Antonio Labriola a centosessant`anni dalla nascita

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Antonio Labriola a centosessant’anni dalla nascita. Una presentazione
Nicola Siciliani de Cumis
Quando agli inizi del secolo scorso, Antonio Labriola si trovò a svolgere gli ultimi corsi
della sua trentennale carriera di docente, non aveva ancora compiuto sessant’anni. Li compirà il 2
luglio del 1903, essendo egli nato a Cassino (San Germano) nel 1843; ma non vivrà ancora per
molto, perché era già gravemente ammalato di un cancro alla gola (all’«organo pedagogico»,
diceva). Morirà infatti il 2 febbraio del 1904, interrompendo un’autorevole, originale attività di
teorico, di educatore, di pubblicista [1].
Quelle lezioni conclusive all’Università di Roma, dove Labriola aveva insegnato Filosofia
morale e pedagogia (dal 1874 al 1901), Filosofia della storia (dal 1887), quindi Filosofia teoretica
(dal 1902), saranno così insieme l’estrema testimonianza di un alto magistero scientifico e didattico,
il suo testamento spirituale e, per più versi, la sintesi concettuale e morale di tutta una vita di studi,
d’insegnamento, d’impegno etico-politico e civile. E dunque il compendio di un’esistenza di
pedagogista sui generis, degnamente condotta per l’università e per la scuola. Quest’ultima, intesa
in tutte le sue forme possibili: sul piano istituzionale ed extra-istituzionale, come educazione ed
autoeducazione, in famiglia, nella società, in circoli pedagogici, tra gli operai, nella corrispondenza
pubblica e privata, sui giornali e sulle riviste, al caffè Aragno, dovunque insomma gli fosse
riuscito.
Titolo ed argomento generale di quei corsi primo-Novecento: Da un secolo all’altro. Considerazioni
retrospettive e presagi. Ovverosia: il celebre “Quarto saggio” intorno alla concezione materialistica
della storia [2], sul tema del passaggio di secolo, dal Settecento all’Ottocento, ma evidentemente in
presenza della svolta dell’Ottocento nel Novecento e con l’occhio rivolto al futuro.
Argomenti labrioliani oggetto di quelle lezioni, intanto: l’autobiografia, la storia, l’educazione;
la didattica e la ricerca; l’intreccio e il non intreccio di filosofia della storia, etica e pedagogia; i possibili
rapporti disciplinari con il più vasto campo della cultura; alcune significative dimensioni
disciplinari; la funzione della “scienza” e di ciò che è “scientifico” e “tecnico”, nell’università e
nella società civile. Ancora: riforme e rivoluzioni delle storia; la Rivoluzione francese; il nesso di
presente, passato e futuro; l’Età liberale, la sua genesi, i suoi sviluppi, le sue contraddizioni; i
rapporti tra Stato e Chiesa; le lotte per la nazionalità; concorrenza economica ed espansione
coloniale; paesi industriali e paesi agricoli; il crescere dello spirito scientifico e la rinascenza
cattolica; la scuola, la cultura, la scienza e la vita; l’Italia e il mondo; “popoli attivi” e “popoli
passivi”; pace e guerra… E inoltre, variamente presenti, le stesse nozioni di “storia”, “secolo”,
“mondo”, “nazione”, “religione”, “filosofia”, “educazione”, “pedagogia”, “scuola”, “ideologia”,
“sociologia”, “psicologia”, “utopia”, “economia”, “cultura”, “razza”, “progresso”, “rivoluzione”,
“libertà”, “giustizia”, “democrazia”, “socialismo”, ecc.
Chi era però Labriola? Chi era stato, nel corso della vita, questo autore, che pur facendo
monograficamente il punto su un problema specifico (quei secoli, questi altri secoli), puntava invece
scientificamente e didatticamente a sollecitare la riflessione dei suoi studenti su temi culturali «di
tanta ampiezza e di tale varietà», sì da voler lasciare loro almeno «la impressione di un piccolo
frammento d’un grande tutto»? Di che marca era lo sfondo pedagogico dei ragionamenti di
filosofia della storia, che ora riformulando antichi pensieri, ora sperimentando il “nuovo”, egli
veniva finalmente proponendo e riproponendo?
È cioè possibile vedere, nella stessa oggettiva “frammentarietà” di Da un secolo all'altro, una
sintesi («il precipitato», come si esprime Labriola), della complessiva vicenda filosofica,
pedagogica, etico-politica dell’uomo di scienza, alla luce di un po’ tutta sua vita? In quale giro di
idee, in che contesto culturale si colloca, d’altra parte, la trattazione labrioliana “per secoli” (fermo
restando, come viene detto, il carattere del tutto convenzionale della nozione stessa di secolo), sì da
consentire una più ampia considerazione d’insieme, dell’autore, della sua opera, degli effetti
culturali ed educativi che, direttamente o indirettamente, ne derivano?
Una presentazione complessiva di Labriola, infatti, per quanto sommaria, non può prescindere
dal carico unificante della sua intelligenza critica, dal riconoscimento delle peculiarità della sua
verve maieutica e dal valore pedagogico aggiunto (per così dire) del farsi della sua particolare
vicenda formativa. Dal fatto, cioè, che la sua opera, in un modo o nell’altro, si allaccia
dialogicamente ma distintivamente, alla compresenza di familiari e maestri, colleghi ed allievi e
alla interferenza di uditori e interlocutori, oppositori e sodali, corrispondenti, editori, lettori, ecc.
