Alberto Bucci – Guida rapida al condominio IL CONDOMINIO Art. 1117. (Parti comuni dell'edificio). — Sono oggetto di proprietà comune dei proprietari dei diversi piani o porzioni di piani di un edificio, se il contrario non risulta dal titolo: 1) il suolo su cui sorge l'edificio, le fondazioni, i muri maestri, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni d'ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e in genere tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune; 2) i locali per la portineria e per l'alloggio del portiere, per la lavanderia, per il riscaldamento centrale, per gli stenditoi e per altri simili servizi in comune; 3) le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere che servono all'uso e al godimento comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli acquedotti e inoltre le fognature e i canali di scarico, gli impianti per l'acqua, per il gas, per l'energia elettrica, per il riscaldamento e simili fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini Origine, caratteristiche e natura del condominio Quando si parla di «comunione» ci si riferisce alla situazione di un bene che è in proprietà di più persone: in tal caso oggetto della comunione è unico (e indiviso) mentre il diritto di ciascun partecipante è rappresentato da una quota ideale (un terzo, la metà o altra frazione) del bene stesso. Nel «condominio degli edifici» la situazione è profondamente diversa: quando un fabbricato è costituito da più piani divisi in senso orizzontale, in cui si trovano appartamenti o locali appartenenti a diversi proprietari, ogni «condomino» ha la proprietà esclusiva della propria unità immobiliare, ma gli elementi che sono indispensabili per l’esistenza della costruzione (suolo, fondazioni, muri, terrazze o tetti) o che servono all’uso di tutti (impianti comuni, scale, ascensore, riscaldamento, eccetera) sono necessariamente oggetto di «comunione» tra i vari proprietari. Il Codice Civile regola espressamente tale tipo di comunione in cui la proprietà esclusiva dei singoli si intreccia con quella comune (articoli da 1117 a 1138). Le norme dettate in tema di «condominio degli edifici» mirano appunto a regolare i rapporti tra le singole proprietà individuali e tra queste e gli elementi «comuni» nonché a disciplinare la conservazione, la manutenzione ed il funzionamento (ed eventualmente il miglioramento) dei beni e degli impianti che appartengono a tutti i partecipanti. Perché vi sia un «condominio» e quindi necessario che vi sia l’appartenenza esclusiva di singole unità immobiliari di un edificio, in capo a varie persone. Il condominio sorge ed esiste, indipendentemente dalle volontà dei singoli proprietari, non appena si verifica tale situazione. Il condominio di edifici sorge "ipso iure et facto", senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni, nel momento in cui l'originario costruttore di un edificio diviso per piani o porzioni di piano aliena a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata, così perdendo, in quello stesso momento, la qualità di proprietario esclusivo delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni dell'edificio (Cass. 14 dicembre 1992 n. 13179; Cass. 22 giugno 1982 n. 3787; Cass. 13 aprile 1987 n. 3671; Cass. 10 settembre 2004 n. 18226), mentre l'esistenza del condominio e l'applicabilità della norma in materia non dipende dal numero di persone che ad esso partecipano (Cass. Sez. Un. 31 gennaio 2006, n. 2046: secondo cui la disciplina del condominio è applicabile anche in caso di condominio con due soli partecipanti: c.d condominio minimo). Nel condominio degli edifici è possibile individuare alcune regole generali di carattere fondamentale, rispetto ad alcune delle quali non è possibile alcuna deroga neppure per accordo unanime dei condomini. La prima è quella secondo cui i godimento delle singole proprietà da parte dei rispettivi proprietari, deve esplicarsi senza pregiudizio delle altrui proprietà o dei beni comuni (art. 1122 cc). D’altro canto il godimento dei beni comuni non può a sua volta limitare l’esercizio e l’estensione delle proprietà dei singoli Condomini. La seconda attiene alla «necessità» di una comunione sui beni indispensabili per l’esistenza ed il funzionamento dell’edificio nel suo complesso. In questo senso è prevista l’impossibilità che i condomini od uno di essi chiedano la “divisione” dei beni facenti parte della comunione edilizia “necessaria e inderogabile” (art. 1119 cc). I condomini inoltre non possono rinunciare alla propria quota sulla proprietà comune, in favore degli altri, allo scopo di sottrarsi alla obbligazione di concorrere nelle spese necessarie per il mantenimento o la gestione di tale proprietà comune (art. 1118 c.c.). La terza caratteristica concerne le facoltà di godimento dei beni che fanno parte della proprietà comune. Ciascuno dei condomini, rispetto a tali beni, ha un ha un diritto di godimento che deve esplicarsi in condizioni di parità con gli altri. Di conseguenza ciascuno può usarne e goderne a sue piacimento, purché l’uso ed il godi mento del singolo non pregiudichi una eguale utilizzazione da parte degli altri (art. 1102 c.c.). Va detto infine che, di norma, l’amministrazione della comunione edilizia e la gestione degli interessi comuni a questa connessi, sono in definitiva legati, oltre che all’opera di un amministratore, alle deliberazioni della assemblea dei condomini, che agisce secondo il principio maggioritario nel senso che la volontà espressa dalla maggioranza diviene obbligatoria anche per la minoranza dissenziente (ari. 1137 c.c.). In questo ambito, inoltre, è previsto un generale divieto per il singolo condomino di intromissione nella gestione e nella amministrazione, salvo che non si tratti di effettuare spese di carattere urgente (art. 1134 c.c.). Gli interessi dei singoli rispetto alla comunione edilizia ed il godimento dei beni relativi, possono essere disciplinati dal «regolamento d condominio» che, nel rispetto delle disposizioni fondamentali, può dettare norme sia per l’utilizzazione delle parti comuni dell’immobile sia per la ripartizione delle spese, sia infine per quanto riguarda le regole dell’amministrazione. L’adozione di tale strumento è prevista dalla legge come obbligatorio per i condomini che abbiano più di dieci partecipanti (art 1138 c.c.). Si dice che il condominio è un ente di mera gestione, senza personalità giuridica. Ciò vuol dire che lo stesso non ha una propria individualità giuridica distinta da quella dei singoli proprietari come avviene invece per le società o per le associazioni anche quando agisce a mezzo di un rappresentante comune (Cass. 21 maggio 1973 n. 1464). Secondo un orientamento costante e Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 1 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio consolidato della S.C. il condominio si configura come un ente sfornito di personalità giuridica distinta da quella dei singoli condòmini (Cass. 22 novembre 1986 n. 6881; conf. Cass. 14 dicembre 1993 n. 12304; Cass. 25 maggio 2001 n. 7130; Cass. 24 luglio 2001 n. 10086; Cass. 7 agosto 2002 n. 11882; Cass. 22 agosto 2002 n. 12343; Cass. 28 agosto 2002 n. 12588; Cass. 7 dicembre 2004 n. 22942). Da tale principio, costantemente affermato discende a) che il condominio che non ha una sede in senso tecnico, ha il domicilio coincidente con quello privato dell'amministratore che lo rappresenta (Cass. 11 dicembre 1993 n. 12208, Cass. 28 gennaio 2000 n. 976;. Cass. 2 agosto 2005 n. 16141,). b) che l’esistenza di un organismo rappresentativo unitario, (l’amministratore) non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti, sia esclusivi che comuni, inerenti all’edificio condominiale (Cass. 6 dicembre 1978 n. 5769; Cass. 21 maggio 1979 n. 2922; Cass. 20 agosto 1986 n. 5101; Cass. 22 novembre 1986 n. 6881; Cass. 29 aprile 1993 n. 5084).) c) che il rapporto che lega l’amministratore del condominio e i singoli condòmini, non è un rapporto di rappresentanza organica, ma è regolato dalle norme sul mandato, pur trattandosi di una rappresentanza ex lege (Cass. 24 marzo 1981; Cass. 14 dicembre 1993 n. 12304;. Cass. 9 giugno 2000 n. 7891). Per condominio verticale si intende il condominio tra due edifici separati tra loro da un muro verticale (dalle fondamenta al tetto) qualora i predetti edifici vengano a fruire, per la loro utilizzazione ed il loro godimento, di opere comuni, quali, ad esempio, i locali di portineria, l'impianto di riscaldamento, i punti luce, la rete di distribuzione dell'acqua etc. (Cass. 16 maggio 1984 n. 2987), Per “condominio parziale” si si intende la comunione di determinati servizi limitata ad alcuni condomini, con la conseguenza che la formazione delle maggioranze, ai fini della validità delle deliberazioni, deve computarsi con riferimento ai soli proprietari interessati. (Cass. 8 gennaio 1966 n. 158; Cass. 4 settembre 1970 n. 1188, Cass. 22 gennaio 2000 n. 697). Parti comuni dell’edificio a) Presunzione e titolo contrario Il codice fornisce una elencazione delle parti comuni (art. 1117 c.c.). citando il suolo, le fondazioni, i muri maestri, i tetti, i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici. la portineria, l’alloggio del portiere, la lavanderia, il riscaldamento centrale, gli stenditoi, gli ascensori, i pozzi. le cisterne, eh acquedotti. le fognature. i canali di scarico, gli impianti per l’acqua, il gas, l’elettricità e per il riscaldamento. Tale elencazione non e completa e «tassativa» (nel senso che qualunque altro manufatto non può essere oggetto di proprietà comune condominiale). La stessa disposizione, infatti, fa anche riferimento a «tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune», agli «altri simili servizi in comune», nonché alle «opere, installazioni e manufatti di qualunque genere che servono all’uso ed al godimento comune». Da ciò deriva la conclusione che, per quanto attiene agli elementi indicati espressamente, la loro appartenenza al condominio deve essere ammessa in ogni caso, mentre per quanto attiene ad altri locali, impianti o manufatti la stessa può essere ritenuta sulla base della loro obiettiva destinazione che deve essere diretta all’uso comune di tutti i condomini, mentre la disposizione può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all'uso o al godimento di una parte dell'immobile, venendo meno in questi casi il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacché la destinazione particolare del bene vince l'attribuzione legale., alla stessa stregua del titolo contrario. (Cass. Sez. Un. 7 luglio 1993 n. 7449, Cass. 9 giugno 2000 n. 7889; Cass. 28 aprile 2004 n. 8119). Va detto infine che l’appartenenza alla comunione edilizia può essere ritenuta certa, in base alla elencazione di cui alla norma ed in base alla oggettiva destinazione, sino a quando non risulti provata sulla base di un «titolo» l’appartenenza degli elementi stessi ad un solo (od a più) condomini. Ciò vuoi dire che se di regola la semplice esistenza degli elementi indicati (anche sulla base della loro destinazione) è sufficiente per qualificare come «condominiali» i beni stessi, la loro appartenenza può essere stata espressamente regolata in modo diverso: in questo caso colui che pretenda la proprietà esclusiva del bene dovrà fornire la prova di tale circostanza (Cass. 3 maggio 2002 n. 6359 Cass. 22 agosto 2002 n. 12340).). In genere la prova della esclusione di uno o più clementi dalla comunione edilizia è costituita dai titoli di acquisto delle singole proprietà o dal regolamento di condominio. Il costruttore di in edificio, all’atto della vendita dei singoli appartamenti, può. ad esempio, riservare a sé o ad altri la proprietà del suolo, delle terrazze, dei sottotetti. Tale riserva può essere inserita nei singoli atti di vendita o contenuta nel regolamento di condominio predisposto dal costruttore stesso e richiamato negli atti. La riserva di proprietà. comunque. per essere valida. dovrà essere espressa chiaramente poiché, il presenza di un bene che sia funzionale all’esistenza ed al godimento comune dell’edificio, la «presunzione» di comproprietà in favore dei condomini è destinata a superare qualsiasi altra considerazione. b) Suolo su cui sorge l’edificio, fondazioni, intercapedini, terrapieni e vespai Per suolo su cui sorge l’edificio deve intendersi quello occupato dalle fondamenta e dai muri perimetrali del fabbricato. Non vi rientra in genere (salvo che diversamente non risulti dal titolo di acquisto o dal regolamento di condominio) il suolo adiacente e circostante. L’appartenenza del suolo nella proprietà condominiale. fa sì che nessuno e neppure il proprietario del piano immediatamente posto sopra possa utilizzare tale elemento (ed il sottosuolo) a proprio vantaggio esclusivo, ampliando, ad esempio, la proprietà singola mediante escavazione. Il condominio potrà pretendere l’eliminazione dell’opera a carico di chi l’abbia abusivamente eseguita, mentre qualunque vano realizzato in tal modo diventerà di proprietà di tutti i condomini (Cass. 11 novembre 1986 n. 6587; Cass. 19 dicembre 2002, n. 18091; Cass. 28 aprile 2004 n. 8119; Cass. 26 maggio 2003, n. 8304; Cass. 9 marzo 2006, n. 5085; Cass. 27 luglio 2006 n. 17141; Cass. 24 ottobre 2006 n. 22835). Discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda le fondazioni, le intercapedini cioè lo spazio vuoto (cosiddetto vuoto tecnico) fra l'appartamento ubicato al piano rialzato e le fondamenta dell'edificio,esistenti tra il primo solaio ed il terreno su cui sorge l’edificio, e i vespai. Anche in questo caso si tratta di opere necessarie per l’esistenza dell’edificio (o destinate- e ad una funzione nell’interesse di tutti, per cui nessun singolo condomino può eseguire opere che ne alterino la destinazione o la funzionalità o che servano ad un ampliamento della proprietà individuale. c) muri maestri e muri perimetrali. Sono muri maestri e rientrano nei beni comuni, «necessari», quelli che costituiscono la struttura dello stabile e che vanno dalle fondamenta al tetto. Per muro maestro deve intendersi non solo l’intelaiatura dei pilastri e delle architravi, costituenti I ossatura di sostegno del fabbricato, ma anche tutto ciò che completi la struttura la linea architettonica. Devono quindi ritenersi di proprietà comune anche i muri perimetrali, indipendentemente dalla circostanza che gli stessi svolgano una funzione di sostegno o di semplice tamponamento dei vuoti dell’ossatura Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 2 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio (comprese le facciate di prospetto dell’edificio: Cass. 30 gennaio 1998 n. 945, Cass. 21 febbraio 1978 n. 839 : Cass. 5 dicembre 1978 n. 5732 , Cass. 13 dicembre 1977; Cass. 30 maggio 1978 n. 5732; Cass. 7 marzo 1992 n. 2773 Cass. 11 giugno 1986 n. 3867. Cass. 2 marzo 2007 n. 4978 Cass. 12 dicembre 1986 n. 7402 Cass. 12 dicembre 1986 n. 7402), con la conseguenza che alle spese per la conservazione dei muri maestri (che delimitano anche le chiostrine) devono concorrere tutti i partecipanti, compresi i proprietari dei negozi siti a piano terra, ancorché essi non siano proprietari delle chiostrine (Cass. 19 novembre 1993 n. 11435) . Appartengono invece ai singoli proprietari i tramezzi divisori che non hanno alcuna funzione statica e che si trovano all’interno degli appartamenti. Ciascun condomino può apportare modificazioni a quelle parti dei muri di sostegno o dei muri perimetrali che si trovano in corrispondenza del proprio appartamento, purché tali modifiche non incidano sulla statica dell’edificio o sulla sua linea architettonica esterna. d) Volte, soffitti e solai Poiché l’articolo 125 c.c. prescrive che le spese per la ricostruzione e la manutenzione dei soffitti, delle volte e dei solai è sostenuta dai proprietari dei due piani sovrastanti, divisi da tali elementi, la giurisprudenza ha dedotto che i relativi manufatti, anziché di proprietà del condominio, siano invece appartenenti in via esclusiva ai soli condomini interessati. Tale presunzione di comproprietà tra i proprietari dei due pani è stata ritenuta valida anche per quanto attiene alle piattaforme dei balconi che siano il prolungamento dei solai stessi (e che costituiscano copertura del balcone sottostante). e) Facciate, balconi Anche la facciata dell’edificio, in quanto fa parte del «decoro architettonico», è da ritenersi elemento comune ai condomini, almeno nel senso che nessuno può autonomamente alterarne le caratteristiche. Le spese per la manutenzione ed il rifacimento degli elementi che fanno parte della facciata, di conseguenza, debbono gravare su tutti i partecipanti al condominio indipendentemente dalla circostanza che gli appartamenti si trovino o meno in corrispondenza con la facciata medesima .(Cass. del 30/01/1998 n. 945). Per quanto riguarda i balconi, in generale si ritiene che gli stessi, in quanto entità autonome costituenti una espansione dei singoli appartamenti, siano di proprietà individuale e non comune Cass. 17/07/2007 n. 1591; Cass del 07/09/1996 8159). Tuttavia, gli elementi verticali dei balconi stessi (i cosiddetti frontalini) quando fanno parte della facciata, sono da considerarsi di proprietà comune e la loro riparazione grava su tutti i condomini (Cass. 19/01/2000 n. 568). f) Lastrici solari, terrazze a livello Sono lastrici solari di proprietà comune quelle superfici terminali dell’edificio che hanno la preminente funzione di copertura dell’edificio, anche se possono essere praticabili per usi diversi. La terrazza a livello è invece costituita da una superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e nel contempo sullo stesso piano di altri, dei quali forma parte integrante strutturalmente e funzionalmente, nel senso che per il modo in cui è realizzata, risulta destinata non tanto a coprire le verticali di edificio sottostanti, quanto e soprattutto a dare un affaccio e ulteriori comodità all'appartamento cui è collegata e del quale costituisce una proiezione verso l'esterno (Cass. 28 aprile 1986 n. 2924). Occorre comunque ricordare che per le spese di manutenzione delle terrazze, siano queste condominiali o di proprietà singola, la legge prevede una particolare ripartizione, nel caso in cui le stesse siano adibite all‘uso esclusivo di un singolo condomino, disponendo che le opere siano a carico per un terzo dell’utilizzatore e per due terzi dei restanti condomini sottostanti che fruiscono della sua copertura (vedi in tal senso l’articolo 126 del codice civile). g) Tetti e sottotetti Non vi e dubbio che il tetto dell’edificio appartenga alla comunione edilizia, per la sua funzione «naturale» di copertura. In questo senso può affermarsi che nessuno può manomettere tale tipo d copertura e che, in particolare. non è possibile che il proprietario dell’ultimo piano lo trasformi in una terrazza a livello per il proprio esclusivo uso titolo (Cass. 25 marzo 1972 n. 940; Cass. 18 ottobre 1976 n. 3570). Per quanto riguarda i sottotetti secondo la giurisprudenza l’'ambiente ricavato sotto il tetto dell'edificio in condominio, in modo da formare una camera d'aria limitata, in alto, dalla struttura del tetto ed, in basso, dal solaio che copre i vani dell'ultimo piano assolve, di regola, ad una funzione isolante e protettiva di questi vani e, quando non risulti una diversa destinazione o non sia diversamente disposto dal titolo, non è, quindi, oggetto di comunione ma costituisce pertinenza dell'appartamento dell'ultimo piano (Cass. 15 giugno 1993 n. 6640; conf. Cass. 29 dicembre 2004 n. 24147). Il sottotetto comunque va annoverato tra le parti comuni se è utilizzabile, anche solo potenzialmente, per gli usi comuni, dovendosi in tal caso applicare la presunzione di comunione prevista dalla norma, la quale opera ogni volta che nel silenzio del titolo il bene sia suscettibile, per le sue caratteristiche, di utilizzazione da parte di tutti i proprietari esclusivi (Cass. 20 luglio 1999 n. 7764; Cass. 18 ottobre 1988 n. 5668; Cass. 29 ottobre 1992 n. 11771) f) Scale, portoni di ingresso, vestiboli, anditi, portici Tutti gli spazi, coperti od esterni, che servono per dare accesso alle singole unità immobiliari sono necessariamente comuni a tutti partecipanti al condominio. In particolare gli stessi debbono ritenersi appartenere anche alle unità immobiliari che non sono direttamente servite da tali elementi. La giurisprudenza, infatti, ritiene che le scale di un edificio e il relativo androne appartengano anche ai proprietari dei locali terranei che hanno accesso direttamente sulla strada, in quanto costituiscono elementi necessari per la configurabilità stessa del fabbricato diviso in proprietà individuali. Tali beni, pertanto, hanno natura di beni comuni, ai sensi dell'art. 1117 c.c., anche relativamente ai condomini proprietari dei negozi con accesso dalla strada, essendo anche essi interessati a usufruire delle scale, e, quindi, dei pianerottoli, perché interessati alla conservazione (e manutenzione) della copertura dell'edificio della quale anche essi godono. (Cass. 10 luglio 2007 n. 15444, Guida al dir., 2007, 41, 65) Tale principio è applicabile, per analogia, anche quando si tratti di edifici limitrofi appartenenti a proprietari diversi, persino se aventi caratteristiche di edifici autonomi, sempre che le cose di cui si controverte, pur insistenti sull'area di uno solo di essi (o a cavallo del confine), risultino destinate oggettivamente e stabilmente alla conservazione o all'uso di entrambi gli edifici medesimi (Cass. 1 marzo 1995 n. 2324). g) Cortili Per cortili si intendono quegli spazi ricompresi all’interno o all’esterno del fabbricato, comprendenti oltre alla superficie del suolo anche lo spazio aereo sovrastante. limitato dalle costruzioni che lo fronteggiano destinati a dare aria, accesso e luce ai vani delle costruzioni stesse (Cass. 23 novembre 1982 n. 6336 Cass. 10 giugno 1976 n. 2142). Rispetto a tali elementi deve rilevarsi che la loro appartenenza al condominio può ricavarsi, per presunzione. quando la loro funzione di servizio dell’intero fabbricato sia evidente (come nel caso in cui il cortile sia oggettivamente destinato a dar accesso ai piani). In altri casi (come quando il suolo sia destinato per la situazione oggettiva a servizio di un unico proprietario), la funzione di aerazione e di Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 3 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio illuminazione non è incompatibile con la proprietà esclusiva del suolo, che comunque dovrà essere dimostrata sulla base del titolo di acquisto o del regolamento condominiale. In questo caso tuttavia l’esclusivo proprietario non potrà utilizzare il cortile in danno degli altri, diminuendo con costruzioni la naturale funzione del cortile stesso. (Cass. 20 febbraio 1984 n. 1209) La presunzione di proprietà comune di cui all'art. 1117 cod. civ. si applica per analogia anche ai cortili che si trovano fra edifici strutturalmente autonomi ed appartenenti a proprietari diversi e sono obbiettivamente destinati a dare aria e luce ai fabbricati che li fronteggiano (Cass. 10 luglio 1991 n. 7630; conf. Cass. 30 luglio 2004 n. 14559, Riv.giur.ed., 2005,I,63). h) Impiantì comuni In tema di impianti e installazioni comuni, I appartenenza al condominio dei locali e degli elementi relativi al riscaldamento centralizzato, dell’ascensore. delle installazioni necessarie per la distribuzione dell’acqua del gas e dell’energia elettrica ai singoli appartamenti. sono di tutta evidenza. Va rilevato tuttavia che per quanto attiene alla distribuzione del riscaldamento, dell’acqua, del gas e dell’energia elettrica, tale comunione esiste sino al punto in cui partono le diramazioni agli impianti d proprietà esclusiva dei singoli condomini. Va aggiunto ancora che, nel caso del riscaldamento, pur appartenendo i radiatori interni alle proprietà individuali, non è possibile che i singoli condomini realizzino mutamenti che comportino un’alterazione dell’equilibrio dell’impianto complessivo o un maggior utilizzo in loro favore in danno degli altri. i) Riscaldamento In questo campo assume partIcolare rilievo la regola secondo cui nessun condomino può rinunciare alla proprietà comune allo scopo di sottrarsi al pagamento delle spese. La rinuncia del condomino ad usufruire delI’impianto di riscaldamento, infatti, non lo esonera, in linea di principio, dal pagamento contributi relativi all’esercizio ed alla manutenzione dell’impianto. Tale esonero può essere permesso solo a condizione che tutti gli altri lo consentano. tuttavia anche chi non usufruisce del servizio pur essendo autorizzato dall’assemblea. deve contribuire alle spese di manutenzione della caldaia, che rimane pur sempre un bene di proprietà di tutti. Tuttavia la rinuncia unilaterale al riscaldamento condominiale operata dal singolo condomino mediante il distacco del proprio impianto dalle diramazioni dell'impianto centralizzato è legittima, quando l'interessato dimostri che, dal suo operato, non derivano né aggravi di spese per coloro che continuano a fruire dell'impianto, né squilibri termici pregiudizievoli della regolare erogazione del servizio, solo nel caso in cui il regolamento di condominio di natura contrattuale non la vieti esplicitamente. ( (Cass. 21 maggio 2001 n. 6923). j) Parcheggi La semplice esistenza, all’interno od all’esterno di un edificio in condominio, di uno spazio destinato a parcheggio degli autoveicoli, non autorizza a ritenere che lo stesso sia di proprietà comune dei proprietari degli appartamenti. Il parcheggio, infatti, non rientra nella elencazione degli clementi di cui all’art. 1117 cc. e l’appartenenza al condominio deve risultare dagli atti di acquisto o dal regolamento di condominio oppure da una effettiva, pacifica ed incontestata destinazione dell’area, a vantaggio di tutti. Quando, comunque uno spazio esterno al condominio o uno stessa cortile risulti di proprietà comune, quasi sempre è necessario che l’uso dello stesso sia regolamentato dall’amministratore o dall’assemblea per assicurarne il godimento a tutti i regime di parità, ricorrendo, ove necessario al c.d. “uso turnario” Deve però osservarsi che, con l’entrata in vigore di alcune norme di carattere generale in materia edilizia, le costruzioni realizzate a partire dal 1967 devono necessariamente essere dotate di uno spazio destinato alla sosta delle auto degli abitanti del fabbricato. Di conseguenza, per tali edifici, qualora gli stessi si trovino in una situazione di condominio, in mancanza di disposizioni di carattere particolare, contenute negli atti di acquisto delle singole proprietà (che possono prevedere l’attribuzione in proprietà esclusiva di un delimitato posto-auto) tali spazi debbono essere considerati di pertinenza condominiale in favore di tutti i condomini. In tema di aree destinate a parcheggio interne o circostanti ai fabbricati di nuova costruzione, il vincolo di natura pubblicistica imposto dall'art. 41 sexies legge n. 1150 del 1941, come introdotto dall'art. 18 legge n. 765 del 1967, che riserva l'uso diretto dei relativi spazi alle persone che stabilmente occupano le singole unità immobiliari del fabbricato, non comporta anche l'obbligo della cessione in proprietà da parte dell'originario costruttore dell'intero edificio, il quale, in quanto sia rispettata la destinazione di legge, può riservarsi la proprietà o cederla a terzi. Ove, poi, qualora nei titoli di acquisto non vi sia stata al riguardo alcuna riserva o sia stato omesso qualunque riferimento, gli spazi destinati a parcheggio vengono ceduti in comproprietà "pro quota", quali pertinenze delle singole unità immobiliari secondo il regime previsto dagli art. 817 e 818 c.c. in considerazione del vincolo pertinenziale stabilito dagli art. 18 legge n. 765 del 1967 e 26 legge n. 47 del 1985, venendo così a fare parte delle cose comuni di cui all'art. 1117 c.c. (Cass. 18 luglio 2003, n. 11261; conf. Cass. 16 gennaio 2008 n. 730,). DIRITTI DEI PARTECIPANTI SULLE COSE COMUNI (Articolo 1118) Art. 1118. (Diritto dei partecipanti sulle cose comuni). — Il diritto di ciascun condomino sulle cose indicate dall'articolo precedente è proporzionato al valore del piano o porzione di piano che gli appartiene, se il titolo non dispone altrimenti. Il condomino non può, rinunziando al diritto sulle cose anzidette, sottrarsi al contributo nelle spese per la loro conservazione. La circostanza secondo cui il diritto di proprietà di ciascun condomino sui beni comuni abbia una estensione (ed un limite) determinata nella proporzione tra il valore della sua unità immobiliare ed il valore dell’intero edificio (secondo la tabella millesimale eventualmente