interpreta tenendo presente l’itinerario
delineato fino a questo punto: partito, come si è sottolineato all’inizio, dalla denuncia
del carattere impolitico del moderno e dopo aver esplicitato a chiare lettere il nesso
indissolubile tra questo carattere impolitico e l’antropologia individualistica che lo
sottende, Rousseau fallisce nel suo intento di delineare un’alternativa plausibile, di
rifondare cioè uno spazio politico mettendo a frutto elementi cruciali della tradizione
repubblicana di matrice aristotelica. Fallisce perché mette in campo una risposta
debole -anzi, in parte chiaramente aporetica- all’individualismo e perché articola una
teoria intimamente lacunosa, attraversata da tensioni non conciliabili, dell’uomo
come essere sociable per natura. Sebbene le generalizzazioni siano sempre insidiose,
si può però almeno suggerire che, visto con gli occhi dei protagonisti del dibattito
filosofico contemporaneo, qui si può sorprendere un elemento di attualità della
filosofia rousseauiana, giacché è fuor di dubbio che nel variegato panorama delle
teorie politiche anti-individualistiche (il rinvio alle posizioni «comunitariste» e a una
parte di quelle «repubblicane» è d’obbligo) esiste tuttora un debito -più o meno forte
e più o meno evidente- nei confronti del compito consistente nell’esplicitare una
compiuta ontologia della relazionalità che non sia solo o prevalentemente il recupero
di venerandi (ma forse un po’ consunti) modelli filosofici consegnatici dalla
tradizione e che fornisca gli elementi necessari per fronteggiare l’egemonia delle
21
versioni «atomistiche», il cui esito impolitico (in questo Rousseau, a mio avviso,
vedeva bene, pur non riuscendo a stilizzare un’alternativa filosoficamente
convincente) è inevitabile69.
Roberto Gatti
69
Non mi pare esserci dubbio sul fatto che i risultati più significativi siano consegnati alla riflessione di due autori pur
diversi in molti punti tra loro, ma estremamente preziosi per lo sviluppo di un’antropologia politica innestata sull’idea
della relazionalità come fattore costitutivo del soggetto umano, cioè Charles Taylor e Paul Ricoeur. Vedi su questo
aspetto A. Pirni, Charles Taylor: ermeneutica del sé, etica e modernità, Milella, Lecce 2002; N. Genghini, Identità,
comunità e trascendenza: la prospettiva filosofica di Charles Taylor, Studium, Roma 2005; Luca Alici, Il paradosso
della politica. Saggio su Paul Ricoeur, Vita e Pensiero, Milano 2007; S. Ricotta, Giustizia, intersoggettività, istituzioni.
Ricoeur tra Mounier e Levinas, in Forme della reciprocità (a cura di Luigi Alici), Il Mulino, Bologna 2004. Un testo di
riferimento importante per alcune delle questioni sin qui affrontate è E. Pulcini, L’individuo senza passioni:
individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Milano 2001.
22
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