Questi pertanto i nomi in tal senso più significativi, o almeno indicativi, nella biografia di
Labriola: suo padre Francesco Saverio e l’abate-maestro Nicola d’Orgemont, Bertrando e Silvio
Spaventa, Antonio Tari e Augusto Vera, Francesco Fiorentino e Felice Tocco, Andrea Angiulli e
Francesco Bonatelli, Saverio Francesco Dominicis e Niccola Fornelli, Luigi Ferri e Alessandro
Chiappelli, Romolo Murri ed Ernesto Buonaiuti, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, Rodolfo
Mondolfo, Luigi Pirandello, Paolo Orano, Andrea Torre, Friedrich Engels, Georges Sorel, Filippo
Turati, Karl Kautsky, Antonino De Bella, Georg Valentinovic Plechanov, Tomas Garrigue Masaryk,
Luigi Credaro, Teresa Labriola, ecc. [3]
Ma quali furono le idee principali, proprie e nuove, di Antonio Labriola, nel corso della propria
formazione? Quali le sue categorie mentali caratterizzanti? Quali, in ultima analisi, i punti forti
d’arrivo, delle peculiarità pedagogiche labrioliane?
Conviene ritornare a Da un secolo all'altro, per supporre, come si diceva, i termini di una
possibile veduta critica d’insieme. Una sintesi che, per quanto schematica e lacunosa, può forse
risultare comunque istruttiva.
Tra autobiografia, storiografia, educazione
Intanto, è Labriola stesso a legittimare l’ipotesi: perché seguendolo noi lungo il filo dei suoi
ragionamenti, ci si avvede subito di un certo tono riepilogativo di esperienze scientifiche e
didattiche precedenti. Un racconto del “sé”, mediante ricorrenti sortite autobiografiche; e
rievocativo, al limite dell’auto-commemorazione [4].
Si registra quindi, in presenza di ciò, l’esigenza di una dilucidazione degli intenti storiograficometodologici, che va di pari passo con la presentazione delle diverse questioni critiche di tutto un
percorso filosofico soggettivo, che viene supposto come obiettivamente dimostrativo ed
intrinsecamente didattico. Ed è qui che a maggior ragione si conferma la naturale disposizione
labrioliana all’insegnamento: e la sua tendenza all’esplicitazione ed all’esemplificazione, nella
chiave storico-personale, auto-formativa suddetta.
Si osserva cioè l’esigenza del professore, da un lato, di sostenere la coerenza e l’interna necessità
delle proprie scelte scientifico-pedagogiche («Non uno dei miei passati corsi di filosofia della storia
andrà per me ora sperduto» [5]); da un altro lato, la consapevolezza hic et nunc della relativa novità
della proposta («ma non uno ne ripeterò quest’anno»). L’esigenza, esplicita, della restituzione
genetica, nella dimensione temporale dei processi: e a monte e a valle di essi. Un’esigenza filosofica,
storiografica e, in quanto tale, educativa ed autoeducativa.
Di modo che, se tra il passato e il presente non c’è alcuna soluzione di continuità nella
morfologia dei traguardi via via raggiunti dalla storia, tra il presente e il futuro si stabilisce, ancora
morfologicamente, quasi un’intesa ulteriore: il proposito, cioè, di interagire dialetticamente con il
passato e, così facendo, di «illuminare la scena attuale del mondo civile», per intervenirvi
praticamente, ovvero pedagogicamente, quindi socialmente e politicamente.
Scrive infatti Labriola, raccontandosi e autocitandosi, tra biografia, filosofia ed educazione (tra
vecchio e nuovo della propria esperienza):
Non uno dei miei passati corsi di filosofia della storia andrà per me ora sperduto: ma non uno ne ripeterò
quest’anno. Totalizzo, quasi, i risultati di quelli in questa, dirò così, istantanea della fin di secolo. Ho spaziato
per anni su campi svariati. Una volta Vico ragguagliato alla scienza modernissima; un’altra volta un
raffronto metodologico fra storia e filologia. Un anno mi fermai ad illustrare il variare dei rapporti fra Chiesa
e Stato; un altro a ripigliare in esame la preistoria del Morgan col raffronto coi più recenti studi. Due volte
trattai documentariamente la storia del socialismo moderno, da Babeuf alla Internazionale; e illustrai in un
altro corso le origini della borghesia italiana, e la condizione d’Italia in sulla fine del secolo decimoterzo.
Discorsi più volte della Rivoluzione Francese – il solo punto della storia, nel quale io mi senta in possesso,
secondo la boriosa espressione degli eruditi, di una specifica competenza […] [6].
Per cui, da un punto di vista strettamente pedagogico ed autopedagogico, tra autobiografia ed
educazione, l’ultimo Labriola contiene per così dire tutto il se stesso precedente, in ogni senso
possibile. Nel senso, intanto, della ricerca della genesi del “nuovo”, in rapporto alle procedure
dell’agire storiografico nel presente (lo stesso taglio autobiografico obbedisce a questa spinta
dell’attualità); e, dunque, nel senso di una vera e propria proposta pedagogica, addirittura
didattica, in tema di insegnamento e apprendimento della competenza storica.
Si chiede infatti Labriola:
Al postutto, quale è il mezzo pratico per misurare la nostra cultura storica?
E risponde:
Eccolo, è semplicissimo: - la nostra capacità ad intendere il presente. Recatevi nelle mani i giornali
dell’ultima quindicina.
Abbiate sott’occhi un passabile atlante geografico. Fate di avere libero maneggio delle ovvie cronache
annuali riassuntive. Capite l’ultima notizia?
Che cosa è questa guerra del Transwaal, questo ultimo atto di resistenze dei costumi e delle libertà
endemiche contro l’universalismo inglese; questa ultima obiezione armata del villano contro il capitalismo
invadente?