esistente) non vuol dire che la facoltà di utilizzazione dei beni condominiali sia limitata e ristretta per ciascuno entro i confini della rispettiva quota di proprietà. Poiché, infatti, il diritto stesso, anche se espresso in quote millesimali, è pur sempre «ideale» e non «reale», non è concepibile che ogni singolo con- domino possa usare, ad esempio, del cortile comune per un ventesimo (o per cin quanta millesimi). Indipendentemente quindi dall’estensione del diritto, per la comunione edili zia (come del resto anche per la comunione semplice), vige il principio secondo cui ciascun partecipante può usare della cosa comune a suo piacimento e nella sua interezza. Tale godimento pieno trova solamente limite in quello degli altri partecipanti nel senso che lo stesso non può comportare una alterazione della destinazione del bene, né impedire che gli altri possano farne un eguale uso (art. 1102 c.c.). In so stanza l’uso che ciascuno può fare del bene condominiale deve svolgersi in condizioni di sostanziale parità con il concorrente uso degli altri (Cass. 23 settembre 1991 n. 10013, Cass.5 settembre 1994 n. 7652). Quale conseguenza di tale principio ciascun condomino potrà usare dell’ascensore, delle scale, degli androni, dei cortili comuni, degli stenditoi e dei lavatoi, secondo le proprie necessità e convenienze, in condizioni di piena parità con gli altri e ciò indipendentemente dalla circostanza che sia titolare di una quota maggiore o minore della comproprietà, ragguagliata al valore dell’appartamento di sua pertinenza. Al tempo stesso, tuttavia, qualunque sia l’entità del suo diritto, egli non potrà, ad esempio, chiudere la porta dell’ascensore corrispondente Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 4 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio all’accesso al proprio piano, depositare nel cortile o negli androni materiali di sua pertinenza, impedire con chiusure l’accesso degli altri condomini agli androni, alle scale, ai pianerottoli, agli anditi, alle terrazze, anche su porzioni prossime alla sua proprietà esclusiva (Vedi Cass. 23 novembre 1982 n. 6336, in tema di uso del cortile, Cass. 6 aprile 1982, in tema di uso dell’ascensore, Cass. 10 febbraio 1981 n. 843 in tema di apertura su di un pianerottolo). L’uso della proprietà comune può essere regolamentato preventivamente: ciò è addirittura necessario quando non sia possibile una utilizzazione contemporanea dei beni, in relazione al numero degli aventi diritto. Le norme circa l’uso delle cose comuni sono infatti contenute, generalmente, nel regolamento di condominio. Quando manchi tale regolamento è l’amministratore che ha il potere di disciplinare l’uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell’interesse comune. Anche l’assemblea, ove l’amministratore non abbia provveduto (o in sede di reclamo del condomino contro il provvedimento dell’amministratore), può provvedere in definitiva a dettare le modalità per il godimento dei beni condominiali. Va precisato che, comunque, ogni provvedimento che disciplini l’uso ed il godimento delle cose in proprietà del condominio, deve rispettare la regola fondamentale della parità tra tutti i partecipanti e che non è possibile che il regolamento, l’amministratore o l’assemblea, anche a maggioranza, attribuiscano ad alcuno facoltà più ampie rispetto a quelle di altri. Va detto infine che, a norma dell’art. 1102 c.c., ciascun partecipante alla comunione edilizia «può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa». Ciò vuoi dire che ciascun condomino non solo può «migliorare» i beni comuni, per un miglior godimento degli stessi, ma può anche apportarvi modificazioni che si risolvano in un suo esclusivo vantaggio, sempre che venga rispettato il limite della destinazione (che deve rimare immutata) e quello dell’esercizio del diritto degli altri (che deve rimanere inalterato in condizioni di parità). In questo senso va riconosciuto a ciascun condomino il potere di aprire finestre o altri varchi sul muro comune, in corrispondenza della sua proprietà esclusiva, per dare maggiore luce o consentire l’accesso dall’esterno. Tale facoltà deve anche riconoscersi per quanto attiene all’appoggio di canne fumarie, o altre condotte, sui muro esterno del fabbricato, anche se destinate a servire esclusivamente la proprietà esclusiva. Sempre che tali opere non costituiscano alterazione della facciata del fabbricato od impediscano l’utilizzazione di androni, scale o dello stesso muro da parte di altri (Cass. 7 marzo 1992 n. 2774, Cass. 16 maggio 2000 n. 6341). Al di fuori di tali ipotesi deve ricordarsi che nessun condomino può, a mente dell’art. 1134 c.c., fare spese (anche migliorative) per le cose comuni, con diritto al rimborso, se non abbia avuto l’autorizzazione dell’amministratore o dell’assemblea, salvo che si tratti di spese urgenti. INDIVISIBILITA’ (Articolo 1119) Art. 1119. (Indivisibilità). — Le parti comuni dell'edificio non sono soggette a divisione, a meno che la divisione possa farsi senza rendere più incomodo l'uso della cosa a ciascun condomino. L'art. 1119 cod. civ. non stabilisce l'indivisibilità assoluta delle parti comuni di un edificio in condominio, ma tale indivisibilità subordina all'esigenza di non rendere più incomodo l'uso della cosa comune a ciascun condomino, cioè all'esigenza che non si alteri lo stato, e, quindi, il pacifico godimento delle parti di uso comune (Cass. 14 aprile 1982 n. 2257). Poiché l'uso delle cose comuni è in funzione del godimento delle parti di proprietà esclusiva, la maggiore o minore comodità di uso di cui parla l'art. 1119 cod. civ., ai fini della divisibilità delle cose stesse, va valutata, oltre che con riferimento alla originaria consistenza e destinazione della cosa comune, all'uopo considerata nella sua funzionalità più che nella sua materialità, anche attraverso il raffronto tra le utilità che i singoli condomini ritraevano da essa ai fini del godimento delle parti dell'edificio di proprietà esclusiva e le utilità che, agli stessi fini, ne ricaverebbero dopo la divisione. Occorre, cioè, che questa non incida sull'essenza e funzione delle porzioni della cosa già comune, di guisa che ciascuna di esse risulti idonea a realizzare il servizio a vantaggio dei beni di proprietà esclusiva, cui era destinato il tutto, senza che il godimento di essi ne risulti pregiudicato o diminuito (Cass. 26 aprile 1969 n. 1364; conf. Cass. 21 gennaio 1975 n. 248). Finché perdura il vincolo condominiale, lo scioglimento parziale della comunione può essere deliberato soltanto all'unanimità, non potendo gli atti a maggioranza avere mai forza contrattuale; pertanto, è da escludere che singoli condòmini possano imporre agli altri, contro la loro volontà, una divisione (parziale) di aree comuni o di locali comuni; né è al giudice consentito di interferire nella sfera dell'autonomia dei vari condomini nel senso che egli, sia pure su domanda di alcuni di essi, possa sostituirsi alla volontà di tutti (Cass. 11 febbraio 1974 n. 397). INNOVAZIONI (Articolo 1120) Art. 1120. (Innovazioni). — I condomini, con la maggioranza indicata dal quinto comma dell'articolo 1136, possono disporre tutte le innovazioni dirette al miglioramento o all'uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni. Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento anche di un solo condomino. Particolare discorso meritano le cosiddette «innovazioni» da apportare alla proprietà comune, a carico della collettività dei condomini, in relazione sia alla possibilità di disporle, sia alle maggioranze necessarie per la loro approvazione da parte dell’assemblea. Ed è proprio la distinzione tra opere innovative e opere costituenti semplici miglioramenti che assume notevole importanza in relazione al disposto del quinto comma dell’art. 1136 c.c. in quanto le prime debbono approvarsi con una maggioranza particolarmente qualificata, mentre le seconde richiedono una approvazione nel rispetto delle regole che attengono alle normali deliberazioni sugli affari di ordinaria o straordinaria amministrazione. Secondo la giurisprudenza costituisce innovazione qualsiasi opera nuova che alteri, in tutto o in parte, nella materia o nella forma ovvero nella destinazione di fatto o di diritto, la cosa comune, eccedendo il limite della conservazione, dell'ordinaria amministrazione e del godimento della cosa, e che importi una modificazione materiale della forma o della sostanza della cosa medesima, con l'effetto di migliorarne o peggiorarne il godimento o, comunque, alterarne la destinazione originaria con conseguente implicita incidenza sull'interesse di tutti i condomini. Non sono, invece, innovazioni, tutti gli atti di maggiore e più intensa utilizzazione della cosa comune, che non importino alterazioni o modificazioni della stessa e non precludano agli altri partecipanti la possibilità di utilizzare la cosa facendone lo Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 5 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio stesso maggiore uso del condomino che abbia attuato la modifica (Cass. 14 febbraio 1980 n. 1111, Cass. 7 maggio 1982 n. 2846, Cass. 29 luglio 1989 n. 3549, Cass. 23 ottobre 1999 n. 11936). L’installazione di un ascensore o di un impianto di riscaldamento centralizzato costituiscono senza dubbio innovazioni. Non sono da considerarsi invece come innovazioni la sostituzione di un impianto ascensore già esistente, la sostituzione di un bruciatore a gasolio con quello a gas metano o la modifica dell’impianto di distribuzione dell’acqua (da bocca tarata a contatore). L’istituzione di un servizio di portineria, con adattamento di locali alle esigenze di tale servizio, è una innovazione (Cass. 25 marzo 1988 n. 2585). Non sono invece innovazioni l’installazione dei citofoni o dei dispositivi di apertura meccanica dei portoni, in sostituzione del servizio di portineria o di altri sistemi manuali. Costituisce innovazione la trasformazione dei locali della lavanderia in ambienti di soggiorno o disimpegno per i condomini. Non costituisce innovazione la pavimentazione della terrazza condominiale con un diverso tipo di piastrelle. In linea generale va detto che, qualora si tratti di innovazioni, le stesse debbono essere obbligatoriamente disposte dall’assemblea dei condomini, in prima o in seconda convocazione, con un numero di voti che rappresenti la maggioranza di tutti i partecipanti ed i due terzi del valore dell’edificio. Qualora, invece, si tratti di semplici miglioramenti, le maggioranze necessarie per la loro deliberazione sono quelle relative alle opere di manutenzione straordinaria di cui al secondo e terzo comma dell’art. 1136 cc., per le quali, in seconda convocazione, è sufficiente l’adesione di un terzo dei partecipanti che rappresenti un terzo del valore dell’edificio. Non tutte le innovazioni sono comunque consentite. Quando le opere comportino pericolo per la stabilità dell’edificio o ne alterino il decoro architettonico, oppure nell’ipotesi che le stesse rendano alcune parti dell’edificio inservibili all’uso ed al godimento anche di un solo condomino, esiste un generale divieto di approvazione, secondo il disposto dell’art. 1120 c.c. Il che vuol dire che innovazioni del ge nere possono essere approvate solamente con il consenso unanime di tutti i partecipanti e che le relative deliberazioni, se adottate a maggioranza, possono essere rese nulle per iniziativa anche di un solo dissenziente. Secondo la giurisprudenza devono ritenersi vietate le innovazioni alla cosa comune che ne mutino la sostanza e la forma, incidendo sull'entità materiale della cosa, alterandone in tutto o in parte la consistenza, la conformazione o la destinazione impressavi dalla volontà dei compartecipanti ed espressa dal titolo (regolamento di condominio, deliberazioni assembleari o gradatamente dall'uso o dalla natura stessa della cosa) o che arrechino limitazioni o danno all'uso degli altri condomini in guisa da turbare l'equilibrio tra i concorrenti interessi dei medesimi (Cass. 10 marzo 1983 n. 1789, Cass. 14 novembre 1988 n. 6146). L'inservibilità all'uso o al godimento anche di uno soltanto dei condomini — considerata nell'art. 1120, comma 2, c.c. quale conseguenza da impedire in modo assoluto, affinché possano effettuarsi opere destinate ad aumentare la funzionalità ed il valore dell'edificio condominiale — deve essere interpretata come sensibile menomazione dell'utilità che il condomino può trarre dalla cosa comune secondo l'originaria costituzione della comunione (Cass. 16 febbraio 1977 n. 697; conf. Cass. 25 ottobre 2005 n. 20639). Innovazioni speciali Con la L. 9 gennaio 1989, n. 13, il legislatore, nel perseguire finalità sociali di rette a favorire i portatori di handicap, è intervenuto proponendo taluni meccanismi diretti alla eliminazione delle barriere architettoniche che sono di ostacolo alla vita di relazione dei minorati. In relazione agli edifici esistenti, la legge ha individuato una serie di opere finalizzate allo scopo quali: percorsi pedonali attrezzati, allargamento di porte, installazione di ascensori. In relazione a tali opere è prevista la possibilità che, nell’ambito degli edifici condominiali, le stesse siano realizzate per intervento dell’assemblea o del diretto interessato. Per quanto attiene alle delibere assembleari, non vi è dubbio che trattandosi di lavori certamente innovativi, le relative decisioni dovrebbero ricevere l’adesione del la maggioranza numerica dei partecipanti e di due terzi del valore dell’edificio. In deroga alla regolamentazione delle innovazioni, l’art. 2 della legge prevede, al comma secondo, che i lavori in questione possano essere invece approvati con le maggioranze previste dall’art. 1136 secondo e terzo comma del c.c. Poiché le disposizioni richiamate attengono alla validità delle deliberazioni, in prima ed in seconda con vocazione, per gli affari di ordinaria o straordinaria amministrazione, ne risulta che l’approvazione può avvenire (in seconda convocazione) con la semplice maggioranza di un terzo dei partecipanti al condominio ed almeno un terzo del valore dell’edificio (Cass. 29 luglio 2004 n. 14384, conf. Cass. 20 aprile 2005 n. 8286 Cass. 13 giugno 2005 n. 12705).. Tali deliberazioni di regola debbono avvenire su richiesta di un condomino interessato che sia portatore di handicap o nel cui nucleo familiare vi sia un minorato. Si ritiene che la richiesta sia giustificata anche quando la condizione si verifichi con riferimento alla persona od ai familiari del conduttore. Nel caso in cui l’assemblea condominiale, entro tre mesi dalla richiesta (da farsi per iscritto), non abbia provveduto, per qualunque motivo, alla deliberazione, il portatore di handicap (sia questo il condomino o un suo familiare o l’inquilino), può installare dovunque a proprie spese uno o più servoscala o altre strutture mobili facilmente rimuovibili, oppure modificare l’ampiezza delle porte di accesso all’edificio, agli ascensori ed alle autori- messe. Deve comunque aggiungersi che, per espresso richiamo contenuto nel terzo comma dell’art. 2 della legge n. 13/1989, i lavori non possono essere in nessun caso approvati (né fatti eseguire direttamente dal minorato) quando possano recare pregiudizio alla stabilità o al decoro architettonico del palazzo oppure quando gli stessi rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso od al godimento anche di un solo condomino (Cass. 25 giugno 1944 n. 6109). E ritenuta inoltre applicabile la particolare disciplina delle innovazioni gravose, nel caso in cui le opere richiedano notevoli esborsi. Il che vuol dire che, qualora si tratti di lavori approvati dall’assemblea dei condomini, i condomini non interessati sono esonerati da qualsiasi contributo di spesa, nell’ipotesi in cui l’innovazione sia suscettibile di godimento separato. Nel caso in cui l’utilizzazione separata non sia possibile, la deliberazione è consentita solamente quando la maggioranza dei condomini che l’ha approvata intenda sopportarne integralmente la spesa. B) Parcheggi/autorimesse Altro tipo di innovazione in relazione alla quale il legislatore ha previsto una deroga rispetto alla disciplina del Codice Civile, è quella che attiene alla costruzione di parcheggi nel sottosuolo da destinare all’uso dei partecipanti al condominio. L’art. 9 della L. 24 marzo 1989, n. 122, stabilisce, infatti, che le delibere condominiali che dispongano la realizzazione nel sottosuolo dell’edificio ovvero in loca li siti al piano terreno di parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari, possono essere approvate con la maggioranza di cui al 2° comma dell’art. 1136 c.c. Ciò vuol dire che è sufficiente la maggioranza degli intervenuti che rappresenti la metà del valore dell’edificio (sia in prima che in seconda convocazione), anziché la maggioranza di tutti i condomini che rappresenti i due terzi del valore dell’edificio essendo i dissenzienti tenuti a rispettare la sottrazione dell'uso dell'area comune a seguito della destinazione a parcheggio. Tuttavia, poiché il citato art. 9, comma 3, fa salvo il contenuto degli artt. 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, cod. civ., detta sottrazione è consentita solo se è assicurata anche ai condomini dissenzienti la possibilità di realizzare, in Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 6 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio futuro, nella zona comune rimasta libera, un analogo parcheggio pertinenziale della propria unità immobiliare di proprietà esclusiva, in modo da garantire a tutti il godimento del sottosuolo secondo la sua normale destinazione (Cass. 18/ settembre 2009 n. 20254). Anche in questo caso, comunque, debbono ritenersi applicabili le -altre disposizioni che concernono le innovazioni, di cui agli artt. 1120 e 1121 c.c. Le opere innovative saranno quindi vietate se in contrasto con la stabilità o il decoro del fabbricato o se la loro realizzazione comporti la sottrazione di parti comuni dall’uso e dal godimento di un solo condomino. Poiché inoltre le opere stesse costituiscono innovazioni gravose, suscettibili di utilizzazione separata, i dissenzienti, che non faranno uso del parcheggio, dovranno essere esonerati da ogni contribuzione di spesa, salva la possibilità di chiederne successivamente l’utilizzazione, pagando la quota relativa. C) Trasformazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato Altro campo nel quale il legislatore si è espresso in maniera innovativa, nell’ambito delle delibere condominiali, è quello degli interventi diretti a contenere il consumo energetico degli edifici esistenti. La L. 9 gennaio 1991, n. 10, interamente dedicata alla materia, ha previsto in fatti una serie di interventi da attuarsi nell’ambito degli edifici in condominio. Tali interventi vanno dalla coibentazione delle parti murarie, alla installazione di generatori di calore ad alto rendimento, di pompe di calore, di apparecchiature per la produzione combinata di energia elettrica e di calore, di controlli integrati e contabilizzazione dei consumi di calore e di acqua calda sanitaria, di sistemi di illuminazione ad alto rendimento, alla trasformazione degli impianti centralizzati di riscaldamento in impianti unifamiliari a gas per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria con sistema automatico di regolazione della temperatura. Per tutti tali interventi, previsti dall’art. 8 della legge, in deroga alla normativa del Codice Civile in materia di innovazioni, è previsto che siano valide le deliberazioni, sia in prima che in seconda convocazione, che abbiano riportato voti favore voli semplicemente rappresentativi della maggioranza delle quote millesimali, prescindendo dalla necessità di una maggioranza numerica. Per quanto riguarda poi le innovazioni relative all’adozione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore, è previsto che l’assemblea possa decidere, in prima o in seconda con vocazione, con la semplice maggioranza numerica degli intervenuti. In merito va osservato che l’ambito di applicazione più rilevante della nuova normativa è quello della trasformazione dell’impianto di riscaldamento centralizzato con impianti unifamiliari a gas, per il riscaldamento e la produzione di acqua calda sanitaria, con regolazione automatica della temperatura. Tale tipo di operazione, assai complessa, non può confondersi, secondo la prevalente opinione, con la possibilità della semplice soppressione del vecchio impianto centralizzato, attraverso una delibera semplicemente maggioritaria. Infatti la trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato in impianti autonomi, richiede il consenso di tutti i condomini, giacché l'abbandono dell'impianto centralizzato, la rinuncia alle precedenti modalità di riscaldamento, la destinazione a nuovo impianto di locale idoneo, la necessità di nuove opere e relativi oneri di spesa, non possono essere imposti al condomino dissenziente, ai sensi dell'art. 1120, secondo comma (Cass. 27 aprile 1991 n. 4652, Cass. 10 giugno 1991 n. 6565, conf., Cass. 23 febbraio 2007 n. 4219). La trasformazione dovrà consistere in una contemporanea sostituzione di un sistema di riscaldamento, con altro avente caratteristiche ben precise, che debbono essere rispettate per il raggiungimento degli scopi della legge. Deve dirsi pertanto che, per la validità delle deliberazioni attinenti alla trasformazione del riscaldamento, è essenziale che l’assemblea approvi un progetto complessivo unitario, relativo a tutte le unità immobiliari, la cui esecuzione diviene obbligatoria per tutti i partecipanti. Deve escludersi quindi che l’assemblea possa limi tarsi a deliberare l’eliminazione dell’impianto centralizzato (per la quale è richiesta l’unanimità dei consensi), affidando poi alla discrezione dei condomini le modalità di esecuzione degli impianti unifamiliari. OPERE SULLE PARTI DELL’EDIFICIO DI PROPRIETA’ COMUNE (Articolo 1122) Art. 1122. (Opere sulle parti dell'edificio di proprietà comune). — Ciascun condomino, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni dell'edificio. L’uso della proprietà esclusiva, da parte di ciascun condomino, in linea di principio non può subire limitazione alcuna. Ciascuno è quindi autorizzato ad utilizzare il proprio appartamento come meglio crede, con il solo limite delle norme generali che attengono ai rapporti «di vicinato» (in quanto compatibili: Cass. 23 gennaio 1995 n. 724, Cass. 4 agosto 1988 n. 4844; Cass. 2 agosto 2001 n. 10563) per ogni tipo di immobile. Tra tali limiti va citato, ad esempio particolare, quello relativo al divieto di «immissioni» — di fumo, calore, esalazioni e scuotimenti — in danno delle proprietà altrui, quando tali «immissioni» eccedono la «normale tollerabilità» (Cass. 15 marzo 1993 n. 3090). In particolare le norme sulle distanze legali, le quali sono fondamentalmente rivolte a regolare rapporti tra proprietà autonome e contigue, sono applicabili anche nei rapporti tra il condominio ed il singolo condomino di un edificio condominiale nel caso in cui esse siano compatibili con l'applicazione delle norme particolari relative all'uso delle cose comuni (art. 1102 cod. civ.), cioè nel caso in cui l'applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime e delle une e delle altre sia possibile una applicazione complementare; nel caso di contrasto, prevalgono le norme relative all'uso delle cose comuni, con la conseguenza della inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che, nel condominio di edifici e nei rapporti tra il singolo condomino ed il condominio stesso, sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (ad esempio la installazione, in appoggio al muro condominiale, ed in prossimità della finestra di un condomino, della canna fumaria della centrale termica condominiale) (Cass. 23 gennaio 1995 n. 724; conf. Cass. 1o dicembre 2000 n. 15394; Cass. 5 giugno 2003 n. 8978; Cass. 14 aprile 2004 n. 7044, Cass. 11 novembre 2005 n. 22838). L’unica norma specifica che attiene alle proprietà incluse in un edificio in con- dominio è quella che fa divieto a ciascun condomino di eseguire opere che arrechino danno alle parti comuni del fabbricato (art. 1122 c.c.). Tale norma comunque contempla solamente l’esecuzione di opere o di altri manufatti che arrechino pregiudizio alla proprietà comune, nel senso che si vuole evitare che dalle stesse derivi un danno diretto al fabbricato, che ne sia compromesso, ad esempio, nella stabilità o nel suo decoro architettonico (Cass. 11 febbraio 2005 n. 2743, Cass. 29 aprile 2005 n. 8883), o altri particolari pregi di ordine edonistico, estetico o funzionale (Cass. 17 dicembre 1976 n. 4658, Cass. 27 aprile 1989 n. 1947; conf. Cass. 19 gennaio 1976 n. 1076, Cass. 10 settembre 2004 n. 18214). Nel divieto non rientra certamente l’esecuzione di opere di trasformazione interna all’appartamento (che non siano lesive delle strutture), anche se le stesse siano dirette ad un mutamento della precedente destinazione d’uso (anche se fastidiosa per i vicini). Non può tacersi, comunque, la circostanza secondo cui, nella realtà ricorrente, l’utilizzazione degli appartamenti (o dei locali) in un edificio in condominio può essere soggetta a limitazioni poste nell’interesse generale. In quasi tutti i condomini, infatti, vi è il divieto di destinare gli appartamenti o i locali a determinate attività (ambulatorio, industria, officina, ecc.) o in generale ad usi «in contrasto con il decoro e la tranquillità del condominio» (Cass. 23 dicembre 1994 n. 1126). Tali limitazioni sono valide ed obbligatorie per i condomini solamente se Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 7 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio risultano da un regolamento di condominio che sia stato approvato da tutti oppure da un regolamento di condominio predisposto dal costruttore e richiamato nei singoli atti di vendita. Deve trattarsi cioè di limiti imposti da un vero e proprio accordo contrattuale tra i singoli proprietari (o tra il costrutto re e gli acquirenti) che in tal modo abbiano stabilito di regolare l’utilizzazione degli appartamenti in previsione di un superiore interesse comune. Deve ancora dirsi a tale proposito che, trattandosi di limitazioni reciproche del tutto simili a delle servitù, perché tali divieti possano essere validi ed efficaci anche per i successivi acquirenti delle unità immobiliari, è necessario che il regolamento, ove non espressamente richiamato negli atti di acquisto, sia trascritto nei registri immobiliari. RIPARTIZIONE DELLE SPESE Art. 1123. (Ripartizione delle spese). — Le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione. Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne. Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità. Manutenzione e gestione del condominio Secondo il disposto dell’art. 1123 c.c. le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune, sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno. Sono dunque spese «condominiali» anzitutto quelle dirette alla conservazione dei beni comuni. Conservazione vuoi dire soprattutto manutenzione: in tale categoria rientrano tutte le spese necessarie per assicurare che i beni conservino la loro funzionalità e utilità. Manutenzione è senza dubbio ogni intervento di carattere ordinario, programmabile periodicamente, senza carattere di urgenza; altrettanto può dirsi per le «piccole riparazioni». La tinteggiatura delle finestre delle scale, la sostituzione delle lampadine dell’androne, la riparazione delle serrature, dei portoncini di accesso alle cantine, la pulizia delle scale e dei cortili, la sistemazione dei giardini sono operazioni di «manutenzione ordinaria» che debbono es sere sostenute da tutti. Manutenzione vuol dire anche interventi di carattere straordinario, che si rendono necessari per eventi di carattere eccezionale ed imprevedibile, come ad esempio i guasti derivanti dalla caduta di un fulmine, da un incendio, da un terremoto. Deve dirsi, comunque, che la distinzione tra operazione di manutenzione ordinaria e di manutenzione straordinaria, non ha molta rilevanza per quanto attiene al la ripartizione della spesa che deve avvenire, sempre, secondo il principio della partecipazione proporzionale al valore delle singole proprietà. La stessa può avere rilevanza solamente per quanto attiene alla loro deliberazione. In questo senso infatti la legge prevede che la manutenzione ordinaria possa essere disposta direttamente dall’amministratore nell’ambito dei suoi poteri e che, al contrario, solamente l’assemblea possa deliberare operazioni di straordinaria manutenzione (artt. 1130, n. 4 e 1135, c.c.). E inoltre previsto che gli interventi di straordinaria manutenzione che siano «di rilevante entità» debbano essere approvati dall’assemblea con una maggioranza qualificata (maggioranza degli intervenuti che rappresentino almeno la metà del valore dell’edificio: art. 1136 c.c.). Sono ancora «spese condominiali» quelle dirette al funzionamento dei servizi comuni dell’edificio. A questo proposito si possono citare le spese per il portierato, quelle per il funzionamento dell’ascensore e quelle per il riscaldamento centralizzato. Stipendi, contributi previdenziali assicurativi, costi di fornitura di energia elettrica, gas o combustibili fanno parte di questa categoria di spese e, in via generale, fanno capo a tutti i condomini in relazione al valore delle singole proprietà individuali. L'obbligo del condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni dell'edificio e alla rifusione dei danni subiti dai singoli condomini nelle loro unità immobiliari, a causa della omessa manutenzione e riparazione i deriva dalla titolarità del diritto reale sullo immobile e integra un'obbligazione propter rem trasmissibile unitamente alla trasmissione del bene (Cass. 14 marzo 1987 n. 2658). Tale obbligo di contribuzione vale anche per le spese necessarie per eliminare vizi e carenze costruttive originarie dell'edificio condominiale, salva in questo caso, l'azione di rivalsa nei confronti del costruttore-venditore e si estende anche alle spese necessarie per riparare i danni che i singoli condomini subiscono nelle loro unità immobiliari (Cass. 18 maggio 2001 n. 6849; conf. Cass. 8 novembre 2007 n. 23308). Tale obbligo deriva dalla concreta attuazione dell'attività di manutenzione, non già dalla preventiva approvazione della spesa e della ripartizione della stessa, nasce nel momento in cui è necessario eseguire le relative opere (Cass. 18 aprile 2003 n. 6323 Cass. 1 luglio 2004 n. 12013) e sorge, quindi, per effetto di un atto di gestione concretamente compiuto. (Cass. 7 luglio 1988 n. 4467, Cass. 17 maggio 1997 n. 4393; Cass. 26 gennaio 2000 n. 857) e dalla delibera dell'assemblea che approva le spese stesse mentre la ripartizione delle stesse è volta soltanto a rendere liquido un debito preesistente per cui obbligato al pagamento dei tributi è il proprietario nel momento in cui la spesa viene deliberata (Cass. 26 ottobre 1996 n. 9366; conf. Cass. 21 luglio 2005 n 15288). Ripartizione delle spese condominiali La ripartizione delle spese di condominio, come abbiamo visto, segue anzitutto il criterio proporzionale determinato dal valore delle proprietà individuali di ciascun condomino. Poiché tutti i partecipanti al condominio (cioè i condomini) sono comproprietari dei beni facenti parte della comunione edilizia, secondo una quota «ideale» corrispondente al valore del proprio appartamento, rapportato al valore dell’intero edificio, è evidente che, secondo un principio che vige in ogni tipo di comunione, le spese che attengono direttamente a tali beni, debbano essere sopportate proporzionalmente in relazione all’entità della «quota» stessa. Quel che deve essere posto in evidenza è che la ripartizione delle spese non deve essere fatta in base all’uso effettivo dei beni (non ci si può esimere, ad esempio, dal pagare le spese di pulizia delle scale, adducendo di non abitare l’appartamento). L’onere di concorrere al pagamento delle spese condominiali è infatti direttamente conseguente al diritto di proprietà del singolo appartamento (e di quello di comproprietà proporzionale sui beni comuni) in relazione al diritto di utilizzazione semplicemente potenziale (Cass. 19 febbraio 1997 n. 1511). Tale principio generale, tuttavia, nel condominio degli edifici può atteggiarsi in modo particolare, in relazione alla complessità del fabbricato e dei suoi servizi. Il secondo ed il terzo comma dell’art. 1123 cc. stabiliscono infatti che, qualora vi siano beni destinati a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne e che, in presenza di più scale, corti li, lastrici solari, opere o Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 8 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo dei condomini che ne trae utilità. Tale disposizione, di carattere particolare, in deroga al principio generale del collegamento proporzionale tra spese e quota di proprietà, permette di graduare, tra i condomini, l’onere delle spese di manutenzione di alcuni beni in relazione alle loro caratteristiche oggettive quando gli stessi siano destinati a servire, in misura maggio re od esclusiva, alcuni condomini rispetto agli altri. Ciò vuoi dire ad esempio che, pur rimanendo i condomini comproprietari di una quota pari al valore dell’appartamento, la manutenzione di alcuni beni e le spese per il funzionamento di alcuni impianti possono essere posti a carico solamente di un gruppo di condomini o essere ripartite in modo differente da quello proporzionale al valore della proprietà, quando i beni stessi o la utilità degli impianti o dei servizi siano destinati a servire alcuni condomini in misura diversa (e maggiore) rispetto agli altri (Cass. 18 novembre 1987 n. 8484, Cass. 29 aprile 1992 n. 5179, Cass. 22 giugno 1995 n. 7077, Cass. 13 luglio 1996 n. 6359). Così, ad esempio, anche se la proprietà di un androne, di un cortile, di una colonna discendente di scarico dei servizi, appartiene a tutti i condomini, nessuno escluso, la spesa per la manutenzione ditali elementi, dovrà far carico solamente (o in misura maggiore) a coloro che utilizzano tali beni in via esclusiva (o maggiore), in relazione alle caratteristiche oggettive dei beni stessi. Tipico esempio è quello dell’androne che dà accesso ad un gruppo di appartamenti (la cui manutenzione è a carico dei soli condomini che vi hanno accesso), quello della colonna di scarico dei servizi (la cui manutenzione è a carico dei soli condomini ai quali la colonna serve), quello dell’ascensore (che deve essere riparato solamente dai condomini che sono proprietari di appartamenti serviti dall’impianto). Deve dirsi, comunque, che le regole sulla ripartizione delle spese tra i condomini sono generalmente contenute nel regolamento di condominio che, come abbia mo visto, deve specificatamente contenere le disposizioni che consentono la distribuzione proporzionale degli oneri tra i vari partecipanti alla comunione edilizia, nonché la definizione dei valori proporzionali delle singole proprietà attraverso le «ta belle millesimali». Il regolamento stesso (anche se «assembleare» approvato a maggioranza) definisce solitamente i criteri in base ai quali, nelle ipotesi di beni, impianti o servizi, destinati a servire i condomini in misura diversa, deve effettuarsi la ripartizione. Il regolamento, poi, nella maggior parte dei casi, contiene tabelle millesimali differenzia- te in base alle quali è stabilita la ripartizione delle spese in relazione ad alcune voci, in modo da rendere possibile una ripartizione che tenga conto delle differenti modalità di utilizzazione. Accanto, infatti, alla tabella generale dei millesimi di proprietà (che sarà applicata alle spese di carattere generale come quelle attinenti all’amministrazione, all’assicurazione ed alle riparazioni degli elementi strutturali comuni), di solito il regolamento contiene altre tabelle relative a spese particolari, come quelle attinenti al servizio di portierato, a quello del riscaldamento, alla manutenzione dell’ascensore e delle scale. Deve tenersi presente, infine, che il regolamento, nel disciplinare la misura dei contributi di ciascuno alle spese di condominio, non può dettare norme in contrasto con il principio secondo cui ciascun condomino è tenuto a concorrere proporzionalmente alle spese stesse, esonerando, ad esempio, qualcuno da qualsiasi partecipazione. Solamente un regolamento che abbia origine «contrattuale» (quando cioè, come abbiamo visto, il regolamento sia stato approvato da tutti o faccia parte integrante delle convenzioni stipulate all’atto dell’acquisto della proprietà) può modificare tale principio fondamentale, escludendo un condomino o un gruppo di condomini da tutte o da alcune contribuzioni, indipendentemente dalle caratteristiche oggettive di utilizzazione dei beni (Cass. 16 dicembre 1988 n. 6844). In particolare: A) Spese di portierato Le spese di portierato (come quelle per il custode dell’edificio) vanno divise, in linea di principio, tra tutti i condomini del fabbricato, secondo i millesimi della proprietà, in esse sono ricomprese quelle relative al salario, agli oneri previdenziali, agli straordinari, ai contributi assicurativi, agli accantonamenti per il trattamento di fine rapporto. Debbono comprendersi tra le spese attinenti al servizio anche quelle relative alla manutenzione ordinaria e straordinaria dei locali della portineria e dell’alloggio del portiere. Anche i proprietari dei locali che hanno accesso esclusivo dalla strada (e non dall’androne) debbono concorrere, secondo la giurisprudenza, a sostenere l’onere di tali spese (tranne che il contrario non risulti dal regolamento di condominio). Deve dirsi comunque che, secondo la stessa giurisprudenza, tale principio è valido in quanto il servizio di portierato sia espletato nell’interesse di tutti: quando invece risulti da circostanze certe ed oggettive, che il servizio stesso è svolto solamente (o prevalentemente) nell’interesse esclusivo dei proprietari degli appartamenti situati nell’edificio, le spese relative debbono essere sostenute solamente (o in misura maggiore) da coloro che ditale servizio usufruiscono. Ciò vuoi dire che i proprietari dei locali esterni al fabbricato (negozi, magazzini, autorimesse) saranno tenuti al pagamento delle spese di portierato quando il portiere svolga mansioni di custodia e vigilanza dell’intero edificio, ma non quando la situazione dei luoghi (ed in parti colare della guardiola) faccia escludere l’esistenza di qualsiasi utilità ricavabile dal servizio (Cass. 30 ottobre 1981 n. 5751, Cass. 18 febbraio 1986 n. 962, Cass. 21 agosto 2003 n. 12298). B) Spese del riscaldamento centralizzato Le spese di riscaldamento costituiscono senza dubbio un aspetto importante della vita di un condominio, sia per la loro rilevanza che per gli aspetti articolati che può assumere il servizio. In generale, quasi tutti i regolamenti di condominio con tengono specifiche norme che attribuiscono a ciascuna unità immobiliare la percentuale di ripartizione delle spese stesse (attraverso particolari tabelle millesimali) stabilendo quali spese debbano essere poste a carico dei fruitori dei servizio e quali in vece debbano essere poste a carico di tutti i condomini. In mancanza di un regolamento, o quando il regolamento nulla preveda in proposito, debbono essere applicate le regole generali sulla ripartizione. Per quanto attiene alle spese necessarie per il funzionamento dell’impianto, relative cioè alla fornitura dei combustibili, dell’energia elettrica e della manutenzione ordinaria degli impianti, non vi è dubbio che le stesse debbano far carico ai condomini che concretamente fruiscono del servizio, con esclusione di quelli che non sono collegati con i radiatori alla caldaia. La ripartizione tra tutti costoro deve avvenire secondo il criterio che rispetta il vantaggio che ciascuno può trarre dall’impianto. Le stesse quindi, in mancanza di specifiche norme del regolamento, non possono essere distribuite secondo il semplice criterio dei valori millesimali della proprietà: la giurisprudenza in proposito ha ritenuto validi il criterio della superficie irradiante (che è il più seguito) ed anche quello che considera la cubatura degli appartamenti unitamente, sempre, alla superficie dei radiatori. Tali spese debbono essere obbligatoriamente poste a carico di coloro che usufruiscono del servizio: nessuno può sottrarsi al loro pagamento in virtù di un distacco dall’impianto centralizzato, effettuato senza il consenso degli altri condomini (Cass. 4 agosto 1978 n. 3839, Cass. 26 gennaio 1995 n. 946) Secondo un orientamento più recente, oermai, la S. C. ammette che il condomino mentre non può sottrarsi all'obbligo del pagamento delle spese per la conservazione dell’impianto, può invece rinunciare all'uso dell'impianto, senza necessità di autorizzazione o approvazione da parte degli altri condomini, se prova che dalla sua rinunzia e dal distacco non derivano né un aggravio di spese per coloro che continuano a fruire del riscaldamento centralizzato, né uno squilibrio termico dell'intero edificio, pregiudizievole per la regolare erogazione del servizio. Soddisfatta tale condizione, egli è obbligato a Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 9 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pagare soltanto le spese di conservazione dell'impianto di riscaldamento centrale, mentre è esonerato dall'obbligo del pagamento delle spese per il suo uso (Cass. 12 novembre 1997 n. 11152, Cass. 25 marzo 2004 n. 5974, Cass. 29 marzo 2007 n. 7708). Il singolo condomino non è titolare di un diritto di natura contrattuale sinallagmatica nei confronti del condomino relativamente all'utilizzazione dei servizi comuni e, pertanto, non può sottrarsi dal contribuire alle spese di gestione del servizio di riscaldamento centralizzato in proporzione ai millesimi, allegando la mancata o insufficiente erogazione di quel servizio potendo ricorrere all'autorità giudiziaria nel caso di inerzia dell'amministrazione del condominio a norma dell'art. 1105 cod. civ., dettato in materia di comunione, ma applicabile anche al condominio degli edifici per il rinvio disposto dall'art. 1139 cod. civ. (Cass. 15 dicembre 1993 n. 12420, Cass. Sez. Un. 26 novembre 1996 n. 10492). Per quanto attiene, invece, alle spese per opere di manutenzione straordinaria o per gli adeguamenti dell’impianto alle norme di sicurezza, o per il rifacimento del lo stesso, la giurisprudenza ritiene che le stesse debbano essere ripartite secondo i millesimi di proprietà. Per quanto attiene a coloro che non usufruiscono del riscaldamento occorre distinguere se gli appartamenti (o i locali) sono potenzialmente in grado di utilizzalo (anche in prospettiva futura), secondo le caratteristiche obiettive dell’impianto. In caso positivo anche tali condomini (inclusi quelli che, originaria mente collegati, sono stati autorizzati al distacco) debbono concorrere alle spese straordinarie, mentre ne restano esclusi solamente coloro che non potranno mai essere collegati alla caldaia centralizzata (. (Cass. 16 febbraio 1977 n. 693). Pagamento delle spese condominiali Dire che al pagamento delle spese condominiali sono tenuti tutti (e solo) i con domini, proprietari di appartamenti dell’edificio, è cosa dj tutta evidenza. E’ necessario fornire però qualche precisazione. In tema di ripartizione delle spese condominiali, è passivamente legittimato, rispetto all'azione giudiziale per il recupero della quota di competenza, il vero proprietario della porzione immobiliare e non anche chi possa apparire tale — come uno dei coniugi che curi personalmente ed attivamente la gestione della proprietà dell'altro coniuge —, difettando, nei rapporti fra il condominio ed i singoli partecipanti ad esso le condizioni per l'operatività del principio dell'apparenza del diritto, strumentale essenzialmente ad esigenze di tutela dei terzi in buona fede (Cass. 27 giugno 1994 n. 6187; Cass. 19 aprile 2000 n. 5122; Cass. 3 aprile 2001 n. 4866; Cass. 8 luglio 1998 n. 6653). Nei rapporti interni fra i singoli condomini le spese comuni vanno ripartite tra di loro, ai sensi dell'art. 1123 cod. civ. ed in base alle norme del regolamento condominiale. Nei confronti dei terzi, secondo una giurisprudenza dell S.C. antecedente al 2005, i condomini sono responsabili solidalmente per le obbligazioni contratte dal condominio nel comune interesse, in base all'art. 1294 cod. civ. che sancisce il principio della solidarietà fra condebitori, se dalla legge o dal titolo non risulti diversamente. (Cass. 18 dicembre 1978 n. 6073; conf. Cass. 5 aprile 1982 n. 2085; Cass. 23 febbraio 1999 n. 1510; Cass.30 luglio 2004 n. 14593; Cass. 31 agosto 2005 n. 17563). Ciò voleva dire che il creditore del condominio può agire e pretendere l’intera somma anche nei confronti di un solo condomino che sarà tenuto al pagamento di tutto il credito, senza che possa essere opposta la possibilità di suddivisione con gli altri partecipanti. Chi in definitiva abbia dovuto pagare l’intero credito, potrà solo successivamente rivalersi nei con fronti degli altri, per le quote dovute da ciascuno. Tale principio, comunque è stato posto successivamente in dubbio da una decisione del 1996, secondo cui l'amministratore del condominio ha diritto di richiedere ai singoli condomini il rimborso delle somme da lui anticipate per la gestione condominiale solo nei limiti delle rispettive quote dovendosi ritenere applicabile anche nei rapporti esterni la disposizione dell'art. 1123 cod. civ., a norma della quale le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti comuni dell'edificio, per le prestazioni dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (Cass. 27 settembre 1996 n. 8530). Tale ultimo orientamento è stato poi confermato dalle Sezioni Unite, che ha composto il contrasto affermando che in riferimento alle obbligazioni assunte dall'amministratore, o comunque, nell'interesse del condominio, nei confronti di terzi - in difetto di un'espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, trattandosi di un'obbligazione avente ad oggetto una somma di denaro, e perciò divisibile, vincolando l'amministratore i singoli condomini nei limiti delle sue attribuzioni e del mandato conferitogli in ragione delle quote, in conformità con il difetto di struttura unitaria del condominio - la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie (Cass. Sez.Un. 8 aprile 2008 n. 9148). In secondo luogo va detto che, i comproprietari di un appartamento in edificio condominiale sono debitori solidali, verso il condominio, per il pagamento delle spese di cui all'art. 1123 cod. civ. Pertanto, l'amministratore del condominio può esigere da ciascuno di essi l'intero ammontare del debito, salvo il regresso del solvens nei confronti dei condebitori (Cass. 21 ottobre 1978 n. 4709). Quando un appartamento sia in usufrutto, il titolare del diritto risponderà nei confronti del condominio delle sole spese per il funzionamento degli impianti e per la manutenzione ordinaria, mentre sarà il nudo proprietario a dover corrispondere le somme relative ad opere di manutenzione straordinaria (art. 67, disp. att. c.c. e artt. 1004 e 1005, c.c.: (Cass. 27 ottobre 2006 n. 23291) In caso di vendita dell’appartamento, chi subentra nei diritti di un condomino, è tenuto, insieme a questi, al pagamento delle spese condominiali relative a tutto l’anno in corso e a tutto l’anno precedente (art. 63, disp. att. c.c.). Ciò vuoi dire che in caso di morosità del venditore, l’acquirente sarà tenuto a pagare anche le quote dovute da questi, salvo il diritto di richiederne al venditore stesso la restituzione, in relazione al periodo di godimento. In caso di morosità nel pagamento delle quote condominiali, l’amministratore è tenuto ad agire nei confronti del condomino e può ottenere dall’autorità giudiziaria decreto ingiuntivo, che, qualora il debito risulti da una delibera assembleare che abbia anche approvato la ripartizione delle spese, è provvisoriamente esecutivo (art. 63, disp. att. cc.). Tale norma è di notevole importanza perché consente all’amministratore di agire rapidamente per la riscossione dei contributi e perché fornisce un titolo per l’immediata iscrizione di ipoteca legale sull’appartamento del condomino moroso, evitando il pericolo di perdere la garanzia immobiliare del credito in caso di vendita successiva dell’unità immobiliare. Spese condominiali e conduttore Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 10 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Nel caso assai frequente in cui un appartamento (o un locale) sia stato concesso in locazione dal condomino proprietario a terzi, i rapporti tra locatore ed inquilino, in ordine alle spese di condominio, sono regolati dall’art. 9 della legge, n. 392/1978 (quella cosiddetta «sull’equo canone»). La legge n. 392 del 1978 (cosiddetta dell'equo canone: articolo 9) disciplina i rapporti tra locatore e conduttore, senza innovare in ordine alla normativa generale sul condominio degli edifici, sicché l'amministratore ha diritto ai sensi del combinato disposto degli artt. 1123 cod. civ. e 63 disp. att. stesso codice — di riscuotere i contributi e le spese per la manutenzione delle cose comuni ed i servizi nell'interesse comune direttamente ed esclusivamente da ciascun condomino, restando esclusa un'azione diretta nei confronti dei conduttori delle singole unità immobiliari (contro i quali può invece agire in risoluzione il locatore ex art. 5 della citata legge n. 392 del 1978, per il mancato rimborso degli oneri accessori), pure con riguardo alle spese del servizio comune di riscaldamento ancorché questi ultimi abbiano diritto di voto (articolo 10), in luogo del condòmino-locatore, nelle delibere assembleari riguardanti la relativa gestione (Cass. 14 luglio 1988 n. 4606; Cass. 3 febbraio 1994 n. 1104, Cass. 28 ottobre 1993 n. 10719; Cass. 12 gennaio 1994 n. 246). Anzitutto va detto che, in tale ipotesi, nessun rapporto giuridico esiste tra l’inquilino e il condominio per quanto attiene alle spese stesse. In altri termini le spese di condominio sono dovute dal proprietario e non dal conduttore all’amministrato re del condominio. La legge infatti dispone solamente che il locatore possa chiedere al conduttore la restituzione di alcune (e non di tutte) le somme versate per le spese condominiali e non è quindi legittimo che il condomino pretenda dal proprio inquilino il versamento diretto delle spese all’amministratore. A tal fine la disposizione (articolo 9) stabilisce che sono a carico del conduttore le spese relative al servizio di pulizia, al funzionamento ed all’ordinaria manutenzione dell’ascensore, alla fornitura dell’acqua, dell’energia elettrica, del riscaldamento e del condizionamento dell’aria, allo spurgo dei pozzi neri e delle latrine e, in genere, alla fornitura di altri servizi comuni. La stessa disposizione prevede che le spese per il servizio di portierato sono a carico del conduttore nella misura del 90%, rimanendo l’altro dieci per cento a carico del proprietario. L’obbligo del conduttore nei confronti del locatore è quindi assai più ristretto rispetto a quello del locatore stesso nei confronti del condominio. Non possono, in fatti, essere poste a carico del conduttore le spese per la manutenzione straordinaria dello stabile o dei suoi impianti, né quelle per l’amministrazione o per l’assicurazione del fabbricato. Il pagamento delle spese a carico del conduttore deve avvenire entro due mesi dalla richiesta che il locatore abbia fatto. Prima di effettuare il pagamento il conduttore ha diritto di ottenere dal locatore l’indicazione specifica delle spese, con la menzione dei criteri di ripartizione. Il conduttore, inoltre, se lo richiede, ha diritto di prendere visione dei documenti giustificativi delle spese effettuate. MANUTENZIONE E RICOSTRUZIONE DELLE SCALE Art. 1124. (Manutenzione e ricostruzione delle scale). — Le scale sono mantenute e ricostruite dai proprietari dei diversi piani a cui servono. La spesa relativa è ripartita tra essi, per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzioni di piano, e per l'altra metà in misura proporzionale all'altezza di ciascun piano dal suolo. Al fine del concorso nella metà della spesa, che è ripartita in ragione del valore, si considerano come piani le cantine, i palchi morti, le soffitte o camere a tetto e i lastrici solari, qualora non siano di proprietà comune. Secondo il disposto dell’art. 1124 c.c. le scale sono mantenute e ricostruite dai proprietari dei diversi piani a cui servono. La spesa relativa è ripartita tra essi per metà in ragione del valore dei singoli appartamenti e per metà in misura proporzionale all’altezza di ciascun piano dal suolo. Nel caso in cui in un edificio esistano più scale, la ripartizione, secondo il criterio indicato, va fatta a carico dei soli condomini a cui le scale servono. Fermo restando il diritto di proprietà, espresso in millesimi e proporzionale ai valori degli appartamenti, la legge ha voluto ribadire il principio che tiene conto anche dell’uso che si fa delle scale. Le spese per l’androne e per gli eventuali gradini di esso debbono essere ripartite tra tutti i condomini interessati, in proporzione al semplice valore degli apparta menti, senza altre distinzioni, perché questi beni comuni vengono usati indifferente mente da tutti. Secondo la disposizione, quindi, le spese relative alle scale vanno divise per metà. La prima metà va posta a carico di tutti gli utilizzatori, in proporzione ai valo ri (secondo la tabella millesimale della proprietà). La seconda metà va ripartita in proporzione all’altezza dell’appartamento, dividendola cioè per il numero dei piani dell’edificio e ponendo a carico di ciascun piano una quota pari alla somma delle quote corrispondenti ai piani sottostanti. Nel caso in cui in ciascun piano vi siano più appartamenti, la spesa relativa al piano stesso va ripartita ulteriormente secondo la proporzione dei millesimi di proprietà. Quando vi siano appartamenti al piano terreno i proprietari degli stessi dovranno essere chiamati a contribuire alle spese di manutenzione e ricostruzione del le scale, solamente se gli stessi abbiano accesso al lastrico solare attraverso le scale, per utilizzare una proprietà od un servizio comune (lavatoi, stenditoi). In questo ca so gli stessi saranno tenuti solamente alla quota relativa alla prima metà delle spese, divisa proporzionalmente secondo i millesimi di proprietà. Nel caso in cui i proprietari del piano terreno non abbiano alcuna possibilità di usare le scale, gli stessi debbono ritenersi esonerati da qualsiasi partecipazione alle spese. Va detto infine che, secondo il disposto dell’art. 1124 ultimo comma cc. (peraltro non molto chiaro), qualora in un edificio vi siano cantine, soffitte o lastrici solai di proprietà esclusiva di alcuni condomini, agli stessi deve imputarsi esclusiva mente (sulla base del valore delle singole proprietà) la quota relativa alla prima metà delle spese che debbono essere divise secondo i millesimi di proprietà, indipendentemente dalla loro altezza. Generalmente il regolamento di condominio contiene anche le tabelle per la ripartizione delle spese di manutenzione e di ricostruzione delle scale. Tali tabelle possono contenere anche criteri diversi da quelli sopra indicati, poiché in questo ca so la norma regolamentare può derogare alla disciplina legale del codice. SPESE PER L’ASCENSORE Il codice non detta alcuna disposizione particolare per quanto riguarda le spese che attengono all’impianto dell’ascensore. Anche in relazione a tale servizio il regolamento di condominio può contenere indicazioni circa la ripartizione delle spese e addirittura tabelle particolari che consentono di determinare agevolmente la misura della contribuzione di ciascuno. Qualora il regolamento non esista o nulla preveda in proposito, deve applicar si, in via analogica, il criterio di ripartizione delle spese di ricostruzione e di manutenzione che abbiamo visto a proposito delle scale. Tutte le spese relative a tale impianto, siano esse attinenti a consumi di energia, all’assicurazione, alla manutenzione ed alle riparazioni ordinarie o straordinarie, andranno pertanto divise per metà secondo le tabelle millesimali della proprietà, restando la seconda metà a carico dei condomini in proporzione all’altezza di ciascun piano. Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 11 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio La regola posta dall'art. 1124 cod. civ. relativa alla ripartizione delle spese di manutenzione e ricostruzione delle scale (per metà in ragione del valore dei singoli piani o porzione di piano, per l'altra metà in misura proporzionale alla altezza di ciascun piano dal suolo) è applicabile per analogia, ricorrendo l'identica "ratio", alle spese relative alla manutenzione e ricostruzione dell'ascensore già esistente. Nell'ipotesi, invece, d'installazione "ex novo" dell'impianto dell'ascensore (ma non delle opere di adeguamento alle norme di sicurezza) trova applicazione la disciplina dell'art. 1123 cod. civ. relativa alla ripartizione delle spese per le innovazioni deliberate dalla maggioranza (proporzionalità al valore della proprietà di ciascun condomino: Cass. 25 marzo 2004 n. 5975) MANUTENZIONE E RICOSTRUZIONE DEI SOFFITTI, DELLE VOLTE E DEI SOLAI Art. 1125. (Manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai). — Le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani l'uno all'altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l'intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto. Secondo il disposto dell’art. 1125 c.c. le spese per la manutenzione e ricostruzione delle volte, dei soffitti e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore, in via esclusiva, la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto. Nella nozione di volte, soffitte e solai deve ricomprendersi ogni opera o manufatto che serve a dividere le due proprietà in senso orizzontale. La presunzione, di carattere assoluto, di comunione del solaio divisorio tra un piano e quello sottostante di un edificio tra i proprietari dei due piani vale per tutte le strutture che hanno una funzione di sostegno e di copertura, contribuendo esse a formare il solaio (Cass. 19 febbraio 1969 n. 505) Rimangono escluse dalla nozione le altre opere che non facciano parte integrante della divisione, come ad esempio il controsoffitto o la cosiddetta «camera a canne» che sono di proprietà esclusiva del condomino del piano inferiore, tenuto in via esclusiva alla loro riparazione e manutenzione. Il solaio che separa il piano sottostante da quello sovrastante di un edificio appartenenti a diversi proprietari deve ritenersi, salvo prova del contrario, di proprietà comune dei proprietari dei due piani costituendo l'inscindibile struttura divisoria tra le due proprietà con utilità ed uso uguale e inseparabile per le medesime e correlativa inutilità per gli altri condomini (Cass. 23 marzo 1991 n. 3178). La sostituzione del solaio esistente fra due piani sovrapposti di un edificio deve realizzarsi, trattandosi di bene in comproprietà, senza menomazioni del godimento di entrambi i proprietari sulla cosa o sulla proprietà esclusiva di ciascuno di essi, senza che rilevi il vantaggio che ne sia derivato alle proprietà (Cass. 23 marzo 1995 n. 3386). Secondo la giurisprudenza, la piattaforma dei balconi, in quanto costituisce un prolungamento del solaio, deve essere riparata, ricostruita e mantenuta, secondo le regole relative alla ripartizione delle spese per i solai. In applicazione di tale principio, ove un balcone (o una terrazza a livello) costituisca copertura di un balcone sottostante, le spese relative alla manutenzione degli elementi strutturali (ivi compresa l’eventuale guaina impermeabilizzante) sono a carico esclusivo dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando onere del proprietario del piano superiore quanto necessario alla pavimentazione e del proprietario del piano inferiore la spesa per la tinteggiatura della parte rivolta verso la sua proprietà (Cass. 14 luglio 1983 n. 4821, Cass. 16 gennaio 1987 n. 283). LASTRICI SOLARI DI USO ESCLUSIVO Art. 1126. (Lastrici solari di uso esclusivo). — Quando l'uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l'uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno. Quando esistono terrazze di proprietà comune, praticabili o non praticabili, ma comunque destinate per funzione a copertura o per destinazione all’uso di tutti i condomini, non vi è dubbio che ogni spesa relativa alle riparazioni od alla ricostruzione debba essere ripartita tra tutti i condomini in relazione al valore della proprietà, secondo le tabelle millesimali. In merito alla ripartizione ditali spese deve comunque osservarsi che quando il lastrico solare abbia una sola funzione di copertura (non essendo destinato ad essere praticato e goduto dai condomini indistintamente), le stesse vanno suddivise secondo il criterio di cui al secondo ed al terzo comma dell’art. 1123 c.c. (Cass. 15 luglio 2003 n. 11029). Di conseguenza dovrà tenersi conto dell’utilità che ne deriva ai condomini stessi, nel senso che qualora un terrazzo da riparare svolga funzioni di copertura solamente in relazione ad una parte dell’edificio, alle relative spese dovranno contribuire solamente i condomini le cui proprietà individuali sono poste in posizione sottostante alla copertura stessa, con esclusione degli altri. Pertanto, non solo bisogna separare i condomini che hanno l'uso esclusivo del lastrico e della terrazza, per porre a loro carico un terzo dell'onere della ricostruzione o riparazione, ma, nell'ambito dei rimanenti condomini, va fatta un'ulteriore distinzione fra coloro che hanno e coloro che non hanno appartamenti nella zona dell'edificio coperta dal lastrico o dalla terrazza (Cass. 29 gennaio 1974 n. 244, Cass. 4 giugno 2001 n. 7472). Ciò non esclude l'accertamento, in sede di rivalsa, della responsabilità del costruttore o del proprietario esclusivo della terrazza per vizi di costruzione o per negligente omissione di opere di manutenzione (Cass. 15 febbraio 1969 n. 533). L’art. 1126 c.c. prevede infine il caso in cui un lastrico solare avente funzione di copertura dell’edificio (o di parte di esso), sia adibito all’uso esclusivo di un solo condomino (intesa come mera potenzialità o facoltà dell'uso che può essere di natura reale o personale: Cass. 9 agosto 1999 n. 8532). E questo il caso delle cosiddette «terrazze a livello» che, in genere, sono di proprietà del condomino proprietario dell’appartamento di cui costituiscono una estensione. In questa ipotesi la norma prevede che le spese di riparazione o ricostruzione siano a carico del singolo condomino (proprietario o utilizzatore in via esclusi va) per un terzo, mentre gli altri due terzi sono posti a carico di tutti gli altri condomini o di tutti gli altri proprietari degli appartamenti sottostanti che fruiscono della copertura (Cass. 18 agosto 1990 n. 8394, Cass. 16 settembre 1991 n. 9629, Cass. ss.uu. 29 aprile 1997 n. 3672, Cass. 11 settembre 1998 n. 9009; conf. Cass. 13 marzo 2007 n. 5848). Di conseguenza, anche i danni cagionati dalla mancata manutenzione del lastrico o del manto impermeabile che protegge l'ultimo piano dell'edificio non possono essere messi interamente a carico del proprietario o usuario del lastrico stesso, ma debbono essere risarciti col concorso del condominio nella proporzione prevista dalla citata norma (Cass. 14 febbraio 1987 n. 1618, Cass. 17 maggio 1994 n. 4816, Cass. 7 dicembre 1995 n. 12606). Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 12 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Il criterio di ripartizione fissato dall'art. 1126 cod. civ., riguarda non solo le spese per il rifacimento o la manutenzione della copertura, e cioè del manto impermeabilizzato, ma altresì quelle relative agli interventi che si rendono necessari in via conseguenziale e strumentale, sì da doversi considerare come spese accessorie come quelle per il rifacimento della pavimentazione nonché per il trasporto e la discarica dei detriti (Cass. 19 ottobre 1992 n. 11449), mentre sono a carico esclusivo del proprietario di questa le spese per il rifacimento dei parapetti o di altri simili ripari, in quanto esse servono non già alla copertura, ma alla praticabilità della terrazza (Cass. 1| dicembre 2000 n. 15389). Tale regola va seguita, secondo la giurisprudenza, anche nell’ipotesi in cui il terrazzo non sia adibito all’uso di alcuno (perché impraticabile), ma sia di proprietà esclusiva di un solo condomino o di un terzo. Anche in questo caso (che si verifica generalmente quando il costruttore si riservi la proprietà del lastrico solare) la divisione delle spese di riparazione e di ricostruzione deve avvenire in ragione della pro porzione di un terzo (a carico del proprietario esclusivo) e di due terzi (a carico de gli altri condomini sottostanti: Cass. 24 luglio 2000 n. 9651). Assai particolare (ma non infrequente) è il caso in cui il terrazzo a livello (o un cortile o un viale di accesso) di proprietà esclusiva di un condomino (o di un condominio) funga da copertura di un solo locale sottostante.. In questo caso la soluzione più attendibile è quella che vede una ripartizione al 50% delle spese di riparazione del terrazzo, con addebito al solo condomino soprastante, delle spese per la mattonatura del pavimento (applicando per analogia cioè la regola di cui all’articolo 1125, sulla ripartizione prevista per i solai: (Cass. 14 settembre 2005 n.18194). Ai lastrici solari ad uso esclusivo, agli effetti dell'applicazione dell'art. 1126 c.c., vanno equiparati anche i tetti di proprietà esclusiva (Cass. 9 giugno 1961 n. 1338). Allorquando il tetto di un edificio in condominio è di proprietà esclusiva di uno dei partecipanti alla comunione, le spese di manutenzione del tetto stesso vanno ripartite tra tutti i condomini con i criteri di cui all'art. 1126 cod. civ., come stabilito per i lastrici solari di uso esclusivo, salvo il caso in cui le dette spese siano poste a carico del proprietario esclusivo del tetto in base a una specifica ed espressa pattuizione, non potendosi altrimenti presumere che quest'ultimo per il solo fatto di essersi riservata la proprietà esclusiva, abbia inteso assicurare la copertura ai proprietari delle unità immobiliari sottostanti, con esonero dei medesimi da ogni concorso nelle spese di manutenzione del tetto (Cass. 30 gennaio 1985 n. 532 COSTRUZIONE SOPRA L’ULTIMO PIANO Art. 1127. (Costruzione sopra l'ultimo piano dell'edificio). — Il proprietario dell'ultimo piano dell'edificio può elevare nuovi piani o nuove fabbriche, salvo che risulti altrimenti dal titolo. La stessa facoltà spetta a chi è proprietario esclusivo del lastrico solare. La sopraelevazione non è ammessa se le condizioni statiche dell'edificio non la consentono. I condomini possono altresì opporsi alla sopraelevazione, se questa pregiudica l'aspetto architettonico dell'edificio ovvero diminuisce notevolmente l'aria o la luce dei piani sottostanti. Chi fa la sopraelevazione deve corrispondere agli altri condomini un'indennità pari al valore attuale dell'area da occuparsi dalla nuova fabbrica, diviso per il numero dei piani, ivi compreso quello da edificare, e detratto l'importo della quota a lui spettante. Egli è inoltre tenuto a ricostruire il lastrico solare di cui tutti o parte dei condomini avevano diritto di usare. Secondo il disposto dell’art. 1127 cc. il proprietario dell’ultimo piano può, a sue spese, elevare nuovi piani dei quali diventa proprietario. Tale diritto è di natura reale ed è assimilabile al diritto di superficie (Cass. 20 giugno 1983 n. 4220). Tale diritto spetta al proprietario dell'ultimo piano di un edificio in condominio che può elevare nuovi piani o fabbriche anche nel caso in cui sopra il suo appartamento sussistano manufatti di proprietà comune (come il tetto od il sottotetto non praticabile), che possono essere spostati al termine della sopraelevazione. Ma, qualora la soffitta (o il sottotetto) di un edificio in condominio sia di proprietà esclusiva di uno solo dei condomini, essa dev'essere considerata, ai fini della sopraelevazione, come ultimo piano, onde, ai sensi dell'art. 1127 cod. civ., il diritto di sopraelevare l'edificio spetta solo al proprietario di essa (Cass. 28 novembre 1978 n. 5608). Il diritto di sopraelevazione, spettante al proprietario dell'ultimo piano di un edificio ed al proprietario esclusivo del lastrico solare, ai sensi dell'art. 1127, 1 o comma c.c., può formare oggetto di autonomo trasferimento a favore di terzi, con la conseguenza che il proprietario dell'ultimo piano o del lastrico solare possono conservare la loro proprietà e vendere il diritto di sopraelevazione, ovvero riservarsi tale diritto e vendere la proprietà del piano o del lastrico (Cass. 20 maggio 1971 n. 1633). Agli effetti dell'art. 1127 cod. civ., la sopraelevazione è costituita dalla realizzazione di nuove opere o nuove fabbriche che superino l'originaria altezza dell'edificio. Pertanto essa non è configurabile nel caso di modificazioni soltanto interne contenute negli originari limiti del fabbricato (Cass. 20 luglio 1999 n. 7764) salvo che non si tratti di trasformazione dei locali preesistenti mediante l'incremento delle superfici e delle volumetrie indipendentemente dall'aumento dell'altezza del fabbricato. (Cass. Sez. Un. 30 luglio 2007 n. 16794). Il condòmino che esercita il diritto di sopraelevazione deve tenersi entro l'area delimitata dai muri perimetrali e non può, nella sopraedificazione, costruire opere a sbalzo (Cass. 12 ottobre 1971 n. 2873), né spingere il corpo sopraelevato oltre la linea della facciata sottostante, occupando lo spazio soprastante un cortile comune (Cass. 26 febbraio 1976 n. 624). L’indennità, prevista dalla norma, in favore degli altri condomini, trae fondamento dall'aumento proporzionale del diritto di comproprietà sulle parti comuni conseguente all'incremento della porzione di proprietà esclusiva e, in applicazione del principio di proporzionalità, si determina sulla base del maggior valore dell'area occupata ai sensi dell'art. 1127 quarto comma cod. civ. (Cass. Sez. Un. 30 luglio 2007, n. 16794) essendo irrilevante a quest'ultimo fine l'eventuale edificazione in assenza di concessione edilizia (Cass. 21 maggio 2003 n. 7956). Gli altri condomini, in via generale e salvo i casi particolari previsti dalla stessa norma, non possono opporsi alla sopraelevazione. Gli stessi hanno solamente diritto di essere compensati della diminuzione del valore delle loro proprietà individuali, in relazione alla utilizzazione del suolo su cui sorge l’edificio il cui valore viene ad essere frazionato tra un numero maggiore di piani. La norma infatti prevede che il condomino che esegue la sopraelevazione debba corrispondere agli altri (in proporzione del valore delle singole proprietà) una indennità pari al valore dell’area occupata dalla nuova costruzione, diviso per il nume ro dei piani, inseriti al livello del preesistente lastrico solare. Nel caso in cui i condomini avevano accesso al terrazzo di copertura attraverso una scala comune, dovrà anche essere costruito il prolungamento della scala stessa, che diventerà di proprietà condominiale. Il diritto di sopraelevazione può essere escluso, in via assoluta, a chiunque, in relazione alle condizioni statiche dell’edificio che non lo consentano. Secondo la giurisprudenza, in tal caso, il proprietario dell’ultimo piano, per rendere possibile la costruzione non può, senza il consenso degli altri condomini, eseguire a sue spese eventuali opere di consolidamento. I condomini dell’edifico, infine, potranno opporsi alla sopraelevazione, impedendo la sua realizzazione, quando la stessa pregiudichi il decoro architettonico dell’edificio ovvero quando la stessa venga a diminuire notevolmente l’aria o la luce dei piani sottostanti. In tema di Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 13 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio sopraelevazione dell'ultimo piano o del lastrico solare degli edifici costituiti in condominio, il pregiudizio all'aspetto architettonico, che ai sensi del terzo comma dell'art. 1127 c.c. consente l'opposizione dei condomini, consiste in un'incidenza di particolare rilievo della nuova opera sullo stile architettonico dell'edificio, che - essendo immediatamente apprezzabile ictu oculi ad un'osservazione operata in condizioni obiettive e soggettive di normalità da parte di persone di media preparazione - si traduce in una diminuzione del pregio estetico e quindi economico del fabbricato (Cass. 12 settembre 2003 n. 13426). Il giudizio relativo all'impatto della sopraelevazione sull'aspetto architettonico dell'edificio va condotto, ai sensi dell'art. 1127, comma terzo, cod. civ., esclusivamente in base alle caratteristiche stilistiche visivamente percepibili dell'immobile condominiale, inteso come struttura dotata di un aspetto autonomo, al fine di verificare se la nuova opera si armonizzi con dette caratteristiche ovvero se ne discosti in maniera apprezzabile (Cass. 7 febbraio 2008 n. 2865). L'indennità di sopraelevazione di cui all'art. 1127, quarto comma, cod. civ., che costituisce un debito di valore (soggetto alla rivalutazione monetaria: Cass. 5 dicembre 1987 n. 9032), ha come elemento base il valore dell'area su cui insiste l'edificio o la parte di esso che viene sopraelevata, e va determinata dividendo il relativo importo per il numero dei piani - compreso quello o quelli di nuova costruzione - poi diminuendo il quoziente così ottenuto della quota spettante al condomino che ha eseguito la sopraelevazione (quota da calcolarsi in relazione al piano o parte di piano o più piani di proprietà di detto condomino prima della sopraelevazione) ed infine ripartendo il risultato residuo tra i proprietari degli altri piani preesistenti, mentre è errato dividere quest'ultima somma tra tutti i condomini (Cass. 21 agosto 2003 n. 12292). L'amministratore è legittimato, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea dei condomini, ad instaurare il giudizio per la demolizione della sopraelevazione dell'ultimo piano dell'edificio, costruita dal condomino in violazione delle prescrizioni e delle cautele fissate dalle norme speciali antisismiche, ovvero alterando l'estetica della facciata dell'edificio, perché tale atto, diretto a conservare l'esistenza delle parti comuni condominiali, rientra negli atti conservativi dei diritti, che, ai sensi dell'art. 1130, n. 4, cod. civ. è attribuito all'amministratore (Cass. 12 ottobre 2000 n. 13611), ma il singolo partecipante è abilitato ad agire contro il proprietario dell'ultimo piano che abbia eseguito una sopraelevazione, tanto che l'azione tenda alla rimozione di opere illegittimamente compiùte, quanto che la stessa sia semplicemente rivolta ad ottenere la corresponsione della quota dell'indennità prevista dall'art. 1127 quarto comma cod. civ. (Cass. 15 marzo 1976 n. 939). PERIMENTO TOTALE O PARZIALE DELL’EDIFICIO Art. 1128. (Perimento totale o parziale dell'edificio). — Se l'edificio perisce interamente o per una parte che rappresenti i tre quarti del suo valore, ciascuno dei condomini può richiedere la vendita all'asta del suolo e dei materiali, salvo che sia stato diversamente convenuto. Nel caso di perimento di una parte minore, l'assemblea dei condomini delibera circa la ricostruzione delle parti comuni dell'edificio, e ciascuno è tenuto a concorrervi in proporzione dei suoi diritti sulle parti stesse. L'indennità corrisposta per l'assicurazione relativa alle parti comuni è destinata alla ricostruzione di queste. Il condomino che non intende partecipare alla ricostruzione dell'edificio è tenuto a cedere agli altri condomini i suoi diritti, anche sulle parti di sua esclusiva proprietà, secondo la stima che ne sarà fatta, salvo che non preferisca cedere i diritti stessi ad alcuni soltanto dei condomini. L’art. 1128 cc. prevede, infine, l’ipotesi della ricostruzione dell’edificio, quan do lo stesso sia in tutto o in parte «perito». Secondo la giurisprudenza per perimento dell’edificio deve intendersi il materiale venir meno del bene, determinato da fatti o eventi accidentali che non dipendono dalla volontà dei condomini per cui è escluso che possa applicarsi l’art. 1128 c.c. nell’ipotesi di demolizione decisa dal condominio a scopo di ricostruire. Tuttavia, in quest’ultimo caso, può egualmente parlarsi di perimento quando la demolizione sia stata decisa per evitare crolli conseguenti alla vetustà dell’edificio. Nel caso di rovina dell’immobile che sia totale o interessante una parte equiva lente ai tre quarti del valore, ciascuno dei condomini può richiedere la vendita all’asta del suolo e dei materiali, il cui ricavato sarà diviso tra i condomini stessi in relazione al valore delle singole proprietà. Il che vuol dire che, nel caso di perimento totale (o in caso di perimento di tre quarti dell’edificio), il condominio non può deliberare la ricostruzione se non con l’adesione unanime di tutti i partecipanti e che l’iniziativa di un solo condomino conduce inevitabilmente alla vendita del suolo e dei materiali. Nel caso in cui il perimento riguardi una parte minore dei tre quarti dell’edifi cio la norma prevede che l’assemblea possa deliberare la ricostruzione delle parti comuni, con il conseguente obbligo per tutti i partecipanti di concorrere alla spesa in proporzione dei diritti che ciascuno ha sulle parti stesse, detratte le eventuali indennità corrisposte per l’assicurazione delle parti comuni che debbono obbligato rian2ente essere reimpiegate nella ricostruzione stessa. Ciò vuoi dire che per la ricostruzione dell’edificio parzialmente distrutto è necessaria una deliberazione del condominio, adottata con le maggioranze previste dall’art. 1136 c.c. Trattandosi di opere di manutenzione straordinaria di rilevante entità sarà necessaria una adesione che rappresenti (oltre alla maggioranza degli intervenuti all’assemblea) la metà del valore dell’edificio. La deliberazione di ricostruzione non può che riguardare le parti comuni dell’edificio (scale, muri maestri e perimetrali, impianti comuni eccetera), restando in facoltà di ciascun condomino procedere o meno alla ricostruzione od al restauro della propria unità immobiliare. La spesa per la ricostruzione delle parti comuni sarà divisa tra i condomini in ragione dei millesimi di proprietà; quelle attinenti ai singoli appartamenti saranno invece a carico di ciascun proprietario. La norma prevede, infine, che il condomino dissenziente possa sottrarsi dal partecipare alla ricostruzione. In tal caso chi non intende partecipare è tenuto a ce dere agli altri condomini i suoi diritti sulla proprietà comune ed individuale, dietro pagamento del valore secondo stima. La cessione dei diritti può avvenire anche in favore di alcuni soltanto dei condomini. Il perimento, totale o per una parte che rappresenti i tre quarti dell'edificio condominiale, determina l'estinzione del condominio per mancanza dell'oggetto, in quanto viene meno il rapporto di servizio tra le parti comuni mentre permane tra gli ex condomini soltanto una comunione "pro indiviso" dell'area di risulta, potendo la condominialità essere ripristinata solo in caso di ricostruzione dell'edificio in modo del tutto conforme al precedente (Cass. 20 maggio 2008 n. 12775).. in caso di mancata ricostruzione dell'immobile (nell'ipotesi, non consentita dalla disciplina urbanistica) e di mancata vendita all'asta del suolo e dei materiali (non richiesta, nella specie, da nessuno dei comproprietari), può porsi fine alla predetta comunione con lo scioglimento della stessa, che, in caso d'indivisibilità del suolo, deve essere effettuato a norma degli artt. 1116 e 720 cod. civ., attribuendo preferibilmente il bene per intero al titolare della quota maggiore (o ai titolari della quota maggiore, ove questi ne richiedano Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 14 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio congiuntamente l'attribuzione), con addebito dell'eccedenza, corrispondendosi, cioè, agli altri condomini la somma equivalente al valore della loro quota (Cass. 19 gennaio 1994 n. 446). NOMINA E REVOCA DELL’AMMINISTRATORE Art. 1129. (Nomina e revoca dell'amministratore). — Quando i condomini sono più di quattro, l'assemblea nomina un amministratore. Se l'assemblea non provvede, la nomina è fatta dall'autorità giudiziaria, su ricorso di uno o più condomini. L'amministratore dura in carica un anno e può essere revocato in ogni tempo dall'assemblea. Può altresì essere revocato dall'autorità giudiziaria, su ricorso di ciascun condomino, oltre che nel caso previsto dall'ultimo comma dell'articolo 1131, se per due anni non ha reso il conto della sua gestione, ovvero se vi sono fondati sospetti di gravi irregolarità. La nomina e la cessazione per qualunque causa dell'amministratore dall'ufficio sono annotate in apposito registro. Amministrazione del condominio Nella moderna realtà esistono numerosi esempi di gruppi di persone che gestiscono interessi comuni. Si pensi ad esempio alle società ed alle associazioni. In tutti questi casi debbono necessariamente esistere le regole (dettate dalla legge o formate per accordo degli interessati) che consentano a tali organismi la espressione di una volontà comune e la gestione degli interessi in gioco. Nell’ambito del condominio degli edifici la legge prevede che l’amministrazione dei beni che fanno parte della comunione edilizia sia affidata all’assemblea dei condomini che, sulla base del principio maggioritario, costruisce ed esprime la volontà del complesso in relazione agli interessi comuni. Accanto a tale organismo, le cui funzioni sono prevalentemente deliberative, la legge prevede anche la figura dell’amministratore, cui sono demandati compiti di carattere amministrativo ed esecutivo ed a cui fanno capo anche poteri rappresentativi che permettono al condominio di agire in modo unitario, nei rapporti con i terzi. L’amministratore del condominio, eletto dalla maggioranza dei condomini, può essere considerato come un mandatario degli stessi, destinato a rappresentare tutti i partecipanti, nell’ambito delle sue specifiche attribuzioni, ed a condurre la ge stione dei beni e dei servizi comuni, in via ordinaria, di propria iniziativa, nell’interesse di tutti con la conseguente applicabilità, nei rapporti tra amministratore ed ognuno dei condomini, delle disposizioni sul mandato. (Cass. 12 febbraio 1997 n. 1286, Cass. 16 agosto 2000 n. 10815). Nomina, revoca e durata dell’incarico dell’amministratore Nei condomini che hanno più di quattro partecipanti (indipendentemente dal numero e dal valore degli appartamenti) è obbligatoria la nomina di un amministratore. Ciò vuol dire che nell’ambito di tali comunioni edilizie, ciascun partecipante, ove non esista un amministratore (o nel caso in cui un condominio venga ad avere più di quattro partecipanti), può attivarsi per provocare la nomina dell’amministra tore stesso, convocando direttamente gli altri in assemblea (art. 1129 c.c. e art. 66 disp. att. c.c.). La nomina deve necessariamente avvenire con un consenso che rappresenti la maggioranza di tutti i condomjni. Non basta cioè che l’assemblea si raduni e che un certo numero di condomini, che siano la maggioranza degli intervenuti, voti in favo re di una persona; perché la nomina sia valida occorre che la deliberazione riporti, comunque, oltre al voto favorevole della maggioranza degli intervenuti, anche ade sioni che, calcolate sul valore delle quote rappresentate dai votanti, siano almeno pari alla metà del valore dell’edificio. Poiché l’incarico è fiduciario, con la stessa maggioranza l’assemblea dei condomini può in qualsiasi momento, anche prima del la scadenza del mandato, revocare l’amministratore stesso, per qualunque motivo, sostituendolo con un altro (art. 1136 cc.), In tema di condominio negli edifici, l'art. 1136 quarto comma cod. civ., sulle maggioranze necessarie al fine della nomina dello amministratore, trova applicazione tanto nel caso di prima nomina', quanto in quello di conferma' dopo la scadenza del mandato annuale, mentre resta irrilevante, in tale seconda ipotesi, la circostanza che l'amministratore medesimo abbia a lungo continuato ad esercitare le sue funzioni, per inerzia dei condomini nel sollecitare detta deliberazione, stante la non configurabilità di un rinnovo dell'incarico in forma tacita (Cass. 5 gennaio 1980 n. 71) salvo che essa possa risultare, indipendentemente da una formale investitura da parte dell'assemblea e dall'annotazione nello speciale registro di cui all'art. 1129 cod. civ., dal comportamento concludente dei condomini che abbiano considerato l'amministratore tale a tutti gli effetti, pur in assenza di una regolare nomina assembleare, rivolgendosi abitualmente a lui in detta veste, senza metterne in discussione i poteri di gestione e di rappresentanza del condominio (Cass. 10 aprile 1996 n. 3296). L'amministratore del condominio che, cessato dalla carica per scadenza del termine previsto dall'art. 1129 cod. civ., continui ad esercitare i suoi poteri ad interim, sino a che venga sostituito da altro amministratore nominato dall'assemblea, ha diritto, per il periodo di interinato, ad essere compensato secondo i criteri stabiliti per il periodo precedente (Cass. 14 giugno 1976 n. 2214). Tale provvedimento di nomina dell'amministratore adottato dal Presidente del Tribunale, a norma dell'art. 1129 primo comma del codice civile, sul presupposto che il condominio ne sia sprovvisto, costituisce attività di carattere non giurisdizionale ma amministrativo, non essendo diretta a risolvere un conflitto di interessi ma solo ad assicurare al condominio l'esistenza dell'organo necessario per l'espletamento delle incombenze ad esso demandate dalla legge. Esso non è soggetto a reclamo innanzi alla Corte d'appello. (Cass. 13 novembre 1996 n. 