E la Russia che rifà a rovescio l’invasione mongolica? E di quanto bisogna retrocedere e di quanto bisogna
addentrarsi per risolvere i fatti politici attuali nei momenti e nei moventi, di remota preparazione quelli e di
intima impulsione questi? [7]
In altre parole: come Labriola applica a se stesso il criterio autoeducativo del conoscersi
autobiograficamente e del farsi conoscere biograficamente, al fine di risolvere, “adesso”, un
problema educativo del presente e svolgere l’azione formativa più conveniente a ciò utile, così, più
in generale, egli propone di estendere l’uso di un metodo siffatto alla conoscenza storica del
presente. Di tutto il presente come parte del suo presente, e, viceversa: del suo presente, come parte
di tutto il presente.
Di qui l’idea, che per avvicinarsi a Labriola seguendo questa strada, risulta essenziale usare
tanto del metodo ascendente quanto del metodo discendente (come egli stesso viene teorizzando in
Dell'insegnamento della storia) [8]: per applicarlo quindi agli stessi numerosi spazi autobiografici di
cui l’opera labrioliana, in ogni suo momento, è ricca. Così, per esempio:
Cominciai la mia carriera con un libro su Socrate, che fu molto lodato dallo Zeller, e son sempre un po’
socratico nella mia vocazione […] [9].
A Napoli, privatamente dal 1840-60, e poi pubblicamente all’Università dal 1860-75, ci fu la rinascenza
dell’Hegellismo. Il bravo Tari (del resto un uomo geniale) [10] deduceva gl’istrumenti musicali e la cupola di
S. Pietro, e costruiva i romanzi di Balzac. Il gran divulgatore Vera [11] ha lasciato molti libri e molti scolari.
Sopravvive ora il mio quasi coetaneo Mariano [12], che insegna ancora a Napoli dell’Hegellismo di estrema
destra. Lo Spaventa [13] (ottimo fra tutti, e taccio degli altri) scrisse di dialettica in modo squisito, scovrì di
nuovo Bruno e Campanella, delineò la parte utile ed utilizzabile di Vico, e trovò da sé (nel 1864!) la
connessione fra Hegel e Darwin.
Sono nato in tale ambiente. A 19 anni scrissi una invettiva contro Zeller per il ritorno a Kant (prolusione
di Heidelberg) [14]. Tutta la letteratura hegelliana e post-hegelliana ci era familiare. Ora quei libri son finiti, o
nelle auzioni degli antiquarii, o su le pancarelle. Studiai Feuerbach nel 1866-68, e poi la scuola di Tubinga:
ich habe, leider, auch Theologie studiert.
Tutto ciò è finito, perché questo nostro paese è come un pozzo della storia. Ora domina il demimonde
positivistico.
Forse - anzi senza forse - io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente)
hegelliana, dopo esser passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Völkerpsychologie di Steinthal ed
altro [15]. Dunque nel leggere l’heilige Famiglie mi son trovato assai facilmente nella situazione di voi che la
scrivavate [16].
[…] Per quanto io abbia per molti rispetti cambiato nel mio modo di concepire e d’insegnare, da che
professo etica e pedagogia in questa Università, tengo però sempre fermo nell’indirizzo herbartiano di
considerare la metafisica, non come veduta del mondo per totalità, ma come critica e correzione dei concetti, che son
necessari per pensare l'esperienza […]. Queste, o signori, sono le disposizioni d’animo e di mente, con le quali
assumo l’ufficio temporaneo, affidatomi dal Ministero col consenso dei miei colleghi, di dettar lezioni di
filosofia della storia […]. Queste disposizioni non sono veramente in me nuove, anzi risalgono a un tempo
quando io, lontano assai da pensare che insegnerei etica e pedagogia in questa Università, in età
relativamente giovane chiesi alla facoltà di Napoli la libera docenza in questa disciplina, e nella prova
pubblica, sostenni la disputa con quell’ottimo interprete dell’hegellismo che fu il prof. Vera, sul tema
seguente, da lui propostomi: se l'idea sia il fondamento della storia […]. Nello scrivere estemporaneamente su
cotesta tesi, e nella disputa che ne seguì, respinsi l’ipotesi inclusa nell’enunciazione, contrapponendo
all’Hegel l’Humboldt, e lo Stenthal che ne deriva, e usando del Lotze, di cui avevo allora piena la mente. Ma
l’ottimo Vera mi fu liberale del suo voto favorevole, specie sulla lezione che tenni sul concetto della Scienza
nuova di Vico [17].
[…] Pubblicai nel 1881 un lavoro, che ha per titolo: Dell'ordinamento della scuola popolare in diversi paesi
(Prussia, Sassonia, Baviera, Austria, Inghilterra, Francia, Stati Uniti d’America, Belgio, Olanda). Non ebbi in
animo di dar consigli, né di offrire esempio all’imitazione. Avendo studiato sui documenti diretti lo stato
delle cose scolastiche in diversi paesi per rispetto alla coltura popolare, mi limitai, poi, nello scrivere,
all’esposizione dei nudi fatti. Se qualcuno ama di ritrarre da quello scritto, non solo delle notizie, ma anche
degli ammaestramenti, ecco a che questi si riducono. Non si dà luogo nelle cose scolastiche, come in
nessun’altra di questo mondo, ai salti di punto in bianco; ciascun paese ha fatto da sé, come poteva, secondo
i mezzi suoi propri [18].
[…] Son socialista a modo mio, e risoluto a non discostarmi d’una linea dalle convinzioni scientifiche, a
vincere le mie passioni, e non secondare quelle degli altri. Non feci mai e non faccio la vita delle
conventicole, delle associazioni e delle leghe. Non credo a nulla di artificiale, e mi ripugna tutto ciò che è
violento. Son tre mesi appena che entrai nel Circolo radicale, ed è la prima volta in vita mia che metto piede
in un circolo. Non ho appreso il socialismo dalla bocca d’un gran maestro, e quel che ne so lo devo ai libri.