9942). L'incarico di amministratore del condominio può essere conferito, oltre che a una persona fisica, anche a una persona giuridica - nella specie, una società di capitali - tenuto conto che la persona giuridica non soffre di limitazioni di capacità, se non nei casi tassativamente previsti dalla legge, e che essa è in grado di offrire, quanto all'adempimento della relativa obbligazione ed all'imputazione della conseguente responsabilità, un grado di affidabilità pari a quello della persona fisica (Cass. 24 ottobre 2006 n. 22840, Cass. 23 gennaio 2007 n. 1406) L’amministratore, se l’assemblea non ha disposto diversamente, dura in carica per un anno, al termine del quale deve essere riconfermato. Anche per la conferma dell’amministratore «uscente» è necessaria la stessa maggioranza prevista per la no mina. Comunque, nel caso in cui l’assemblea non abbia provveduto alla nomina di altra persona, l’amministratore «scaduto» per termine del mandato, mantiene i pro pri poteri, sino alla effettiva sostituzione. L'istituto della prorogatio imperi" - che trova fondamento nella presunzione di conformità alla volontà dei condomini e nell'interesse del condominio alla continuità dell'amministratore - è applicabile in ogni caso in cui il condominio rimanga privato dell'opera dell'amministratore, e pertanto non solo nei casi di scadenza del termine di cui all'art. 1129, secondo comma, cod. civ., o di dimissioni, ma anche nei casi di revoca o di annullamento per illegittimità della relativa delibera di nomina (Cass. 27 marzo 2003 n. 4531, Cass. 23 gennaio 2007 n. 1405). La legge, inoltre, prevede un sistema che serve ad assicurare comunque l’esistenza di un amministratore. Quando infatti l’assemblea non abbia provveduto alla nomina, l’art. 1129 c.c. dispone che la nomina stessa è fatta dall’autorità giudiziaria, su semplice ricorso di uno o più condomini. In questo caso gli interessati dovranno presentare un ricorso al tribunale del luogo ove si trova l’immobile, allegando la copia Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 15 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio del verbale di assemblea dalla quale risulti che la stessa non ha provveduto autonomamente. Il tribunale decide con decreto, in camera di consiglio, al termine di una procedura semplice e rapida, non soggetto a ricorso per Cassazione (dopo l’esito del reclamo alla Corte di Appello) in quanto provvedimento di volontaria giurisdizione, inidoneo alla formazione del giudicato e non destinato ad incidere su posizioni di diritto soggettivo perché modificabile e revocabile in ogni tempo anche con efficacia ex tunc. (Cass. 21 febbraio 2001 n. 2517). L’amministratore nominato dal tribunale, ha gli stessi poteri di quello nominato dall’assemblea e dura in carica sino a quando l’as semblea stessa non riesca a nominarne uno di sua scelta. La retribuzione dell’amministratore è stabilita dall’assemblea dei condomini (art. 1135, n. 1, c.c.), ed il compenso stesso è dovuto anche quando l’amministratore rimanga nelle sue funzioni, oltre il termine del mandato, per non essere stato sosti tuito da altri. Con riguardo ai rapporti fra amministratore e condominio, che sono regolati dalle norme del mandato, la presunzione di onerosità del mandato stesso prevista dall'art. 1709 cod. civ. va considerata in correlazione con il disposto dell'art. 1135 n. 1 cod. civ. che prevede come « eventuale » la retribuzione dell'amministratore, inteso nel senso che l'assemblea può espressamente determinarsi per la gratuità dell'incarico (Cass. 16 aprile 1987 n. 3774). Revoca dell’amministratore La revoca dell'amministratore di un condominio, che può avvenire in qualsiasi tempo, non richiede la sussistenza di una giusta causa, in considerazione della natura fiduciaria del rapporto fra amministratore e condominio (Cass. 28 ottobre 1991 n. 11472). L’art. 1129 c.c. oltre alla revoca da parte dell’assemblea (che deve decidere a maggioranza assoluta), prevede che l’amministratore possa essere revocato dall’autorità giudiziaria su istanza anche di un solo condomino. La legge, infatti, stabilisce che il tribunale può revocare l’amministratore nominato dall’assemblea quando questo non abbia presentato il rendiconto per due anni consecutivi, quando abbia omesso di comunicare all’assemblea la notificazione di citazioni o di atti dell’autorità amministrativa (che abbiano un contenuto esorbitante dalle attribuzioni), oppure quando vi siano «sospetti» di gravi irregolarità. Per quanto attiene ai primi due motivi, deve dirsi che la revoca (che è possibile, ma non automatica) potrà essere disposta quando le omissioni non risultino giustificate ed abbiano provocato (o siano idonee a provocare) gravi danni al condominio. Per quanto attiene alle irregolarità, la revoca è legata ad una valutazione discrezionale del tribunale che dovrà tenere conto soprattutto della eventuale impossibilità che un condominio sia amministrato da persona incapace o infedele. Motivi di revoca sono certamente gravi inadempienze ai doveri da parte dell’amministratore (che non dia ad esempio esecuzione ai deliberati dell’assemblea o non curi gli inte ressi del condominio in relazione alla manutenzione ed alla tutela delle parti comuni). Ma possono giustificare la revoca anche semplici (ma fondati) «sospetti» rispetto ai quali non è possibile un compiuto accertamento nell’ambito della sommaria procedura prevista. E evidente che, in questo caso, il tribunale dovrà basarsi principalmente su quanto dedotto dalla parte istante, alla luce delle difese e delle giustificazioni dell’amministratore, procedendo alla revoca allorquando risulti una situazione che, sia pur non chiaramente evidenziata, faccia ritenere la esistenza di un comportamento infedele. La revoca dell’amministratore può essere chiesta da ciascun condomino con ri corso sottoscritto e presentato personalmente al tribunale. Il tribunale deciderà in camera di consiglio, con procedura abbreviata, dopo aver sentito le difese dell’amministratore. Tale disposizione è finalizzata alla tutela di una minoranza di condomini nei confronti di abusi commessi da un amministratore che non possa essere revocato dall’assemblea perché sostenuto da una maggioranza di condomini (che possono essere favorevoli ad una gestione condotta in favore di loro interessi particolari). Dopo molti contrasti e decisioni difformi la S.C.: a sezioni unite ha stabilito che la revoca dell’amministratore è pur sempre un provvedimento di volontaria giurisdizione (sostitutivo della volontà assembleare, per l'esigenza di assicurare una rapida ed efficace tutela dell'interesse alla corretta gestione dell'amministrazione condominiale), che, pur incidendo sul rapporto di mandato tra condomini ed amministratore, non ha carattere decisorio, non precludendo la richiesta di tutela giurisdizionale piena, in un ordinario giudizio contenzioso, del diritto su cui il provvedimento incide; tutela che, per l'amministratore eventualmente revocato, non potrà essere in forma specifica, ma soltanto risarcitoria o per equivalente (non esistendo un diritto dell'amministratore alla stabilità dell'incarico, attesa la revocabilità in ogni tempo, in base all'art. 1129, secondo comma, cod. civ.: Cass. Sez. Un. 29 ottobre 2004 n. 20957). ATTRIBUZIONI DELL’AMMINISTRATORE Art. 1130. (Attribuzioni dell'amministratore). — L'amministratore deve: 1) eseguire le deliberazioni dell'assemblea dei condomini e curare l'osservanza del regolamento di condominio; 2) disciplinare l'uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell'interesse comune, in modo che ne sia assicurato il miglior godimento a tutti i condomini; 3) riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell'edificio e per l'esercizio dei servizi comuni; 4) compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio. Egli, alla fine di ciascun anno, deve rendere il conto della sua gestione. Attribuzioni dell’amministratore L’art. 1130 c.c. elenca le «attribuzioni» dell’amministratore. Si tratta di una elencazione di compiti che vanno intesi nel senso di veri e propri «poteri-doveri». L’amministratore, infatti, nell’ambito dell’elencazione, ha «poteri» di iniziativa pro pri ed autonomi ed al tempo stesso ha il «dovere» di eseguire i compiti affidatigli. Si ammette che alcuni di tali doveri possano essere limitati nel senso che l'assemblea — e soltanto essa — può esonerare l'amministrazione soltanto da talune di quelle funzioni (Cass. 3 agosto 1966 n. 2155). Anche il regolamento condominiale (approvato per contratto o anche in virtù di deliberazione assembleare) può legittimamente sottrarre all'amministratore il potere di decidere autonomamente in ordine al compimento di eventuali atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, per conferirlo esclusivamente all'assemblea, subordinando alla deliberazione di questa l'esercizio da parte dell'amministratore della relativa azione giudiziaria, attesa la derogabilità da parte del regolamento condominiale, in favore dell'assemblea, della norma di cui all'art. 1130 cod. civ. sulle attribuzioni dell'amministratore, che ha carattere suppletivo e non imperativo (Cass. 8 settembre 1997 n. 8719). L'amministratore di un condominio, da qualificarsi come mandatario, ben può, in difetto di contraria manifestazione nell'atto di nomina, delegare le proprie funzioni ad un terzo, se del caso anche con attribuzione di rappresentanza processuale, sempre che questa sia conferita unitamente alla rappresentanza sostanziale (Cass. 22 luglio 1999 n. 7888). Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 16 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Interessante è notare come l’esplicazione delle attribuzioni dell’amministratore deve avvenire nell’interesse di tutti i condomini, nessuno escluso, e che nello svolgi mento dei compiti l’autonomia dell’amministratore è completa, nel senso che la sua azione non può essere condizionata dall’interesse di alcuni condomini rispetto a quello degli altri. Ciò vuol dire che l’opera dell’amministratore può e «deve» svolger si anche a tutela della posizione di quei condomini che, rispetto agli altri, si trovino in una situazione di minoranza. In altri termini non può, ad esempio, l’amministratore omettere di agire in giudizio contro i condomini morosi, violando il suo dovere, an che quando la maggioranza richieda una tale omissione. Nello stesso tempo non può l’amministratore disciplinare l’uso delle cose comuni, avvantaggiando alcuni condomini (anche in maggioranza) rispetto ad altri, né consentire che alcuno violi in modo permanente il regolamento di condominio in danno di altri, anche se la violazione sia commessa da un gruppo di condomini che sia in posizione di maggioranza. Qualora vi sia contrasto sull’esercizio dei poteri dell’amministratore, l’ultima parola in merito spetta all’assemblea, che è l’organismo che sovraintende all’opera di amministrazione. E interessante notare infatti che se l’amministratore, nell’ambito dei suoi poteri, può prendere «provvedimenti» in relazione all’uso ed alla tutela del le cose comuni ed al funzionamento dei servizi (disciplinando ad esempio gli orari del riscaldamento, dell’apertura del portone, o vietando l’uso dell’ascensore per de terminate attività), ciascun condomino può impugnare il provvedimento stesso portando la questione all’esame dell’assemblea che dovrà decidere definitivamente (art. 1133 c.c.). Secondo il disposto della legge, l’amministratore «deve» a) eseguire le deliberazioni dell’assemblea e curare l’osservanza del regolamento di condominio. In questo campo le funzioni dell’amministratore sono di carattere esecutivo. Le deliberazioni dell’assemblea debbono essere poste in esecuzione al pari delle disposizioni del regolamento di condominio. Perciò l’amministratore dovrà dar corso alla volontà del condominio, stipulando contratti, ordinando materiali, conferendo incarichi professionali a terzi eccetera. Allo stesso tempo l’amministratore dovrà assicurare che sia realizzata la volontà del condominio che si esprime attraverso il regolamento, curando che lo stesso sia rispettato da parte di tutti anche con diffide e lettere di richiamo. In base agli artt. 1130 e 1131 cod. civ. la legittimazione processuale attiva dell'amministratore di un condominio è delimitata dai poteri sostanziali spettantigli per legge o ampliati, nell'ambito della realizzazione dell'interesse comune, dal regolamento condominiale o da valida delibera dell'assemblea. Pertanto le delibere che l'amministratore, ai sensi dell'art. 1130 n. 1 cod. civ., è legittimato ad eseguire, agendo a tal fine anche in giudizio, sono soltanto quelle che rientrano nei poteri deliberativi dell'assemblea e perciò non incidono sui diritti esclusivi dei singoli condomini (Cass. 14 gennaio 1997 n. 278). L'amministratore del condominio è legittimato a far valere in giudizio, a norma degli artt. 1130 e 1131 cod. civ., le norme del regolamento condominiale, anche se si tratta di clausole che disciplinano l'uso delle parti del fabbricato di proprietà individuale, purché siano rivolte a tutelare l'interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all'abitabilità dell'intero edificio :scuola di ballo, albergo, modifica della facciata ecc. (Cass. 6 agosto 1999 n. 8426, Cass. 29 aprile 2005 n. 8883) senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare (Cass. 26 giugno 2006 n. 14735,. b) Disciplinare l’uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell’interesse comune, in modo che ne sia assicurato il migliore godimento a tutti i condomini L’amministratore può, in assenza di particolari disposizioni del regolamento o dell’assemblea, regolamentare l’uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi, disponendo ad esempio l’orario del riscaldamento, le norme sull’uso dell’ascensore, dei terrazzi, dei lavatoi, dei giardini e degli spazi destinati alla sosta dei veicoli. In ta le attività, comunque, dovrà usare la massima accortezza nel senso che ogni disciplina deve essere giustificata da specifiche ragioni di interesse comune e non ritorcersi senza particolari motivi in danno di uno o più condomini. Vietare l’uso dell’ascensore per determinate attività o l’uso di un terrazzo per un temporaneo deposito di mo bili, può essere fatto solo in presenza di una situazione obiettiva che faccia prevede re un danno a carico dei beni comuni. Ogni disposizione che senza apprezzabili mo tivi venga a limitare l’uso dei beni in danno dei condomini o di alcuno di essi, può essere fonte di responsabilità a carico dell’amministratore e del condominio stesso. e) Riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la manutenzione ordinaria delle parti comuni dell’edificio e per l’esercizio dei servizi comuni La disposizione attribuisce all’amministratore una vastissima competenza per quanto attiene a tutti gli aspetti della gestione ordinaria del condominio. L’amministratore quindi dovrà curare che i beni siano mantenuti e riparati con le opere necessarie alla loro conservazione. Dovrà altresì curare che i servizi siano funzionanti. Nell’uno e nell’altro caso potrà spendere le somme necessarie, anche senza una specifica deliberazione dell’assemblea. Infatti, la erogazione delle spese di manutenzione ordinaria e quelle relative ai servizi comuni essenziali non richiede la preventiva approvazione dell'assemblea dei condomini, in quanto trattasi di esborsi (contributi, utenze, premi assicurativi, spese per il riscaldamento ecc.) dovuti a scadenze fisse e ai quali l'amministratore provvede in base ai suoi poteri e non come esecutore delle delibere dell'assemblea. L'approvazione di dette spese è, invece, richiesta in sede di consuntivo, giacché solo con questo si accertano le spese e si approva lo stato di ripartizione definitivo che legittima lo amministratore ad agire contro i condomini morosi per il recupero delle quote poste a suo carico (Cass. 18 agosto 1986 n. 5068, Cass. ss.uu. 17 giugno 1988 n. 4126). L’amministratore comunque, se può stipulare contratti necessari per provvedere, nei limiti della spesa approvata dall'assemblea, tanto all'ordinaria manutenzione, quanto alla prestazione dei servizi comuni (Cass. Cass. 17 marzo 1993 n. 3159) non potrà, senza autorizzazione, contrarre mutui per il condominio (Cass. 5 marzo 1990 n. 1734) né stipulare polizze di assicurazione del fabbricato perché ciò non ha gli scopi conservativi ai quali si riferisce la suddetta norma (Cass. 3 aprile 2007 n. 8233) né la sua legittimazione comprende la domanda di risarcimento dei danni conseguenti al deprezzamento delle parti comuni, dell'immobile che, non essendo diretta alla conservazione dell'immobile, resta nella esclusiva disponibilità dei singoli condomini (Cass. 16 aprile 1992 n. 4679). L’amministratore è anche l’esattore del condominio. Allo stesso modo in cui può disporre le spese, egli deve curare la riscossione delle somme necessarie per la manutenzione ordinaria e per il funzionamento dei servizi, anche se l’assemblea non abbia approvato i bilanci preventivi. Nello stesso senso, ove si verifichi una morosità da parte di qualcuno, potrà, anche senza una espressa autorizzazione dell’assemblea, agire in giudizio per il pagamento poiché la fonte di tale potere discende dall'approvazione assembleare del piano di ripartizione (Cass. 9 dicembre 2005 n. 27292). L'amministratore di condominio, nell'esercizio dell'attività di riscossione dei contributi dovuti da ciascun condomino per l'utilizzazione delle cose comuni, agisce in rappresentanza degli altri condomini, così che le controversie che insorgano in ordine a tale riscossione integrano gli estremi della « lite tra condomini » soggetta, quanto alla competenza per territorio, ai criteri di cui all'art. 23 cod. proc. civ. (cognizione del giudice del luogo in cui è sito l'immobile condominiale: Cass. 20 agosto 2002 n. 12274). La riscossione dei contributi condominiali in base ad una deliberazione dell'assemblea di approvazione del relativo stato di ripartizione rientra tra le attribuzioni dell'amministratore (artt. 1130 e 1131 cod. civ.) il quale per ottenerne il pagamento può avvalersi del decreto ingiuntivo nell'interesse comune senza necessità di una preventiva autorizzazione dell'assemblea, e ciò indipendentemente dal fatto che la deliberazione dell'assemblea del condominio, di approvazione dello stato di ripartizione dei contributi, sia stata o meno impugnata nei modi di legge (Cass. 4 giugno 1991 n. 6326), ed a fortiori può impugnare la sentenza che sia stata emessa nel giudizio nel quale abbia rivestito la qualità di parte Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 17 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio (Cass. 5 gennaio 2000 n. 29). L'amministratore condominiale può chiedere l'emissione del decreto ingiuntivo per i contributi dovuti dai condomini anche in base alle « ricevute » di pagamento mensili, ma in questo caso non può ottenere la clausola di immediata esecutività ex art. 63 cod. civ. disp. att. e trans. per la quale è necessaria l'allegazione dello stato di ripartizione della spesa approvata dall'assemblea (Cass. 29 marzo 2001 n. 4638). In questo campo, come già è stato accennato, la legge offre all’amministratore la possibilità di ottenere coattivamente e rapidamente i relativi pagamenti. Quando infatti l’assemblea abbia approvato i bilanci consuntivi e preventivi della gestione insieme alla ripartizione tra i condomini, l’amministratore potrà chiedere al Presidente del tribunale un decreto ingiuntivo munito della particolare efficacia della «provvisoria esecuzione» (art. 63 disp. att. c.c.), a carico dei condomini che non abbiano provveduto al versamento delle rispettive quote. E interessante rilevare che la «provvisoria esecutorietà» dell’ingiunzione consente, tra l’altro, l’immediata iscrizione di un’ipoteca sull’immobile del condomino moroso, il che pone al riparo il con- dominio da qualsiasi sorpresa in relazione .a possibili atti di alienazione del bene di proprietà individuale. d) Compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio Conservare i diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio, significa esercitare ogni attività diretta a conservarne l’integrità contro molestie o attacchi da qualunque parti provengano. La disposizione si riferisce indubbiamente ad attività di carattere giuridico ed abilita l’amministratore ad agire di propria iniziativa, senza alcuna necessità di un mandato da parte dell’assemblea, sia contro terzi che contro gli stessi condomini che attentino all’integrità dei diritti sulle cose comuni. In questo senso l’amministratore potrà promuovere azioni possessorie contro chi occupi abusivamente i beni comuni (Cass. 15 maggio 2002 n. 7063), potrà esperire azioni di carattere cautelare (denuncia di nuova opera e danno temuto) nei confronti di situazioni che rappresentino un peri colo per la comunione edilizia. Potrà anche esperire le azioni ordinarie per ottenere il rispetto della proprietà e di altri diritti reali che il condominio vanti nei confronti di altre proprietà esclusive (Cass. 8 marzo 2003 n. 3522). In tema di condominio degli edifici, l'azione contro il condomino, diretta a conseguire la rimozione di un'opera da questi eseguita che sia lesiva del godimento e del possesso degli altri condomini sulla cosa comune o comunque pregiudizievole della destinazione o dell'estetica della stessa, può essere esperita dall'amministratore del condominio, senza necessità di autorizzazioni assembleari, atteso che essa integra un atto conservativo (dello stato di fatto o) dei diritti inerenti alle cose oggetto di comproprietà, come tale rientrante nei limiti delle attribuzioni dell'amministratore previste dall'art. 1130 n. 4 cod. civ. e che, ai sensi del successivo art. 1138, non risultano derogabili neppure in sede di regolamento di condominio (Cass. 11 novembre 1986 n. 6593, Cass. 30 dicembre 1997 n. 13102). Le azioni reali nei confronti dei terzi a difesa dei diritti dei condomini sulle parti comuni di un edificio tendono a statuizioni relative alla titolarità ed al contenuto dei diritti medesimi e pertanto, esulando dall'ambito degli atti meramente conservativi, non possono essere proposte dall'amministratore del condominio, come quando i condomini di un edificio chiedano l'accertamento della contitolarità del diritto reale d'uso (Cass. 24 novembre 2005 n.24764). Rendiconto della gestione Secondo l’ultimo comma dell’art. 1130 c.c. l’amministratore, alla fine di ciascun anno, deve rendere conto della sua gestione. L’obbligo del rendiconto è uno dei più importanti doveri che gravano sull’amministratore, poiché determina la definizione dei rapporti di dare ed avere tra l’amministratore stesso e i condomini: l’omissione del rendiconto è considerata dalla leg ge come causa di revoca giudiziaria dell’amministratore che si sia reso inadempiente per due anni. Rendere il conto significa giustificare l’impiego delle somme versate dai con domini o comunque riscosse, mediante la dimostrazione delle spese effettivamente sostenute, attraverso idonea documentazione. Il che vuoi dire che l’amministratore dovrà redigere un bilancio con l’elencazione delle somme in entrata e con l’indicazione delle spese sostenute e porre a disposizione dei condomini le cosiddette «pezze» giustificative. Non è necessario che il bilancio sia redatto in forme rigorosamente contabili, lo stesso deve essere comunque sufficientemente chiaro ed intellegibile (Cass. 29 aprile 1981 n. 2625; conf. Cass. 7 ottobre 1982 n. 5150; Cass. 25 maggio 1984 n. 3231; Cass. 23 gennaio 2007 n. 1405, Cass. 7 luglio 2000 n. 9099). In tema di modalità di redazione del rendiconto da parte dell'amministrazione del condominio, deve escludersi che la mancata, analitica indicazione dei nominativi dei condomini morosi nel pagamento delle quote condominiali e degli importi da ciascuno di essi dovuti incida sulla validità della delibera di approvazione del medesimo, non comportando siffatta omissione neppure una irregolarità formale di detta delibera, sempre che le poste attive e passive risultino correttamente iscritte nel loro importo (Cass. 28 gennaio 2004 n. 1544). Per quanto riguarda la idoneità della documentazione di spesa, va detto che in generale la stessa deve offrire la prova del pagamento di modo che il condominio non possa rimanere esposto a pretese di terzi che pretendano l’adempimento della medesima obbligazione. Sulla regolarità fiscale deve dirsi che, se la stessa non è richiesta nei rapporti interni, tra il condominio e l’amministratore, l’amministratore stesso è responsabile di eventuali violazioni delle leggi che impongono la richiesta della ricevuta ai lavoratori autonomi e che ai fini delle imposte che gravano sulla proprietà (INVIM, IRPEF, ILOR) i condomini possono avere uno specifico interesse che le spese stesse siano documentate regolarmente (ai fini di una eventuale detraibilità), per cui è buona norma che di ogni pagamento esista la prova dell’assolvimento di ogni formalità attraverso la fattura o la ricevuta fiscale. Il bilancio dell’amministratore dovrà essere portato all’esame dell’assemblea, poiché la sua approvazione costituisce uno degli specifici compiti di tale organismo. Se il rendiconto è approvato, la partita tra amministratore e condominio, per quanto attiene ai rapporti relativi, è definitivamente chiusa. Dal bilancio e dalla sua approvazione, risulterà se l’amministratore è creditore o debitore del condominio: nel pri mo caso potrà procedere alla riscossione delle somme che gli sono ancora dovute, nel secondo caso sarà l’assemblea a decidere quale destinazione dovrà essere data al residuo attivo della gestione. Può darsi che l’assemblea non approvi il rendiconto dell’amministratore. In questo caso l’amministratore stesso dovrà presentarne un altro che tenga conto dei motivi che hanno portato alla mancata approvazione. In caso di insanabile contrasto sorgerà tra le parti una controversia che dovrà essere decisa giudizialmente davanti all’autorità competente. RAPPRESENTANZA Art. 1131. (Rappresentanza). — Nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'articolo precedente o dei maggiori poteri conferitigli dal regolamento di condominio o dall'assemblea, l'amministratore ha la rappresentanza dei partecipanti e può agire in giudizio sia contro i condomini sia contro i terzi. Può essere convenuto in giudizio per qualunque azione concernente le parti comuni dell'edificio; a lui sono notificati i provvedimenti dell'autorità amministrativa che si riferiscono allo stesso oggetto. Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 18 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Qualora la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbita dalle attribuzioni dell'amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all'assemblea dei condomini. Rappresentanza legale del condominio Secondo il disposto dell’art. 1131 c.c., nell’ambito delle sue attribuzioni, l’amministratore ha la rappresentanza legale dei condomini. Ciò vuol dire che qualunque attività dell’amministratore, quando la medesima sia compresa tra quelle per le quali la legge gli attribuisce il relativo «potere-dovere», deve intendersi svolta in nome e per conto di tutti i partecipanti. Il potere di rappresentanza dell'amministratore di condominio, derivando da disposizione di legge inderogabile (art. 1131 cod. civ.), non può subire limitazioni né per deliberazione dell'assemblea né per volontà dell'amministratore medesimo (Le norme del regolamento non possono derogare alle disposizioni dell’articolo 131:articolo 1138 ultimo comma c.c.: Cass. 13 giugno 1991 n. 6697, Cass. 8 agosto 1989 n. 3646). I contratti conclusi dall’amministratore, per intenderci, ove siano diretti alla manutenzione ordinaria dei beni comuni o a riparazioni straordinarie di carattere urgente od al funzionamento dei servizi condominiali (assunzione del portiere, manutenzione dell’ascensore, fornitura di energia, gas ed acqua, contratti di appalto per le riparazioni), oltre ad essere vincolanti per il condominio, debbono intendersi stipulati da tutti i condomini rappresentati unitariamente (Cass. 17 marzo 1993 n. 3159). Secondo un primo (condivisibile) orientamento della Cassazione, i terzi, nei confronti dei quali l’amministratore ha assunto obbligazioni nell’interesse del condominio, possono rivolgersi, in caso di inadempimento, anche nei confronti dei singoli condomini esigendo da tutti o solo da alcuni il pagamento delle proprie spettanze. Secondo tale giurisprudenza, infatti, chi ha ottenuto un titolo esecutivo (sentenza di condanna o decreto ingiuntivo) nei confronti del condominio, può agire esecutivamente per l’intera somma, contro un qualsiasi condomino che non potrà opporre la circostanza che il debito è di tutti con la conseguenza che il condomino che abbia pagato un debito condominiale, oltre il limite della sua quota di proprietà, potrà pretendere nei confronti degli altri le quote da ciascuno dovute, secondo i rapporti interni dei valori delle proprietà (Cass. 14 dicembre 1982 n. 6866, Cass. 17 aprile 1993 n. 4558, Cass. 30 luglio 2004, n. 14593; Cass., 31 agosto 2005, n. 17563). L’opposto indirizzo, anche se minoritario (Cass. 27 settembre 1996, n. 8530), è stato alla fine avvalorato dalle Sezioni Unite della S.C. che, nel comporre il contrasto, ha stabilito che la responsabilità dei condomini è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell'interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ. per le obbligazioni ereditarie (Cass. Sez.Un. 8 aprile 2008 n. 9148). Rappresentanza processuale dell’amministratore: liti attive Sempre entro il limite delle stesse attribuzioni, all’amministratore spetta inoltre un potere di rappresentanza processuale del condominio, che si articola differentemente a seconda della circostanza che il condominio stesso sia attore o convenuto nel processo (Cass. 3 novembre 1979 n. 5698, Cass. 3 dicembre 1999 n. 13504, Cass. 15 dicembre 1999 n. 14088). Quando il condominio agisce, chiedendo in giudizio la condanna di un terzo (o di un condomino) in proprio favore, se la domanda è diretta a realizzare un diritto tra quelli affidati alla cura dell’amministratore, costui può agire di sua iniziativa (comprese le eventuali impugnazioni) senza che sia necessario che l’assemblea gli conferisca i relativi poteri. Abbiamo già visto l’ipotesi delle azioni possessorie o cautelari dirette alla conservazione dei diritti del condominio (Cass. 27 luglio 1983 n. 5160, Cass. 6 novembre 1986 n. 6494, Cass. 8 marzo 2003 n. 3522, Cass. 21 maggio 2003 n. 7958), ivi compreso il decoro architettonico (Cass. 18 dicembre 1986 n. 7677) e l’azione di garanzia ex articolo 1669 c.c. contro il costruttore (Cass. 21 marzo 2000 n. 3304). Oltre a quella può citarsi l’esempio di azione diretta ad ottenere il pagamento delle quote condominiali da parte dei morosi (Cass. 11 novembre 1992 n. 12125, Cass. 15 marzo 1994 n. 2452, Cass. 9 dicembre 2005 n. 27292), o quella diretta ad obbligare gli stessi condomini, od uno di essi, all’osservanza del regolamento di condominio (Cass. 21 maggio 1979 n. 2915, Cass. 6 agosto 1999 n. 8486, Cass. 29 aprile 2005 n. 8883). In tutti questi casi l’amministratore ha una rappresentanza processuale automatica e diretta che gli deriva dalla legge e che gli consente di nominare un legale e sottoscrivere ogni citazione o ricorso che si rendessero necessari (Cass. 15 maggio 1998 n. 4900). Tale potere perdura anche nel caso di cessazione dalla carica, fino alla sostituzione (Cass. 10 febbraio 1987 n. 1416, . Cass. 18 agosto 2005 n. 16983, Cass. 16 luglio 2002 n. 10274). Qualora il condominio si sia costituito in giudizio in virtù di mandato conferito anche per il giudizio di appello, il mutamento in corso di causa della persona dell'amministratore che aveva rilasciato la procura alle liti non incide sul rapporto processuale, che è in ogni caso riferito, sia dal lato passivo sia da quello attivo, al condominio, quale ente di gestione che opera in rappresentanza e nell'interesse dei condomini (Cass. 20 aprile 2006 n. 9282). Ciò vuol anche dire che, nel caso in cui la controversia ecceda i limiti delle attribuzioni dell’amministratore, lo stesso amministratore può agire in giudizio solamente se l’assemblea abbia deliberato di promuovere la lite. Ciò si verifica ad esempio quando il condominio agisca nei confronti di un terzo (o di un condomino) per il risarcimento di danni arrecati alle cose comuni (Cass. 16 aprile 1992 n. 4679) o, in genere, per tutte le azioni di carattere reale (rivendicazione della proprietà, rispetto delle distanze legali, riconoscimento di servitù, eccetera (Cass. 24 aprile 1993 n. 4856, Cass. 19 ottobre 1994 n. 8531; Cass. 28 novembre 1996 n. 10615, Cass. 29 agosto 1997 n. 8246, Cass. 26 gennaio 2005 n. 1553) sempre a vantaggio delle cose comuni. A tale proposito occorre dire che, ove vi sia necessità dell’autorizzazione dell’assemblea, questa può essere data validamente solo nel caso in cui la deliberazione riporti un numero di voti che rappresentino la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio e che comunque il conferimento del potere di stare in giudizio in una controversia non rientrante tra quelle di cui al primo comma dell'art. 1131 cod. civ. può sopravvenire utilmente, con effetto sanante, dopo la proposizione dell'azione (Cass. 13 dicembre 2006 n. 26689). Non può in nessun caso, invece, l’amministratore, neanche in seguito ad una deliberazione dell’assemblea, far valere in giudizio diritti che attengono alle singole proprietà individuali (ad esempio, il risarcimento di un danno subito da una singola unità immobiliare); perché possa esservi un valida rappresentanza processuale dell’amministratore, in tali controversie, è necessario che ciascun interessato conferisca all’amministratore uno specifico e singolo mandato particolare (Cass. 29 agosto 1997 n. 8246 Cass. 3 aprile 2003 n. 5147,). L'assemblea dei condomini può deliberare, con le prescritte maggioranze, solo sulle questioni che riguardino le parti comuni dell'edificio o il condominio nel suo complesso, ovvero sulle liti attive o passive che esorbitano dalle attribuzioni ordinarie dell'amministratore, e non anche in tema di diritti esclusivi dei singoli condomini, che restano sempre nell'esclusiva disponibilità dei rispettivi titolari. Pertanto, poiché per la sussistenza della rappresentanza processuale occorre il conferimento di un mandato espresso rivestito della forma scritta, ove in un verbale di assemblea condominiale si conferisca all'amministratore l'espresso specifico mandato di stare in giudizio in nome e per conto di alcuni o di tutti i condomini per far valere nel loro rispettivo interesse una pretesa assegnata alla loro sfera giuridica dalle fattispecie negoziali di acquisto, il detto verbale in tanto può essere idoneo a conferire all'amministratore il potere di rappresentanza convenzionale nel processo di singoli condomini, solo in quanto esso sia stato sottoscritto individualmente da ciascun mandante (Cass. 3 agosto 1984 n. 4623, Cass. 26 aprile 2005 n. 8570). Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 19 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Rappresentanza processuale dell’amministratore: liti passive Per quanto attiene invece alle controversie che vedono il condominio in veste di convenuto (quando cioè un terzo o un condomino chiedano la condanna del con dominio), la rappresentanza dell’amministratore è completa e totale. Ciò vuoi dire che qualunque citazione o ricorso con cui si facciano valere diritti nei confronti del condominio nel suo complesso, può essere notificata all’amministratore che, in ogni caso, è abilitato a costituirsi in giudizio e a resistere alla domanda anche senza autorizzazione dell’assemblea, anche in ordine alle azioni reali (Cass. 9 dicembre 2009 n. 25766 contra 26 novembre 2004 n. 22294). La notifica di un atto indirizzato al condominio, qualora non avvenga nelle mani dell'amministratore, può essere validamente fatta nello stabile condominiale soltanto qualora in esso si trovino locali destinati allo svolgimento ed alla gestione delle cose e dei servizi comuni (come ad esempio la portineria), idonei, come tali, a configurare un "ufficio" dell'amministratore, dovendo, in mancanza, essere eseguita presso il domicilio privato di quest'ultimo (Cass. 16 maggio 2007 n. 11303). La disposizione (anch’essa contenuta nell’art. 1131, cc.) mira a facilitare i rapporti tra i terzi ed il condominio: poiché questo è privo di personalità giuridica, chi intende ottenere il riconoscimento di un diritto che assume essere stato violato da un condominio, dovrebbe, nella maggior parte dei casi, citare in giudizio tutti i condomini, nessuno escluso. La norma invece consente di agire solamente nei confronti dell’amministratore che, in veste di convenuto, ha la rappresentanza di tutti i partecipanti. Quando un condominio sia privo di amministratore è addirittura previsto che chi intende agire in giudizio, possa chiedere all’autorità giudiziaria la nomina di un «curatore» speciale (art. 65. disp. att. c.c. e art. 80, c.p.c.) che diviene quindi abilitato a ricevere la citazione. Tale rappresentanza, per così dire «passiva», è valida ed operante per qualunque tipo di controversia, nessuna esclusa. Così l’amministratore potrà essere citato quando un terzo (o un condomino) rivendichi la proprietà esclusiva di un bene che sia usato dal condominio (Cass. 29 maggio 1976 n. 1950, Cass. 23 gennaio 1995 n. 735), quando un terzo (o un condomino) chieda il risarcimento del danno che sia stato provocato da un elemento dell’edificio di proprietà comune (Cass. 7 maggio 1981 n. 2998, Cass. 21 dicembre 2006 n. 27447), quando un terzo (o un condomino) chieda il riconoscimento di una servitù a carico di una parte comune del fabbricato, o viceversa (Cass. 11 febbraio 1980 n. 954, Cass. 26 febbraio 1996 n. 1485, Cass. 21 gennaio 2004 n. 919, Cass. 4 maggio 2005 n. 9206). Spetta infine all'amministratore del condominio in via esclusiva la legittimazione passiva a resistere nei giudizi promossi dai condomini per l'annullamento delle delibere assembleari, con la conseguenza che in tali casi egli non necessita di alcuna autorizzazione dell'assemblea per proporre le impugnazioni nel caso di soccombenza del condominio (Cass. 20 aprile 2005 n.8286, Cass. 4 maggio 2005 n. 9213) mentre l’acquiescenza di questi alla sentenza esclude la possibilità d'impugnazione proposta dal singolo condomino (Cass. 12 marzo 1994 n. 2393). Potrà anche, nei limiti della proprie attribuzioni o se autorizzato dall’assemblea, proporre domande riconvenzionali o chiamare un causa un terzo in garanzia (Cass. 20 ottobre 1969 n. 3432, Cass. 14 novembre 1976 n. 4132, Cass. 11 gennaio 1979 n. 203) ovvero proporre impugnazioni contro le sentenze che abbiano deciso una questione per cui era abilitato, anche per delibera assembleare, alla difesa (Cass. 15 marzo 2001 n. 3773). L’amministratore, inoltre, secondo la medesima norma, ha la rappresentanza del condominio anche ai fini delle notificazioni dei provvedimenti amministrativi che riguardano l’edificio (ordini di demolizione di parti comuni, decreti di occupazione o di espropriazione, diffide a provvedere ad adeguamenti degli impianti, diffide a verificare ie condizioni statiche, ecc.). Una volta ricevuta la citazione in giudizio (o la notificazione del provvedimento dell’autorità amministrativa) l’amministratore, qualora oggetto del contendere (o del provvedimento) sia un diritto attinente a materie rientranti tra le sue attribuzioni, potrà gestire la lite (o la situazione amministrativa) senza bisogno di autorizzazioni dell’assemblea. Così ad esempio potrà costituirsi in giudizio e difendere il condominio contro la pretesa di un condomino che abbia impugnato una deliberazione di riparto delle spese. Ma se la citazione o il provvedimento abbia un contenuto che esorbiti le attribuzioni dell’amministratore, questi è tenuto a darne senza indugio notizia all’assemblea dei condomini. In questo caso sarà l’assemblea a decidere la condotta da tenere, autorizzando l’amministratore a resistere in giudizio o deliberando invece di fare acquiescenza alle domande o alle ingiunzioni. Il dovere di informare l’assemblea è di grande importanza e rilevanza e mira ad evitare che il condominio possa trovarsi alla fine di fronte ad un provvedimento (giudiziale od amministrativo) formatosi all’insaputa dell’assemblea. Per tale motivo, se l’amministratore è negligente in relazione a tale do vere, la legge prevede che l’omissione possa portare alla revoca giudiziale dell’amministratore stesso e ad un condanna al risarcimento del danno in favore del condominio. La disposizione che impone all’amministratore l’obbligo della comunicazione all’assemblea, attiene però esclusivamente ai rapporti interni con il condominio e non incide sulla validità della costituzione del rapporto processuale tra l’istante ed il condominio stesso. Anche se l’amministratore non abbia comunicato nulla all’assemblea (nei casi in cui esiste tale obbligo), tale circostanza non impedisce all’amministratore stesso di costituirsi in giudizio e di resistere alla domanda, salva la sua responsabilità per l’inadempimento, nei confronti del condominio, poiché, la stessa inosservanza dell'obbligo di informare i condomini dell'esistenza di un procedimento contro il condominio (art. 1131, terzo comma, cod. civ.) ha rilevanza puramente interna e non incide sui poteri di rappresentanza processuale dell'amministratore (Cass. 3 novembre 1979 n. 5698, Cass. 5 aprile 1982 n. 2091, Cass. 22 febbraio 1983 n. 1337, Cass. 9 febbraio 1995 n. 1460). D’altro canto l’omissione della comunicazione, nel caso in cui l’amministratore non si costituisca, non impedisce al giudice investito della controversia di pronunciare eventualmente una condanna a carico del condominio. Posizione del singolo condomino in ordine alle liti Secondo la giurisprudenza, la circostanza che la rappresentanza in giudizio del condominio sia affidata all’amministratore, che può aver bisogno di un deliberato dell’assemblea, non impedisce che ciascun condomino abbia una propria autonomia in relazione alle controversie che concernono diritti su beni comuni. Ciascun condomino, infatti, pur essendo un partecipante del complesso, non perde la sua qualità di comproprietario dei beni che fanno parte della comunione edilizia, e in tale qualità può agire a tutela del bene comune e della sua quota ideale di proprietà (Cass. 25 giugno 1994 n. 6119). Ogni singolo condomino è inoltre legittimato a impugnare in proprio la decisione emessa in un giudizio nel quale egli sia stato rappresentato dallo amministratore, e ciò al fine di tutelare tanto i suoi diritti esclusivi quanto i diritti comuni (Cass. 6 dicembre 1978 n. 5769; Cass. 21 maggio 1979 n. 2922; Cass. 20 agosto 1986 n. 5101; Cass. 22 novembre 1986 n. 6881; Cass. 29 aprile 1993 n. 5084, Cass. 9 giugno 2000 n. 7891, Cass. 4 luglio 2001 n. 9033, Cass. 19 maggio 2003 n. 7827) e può anche intervenire nel processo in quanto non è un terzo che si intromette in una vertenza fra estranei ma è una delle parti originarie determinatasi a far valere direttamente le proprie ragioni (Cass. 27 gennaio 1997 n. 826). Tale rilievo è importante perché consente a ciascuno dei partecipanti di far valere i diritti comuni in caso di inerzia dell’amministratore (che non provveda a di fenderli) o di rifiuto dell’assemblea (che non autorizzi il promovimento della lite). Così ogni partecipante come può agire in giudizio (o difendersi) a protezione della proprietà esclusiva, così può agire, da solo, in difesa della proprietà comune anche nell’interesse degli altri condomini e persino quando la maggioranza si sia espressa in senso contrario. Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 20 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Ciascun condomino può esercitare singolarmente le azioni, sia reali che personali, a difesa o a vantaggio della cosa comune, senza che sia necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione, salvo che la domanda non tenda a una pronuncia che potrebbe risultare inutiliter data senza la presenza in causa di tutti i titolari del rapporto (Cass. 17 novembre 1977 n. 5030). Il singolo condomino, senza necessità di litisconsorzio degli altri condomini, è pienamente legittimato a chiedere in giudizio la rimozione di opere abusive che importino il mutamento di destinazione della cosa comune, nonché ad esperire sia l'azione di revindica che qualsiasi altra azione di carattere reale e con effetti reali che sia comunque finalizzata alla tutela della proprietà e del godimento della cosa comune (Cass. 10 gennaio 1978 n. 75). Il condominio è un ente di gestione, sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, per cui l'esistenza dell'organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa sia dei diritti esclusivi, sia di quelli comuni inerenti all'immobile condominiale nonché di fare intervento volontario nei giudizi in cui tale difesa sia stata già legittimamente assunta dall'amministratore. Tuttavia, questi poteri autonomi di azione e di intervento non interferiscono sulla rappresentanza processuale che spetta ex lege all'amministratore del condominio in un'ampia area di materie e di controversie che attengono alla gestione dell'ente, per cui quando il contraddittorio sia stato già legittimamente instaurato tra un singolo condomino o un terzo, da una parte, e l'amministratore del condominio, dall'altra, non si pone un problema di integrazione necessaria del contraddittorio nei confronti degli altri condomini, salva la loro facoltà di intervento nel giudizio (Cass. 7 maggio 1981 n. 2998). Poiché il diritto di ciascun condomino investe la cosa comune nella sua interezza sia pure con il limite del concorrente diritto degli altri condomini, anche un solo condomino può promuovere le azioni reali a difesa della proprietà comune senza che sia necessario integrare il contradditorio nei confronti di tutti i partecipanti alla comunione. Pertanto tali azioni possono essere deliberate anche a maggioranza dall'assemblea dei condomini la quale può conferire all'amministratore o ad altri il potere di agire nel comune interesse (Cass. 25 giugno 1994 n. 6119). Le azioni a difesa o a vantaggio della cosa comune possono essere esperite dai singoli condomini senza che sia necessaria l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti alla comunione, salva l'ipotesi in cui sia stata contestata la configurabilità stessa della condominialità (Cass. 5 maggio 1998 n. 4520, Cass. 28 giugno 2001 n. 8842). Ciascun condomino quando sia convenuto in rivendica può stare autonomamente in giudizio non occorrendo alcuna integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri, salvo che eccepisca la titolarità esclusiva del bene stesso, dovendosi in tal caso consentire a tutti gli altri condomini di contraddire tale assunto (Cass. 3 dicembre 1997 n. 12255). Così è necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini quando oggetto di controversia è l'accertamento della natura condominiale o meno, in base ai rispettivi titoli di acquisto, di alcune parti dell’edificio (Cass. 27 marzo 1998 n. 3238). I comproprietari di un immobile non sono litisconsorti necessari nel giudizio per il pagamento dei relativi contributi (Cass. 19 luglio 1999 n. 7682), né in tema di violazione del regolamento condominiale (Cass. 16 febbraio 2004 n. 2943). DISSENSO DEI CONDOMINI RISPETTO ALLE LITI Art. 1132. (Dissenso dei condomini rispetto alle liti). — Qualora l'assemblea dei condomini abbia deliberato di promuovere una lite o di resistere a una domanda, il condomino dissenziente, con atto notificato all'amministratore, può separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite per il caso di soccombenza. L'atto deve essere notificato entro trenta giorni da quello in cui il condomino ha avuto notizia della deliberazione. Il condomino dissenziente ha diritto di rivalsa per ciò che abbia dovuto pagare alla parte vittoriosa. Se l'esito della lite è stato favorevole al condominio, il condomino dissenziente che ne abbia tratto vantaggio è tenuto a concorrere nelle spese del giudizio che non sia stato possibile ripetere dalla parte soccombente. Per quanto riguarda, poi, la posizione del condomino rispetto alle liti deliberate dall’assemblea, l’art. 1132 c.c. consente a ciascuno di separare le proprie responsabilità in ordine alle conseguenze della lite per il caso di soccombenza. In altri termini se l’assemblea dei condomini abbia deliberato di agire in giudizio (o di difendersi in giudizio), il condòmino che reputi l’azione infondata (o la difesa inutile) può comunicare il suo dissenso all’amministratore (con lettera raccomandata entro trenta giorni dalla deliberazione), sottraendosi alle conseguenze della lite nel caso in cui la stessa si risolva negativamente. Ciò vuoi dire che il dissenziente che si sia-dissociato non sarà tenuto ad anticipare le spese di lite per la difesa del condominio né al pagamento delle spese di lite in favore dell’altra parte che risulti vittoriosa. Nel caso in cui il condominio risulti vincente, il dissenziente, che abbia tratto vantaggio dalla decisione, sarà tenuto a concorrere alle spese di lite che il condominio non sia riuscito a recuperare dalla parte soccombente. Tale principio (della non partecipazione alle spese) non è applicabile nel caso di una controversia promossa e vinta dal condominio contro un condòmino. Nell'ipotesi di controversie tra condomini, infatti, l'unità condominiale viene a scindersi di fronte al particolare oggetto della lite per dar vita a due gruppi di partecipanti al condominio in contrasto tra loro, con la conseguenza che il giudice, nel dirimere la contesa, provvede anche definitivamente sulle spese del giudizio, condannando la parte soccombente anche alle spese del giudizio (Cass. 25 marzo 1970 n. 801). L'esonero del condomino dissenziente dalle spese, a seguito della separazione della propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite, trova il suo fondamento giuridico nella norma di cui all'art. 1132, comma primo, c.c., sul duplice presupposto che la lite riguardi le parti comuni dell'edificio e che la proposizione della controversia in sede civile sia stata deliberata dall'assemblea (Cass. 10 giugno 1997 n. 5163). Ne deriva, ulteriormente, che quando la controversia sia stata promossa (osubita) dal condominio rappresentato dall’amministratore nell’ambito dei suoi autonomi poteri diretti alla conservazione delle cose comuni, il potere del condòmino di estraniarsi della lite non può esercitarsi ove legittimamente manchi una specifica decisione dell'assemblea (Cass. 2 marzo 1998 n. 2259) La dichiarazione del condòmino dissenziente, di separare la propria responsabilità da quella degli altri condomini per il caso di soccombenza del condominio nelle liti che l'assemblea condominiale ha deliberato, è un atto giuridico ricettizio di natura sostanziale, da portarsi, in quanto tale, tempestivamente a conoscenza dell'amministratore, o di chi altri rappresenti il condominio, ma per il quale non sono necessariamente richieste forme solenni né la notificazione a norma della legge processuale (Cass. 15 giugno 1978 n. 2967). Il termine di decadenza di giorni 30, previsto dall'art. 1132 cod. civ., per l'atto di estraniazione del condòmino dissenziente, non può essere rilevata dal giudice di ufficio (Cass. 15 marzo 1994 n. 2453). È affetta da nullità la delibera dell'assemblea condominiale che ponga le spese di lite, in proporzione della sua quota, a carico del condòmino pur avendo questi ritualmente manifestato il proprio dissenso rispetto alla lite medesima deliberata dall'assemblea (Cass. 8 giugno 1996 n. 5334, Cass. 29 luglio 2005 n. 16092, Cass. 15 maggio 2006 n. 11126). Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 21 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio PROVVEDIMENTI PRESI DALL’AMMINISTRATORE Art. 1133. (Provvedimenti presi dall'amministratore). — I provvedimenti presi dall'amministratore nell'ambito dei suoi poteri sono obbligatori per i condomini. Contro i provvedimenti dell'amministratore è ammesso ricorso all'assemblea, senza pregiudizio del ricorso all'autorità giudiziaria nei casi e nel termine previsti dall'articolo 1137. A norma dell'art. 1133 cod. civ. i singoli condomini possono ricorrere all'assemblea condominiale contro i provvedimenti presi dall'amministratore nell'ambito dei suoi poteri: ciò consente di affermare, argomentando per analogia, che anche l'amministratore può rivolgersi all'assemblea condominiale per provocarne una deliberazione che sancisca la disciplina da lui adottata per l'uso delle cose comuni, al fine di vincere l'asserita resistenza di uno dei condomini (Cass. 28 agosto 1975 n. 3024). Contro i provvedimenti adottati dall'amministratore del condominio nell'esercizio del potere di disciplinare l'uso delle cose comuni e la prestazione dei servizi nell'interesse comune, contrari alla legge ed al regolamento di condominio è ammissibile in tutti i casi l'immediato ricorso all'autorità giudiziaria, senza che sia necessario il preventivo ricorso all'assemblea dei soci previsto dall'art. 1133 cod. civ. (Cass. 21 marzo 1974 n. 804 Cass. 8 marzo 1977 n. 960). Il provvedimento con il quale l'amministratore del condominio di edificio, esorbitando dai suoi poteri, leda i diritti dei singoli condomini sulle cose comuni (nella specie, il diritto di transitare con veicoli sul cortile comune, per accedere alle aree di rispettiva pertinenza, previsto dal regolamento condominiale), è affetto da radicale nullità. Ne consegue che la deducibilità di tale nullità davanti all'autorità giudiziaria, con azione di accertamento, non è soggetta al termine di decadenza di cui agli artt. 1133 e 1137 terzo comma cod. civ., il quale opera solo per la diversa ipotesi di provvedimento meramente annullabile per vizi formali (Cass. 13 febbraio 1976 n. 472; Cass. 10 giugno 1981 n. 3775 Cass. 29 novembre 1991 n. 12851). Il condomino il quale ritiene che si debba effettuare una spesa per lavori necessari, siano essi di manutenzione ordinaria che straordinaria, non può adire direttamente il giudice in sede contenziosa, senza avere prima interpellato l'amministratore del condominio affinché convochi l'assemblea dei condomini per l'approvazione dei lavori ed eroghi la spesa relativa, ovvero senza avere, in caso di suo rifiuto od omissione, convocato direttamente l'assemblea o fatto ricorso al giudice in sede di volontaria giurisdizione a termini di regolamento o di legge, ovvero, infine, senza avere, in caso di rifiuto da parte dell'assemblea di approvare la spesa e i lavori necessari, impugnata tempestivamente detta deliberazione (Cass. 18 marzo 1972 n. 823 Cass. 14 agosto 1997 n. 7613) SPESE FATTE DAL CONDOMINO Art. 1134. (Spese fatte dal condomino). — Il condomino che ha fatto spese per le cose comuni senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea non ha diritto al rimborso, salvo che si tratti di spesa urgente. Il divieto imposto dalla legge al singolo condomino di eseguire spese per la tutela dei diritti ed interessi comuni, ispirato al criterio di impedire dannose interferenze nell'amministrazione, cessa quando si tratti di spese urgenti (Cass. 25 maggio 1973 n. 1542). L'art. 1134 cod. civ., secondo cui il condomino non ha diritto al rimborso di spese fatte senza autorizzazione dell'amministratore e dell'assemblea, trova applicazione solo nel caso in cui le spese si riferiscono alla riparazione di cose comuni e non pure allorché afferiscono ad opere dallo stesso effettuate nell'ambito della sua proprietà singola al fine di accertare le cause del danno verificatosi (nella specie infiltrazioni d'acqua) e la sua derivazione o meno dalla rottura di un impianto condominiale (nella specie, condotta fognaria) (Cass. 5 agosto 1983 n. 5264) Devono ritenersi urgenti, e danno diritto al rimborso anche se eseguite senza autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea, le spese sostenute dal singolo condomino di un edificio per lavori che sono da considerarsi indifferibili con apprezzabile approssimazione, che cioè, se vengono dilazionati, producono danni alle cose comuni. Il giudizio sull'urgenza di lavori deve interpretarsi con una certa larghezza ed elasticità, nel senso di comprendervi tutte le spese che comunque appaiono secondo il criterio di un bonus pater familias, indifferibili allo scopo di evitare il possibile, anche se non certo, nocumento (Cass. 4 dicembre 1963 n. 3081 Cass. 21 gennaio 1966 n. 261; Cass. 18 febbraio 1972 n. 475; Cass. 6 dicembre 1984 n. 6400 Cass. 10 dicembre 1977 n. 5356). Non è urgente né necessario il pagamento di un’imposta non dovuta da condominio (Cass. 18 ottobre 1974 n. 2926). Per avere diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, il condomino deve dimostrarne l'urgenza, ai sensi dell'art. 1134 cod. civ., ossia la necessità di eseguirla senza ritardo e, quindi, senza potere avvertire tempestivamente l'amministratore o gli altri condomini (Cass. 26 marzo 2001 n. 4364). L'obbligazione che attiene al rimborso delle spese fatte da un condomino sulla cosa comune ha originariamente carattere pecuniario e tale carattere conserva fino alla soluzione del debito che grava sugli altri