Mi ci ha condotto il disgusto del presente ordine sociale, e lo studio diretto delle cose. Fin dal 1873 scrissi
contro i principi direttivi dell’ordinamento liberale, e dal 1879 cominciai a muovermi in questa via di nuova
fede intellettuale, nella quale mi son fermato e confermato con gli studi e con le osservazioni negli ultimi tre
anni. Ciascuno ha le sue vie e il suo temperamento di spirito!
[…] Da alcuni anni in qua, ch’io mi professo pubblicamente socialista, dopo d’aver maturata già innanzi,
nella mente e nell’animo, cotesta dottrina e cotesta persuasione, ho chiuso sempre gli orecchi alla critica poco
seria, poco garbata, poco ragionevole di quelli i quali credono di cogliere in fallo un uomo, se affermano, che
le idee alle quali è giunto non sian quelle dalla quali è partito. A coteste accuse ho opposto sempre la secura
coscienza che, se mai, il pensare diversamente a lungo scadere di anni, non è contraddirsi ma svolgersi; per
non dire, che di cotesti critici sciatti e scortesi io non so quanti sappiano, senza aver letto e udito quello che
ho scritto, insegnato e detto da venti anni in qua, da che punto davvero io sia partito, e a che punto io sia
davvero arrivato [19] .
[…] Ma v’ingannate quando credete che io non viva il contatto degli operai. Ho menato a Roma vita assai
agitata e anche rumorosa del 1888 al 1° maggio 91 - avrò fatto un duecento discorsi, ed ho preso parte ad
altrettante riunioni - ho ideato circoli, federazioni e cooperative - ho regalato migliaia di lire e di opuscoli - e
per ora e per un pezzo basta. Ho imparato abbastanza per dire con sicurezza: non bisogna affrettarsi. In
questi quindici mesi che son succeduti al 1° maggio 1891, ho avuto su le spalle imputati e loro famiglie,
avvocati e testimoni, e inoltre le spie e mi ricordo dell’impressione che feci sui giudici con la precisione delle
mie informazioni. La mia casa è un va e vieni di operai d’ogni parte d’Italia […]. Non c’è giornale o
giornaletto o opuscolo di questi ultimi anni che non mi sia passato per le mani - e tutto il tramenio segreto
dei guastagiuoco mi è trasparente in ogni particolare [20].
[…] Com’è risaputo, io entrai esplicitamente e pubblicamente nelle vie del socialismo solo dieci anni fa
[21] […]. “Fin dal 1873 scrissi contro i principii direttivi del sistema liberale, e dal 1879 cominciai a muovermi
su questa via di nuova fede intellettuale, nella quale mi son fermato e confermato con gli studii e con l'osservazione
negli ultimi tre anni”. Così a p. 23 della mia conferenza: Del Socialismo, Roma, 1889. Quella conferenza, che era
come una professione di fede in istile popolare, fu da me completata con l’opuscoletto: Proletariato e Radicali,
Roma, 1890 […]. Prima, insomma, di diventar socialista, io avevo avuto inclinazione, agio e tempo,
opportunità ed obbligo d’aggiustar le mie partite ed i miei conti col Darwinismo, col Positivismo, col
Neokantismo, e con quanto altro di scientifico si è svolto intorno a me, e ha dato a me occasione di svolgermi
tra i miei contemporanei, poiché tengo cattedra di filosofia all’Università dal 1871, e per l’innanzi ero stato
studioso di ciò che occorre per filosofare […]. Manco a farlo apposta, la mia prima composizione filosofica,
in data del maggio 1862, è una: Difesa della dialettica di Hegel contro il ritorno a Kant iniziato da Ed. Zeller.
[…] “Non faccio voto di chiudermi in un sistema come in una sorta di prigione”. Così scrivevo
ventiquattro anni fa (Della Libertà Morale, Napoli, 1873, nella prefazione), e così posso ripetere ora. Quel libro
contiene la trattazione per disteso della dottrina del determinismo, e trovava allora il so complemento in un
altro mio lavoro, dal titolo Morale e Religione, Napoli, 1873 […]. Sono venti anni oramai che io ho in uggia la
filosofia sistematica […]. E qui occorre che citi me stesso: “Io non ero venuto in questa università, ventitré
anni fa, qual rappresentante di una ortodossia filosofica, né da escogitatore di novello sistema. Per le
fortunate contingenze della mia vita, io avevo fatta la mia educazione sotto l’influsso diretto e genuino dei
due grandi sistemi, nei quali era venuta al termine suo la filosofia, che oramai possiamo chiamare classica; e
ossia i sistemi di Herbart e di Hegel” […]. Raccomanderei al lettore la mia relazione del 1887 sulle lauree in
filosofia […]. Dissi a un dipresso cosa sia la concezione epigenetica nello scritto che s’intitola: I Problemi della
Filosofia della Storia, Roma, 1887. Questo scritto in parte suppone un altro molto più antico: Dell'insegnamento
della Storia, Roma, 1876 [22].
La pedagogia dei popoli “attivi” e dei popoli “passivi”
La storia cioè, nelle sue parti, autobiograficamente «si tiene». La filosofia e la storia si
prolungano nell’insegnamento della storia (nel quale rientra quello della storia della filosofia), e
nella filosofia della storia.
La storia, la filosofia, la pedagogia e la didattica sono infatti i momenti tecnicamente diversi di
un processo conoscitivo e pratico-operativo unitario. Anche se, secondo Labriola, occorre
distinguere. E si tratta di una distinzione carica di conseguenze, sia sul piano etico-politicopedagogico, sia su quello teoretico-storico. Due piani pur diversi, ma tra di loro continuativi,
organici, inscindibili.