condomini in relazione alla rispettiva quota, per cui tale debito resta soggetto al regime nominalistico (Cass. 22 marzo 1963 n. 705) Non è, quindi, automaticamente rivalutabile ma può dar luogo, in caso di mora, solo ad una pretesa risarcitoria che, ai sensi dell'art. 1224 cod. civ., si esaurisce nella misura degli interessi legali sulla somma dovuta, salvo la prova del maggior danno (Cass. 26 agosto 1996 n. 7834). Con riguardo al rimborso delle spese fatte da un condomino, per le cose comuni, nel caso di un edificio in condominio composto da due soli soggetti (c.d. condominio minimo) si è discusso se in caso di esecuzione di opere necessarie da parte di un partecipante trovi applicazione l'art. 1134 cod. civ., il quale nega il diritto al detto rimborso al condomino in mancanza dell'autorizzazione dell'amministratore o dell'assemblea (salvo che per le spese urgenti), oppure la disposizione dell'art. 1110 cod. civ., in tema di comunione, onde al comunista che abbia sostenuto delle spese necessarie per la conservazione della cosa comune spetta il rimborso nei confronti degli altri partecipanti alla sola condizione che l'amministratore o gli altri partecipanti trascurino di provvedere (Cass. 18 ottobre 1988 n. 5664, Cass. 26 maggio 1993 n. 5914, Cass. 4 agosto 1997 n. 7181). Il contrasto è stato composto dalle Sezioni Unite della Cassazione nel senso che anche nel caso di condominio minimo, cioè di condominio composto da due soli partecipanti, la spesa autonomamente sostenuta da uno di essi è rimborsabile solo nel caso in cui abbia i requisiti dell'urgenza, ai sensi dell'art.1134 cod. civ. (Cass. Sez. Un., 31 gennaio 2006, n. 2046). ATRIBUZIONI DELL’ASSEMBLEA Art. 1135. (Attribuzioni e poteri dell'assemblea dei condomini). — Oltre a quanto previsto dagli articoli precedenti, l'assemblea dei condomini provvede: 1) alla conferma dell'amministratore e alla eventuale sua retribuzione; 2) all'approvazione del preventivo delle spese occorrenti durante l'anno e alla relativa ripartizione tra i condomini; Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 22 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio 3) all'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e all'impiego del residuo attivo di gestione; 4) alle opere di manutenzione straordinaria, costituendo, se occorre, un fondo speciale. L'amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea. Mentre l'amministratore è l'organismo esecutivo del condominio, con attribuzioni e poteri limitati alla ordinaria amministrazione, l'assemblea dei condomini è l'organismo deliberativo che da un lato esprime la volontà del complesso e dall'altro decide su ogni questione attinente alla gestione dei beni comuni ed alla regolamentazione dei rapporti tra i condomini, ivi compresa la diretta stipulazione di contratti con i terzi non essendo previsto alcun divieto al riguardo nella disciplina del condominio e non sussistendo alcun impedimento tecnico-giuridico per una efficace manifestazione di volontà negoziale da parte dell'assemblea (Cass. 25 marzo 1980 n. 1994) nonché la possibilità di ratifica di spese erogate e non approvate preventivamente (Cass. 24 febbraio 1995 n. 2133). Secondo la giurisprudenza l'assemblea è, in senso lato, l'organismo supremo, più importante e fornito dei maggiori poteri deliberativi, costituito per la gestione degli interessi della comunione, nonché la sede per la formazione della volontà del condominio. L'assemblea condominiale — atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciutele dall'art. 1135 cod. civ. — può deliberare, quale organo destinato ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti, qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, sempreché non si tratti di provvedimenti volti a perseguire una finalità extracondominiale (Cass. 13 agosto 1985 n. 4437. Cass. 6 marzo 2007 n. 5130). In linea generale la principale caratteristica dell' assemblea è che, pur essendo costituita da una pluralità di persone che rappresentano singolarmente il proprio diritto autonomo, la stessa può deliberare validamente sulla base del principio maggioritario che fa sì che il voto di maggioranza è obbligatorio e vincolante nei confronti di tutti i partecipanti, ivi compresi coloro che non hanno votato od hanno espresso parere contrario (Cass. 23 aprile 1969 n. 1313, 12 agosto 1959 n. 2985), senza che la partecipazione ad una maggioranza, non può costituire fonte di responsabilità per il condomino (e par la stessa maggioranza) che abbia approvato una deliberazione che sia risultata poi pregiudizievole per il condominio anche per fatto illecito contrattuale (Cass. 7 maggio 1988 n. 3395, Cass. 3 agosto 1990 n. 7831). Altra caratteristica è che il voto dei singoli partecipanti, una volta formatasi una deliberazione, perde qualsiasi rilevanza ed autonomia quale singola manifestazione di volontà, tanto che lo stesso non è impegnativo per il condòmino, che successivamente può sempre modificarlo e revocarlo in occasione di altre delibere, anche sul medesimo oggetto. In questo senso qualsiasi deliberazione dell' assemblea può essere revocata da una successiva e valida delibera, senza che possa avere alcun rilievo la circostanza secondo cui la prima sia stata presa con una maggioranza più elevata (o all'unanimità) rispetto alla seconda e senza che possa attribuirsi alcuna rilevanza vincolante al voto espresso dai singoli condòmini nella precedente deliberazione (Cass. 12 aprile 1976 n. 1281, Cass. 7 giugno 1969 n. 1998). Da un punto di vista generale deve premettersi che, in ogni caso, i poteri dell'assemblea sono limitati alla sfera dei rapporti relativi all'uso ed al godimento delle cose comuni e non possono estendersi a tutto ciò che attiene all'uso ed al godimento della proprietà esclusiva dei singoli condomini o ai rapporti tra le proprietà particolari e tra queste e quelle della comunione (Cass. 5 settembre 1989 n. 3858). In questo senso deve escludersi che l'assemblea possa determinare i valori pro porzionali delle singole proprietà, salvo che non vi sia l'adesione di tutti gli interessati, formando le tabelle millesimali, Al tempo stesso non può limitare l'uso che il singolo condomino può fare della sua proprietà esclusiva o autorizzare opere che violino i diritti del singolo. I poteri dell'assemblea condominiale possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini, sia in ordine alle cose comuni sia a quelle esclusive, soltanto quando una siffatta invasione sia stata da loro specificamente accettata o in riferimento ai singoli atti o mediante approvazione del regolamento che la preveda, in quanto l'autonomia negoziale consente alle parti di stipulare o di accettare contrattualmente convenzioni e regole pregresse che, nell'interesse comune, pongano limitazioni ai diritti dei condomini (Cass. 14 dicembre 2007 n. 26468). Peraltro, non rientra nei poteri dell'assemblea condominiale - che decide con il criterio delle maggioranze - autorizzare l'amministratore del condominio a concludere transazioni che abbiano ad oggetto diritti comuni (Cass. 24 febbraio 2006 n. 4258). Per quanto attiene ai rapporti con l'amministratore, deve dirsi che, pur avendo l'amministratore stesso una propria specific a competenza su materie ben delimitate, la volontà dell' assemblea, ove sia chiamata a deliberare, anche in sede di impugnazione di atti compiuti dall' amministratore medesimo, prevale su qualunque atto o disposizione, senza che possa in alcun modo parlarsi di incompetenza Con riguardo ai rapporti fra amministratore e condominio, che sono regolati dalle norme del mandato, la presunzione di onerosità del mandato stesso prevista dall'art. 1709 cod. civ. va considerata in correlazione con il disposto dell'art. 1135 n. 1 cod. civ. che prevede come « eventuale » la retribuzione dell'amministratore, inteso nel senso che l'assemblea può espressamente determinarsi per la gratuità dell'incarico (Cass. 16 aprile 1987 n. 3774). La partecipazione dell'amministrator e all'assemblea, ordinaria e straordinaria, in quanto attività connessa ed indispensabile allo svolgimento dei suoi compiti istituzionali e non esorbitante dal mandato con rappresentanza - le cui norme sono applicabili nei rapporti con i condomini - deve ritenersi compensata dal corrispettivo stabilito al momento del conferimento dell'incarico per tutta l'attività amministrativa di durata annuale e non deve essere retribuita a parte (Cass. 12 marzo 2003 n. 3596). Compito dell' assemblea, dunque, è la gestione delle cose e dei servizi comuni, senza alcuna limitazione. Le sue attribuzioni vanno dalla semplice amministrazione ordinaria sino ad atti di gestione di carattere straordinario. I poteri dell'assemblea sono espressamente indicati nell'art. 1135 c.c. che li distingue in quattro gruppi. La disposizione p arla infatti di: 1)conferma dell' amministratore ed eventuale sua retribuzione; 2)approvazione del preventivo e sua ripartizione tra i condomini; 3)approvazione del consuntivo e impiego del residuo attivo della gestione; 4)opere di manutenzione straordinaria. Deve dirsi comunque che tale elencazione non esaurisce e non limita, come si è visto, le materie sulle quali l'assemblea può essere Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 23 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio chiamata a deliberare. I poteri dell' assemblea vanno infatti integrati con le disposizioni che prevedono la possibilità di deliberare sulle innovazioni (art. 1120 c.c.), sulla ricostruzione dell'edificio (art. 1128 c.c.), sul promovimento delle liti o sulla resistenza ad azioni giudiziarie o ad atti amministrativi nei confronti del condominio (art. 1130 c.c.), sulla formazione e modificazione del regolamento di condominio (art. 1138 c.c.), sullo scioglimento del condominio (art. 61 disp. atto c.c.). A ciò deve aggiunge rsi la norma che prevede la possibilità di ricorso contro i provvedimenti dell'amministratore (art. 1133 c.c .), nonché il principio generale che attribuisce alla volontà del condominio, riunito in sede di assemblea, prevalenza assoluta su ogni questione di caratter e condominiale. Per quanto riguarda la nomina, la revoca, la conferma e la retribuzione dell' amministratore, le innovazioni, la ricostruzione dell' edificio, la gestione delle liti attive e passive, la formazione e la modificazione del regolamento di condominio, si fa ri nvio a quanto già è detto e quanto si dirà a proposito degli specifici argomenti. Per quanto attiene ai bilanci preventivi e consuntivi, deve dirsi che i primi costituiscono la giustificazione dei versamenti dei contributi che ciascuno è tenuto ad anticipare, mentre i secondi attengono, come abbiamo già visto, alla definizione del rapporto di mandato tra l'amministratore ed il condominio e stabiliscono in modo definitivo gli eventuali crediti del primo nei confr onti del secondo oppure l'esistenza di un avanzo di gestione, a cui deve essere data una destinazione. Per quanto attie ne alla ripartizione delle spese, la deliberazione serve ad attribuire a ciascun condomino la misura della partecipazione nella gestione condomini ale, definendo le somme che sono dovute, sul totale, e che l'amministratore può richiedere singolarmente. Que l che è importante sottolineare è che, nell' approvare la ripartizione, 1'assemblea non esercita un potere discrezionale, ma deve attenersi ai criteri legali di cui agli artt. 1123 e segg. c.c. oppure a quelli definiti nel regolamento di condominio, senza che ne possa essere adottato alcun altro (Cass. 5 agosto 1988 n. 4851, Cass. 1 febbraio 1993 n. 1213, Cass. 19 novembre 1992 n. 12375, Cass. 15 marzo 1995 n. 3042; Cass. 27 luglio 2006 n. 17101). Per quanto attiene alle opere di manutenzione straordinaria, deve dirsi che in tale ambito debbono ricomprendersi quei lavori che comportano innovazioni, ripa razioni o sostituzioni dovute ad avvenimenti imprevisti e che, al tempo stesso, siano di una ce rta entità. L'ultimo comma dell' art. 1135 c.c. stabilisce espressamente, in relazione a tali opere, la competenza esclusiva ed assoluta dell' assemblea, vietando all' amministratore qualsiasi provvedimento in merito, se non nel caso di assoluta urgenza e neces sità (Cass. 15 settembre 1970 n. 1481. Cass. 7 maggio 1987 n. 4232). Con riguardo alle spese di manutenzione ordinaria o straordinaria delle cose comuni, che l'amministratore del condominio abbia effettuato senza preventiva approvazione del relativo progetto, deve ritenersi consentito all'assemblea di approvare successivamente le spese medesime, disponendone il rimborso, trattandosi di delibera riconducibile fra le attribuzioni conferitele dall'art. 1135 cod. civ. (Cass. 4 giugno 1992 n. 6896). COSTITUZIONE E VALIDITA’ DELLE DELIBERAZIONI Art. 1136. (Costituzione dell'assemblea e validità delle deliberazioni). — L'assemblea è regolarmente costituita con l'intervento di tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell'intero edificio e i due terzi dei partecipanti al condominio. Sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell'edificio. Se l'assemblea non può deliberare per mancanza di numero, l'assemblea di seconda convocazione delibera in un giorno successivo a quello della prima e, in ogni caso, non oltre dieci giorni dalla medesima; la deliberazione è valida se riporta un numero di voti che rappresenti il terzo dei partecipanti al condominio e almeno un terzo del valore dell'edificio. Le deliberazioni che concernono la nomina e la revoca dell'amministratore o le liti attive e passive relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell'amministratore medesimo, nonché le deliberazioni che concernono la ricostruzione dell'edificio o riparazioni straordinarie di notevole entità devono essere sempre prese con la maggioranza stabilita dal secondo comma. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni previste dal primo comma dell'articolo 1120 devono essere sempre approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza dei partecipanti al condominio e i due terzi del valore dell'edificio. L'assemblea non può deliberare, se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione. Delle deliberazioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascriversi in un registro tenuto dall'amministratore. Convocazione dell'assemblea Secondo il disposto dell'art. 66 disp. atto c.c. l'assemblea dei condomini deve essere convocata almeno una volta l'anno, in via ordinaria. La stessa disposizione prevede che possano tenersi altre assemblee, in via straordinaria quando ciò sia necessario. Il compito della convocazione spetta in primo luogo all'amministratore. Anche i condomini possono provocare una riunione assembleare facendone richiesta all'amministratore, purché gli interessati siano almeno due e gli stessi rappresentino un sesto del valore dell'edificio. Solamente se l'amministratore non dia corso a tale richiesta, o nell'ipotesi in cui il condominio sia privo di amministratore, i condomini possono procedere a convocare direttamente i partecipanti. Avviso di convocazione Principio fondamentale perché possa parlarsi di assemblea condominiale è che i partecipanti siano-stati invitati alla riunione. L'avviso di convocazione deve contenere la data e l'ora della riunione, l'indicazione del luogo ove si terrà l'adunanza, nonché il cosiddetto «ordine del giorno», ovvero l'elenco delle questioni che saranno discusse e che potranno essere oggetto di deliberazione (art. 1105 c.c.: Cass. 27 marzo 2000 n. 3634, Cass. 22 luglio 2004 n. 13763, Cass. 30 luglio 2004 n. 14560, Cass. 9 gennaio 2004 n. 143, Cass. 9 gennaio 2006 n. 63). Anche se normalmente l'avviso consiste in uno scritto, inviato ai condomini personalmente (e con lettera raccom andata), secondo la giurisprudenza lo stesso può essere privo di qualsiasi formalità. Salvo particolari disposizioni del regolamento di condo minio, anche un avviso orale può essere valido, purché risulti che i partecipanti siano stati informati compiutame nte su quanto necessario alla partecipazione all'assemblea. (Cass. 24 gennaio 1980 n. 590, Cass. 14 dicembre 1982 n. 6863, Cass. 15 dicembre 1982 n. 6919, Cass. 1 aprile 2008 n. 8449). Poiché comunque l'avviso deve essere almeno personale, non è valida la convocazione fatta genericamente mediante affissione nell' androne dell' edificio. L'avviso, infine, deve giungere al destinatario con un anticipo di almeno Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 24 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio cinque giorni rispetto alla data dell' adunanza. Il regolamento di condominio può prevedere un termine più ampio, ma non un tempo inferiore a quello della norma di legge (art. 66 disp. atto c.c.). A chi deve farsi pervenire l'avviso Poiché l'art. 1136 C.c. prescrive che l'assemblea non può deliberare se tutti i condomini non sono stati invitati alla riunione, il recapito dell' avviso è elemento essenziale per la validità delle deliberazioni. La comunicazione deve essere fatta a tutti coloro che sono i veri proprietari esclusivi (e non anche colui che si sia comportato, nei rapporti con i terzi, come condomino senza esserlo :Cass. 11 giugno 2001 n. 7849, Cass. 9 febbraio 2005 n. 2916). di una singola unità immobiliare dell'edificio ed anche a colui che ha proposto una lite nei confronti del condominio, sulla deliberazione alla causa: Cass. 5 dicembre 2001 n. 15360). Gli artt. 1105 e 1136 cod. civ. non prescrivono particolari modalità di notifica, sicché l'esigenza che tutti i condomini siano stati preventivamente informati può ritenersi soddisfatta quando risulti, che, in qualunque modo, (anche oralmente) i condomini ne abbiano avuto notizia (Cass. 24 gennaio 1980 n. 590, 14 dicembre 1982 n. 6863, Cass. 1 aprile 2008 n. 8449), o , se avvisati, indipendentemente dalla effettiva conoscenza (Cass. 14 dicembre 1982 n. 6863). Prova che può essere data anche per presunzioni (Cass. 28 febbraio 1987 n. 2148). Il termine di « almeno cinque giorni prima » stabilito dall'art. 66 disp. att. c.c. per la tempestiva comunicazione ai condomini dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale, va calcolato a partire dal primo giorno, immediatamente precedente la data fissata per l'adunanza, e pertanto va considerato di cinque giorni non liberi prima dell'adunanza stessa (Cass. 27 marzo 1969 n. 995) con la conseguente necessità che l'avviso di convocazione previsto dall'ultimo comma dell'art. 66 disp. att. e trans. cod. civ. sia non solo inviato ma anche ricevuto nel termine (almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza) ivi previsto (Cass. 22 novembre 1985 n. 5769). Affinché la delibera di un'assemblea condominiale sia valida è necessario che l'avviso di convocazione elenchi, (il c.d. ordine del giorno) sia pure in modo non analitico e minuzioso, specificamente gli argomenti da trattare sì da far comprendere i termini essenziali di essi e consentire agli aventi diritto le conseguenti determinazioni anche relativamente alla partecipazione alla deliberazione, secondo la disposizione dell’articolo 1105 — applicabile anche in materia di condominio di edifici — la quale prescrive che tutti i partecipanti debbano essere preventivamente informati delle questioni e delle materie sulle quali sono chiamati a deliberare. (Cass. 27 marzo 2000 n. 3634; conf. Cass. 22 luglio 2004 n. 13763; Cass. 30 luglio 2004 n. 14560), in modo da far comprendere i termini essenziali delle stesse e consentire agli aventi diritto le conseguenti determinazioni anche relativamente alla partecipazione, diretta o indiretta, alla deliberazione (Cass. 19 febbraio 1997 n. 1511). L’incompletezza della convocazione, sul punto, rende le delibere, annullabili (non nulle) (Cass. 9 luglio 1980 n. 4377, Cass. 9 gennaio 2004 n. 143), mentre la sua eventuale genericità non comporta l'invalidità della delibera condominiale, qualora risulti che il condomino, sia pure "aliunde", era sufficientemente informato sull'argomento che avrebbe costituito oggetto dell'assemblea (Cass. 9 gennaio 2006 n. 63). Nel caso in cui un appartamento o un locale appartenga a più persone, tutte debbono essere personalmente avvisate. Quando una unità immobiliare sia in usufrutto, la convocazione deve essere fatta al nudo proprietario o all'usufruttuario (o ad entrambi) in relazione all'oggetto delle deliberazioni da prendersi. Quando si debba decidere su spese di carattere straordinario, su innovazioni o su ricostruzioni, che gravano sul proprietario, costui dovrà ricevere l'avviso di convocazione. Per gli argomenti che attengono alla ordinaria amministrazione e al semplice godimento dei servizi e delle cose comuni, poiché le relative spese debbono essere sostenute dall'usufruttuario, sarà sufficiente che l'invito sia inviato solo a quest'ultimo (art. 67 disp. atto c.c.: Cass. 5 novembre 1990 n. 10611). L'amministratore (o chi per lui convoca l'assemblea) è tenuto ad inviare l'avviso solamente alle persone che risultano proprietarie degli appartamenti o dei locali, in base agli atti del condominio, anche se è tenuto a svolgere le indagini suggerite dall'ordinaria diligenza per rintracciare i condomini non più presenti al precedente recapito onde poter comunicare a tutti l'avviso di convocazione (Cass. 28 novembre 2000 n. 15283). Ciò vuol dire che in caso di vendita di un appartamento o di morte di un condomino, in mancanza di una comunicazione ufficiale dell' avvenuto trasferimento della proprietà, l'avviso di convocazione potrà essere fatto validamente al vecchio proprietario (o impersonalmente agli eredi nel domicilio del defunto (Cass. 29 luglio 1978 n. 3798, Cass. 1 luglio 2005 n. 14065, Cass. 22 marzo 2007 n. 6926, Cass. 14 marzo 1987 n. 2658, Cass. 10 gennaio 1990 n. 9, Cass. 29 maggio 1998 n. 5307, Cass. 4 febbraio 1999 n. 985). La stessa cosa può dirsi nel caso in cui il condomino, che non abbia residenza o domicilio nell' edificio, cambi il suo recapito senza nulla comunicare all' amministratore; in questo caso egli non potrà dolersi di non aver ricevuto la comunicazione, se la stessa gli sia stata inviata al vecchio indirizzo. In tema di omissione della convocazione di anche un solo condòmino, la Cassazione aveva assunto un rigido orientamento nel senso che le decisioni dell’assemblea sono affette da nullità assoluta, che può essere fatta valere da qualunque altro, per difettosa costituzione del corpo deliberante, ancorché il voto di quel partecipante non avrebbe avuto incidenza sul raggiungimento delle prescritte maggioranze. (Cass. 15 novembre 1977 n. 4984; conf. Cass. 29 luglio 1978 n. 3798), con la conseguenza che l'impugnazione non è soggetta a al termine di decadenza (di trenta giorni ex art. 1137), ma essendo imprescrittibile può esser fatta valere in ogni tempo, (Cass. 15 dicembre 1990 n. 11947, Cass. 27 giugno 1992 n. 8074 Cass. 12 febbraio 1993 n. 1780, Cass. 27 marzo 2003 n. 4531). Successivamente, comunque si è manifestato un nuovo indirizzo secondo cui la mancata comunicazione, anche ad uno solo dei condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale, comporta non la nullità ma la semplice annullabilità della delibera che, se non viene impugnata nel termine di trenta giorni (dalla comunicazione per i condomini assenti o dalla approvazione per quelli dissenzienti), è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio (Cass. 5 gennaio 2000 n. 31; conf. Cass. 5 febbraio 2000 n. 1292; conf. Cass. 2 ottobre 2000 n. 13013; Cass. 5 maggio 2004 n. 8493). Il contrasto è stato infine composto da una storica sentenza delle Sezioni Unite secondo cui la mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale comporta, non la nullità, ma l'annullabilità della delibera condominiale, la quale, ove non impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137, terzo comma, cod. civ. (decorrente, per i condomini assenti, dalla comunicazione, e, per i condomini dissenzienti, dalla sua approvazione), è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio (Cass., Sez. Un., 7 marzo 2005 n. 4806). Partecipanti all' assemblea Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 25 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Coloro che hanno diritto alla partecipazione ed alla votazione sono certamente i condomini. Nel caso in cui un appartamento o un locale sia di proprietà di più persone, tutte hanno diritto di partecipare all' assemblea, ma uno solo dei comproprietari ha diritto di voto anche in rappresentanza degli altri. Qualora non vi sia accordo circa la designazione del rappresentante, il presidente dell' assemblea provvederà al sorteggio tra gli interessati che siano intervenuti (art. 67 disp. atto c.c.). In caso di appartamento in usufrutto il diritto alla partecipazione ed al voto spetterà al nudo proprietario o all'usufruttuario m relazione all' oggetto delle singole deliberazioni, secondo il criterio, sopra esaminato, dell' attinenza alla ordinaria o straordinaria amministrazione. Ogni condomino può intervenire in assemblea (e votare) anche a mezzo di un rappresentante (art. 67 disp. atto c.c.). Perché un condomino possa essere rappresentato in assemblea, è necessario che rilasci una delega al rappresentante. La delega non richiede formalità alcuna: la stessa può essere rilasciata per iscritto od anche oralmente (purché sia nota agli altri condomini), ed è ammessa dalla giurisprudenza anche sulla base di semplici presunzioni (quando ad esempio l'intervenuto sia il coniuge convivente del condomino) (Cass. 28 giugno 1979 n. 3634. Cass. 27 luglio 1999 n. 8116; conf. Cass. 27 marzo 4531, Arch. loc. cond., 2003, 638; Cass. 7 luglio 2004 n. 12466). La legge non pone limiti ad una tale possibilità, per cui una persona può rappresentare un numero illimitato di condomini, e la rappresentanza può avvenire anche a mezzo di persona che non rivesta la qualità di condomino. Tale disposizione è inderogabile, tuttavia la giurisprudenza ritiene che, fermo restando il principio della rappresentanza, il regolamento di condominio (anche quello approvato a maggioranza) possa limitare tale facoltà, prescrivendo che il rappresentante non possa avere più di un certo numero di deleghe o che un condomino possa essere rappresentato solamente da altro condomino (Cass. 11 agosto 1982 n. 4530, Cass. 12 dicembre 1986 n. 7402, Cass. 29 maggio 1998 n. 5315). Partecipazione del conduttore all' assemblea L'art. 10 della legge n. 392/1978 (quella sull'equo canone) prescrive che il conduttore ha diritto di voto, in vece del proprietario locatore, nelle deliberazioni che hanno per oggetto le spese e le modalità di gestione del servizio di riscaldamento (o di condizionamento dell' aria), che sia centralizzato. La stessa disposizione prevede che lo stesso conduttore ha diritto ad intervenire nell' assemblea di condominio, senza diritto di voto, quando la stessa si appresti a deliberare in merito a modificazioni dei servizi comuni. La norma, quindi, implicitamente, prescrive che il conduttore (in quanto avente diritto alla partecipazione) sia invitato alla riunione, nel caso in cui all' ordine del giorno vi sia un argomento che attiene a materie per le quali egli può votare o per le quali è semplicemente ammesso alla discussione. In merito può dirsi che l'onere della convocazione, secondo l'opinione più accreditata, spetta all' amministratore e non al proprietariolocatore e che l' amministratore stesso dovrà procedere all' avviso solamente nei confronti dei conduttori la cui esistenza (ed il cui rapporto) gli sia stato formalmente comunicato dal condomino. Se il conduttore, comunque ha diritto di voto in assemblea, lo stesso può anche impugnare le deliberazione (sul riscaldamento o sul condizionamento) che lo pregiudicano senza che possa attribuirsi all'inquilino il potere generale di sostituirsi al proprietario nella gestione dei servizi condominiali (Cass. 18 agosto 1993 n. 8755, Cass. 22 aprile 1995 n. 4588). Deliberazioni: riunione e verbalizzazione Anzitutto va detto che ai fini della validità della delibera di assemblea condominiale, il quorum richiesto (cioè il numero dei partecipante e la complessiva rappresentanza) deve esistere al momento della costituzione (Cass. 23 luglio 1983 n. 5073) in relazione all’oggetto (o agli oggetti) della deliberazione (Cass. 28 gennaio 1997 n. 850). Perché vi sia una valida deliberazione occorre poi che la stessa sia presa nella riunione appositamente convocata nei modi che abbiamo esaminato. Altre forme di espressione della volontà della maggioranza dei condomini non sono certamente regolari. Cos ì, ad esempio, non può costituire valida deliberazione la semplice sottoscrizione di alcuni condomini (anche in maggioranza) su di un foglio predisposto da alcuni di essi o dallo stesso amministratore (Cass. 28 ottobre 1982 n. 5646). Qualsiasi manifestazione di volontà del condominio, presa al di fuori dell' assemblea, può essere vincolante per i condomini, solo se sottoscritta da tutti, poiché in tal caso ha valore contrattuale. Ciò perché la legge privilegia anzitutto la partecipazione dei singoli proprietari in funzione della discussione degli argomenti., tanto che è sancita la annullabilità della riunione nel semplice caso di omissione dell' avviso anche ad uno solo di essi, indipendentemente dalla circostanza che il voto dell' assente abbia rilevanza ai fini della formazione dell a maggioranza. In questo senso viene ritenuta anche la invalidità delle assemblee e delle deliberazioni, quando ad un partecipante sia stata impedita la discussione (Cass. 11 maggio 1984 n. 2893, Cass. 23 febbraio 1999 n. 1510). Lo svolgimento della riunione, secondo una prassi ormai unanimemente seguita (a cui non consegu e alcuna invalidità in caso di omissione: Cass. 16 luglio 1980 n. 4615, Cass. 27 giugno 1987 n. 5709) avviene sotto la presidenza di un partecipante, nominato dall' assemblea, assistito da un segretario incaricato della verbalizzazione. La verbalizzazione delle deliberazioni è prevista dall'ultimo comma dell'art. 1136 c.c. che contempla anche l'esistenza di un registro, destinato a contenerle, tenuto dall' amministratore. Nel verbale è necessario che siano indicati nominativamente i partecipanti, con la specificazione dei termini di rappresentatività, secondo le tabelle millesimali, l'indicazione degli argomenti trattati e delle singole deliberazioni (Cass . 