Per capire in che senso e con quali delimitazioni, conviene quindi ritornare al Da un secolo
all'altro. Considerazioni retrospettive e presagi: dove è subito notevole, per quanto dall’interno del
nesso teoria-pratica, la distinzione tecnica, disciplinare, operata da Labriola, tra la materia del
corso «straordinario» di filosofia della storia e quella del corso «ordinario» di etica e pedagogia. Ma
vale la pena seguire l’intero ragionamento labrioliano, per vederne poi tutte le implicazioni e
conseguenze.
Scrive infatti Labriola:
Ripiglio tutti gli anni sempre con viva emozione e con gran piacere questo corso straordinario di filosofia
della storia. I miei uditori potranno vedere e riconoscere essi stessi, come in queste lezioni nelle quali non
rifuggo dalla oratoria e dall’intonazione pronta e facile della conferenza, io usi di uno stile di molto diverso
di quello che è proprio al mio corso ordinario di etica e pedagogia. In questo io mi attengo rigorosamente alla
serrata tecnica della lezione, come si conviene ad argomenti che van trattati per compiere esplicitamente la
funzione precisa dell’ammaestrare e dell’insegnare. Qui siamo, invece, nel più vasto campo della cultura -;
qui si ha per mano una materia, che nessuno si argomenterebbe mai di disciplinare a scopo di esami,
riducendola a mezzo di esercizi professionali. Sono poche - e poche devono essere - coteste materie, che
segnano come la estensione, e direi quasi la espansione dell’Università oltre ai termini di ciò che è
direttamente utilizzabile a intenti pratici immediati [23].
In altre parole, secondo Labriola, dall’«ammaestrare e dall’insegnare» va escluso il «più vasto
campo della cultura»; il quale – egli afferma - non è disciplinabile, non è esaminabile, non è pratico, né
per così dire professionalizzabile: ma che, essendo disinteressato e libero per sua natura, non va
contaminato dall’elemento immediatamente utilitario, che resta invece al di qua del momento
euristico, universitario espansivo, «della libertà, della ricerca e della opinione».
Labriolianamente parlando, si tratta allora di muoversi su piani distinti e diversi: l’uno (quello
dell’insegnamento-apprendimento), che comporta a priori un certo grado di dipendenza
pedagogica e, di conseguenza, una didattica della subalternità e della passività rispetto al “nuovo”
della ricerca; l’altro (quello dell’indagine senza delimitazioni di campo), che esige invece
metodologicamente, da chiunque, coinvolgimenti culturali liberi, laboratoriali, ricercativi per una
didattica della padronanza e della non-passività.
Ed è ciò che Labriola riconosce positivamente, invece, soltanto a proposito del corso di Filosofia
della storia:
Ed ecco che io, infatti, in cotesto corso mi lascio andare di buon grado ad una certa agile combinatoria di
elementi, e di cose e di idee, che la stringata classificazione delle discipline suol sempre tenere quasi
pedantescamente distinte e separate del tutto; uso in larga misura della libertà, della ricerca e della opinione;
e rifacendomi d’anno in anno di nuove letture e di nuovi studii, miro in queste lezioni all’ampiezza ed alla
pienezza dell’esposizione: il che è ben diverso dalla pretta esattezza didattica [24].
Né è tutto. Perché questo ragionamento didattico-universitario ha su un piano più largo, anche
altri aspetti: filosofici, pedagogici ed etico-politici. I quali, per schematizzare, da un lato rimandano
a tutt’intera la posizione teoretico-pratica del Labriola “oggettivista”, “necessitarista” (in filosofia)
e dunque “fatalista” e “attendista” (in politica) [25]; da un altro lato rinviano ancora coerentemente
alla celebre intervista “Sulla questione di Tripoli” [26], e - ancor prima – all’altrettanto emblematica
tirata pedagogica sul “Papuano”:
“Come fareste a educare moralmente un papuano?”, domandò uno di noi scolari, tanti anni fa (credo
circa trent’anni fa), al prof. Labriola, in una delle sue lezioni di Pedagogia, obiettando contro l’efficacia della
Pedagogia. “Provvisoriamente (rispose con vichiana e hegeliana asprezza l’herbartiano professore),
provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e
pronipoti si potrà cominciare ad adoperare qualcosa della pedagogia nostra” [27].
Un’uscita, com’è noto, radicalmente respinta da Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere:
Questa risposta del Labriola è da avvicinare alla intervista da lui data sulla questione coloniale (Libia)
[…]. Pare si tratti di uno pseudo-storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al più
volgare evoluzionismo […]. Il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto
dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo […]. Nella intervista sulla quistione coloniale il
meccanicismo implicito nel pensiero del Labriola appare anche più evidente. Infatti: può darsi benissimo che
sia “necessario ridurre i papuani in schiavitù” per educarli, ma non è necessario meno che qualcuno affermi
che ciò non è necessario che contingentemente, perché esistono determinate condizioni, che cioè questa è una
necessità “storica” e non assoluta: è necessario anzi che ci sia una lotta in proposito, e questa lotta è proprio
la condizione per cui i nipoti o pronipoti del papuano saranno liberati dalla schiavitù e saranno educati con
la Pedagogia moderna [28].
Sennonché, da un certo punto di vista, la risposta di Labriola sul “Papuano” sembra essere
proprio la stessa logica di Da un secolo all'altro. La logica della separazione di ciò che è pratica della
cultura, alta che sia, a fini pedagogici, da ciò che è pedagogia come cosa “altra” dalla cultura: quasi sulla
linea (diresti), che sarà dell’Odi profanus vulgus di un Benedetto Croce e della scelta metodologica
(politico-culturale) di quest’ultimo, del «respingere violentemente le genti dalle soglie del tempio
della scienza, costringendole a restarne fuori finché non se ne facciano degne» [29].
Da una parte, allora, l’idea di un «concetto di cultura», e dunque di filosofia, appannaggio di
pochi, esclusivi depositari. Da un’altra parte, nei modi opportuni da decidere via via, la messa in
atto di una «pratica pedagogica», di un’istruzione , destinabile ai molti. Guai però al pensiero e
all’attività educativa, che non si accontentassero del loro ruolo preordinato. Guai a chi, volendo
mediare tra i privilegi culturali di alcuni e la domanda di crescita intellettuale dei molti, arrivasse a
meritare «l’unzione del propagandista, che vuol suscitare artificialmente l’interesse e persuadere,
dolcemente incoraggiando e allettando, allo studio e al pensiero» [30].
Meglio non mescolare, invece, le attività del pensare e quelle dell’educare. E distinguere, quindi,
le diverse funzioni: e - proprio come fa Labriola in Da un secolo all'altro - attenersi alla separazione
tra le finalità universitarie elitarie, libere e disinteressate (così l’insegnamento della Filosofia della
storia) e le finalità pratiche, utilitarie e di secondo piano (quelle previste per la Pedagogia). Una
distinzione di ruoli, dunque, perfettamente in linea con l’ipotesi “didattica” ventilata per il
Papuano e la relativa «pedagogia del caso» (il farlo schiavo), che è un portato necessario della storia.
Per il seguito, ma nello stesso ordine di idee, basta riflettere sulla persuasione di Labriola
dell’opportunità che lo stesso colonialismo rappresenta, come strumento di correzione del «divario
fra popoli attivi e passivi» [31]. Divario, che non riguarda soltanto la distanza tra «gli Europei, e
loro derivati d’America nel rapido ciclo della conquista tecnico-capitalistica del mondo e i non
Europei» [32], e quindi tra Oriente e Occidente; ma anche la contrapposizione esistente all’interno
dell’Europa stessa, tra il «suo proprio Oriente ed Occidente» [33].
Una contrapposizione che da un lato serve a capire la «posizione attiva […] sempre tenuta, alla
fin delle fini e nel tutt’insieme, dai neo-germani e dai neo-latini» [34], da un altro lato vale a
spiegare la dinamica politica (una sorta di pedagogia della storia), che ad un certo punto rende
inevitabile la guerra, come guerra di conquista, di colonizzazione, di… “pedagogizzazione”:
Qual meraviglia, dunque, se la politica della conquista, della supremazia, della sopraffazione,
dell’intervento di paese e paese, e della guerra, o fatta o soltanto minacciata, sia stata e rimanga l’inevitabile
conseguenza, il potente assillo e l’istrumento decisivo della espansione capitalistico-borghese? [35]
Di qui, secondo Labriola, il senso e il valore di un’educazione nazionale alla storia che, al di là di
ogni verbalismo , è l’altra faccia dell’insegnamento della storia… La Storia, due volte magistra vitae:
che, come res gestae, soggettivamente insegna; e che, come historia rerum gestarum, viene
oggettivamente raccontata dagli storici ed insegnata a scuola.
La storia, come contenuto necessario della filosofia della storia. La storia, come pratica educativa
volta a illuminare le «differenze che effettivamente corrono fra le condizioni italiane e quelle degli
altri paesi»: e quindi di far capire, pedagogicamente, «la misura effettuale di ciò che l’Italia è e può
di fronte alla grandi correnti della storia attiva», nel «mondo dei popoli direttivi», dunque non
«passivi» [36].
Tutti i materiali di Da un secolo all'altro, che avrebbero dovuto costituire il “Quarto saggio” sulla
concezione materialistica della storia, sono in questo senso almeno due cose. Nella loro evidente
frammentarietà e incompletezza, essi rappresentano infatti, da un lato, una trasparente
ricostruzione del processo di una formazione storica, che corrisponde alla sostanza del mondo
attuale nella sua genesi e nei suoi sviluppi; da un altro lato, una ricapitolazione, ora sottintesa ora
esplicita, dell’intera autobiografia intellettuale di Labriola nei suoi elementi (morfologici) essenziali.
Il socialismo? Il materialismo storico? Niente altro che il portato necessario della storia, della
società. Niente altro - secondo Labriola -, che l’ultimo possibile anello di una catena, che ha da
svolgersi storicamente, oggettivamente (morfologicamente) secondo determinate occorrenze formali:
La caratteristica, che darò, è morfologica, ossia in essa ciò che si decide è la forma del vincolo sociale. La
società come fatto è il presupposto, poiché nulla sappimo dell'uomo ferus primaevus. La società come insieme è
il prius, e in essa le classi e gli individui appariscono, come messi dentro all’insieme e come determinati
dall’insieme. Aristotele definì infatti l'uomo animale politico. Per questa via arriveremo ad intendere come
fondamento di tutto il resto sia la forma della produzione, secondo la scoperta di Marx, la quale apparisce
così, non come una creazione ex nihilo, ma come una soluzione finale di una serie di problemi. In codesta
concezione marxistica si ha il superamento della concezione razionalistica, che costruisce la società con
individui bell’e formati, o supposti capaci di contrarre vincoli a disegno, volontari, di elezione.
[…] Ogni forma di società è un risultato, e questo risultato, come parte di un processo, ha in sé le tracce
del passato e i germi della sua propria negazione. Perciò ogni società è un’insieme di antitesi, che
nell’aspetto subbiettivo noi diciamo lotte e nelle quali consiste poi da ultimo tutta la storia [37].
Ciò che più conta è quindi la serie dei processi di formazione, la progressione dialettica dei loro
nessi e plessi. Nei quali anche la pedagogia, e l’educazione, svolgono un ruolo. Anche se soltanto
relativo, limitato, subalterno alle cose, alla storia.
Volendo restare in questa sede agli aspetti pedagogici ed autopedagogici precipui del
problema-Labriola, basta scorrere ancora la “Ricostruzione”-Dal Pane degli ultimi corsi
universitari del “professore”. E ritrovare, per l’appunto qui, la stessa idea-forza di formazione,
giacché, più di altre, essa richiama variamente il concetto del morfologico, sia sul piano del sociale,
sia su quello dell’individuale: e sul piano, dunque, della stessa formazione labrioliana, nella genesi
delle sue proprie componenti (biografiche, intellettuali, culturali, filosofiche, morali, politiche,
pedagogiche, ecc.).
Componenti che, già largamente presenti nei precedenti Saggi sul materialismo storico, è possibile
vedere riassunte e riformulate pagina dopo pagina in Da un secolo all'altro: per quanto solo
provvisoriamente, e limitatamente alla novità del contesto primo-Novecento, che fa da sfondo al
“Quarto saggio”.
Si ritrova così una certa idea della scienza, che mutatis mutandis fa ripensare all’incipit scientifico
di Labriola (l’anti-Zeller, lo Spinoza , il Socrate). Si rincontra il Vico, luogo comune di una cultura. La
stessa centralità dell’economia, nella chiave nazionale ed internazionale, fa ripensare a non pochi
degli scritti labrioliani del periodo giovanile. I supporti statistici, di cui tutti i ragionamenti storicogeografici si arricchiscono, anch’essi, sono tutt’altro che una novità [38].
Egualmente è come se, alla luce di un po’ tutta la sua esperienza, Labriola intendesse rivisitare
le nozioni di progresso, di infanzia, di lavoro (e di divisione sociale del lavoro), di passione, di istruzione,
di coltura e cultura, di nazionalità e internazionalità, di politica, di coazione morale, di natura, di
pedagogia, di scuola, di enciclopedia, di sociologia, di psicologia, di linguistica, di tendenza, di cosa, di
data, di necessità storica, di filosofia della storia, di religione, di insegnamento - apprendimento, ecc. ecc.
E finalmente la nozione di prospettiva storica, connessa a quella di istruzione politecnica, e di
socialismo e di marxismo:
Non ho altro da aggiungere per ciò che riguarda il socialismo. Ne indicai i motivi generali e inerenti alla
forma moderna della società. Ne ho indicata l’azione positiva o negativa su le fasi politiche del secolo. Mi
fermai per un momento su la caratteristica del marxismo, non per esaltarlo come la nuova Bibbia
dell’umanità, ma come punto di convergenza dei vari motivi in una complessiva veduta storica. Mi son
fermato sulla storia dell’Internazionale, riducendola al suo vero e genuino significato. E ciò per dare
implicitamente o esplicitamente la caratteristica del socialismo alla fine del secolo, il che è il punto di
ragguaglio del mio corso [39].
Con quel che segue, ancora, sull’Italia, sulla condizione passiva e su quella attiva che la concerne,
sul tema della doppia questione fra Chiesa e Stato, su quel bisogno che è per ogni uomo la religione. Sul
tema infine dell’educazione, in quanto si ricollega a quello dell’etica e della politica.
E dunque del socialismo, né più né meno - come spiega altrove - che nei seguenti termini
squisitamente (limitativamente) pedagogici:
Io ho inteso sempre il socialismo italiano come un mezzo: 1. per isviluppare il senso politico
nelle moltitudini; 2. per educare quella parte degli operai che è educabile alla organizzazione di
classe; 3. per opporre alle varie camorre che si chiamano partiti una forte compagine popolare; 4.
per costringere i rappresentanti del governo alle riforme economiche utili per tutti. Il resto della
propaganda socialistica, nel senso specifico della parola, non può avere effetto pratico quanto
all’Italia che per le generazioni di là da venire [40].
Nicola Siciliani de Cumis
[1] Questo Labriola è stato oggetto di studio, da parte di chi scrive, dal 1968 in qua, in volumi,
saggi, articoli, voci di enciclopedia, edizioni di testi, note, bibliografie, emerografie, corsi
accademici, dossier, ecc. Per riferimenti bibliografici essenziali e qualche lettura critica di merito,
cfr. quindi la Nota bibliografica a cura di V. Gerratana e A. Guerra con aggiornamenti di N. Siciliani
de Cumis, in A. Labriola, Saggi sul materialismo storico, a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Roma,
Editori Riuniti, 1977 (seconda edizione), pp. 379-519; la voce “Antonio Labriola” nell’Enciclopedia
pedagogica a cura di Mauro Laeng (nei tipi dell’editrice La Scuola di Brescia); l’edizione A. Labriola,
Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, Torino, UTET, 1981; N. Siciliani de Cumis,
Laboratorio Labriola. Ricerca, didattica, formazione, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1994. Per gli
anni più recenti, cfr. poi, variamente, il sito web www.cultureducazione.it.
[2] Cfr. quindi, dopo l’anticipazione di un brano dell’opera in A. Labriola, Scritti varii di filosofia
e politica , raccolti e pubblicati da B. Croce, Bari, Laterza, 1906, pp. 443-490, A. Labriola, Saggi
intorno alla concezione materialistica della storia IV. Da un secolo all'altro. Considerazioni retrospettive e
presagi. Ricostruzione di L. Dal Pane, Bologna-Rocca S. Casciano-Trieste, Cappelli, 1925. Vedi
quindi da ultimo (dopo alcune altre riproposte, parziali o meno, dell’opera, a cura di E. Garin, V.
Gerratana e A. Guerra, B. Widmar), A. Labriola, Saggi sul materialismo storico. Introduzione di A. A.
Santucci, Roma, Editori Riuniti, pp. 375-409.
[3] Cfr. N. Siciliani de Cumis, Filosofia ed Università. Da Labriola a Vailati 1882-1902, Urbino,
Argalìa, 1975 e Id., Studi sul Labriola, Urbino, Argalìa, 1976 (ad nomen). Cfr. ora Id., Il padre di
Antonio Labriola, in corso di stampa.
[4] Cfr. A. Labriola, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un secolo all'altro,
Considerazioni retrospettive e presagi, op. cit., pp. 23 sgg.
[5] Ivi, pp. 24-25.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem
[8] Cfr. A. Labriola, Dell'insegnamento della storia. Studio pedagogico, Torino-Roma-Firenze,
Loescher, 1876, ora in Id., Scritti pedagogici, op. cit., pp. 244-346.
[9] Questo brano e quelli che seguono sono tratti da varie opere di Labriola. La sequenza, con
alcune varianti, è già presente in N. Siciliani de Cumis, “L’autobiografia come educazione”, in Id.,
Laboratorio Labriola, op. cit., pp. 13 sgg., cui in generale si rimanda per i testi e per l’indicazione
delle fonti labrioliane in nota. Quanto al luogo testé utilizzato, cfr. A. Labriola., La dottrina di
Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, negli “Atti” dell’Accademia di Scienze morali e
politiche, Napoli, Stamperia della R. Università, 1871, pp. VI-145. L’edizione più recente: Id., La
dottrina di Socrate secondo Senofonte Platone ed Aristotele (1871), in Opere, a cura di L. Dal Pane,
Milano, Feltrinelli, 1961.
[10] Antonio Tari, professore di Estetica e musicologo.
[11] Augusto Vera, storico della filosofia e filosofo della storia.
[12] Raffaele Mariano.
[13] Bertrando Spaventa, insigne professore di discipline filosofiche, storiche e teoretiche, il
“Maestro” di Antonio Labriola.
[14] Una risposta alla prolusione di Zeller, ora in A. Labriola, Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza
(1862-1868), Milano, Feltrinelli, 1959. Di qualche anno più tardi è la monografia Origine e natura
delle passioni secondo l'Etica di Spinoza (1866), in Id., ibidem.
[15] Su questo aspetto della formazione di Labriola, cfr. almeno N. Siciliani de Cumis, “Herbart
e herbartiani alla scuola di Bertrando Spaventa”, in Id., Studi su Labriola, op. cit., pp. 89-161.
[16] Qui Labriola si sta rivolgendo a Friedrich Engels, ad allude a Karl Marx e allo stesso Engels.
[17] Lezione dal titolo: Esposizione critica della dottrina di G. B. Vico.
[18] Cfr. A. Labriola, Appunti sull'insegnamento secondario privato in altri stati e L'ordinamento della
scuola popolare in diversi paesi, in Id., Scritti pedagogici, op. cit., pp. 349-462.
[19] Da una lettera aperta a Ettore Socci.
[20] Da una lettera a Filippo Turati.
[21] Cioè nel 1889. Il brano è tratto da A. Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, in Saggi
sul materialismo storico, op. cit., p. 228-229; e cfr. Id., Epistolario 1896-1904, introduzione di E. Garin,
a cura di V. Gerratana e A. A. Sa ntucci, Roma, Editori Riuniti, 1983, pp. 780, 923, 1001-1002.
[22] Il brano è tratto da A. Labriola., L'Università e la libertà della scienza (1896-1897), in Id., Scritti
pedagogici, cit., pp. 590-591.
[23] Id., Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un secolo
all'altro.Considerazioni retrospettive e presagi, op. cit., p. 23.
[24] Ivi, pp. 23-24.
[25] Cfr. G. Mastroianni, Antonio Labriola e la filosofia italiana, Urbino, Argalìa, 1976 (seconda
edizione), pp. 7 sgg., 25 sgg., 51 sgg. e passim.
[26] Cfr. A. Labriola, Tripoli, il socialismo e l'espansione coloniale. Giudizi di un socialista, in “Il
Giornale d’Italia”, 13 aprile 1902. Intervista raccolta e firmata da Andrea Torre; ed ora compresa in
Id., Scritti politici 1886-1904, a cura di V. Gerratana, pp. 491-499.
[27] Cfr. B. Croce, “Rivista bibliografica” (a proposito di G. De Ruggiero, Critica al concetto di
cultura, Catania, Battiato, 1914), in “La Critica”, vol. XII, 1914, p. 312; poi in Id., Conversazioni
critiche. Serie seconda. Seconda edizione riveduta, Bari, Laterza, 1924, pp. 60-61.
[28] A. Gramsci, Quaderni del carcere. Volume secondo. Quaderni 6 (VIII) – II (XVIII). Edizione
critica dell’Istituto Gramsci. A cura di V. Gerratana, Totino, Einaudi, 1975, pp. 1366-1367.
[29] B. Croce, loc. cit.
[30] Ibidem.
[31] A. Labriola, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un secolo all'altro.
Considerazioni retrospettive e presagi, op, cit., pp. 28-29, 47-48, 50-51, 61-62, 110-111, e passim.
[32] Ivi, p. 28.
[33] Ivi, p. 29.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, p. 50.
[37] Ivi, p. 53.
[38] Cfr. per una conferma A. Labriola, Scritti pedagogici, cit., passim. E sia quindi consentito
rinviare, dello scrivente, ai su citati Studi su Labriola e Laboratorio Labriola , e ai rimandi bibliografici
ivi contenuti.
[39] A. Labriola, Saggi intorno alla concezione materialistica della storia. IV. Da un secolo all'altro.
Considerazioni retrospettive e presagi, op. cit., p. 111.
[40] A. Labriola, Lettera a Pasquale Villari, del 13 novembre 1900, in Id, Scritti politici 1886-1904,
op. cit., p. 464.
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