19 ottobre 1998 n. 10329). E’ necessario altresì, ove non si tratti di decisione unanime, che siano indicati nominativamente coloro che hanno dato voto contrario o che si sono astenuti (o che si sono allontanati prima della votazione) (Cass. 19 ottobre 1998 n. 10329 , Cass. 29 gennaio 1999 n. 810, Cass. 22 gennaio 2000 n. 697, Cass., Sez. Un., 7 marzo 2005 n. 4806). Non è necessario, ai fini della validità delle riunioni, che siano riportate le dichiarazioni dei singoli condomini o i detta gli di ogni eventuale discussione. Il verbale sarà sottoscritto dal presidente e dal segretario e, ove non sia stato redatto da un notaio, costituirà semplice argomento di prova sulla veridicità dei fatti descritti (Cass. 11 novembre 1992 n. 12119, Cass. 8 marzo 1997 n. 2101 ). È sufficiente, infine, che il verbale dell' assemblea sia sottoscritto dal presidente e dal segretario, che in tal modo attestano (sino a prova contraria) la veridicità di quanto contenuto nel documento ((Cass. 11 novembre 1992 n. 12119). La mancata sottoscrizione del presidente è una semplice irregolarità formale (Cass. 29 ottobre 1973 n. 212), quella dei partecipanti non è necessaria, ma non è certamente vietata. Ove ciò avvenga, infatti, il documento assume l'efficacia di una scrittura privata che, se non disconosciuta, fa fede della provenienza della scrittura stessa e del suo contenuto, nei confronti dei singoli firmatari (Cass. 19 marzo 1996 n. 2297). Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 26 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Le assemblee possono essere ordinarie o straordinarie. Tale denominazione serve solamente a distinguere l'assemblea annuale da quelle ulteriori convocate, in caso di necessità, dall' amministratore (o dai condomini), senza che tale denominazione possa avere alcuna influenza sulle modalità di svolgimento o sulla formazione delle maggioranze. Le assemblee si tengono in prima ed in seconda convocazione. L'art. 1136 c.c., infatti, nel prevedere una valida costituzione dell' assemblea solamente nel caso in cui si raggiunga una partecipazione effettiva dei due terzi dei condomini (e del valore dell'edificio), ed una validità delle deliberazioni solamente nel caso in cui le stesse riportino voti di maggioranza rappresentativi della metà del valore dell' edificio, consente, nel caso in cui non possa essere presa alcuna decisione, per mancanza di nume ro, lo svolgimento di altra assemblea in seconda convocazione, nella quale le deliberazioni possono essere adottate con maggioranze più limitate, senza che sia necessaria una verbalizzazione negativa della prima. Perché possa parlarsi di assemblea in seconda convocazione, è richiesto che la stessa sia convocata almeno il giorno successivo, rispetto alla prima, e non oltre dieci giorni dalla medesima. È corretta la prassi con cui l'amministratore indichi nello stesso avviso di convocazione la data della prima e della seconda riunione. Per la validità della seconda non è indispensabile che la mancata o insufficiente riunione della prima sia stata riportata in un verbale (Cass. 24 gennaio 1980 n. 590, Cass. 24 aprile 1996 n. 3862). Deliberazioni: formazione e calcolo delle maggioranze Per quanto attiene alla formazione ed al calcolo delle maggioranze necessarie per l’approvazione delle deliberazioni, si deve premettere che il sistema previsto dall'art. 1136 C.c. tiene conto contemporaneamente sia del numero dei voti che della rappresentatività (in termini di tabelle millesimali) dei voti stessi. In altri termini non è sufficiente che un condomino, che sia titolare di una quota di maggioranza dell'intero edificio, voti a favore di una deliberazione. Per l'approvazione, infatti, è sempre necessaria, oltre alla maggioranza «quantitativa» anche quella numerica degli intervenuti (o dei partecipanti): il che vuol dire che, nel caso di un condominio di cinque partecipanti, tre di essi, titolari di una quota complessiva inferiore a quella degli a ltri, possono impedire l'approvazione di una deliberazione voluta da chi possiede la maggioranza del valore dell' edificio, in quanto questi ultimi non hanno anche la maggioranza «numerica» (Cass. 5 aprile 2004 n. 6625). Per quanto attiene poi alla considerazione della rappresentanza «numerica», va detto che a ciascun condomino spetta un solo voto (Cass. 9 dicembre 1988 n. 6671) e ciò indipendentemente dalla rappresentanza «quantitativa» o dal fatto che lo stesso sia proprietario di più appartamenti o di più locali. Un solo voto spetta certamente ai comproprietari di un'unica unità imrnobi1iare (che possono avere un solo rappresentante in assemblea). Un solo voto spetta inoltre all'usufruttuario o al nudo proprietario, in relazione alle singole votazio ni a cui sono chiamati a partecipare, anche se entrambi sono intervenuti in assemblea. Al contrario, nell'ipotesi di partecipazione attraverso un rappresentante, il delegato potrà esprimere tanti voti quanti sono i condomini che lo abbiano incaricato. Al contrario, nell'ipotesi di partecipazione attraverso un rappresentante, il delegato potrà esprimere tanti voti quanti sono i condomini che lo abbiano incaricato. Per quanto attiene alla rappresentanza «quantitativa», la stessa va senza dubbio considerata sulla base delle tabelle millesi mali. Nel caso in cui esistano più tabelle (delle scale, dell' ascensore, del riscaldamento, ecc.), la rappresentanza per valore dovrà essere calcolata sulla base della tabella a cui si riferisce l'oggetto della deliberazione. La possibile mancanza delle tabelle, com unque, non è causa di invalidità (Cass. 5 ottobre 1983 n. 5794) perché il criterio di identificazione delle quote di partecipazione al condominio, esiste prima ed indipendentemente dalla formazione della tabella dei millesimi che agevola ma non condiziona lo svolgimento dell'assemblea ed, in genere, la gestione del condominio (Cass. 25 gennaio 1990 n. 431, Cass. 23 giugno 1998 n. 6202; Cass. 17 febbraio 2005 n. 3264). Maggioranze necessarie per l'approvazione delle deliberazioni Per la validità dell' approvazione di una deliberazione, la disposizione di cui all' art. 1136 C.c. distingue le ipotesi della prima e della seconda convocazione. In prima convocazione è anzitutto necessaria la presenza, per la validità della stessa adunanza, di un certo numero minimo di condomini. È necessario cioè che siano presenti tanti condomini che rappresentino i due terzi del valore dell' edificio e siano i due terzi dei partecipanti al condominio. In prima convocazione sono valide le de liberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell' edificio. Per quanto attiene alla seconda convocazione, la disposizione si limita a precisare che, per la validità delle deliberazioni le stesse debbono riportare un numero di voti che rappresenti numericamente il terzo dei partecipanti al condominio e quantitativamente almeno un terzo del valore dell' edificio. Il che vuol dire che, per l'approvazione, occorre il voto favorevole di un terzo d ei condomini, che siano altresì la maggioranza degli intervenuti, e che i favorevoli rappresentino inoltre un terzo del valore dell' edificio, sempre che i presenti che dissentono non abbiano una rappresentanza maggiore in termini quantitativi. Le materie per le quali è ammessa, in seconda convocazione, una maggioranza ridotta rispetto a quella prevista in sede di prima convocazione, sono comunque quelle che attengono all'ordinaria amministrazione (ivi comprese le approvazioni dei bilanci e delle ripartizioni), alla gestione dei servizi comuni, nonché alle opere di manutenzione e di riparazione (anche di carattere straordinario) che non siano di «rilevante» entità. Vi è infatti un gruppo di affari che richiedono sempre una maggioranza «qualificata». L a nomina, la revoca e la conferma dell' amministratore, il promuovimento delle liti attive o la resistenza in giudizio nelle liti passive (relative a materie che esorbitano dalle attribuzioni dell' amministratore), nonché le deliberazioni che concernono la ricost ruzione dell' edificio, o le riparazioni straordinarie di «rilevante» entità, debbono infatti essere sempre prese dalla maggioranza degli intervenuti all'assemblea, sempreché gli stessi rappresentino almeno la metà del valore dell' edificio, anche se si tratta di riunione tenuta in seconda convocazione, Una particolare maggioranza deve infine sorreggere le deliberazioni che attengono alle innovazioni (art. 1120, I" comma c.c.) . Si tratta di opere dirette al migliore godimento delle cose comuni, che implicano trasformazioni strutturali oppure un mutamento di destinazione dei beni in comunione. Sia in prima che in seconda convocazione la delibera sulle innovazioni deve essere approv ata da più della metà di tutti i condomini che rappresentino almeno i due terzi del valore dell' edif icio. Recentemente alcune leggi hanno portato alcune eccezioni, m materia di parcheggi, contenimento dei consumi energetici e di Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 27 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio eliminazione delle barriere architettoniche, consentendo che le innovazioni connesse con l'esecuzione di tali opere possano essere validamente prese con maggioranze ridotte. L'art. 2 della L. 9 gennaio 1989, n. 13, stabilisce che per le deliberazioni che hanno per oggetto innovazioni da attuare ne gli edifici per l'eliminazione delle barriere architettoniche, in favore dei portatori di handicap, sono approvate dall' assemblea di condominio con le maggioranze semplici previste in sede di prima o di seconda convocazione, per gli affari di ordinaria amministrazione, anziché con le maggioranze qualificate richieste per le innovazioni (Cass. 29 luglio 2004 n. 14384, Cass. 20 aprile 2005) L'art. 9 della L. 24 marzo 1989, n. 122, stabilisce che le deliberazioni che hanno per oggetto le opere dirette alla realizza zione di parcheggi nel sottosuolo o nel piano terreno degli edifici in condominio, da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, sono approvate con la maggioranza degli intervenuti, che rappresentino la metà del valore del condominio. L'art. 26, 2° comma, della L. 9 gennaio 1991, n. 10, stabilisce che per gli interventi in parti comuni di edifici in condominio, volti al contenimento del consumo energetico, sono valide le deliberazioni prese con la maggioranza delle quote millesimali ( Cass. 18 agosto 2005 n. 16980, , Cass. 11 maggio 2006 n. 10871). Opere di manutenzione straordinaria di rilevante entità Per quanto attiene alle maggioranze necessarie per l'approvazione delle opere di straordinaria manutenzione (approvazione ch e richiede, in prima o in seconda convocazione, una adesione del tutto eguale a quella di ogni altra deliberazione), il codice prevede come si è accennato nel precedente paragrafo - anche l'ipotesi che tali opere rivestano la caratteristica della rilevante entità. Tale previsione è contenuta nel quarto comma dell'art. 1136 c.c. secondo cui le opere di manutenzione straordinaria «di notevole entità», oltre che deliberate dall' assemblea, debbono essere approvate con una particolare e qualificata maggioranza. Ne deriva che mentre le opere di manutenzione straordinaria, che comportano una spesa di normale entità, possono essere deliberate, in seconda convocazione, con una maggioranza che rappresenti un terzo dei condomini ed un terzo del valore dell' edificio, ogni deliberazione che attiene ad opere di notevole gravità, deve essere sorretta, sia in prima che in seconda convocazione, dalla maggioranza d egli intervenuti all' assemblea i quali a loro volta debbono rappresentare almeno la metà del valore dell' ed ificio, secondo le tabelle millesimali. Stabilire se una spesa sia o meno di notevole entità comporta una valutazione non facile, tanto più che non esiste alcun cri terio fissato dalla legge per una tale distinzione. In questo ambito, comunque, riteniamo che debba essere soprattutto utilizzato il criterio dell'incidenza della spesa in relazione al valore economico della proprietà comune o individuale ed ai tempi di ammortamento . Così, ad esempio, il rifacimento di una facciata che incida su ogni singola proprietà in una misura compresa entro il cinque per cento del suo valore, non potrà che essere considerata come opera di normale entità, nella previsione di una durata dell'intervento che vada oltre i dieci anni (Cass. 6 gennaio 1982 n. 15, Cass. 29 gennaio 1999 n. 810). IMPUGNAZIONI DELLE DELIBERAZIONI Art.1137. (Impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea). — Le deliberazioni prese dall'assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino dissenziente può fare ricorso all'autorità giudiziaria, ma il ricorso non sospende l'esecuzione del provvedimento, salvo che la sospensione sia ordinata dall'autorità stessa. Il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti (1). (1) È costituzionalmente illegittima la legge 10 luglio 1969 n. 742 nella parte in cui non dispone che la sospensione dei termini nel periodo feriale si applichi anche al termine di trenta giorni, di cui all'art. 1137 cod. civ., per le impugnazioni delle deliberazioni delle assemblee di condominio (Corte cost. 2 febbraio 1990 n. 49). Le deliberazioni dell’assemblea sono obbligatorie per tutti i condomini, con la conseguenza che il condomino dissenziente non può, in mancanza di formale impugnazione a termini dell'art. 1137 cod. civ. — alla quale non può essere equiparata una contestazione scritta — sottrarsi al pagamento di quanto da lui dovuto in base alla ripartizione approvata (Cass. 14 luglio 1989 n. 3291), in difetto di sospensione (Cass. 13 febbraio 1996 n. 1093), mentre la delibera stessa costituisce prova scritta idonea ad ottenere decreto ingiuntivo (artt. 63 disp. att. cod. civ. e 633 cod. proc. civ.) per il pagamento delle spese condominiali, perché la relativ a delibera vincola anche gli assenti ed i dissenzienti finché non dichiarata nulla o annullata dal giudice dell'impugnazione (art. 1137 cod. civ.) (Cass. 9 ottobre 1997 n. 9787, Cass. 8 agosto 2000 n. 10427, Cass. 18 novembre 1997 n. 11457; conf. Cass. 7 luglio 1999 n. 7073; Cass. 13 novembre 1999 n. 11515; Cass. 17 maggio 2002 n. 7261; Cass. 18 febbraio 2003 n. 2387). L'art. 1137 c.c. prevede infatti la possibilità che, contro le deliberazioni approvate dall'assemblea, sia fatta impugnazione ricorrendo all'autorità giudiziaria, mediante il promuovimento di un giudizio ordinario, avente come oggetto 1'annullamento della decisione. La relativa azione può essere promossa solamente da chi, in assemblea, abbia votato contro la deliberazione impugnata oppure non sia stato presente all' assemblea stessa (Cass. 5 settembre 1969 n. 3060; Cass. 16 aprile 1973 n. 1079). La giurisprudenza ritiene che sia legittimato all'impugnazione anche colui che, presente, si sia astenuto dal votare (Cass. 25 luglio 1978 n. 3725, Cass. 9 dicembre 1988 n. 6671, Cass. 9 gennaio 1999 n. 129). Il condomino il quale abbia partecipato all'assemblea, anche se abbia espresso voto conforme alla deliberazione che si assume nulla, è legittimato a far valere la nullità sol che alleghi e dimostri di avervi interesse (Cass. 27 maggio 1982 n. 3232, Cass. 16 novembre 1992 n. 12281). In una controversia tra un condomino ed il condominio avente ad oggetto il criterio di ripartizione di una parte soltanto della complessiva spesa deliberata dall'assemblea, il valore della causa si determina in base all'importo contestato e non all'intero ammontare di esso perché la decisione non implica una pronuncia, con efficacia di giudicato, sulla validità della delibera concernente la voce di spesa nella sua globalità (Cass. 24 gennaio 2001 n. 971). Le decisioni sulla nomina dell’amministratore e sulla formazione delle tabelle millesimali, hanno invece Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 28 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio un valore indeterminabile, che esclude la competenza del giudice di pace (Cass. 24 gennaio 2001 n. 971, Cass. 28 aprile 1976 n. 1513). Il ricorso al giudice non sospende l'esecuzione della deliberazione (che è immediatamente obbligatoria per tutti). Solamente il giudice investito della controversia può, all'inizio della lite, disporre che la esecutività della decisone sia sospesa sino all' esito del giudizio. La domanda di annullamento di una deliberazione deve essere proposta nel termine di trenta giorni, che decorrono dal giorno dell' assemblea per coloro che erano presenti, oppure dal giorno della comunicazione della deliberazione stessa, per coloro che non parteciparono alla riunione. Ciò vuol dire che una deliberazione irregolare diviene immutabile se nessuno dei condomini che hanno diritto alla impugnazione, ricorra al giudice entro il termine previsto. Tale principio trova giustificazione nella considerazione che la mancata impugnazione costituisce una sorta di accettazione che vale a sanare ogni vizio della decisione. La controversie avente per oggetto una deliberazione dell’assemblea che si assume invalida, secondo l’ultimo orientamento della Cassazione si può proporre con ricorso, il cui deposito in cancellarla vale a rispettare il termine di decadenza (Cass. 27 febbraio 1988 n. 2081). Se proposto con citazione, secondo una regola generale attinente alla conversione dei riti, per il computo della decadenza, si deve far riferimento al deposito in cancelleria della citazione notificata. Il ricorso o la citazione debbono essere notificati all' amministratore di condominio (che è il rappresentante dei condomini per le liti passive). L'impugnazione di una deliberazione è ammessa solamente per motivi di legittimità. In altri termini la decisione del condominio può essere annullata solamente se la stessa è contraria alla legge o al regolamento e non per motivi di opportunità. D'altro canto il giudice può solamente annullare la deliberazione, e non sostituirla con altra conforme alla legge (Cass. 20 aprile 1994 n. 3747, Cass. 11 febbraio 1999 n. 1165). Sulle delibere dell'assemblea di condominio, comunque, se il sindacato dell'autorità giudiziaria non può estendersi alla valutazione del merito ed al controllo della discrezionalità di cui dispone l'assemblea, lo stesso giudizio, secondo la giurisprudenza, si estende anche al riguardo dell'eccesso di potere, ravvisabile quando la causa della deliberazione sia falsamente deviata dal suo modo d'essere, in quanto pure in tal caso il giudice, non controlla l'opportunità o convenienza della soluzione adottata dall'impugnata delibera, ma deve solo stabilire se la delibera sia o meno il risultato del legittimo esercizio dei poteri discrezionali dell'assemblea, come ad esempio nel caso di approvazione di un rendiconto non veritiero ovvero di mancanza di comunicazione di un preventivo più conveniente (Cass. 27 gennaio 1988 n. 731, Cass. 26 aprile 1994 n. 3938, Cass. 20 aprile 2001 n. 5889), . L'annullamento di una deliberazione può avvenire per questioni attinenti al procedimento di formazione della volontà del condominio, quando si sia verificata una irregolarità, rispetto a quanto previsto dalla legge o dal regolamento. Ciò si verifica quando l'avviso di convocazione sia stato recapitato in ritardo o quando lo stesso non contenga l'ordine del giorno, oppure quando una deliberazione sia stata presa su materie per le quali i condomini non erano stati informati. L'annullamento può essere inoltre pronunciato per motivi attinenti al suo contenuto: ciò si verifica, ad esempio, quando 1'assemblea abbia ripartito le spese in modo non conforme alle tabelle allegate al regolamento di condominio, oppure quando sia stata data ad un bene comune una regolamentazione d'uso non conforme a quanto previsto dal regolamento stesso. La giurisprudenza comunque ha riconosciuto che, in materia di deliberazioni condominiali, possono esistere deliberazioni radicalmente nulle (e non semplicemente annullabili), rispetto alle quali non si applica il principio della «acquiescenza» nel caso di mancata impugnazione nei termini. In relazione alle deliberazioni nulle radicalmente, non valgono le regole relative alle impugnazioni. In altri termini chiunque può far valere, in qualunque momento (anche a distanza di anni), la nullità di una deliberazione, senza alcun limite, sia agendo in giudizio per il riconoscimento della nullità, sia opponendo la stessa al condominio che pretenda pagamenti (o comportamenti) sulla base di una decisione radicalmente invalida. Le deliberazioni nulle radicalmente venivano individuate da una giurisprudenza consolidata (Cass. 30 gennaio 1967 n. 181, Cass. 11 giugno 1968 n. 1853, Cass. 11 giugno 1968 n. 1853, Cass. 11 giugno 1968 n. 1865, Cass. 9 luglio 1971 n. 2217, Cass. 14 marzo 1972 n. 740, Cass. 16 aprile 1973 n. 1079, Cass. 9 luglio 1975 n. 2696, Cass. 21 settembre 1977 n. 4035, Cass. 21 febbraio 1995 n. 1890, Cass. 24 maggio 2004 n. 9981) in quelle attinenti al procedimento di formazione: quando cioè fosse stata del tutto omessa la convocazione anche di un solo condomino, oppure quando risulti che in assemblea non sia stata raggiunta una maggioranza sufficiente in relazione all' oggetto della deliberazione. Tale giurisprudenza ha subito una radicale inversione di tendenza limitando molto il concetto di nullità delle deliberazioni assembleari. Le Sezioni Unite della Cassazione infatti, nel comporre un contrasto di giurisprudenza (Cass. 5 gennaio 2000 n. 31; Cass. 5 febbraio 2000 n. 1292, Cass. 2 ottobre 2000 n. 13013),hanno stabilito, in modo si spera definitivo, che debbono qualificarsi nulle radicalmente solamente le delibere dell'assemblea condominiale prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto Secondo la stessa Corte debbono, invece, qualificarsi semplicemente annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme richiedenti qualificate maggioranze in relazione all'oggetto. Ne consegue che la mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale, la mancanza delle maggioranze prescritte in relazione all’oggetto ed ogni altra irregolarità formale attinente al processo di formazione dell’assemblea, comporta, non la nullità, ma l'annullabilità della delibera condominiale, la quale, ove non impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137, terzo comma, cod. civ. (decorrente, per i condomini assenti, dalla comunicazione, e, per i condomini dissenzienti, dalla sua approvazione), è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio (Cass., Sez. Un., 7 marzo 2005 n. 4806). REGOLAMENTO DI CONDOMINIO Art. 1138. (Regolamento di condominio). — Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell'edificio e quelle relative all'amministrazione. Ciascun condomino può prendere l'iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o per la revisione di quello esistente. Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 29 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio Il regolamento deve essere approvato dall'assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell'articolo 1136 e trascritto nel registro indicato dall'ultimo comma dell'articolo 1129. Esso può essere impugnato a norma dell'articolo 1107. Le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli 1118, secondo comma, 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137. Strumento importantissimo, se non indispensabile (Cass. 3 gennaio 1977 n.1), nella vita e nella gestione della comunione edi lizia è certamente il «regolamento di condominio». Lo stesso consiste nell'insieme delle regole fondamentali, obbligatorie nei confronti di tutti, che servono a disciplinare anzitutto, in linea generale e preventiva, l’identificazione (Cass. 21 gennaio 1975 n. 248) e l'utilizzazione dei beni comuni, la ripartizione delle spese, la tutela dell' edificio e le modalità dell' amministrazione, ma che possono anche regolamentare i diritti che ciascun condomino ha sulla comunione stessa, ed i rapporti tra la proprietà comune e quell a delle singole proprietà individuali. Esistono due tipi di regolamento, quello cosiddetto «assembleare», che è cioè approvato dalla maggioranza dei condomini in a ssemblea, e quello che comunemente viene chiamato «contrattuale» perché trova la sua origine nell' accordo tra tutti i singoli proprietari. Entrambi devono avere ad substantiam, la forma scritta. (Cass. 30, ss.uu. dicembre 1999 n. 943). L'adozione di un regolamento, secondo l'art. 1138 c.c., è obbligatorio per i con domini che abbiano un numero di partecipanti superiore a dieci, e deve contenere le norme per l'uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, nonché quelle per la tutela d el decoro dell' edificio e quelle relative all' amministrazione. Ciascun condomino può prendere l'iniziativa per la formazione del regolamento di condominio o per la revisione di quello esistente. Il regolamento, sempre secondo la disposizione citata, deve essere delib erato dall'assemblea di condominio, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti che rappresentin o almeno la metà del valore dell' edificio. I regolamenti condominiali, non approvati dall'assemblea, ma adottati coattivamente, in virtù di sentenza att uativa del diritto potestativo di ciascun partecipe del condominio (con più di dieci componenti) di ottenere la formazione del regolamento della comunione, hanno efficacia vincolante per tutti i condomini, ai sensi dell'art. 2909 cod. civ., a seguito del passaggio in gi udicato di detta sentenza (Cass. 1o febbraio 1993 n. 1218) Colui che compra un appartamento di un edificio in condominio resta obbligato dal regolamento condominiale finché questo non sia stato modificato dall'assemblea dei condomini; ed è nulla ogni clausola contraria, eventualmente contenuta nell'atto d'acquis to, concluso con il proprietario dell'appartamento (Cass. 25 luglio 1977 n. 3309). Regolamento assembleare La disposizione dell'art. 1138 c. c. , si riferisce al regolamento cosiddetto «assembleare», quello cioè approvato da una semplice maggioranza, che può stabilire, anticipatamente, le regole da seguire in relazione alla sola utilizzazione dei beni, alla tutela dell' edificio, ed alla amministrazione. Tale regola mento può essere modificato dall' assemblea, con la maggioranza richiesta per la sua approvazione, e si ritiene che, con la medesima maggioranza, possano essere validamente approvate, di volta in volta, deliberazioni «in deroga» (cioè in contrasto) al regolamento stesso. Va comunque detto che, a mente dell' art. 68 disp. atto C.c., il regolamento di condominio deve precisare il valore di ciascun appartamento e che tali valori debbo no essere riportati nelle tabelle millesirnali che devono essere allegate al regolamento stesso. Poiché come abbiamo visto le tabelle millesimali debbono essere approvate da tutti i condomini (o determinate giudizialmente), ne risulta che, complessivamente, la formazione di un regolamento di condominio richiede una duplice approvazione: quella della totalità dei condomini, in relazione alla determinazione delle ta belle millesimali, e quella dell' assemblea che, a semplice maggioranza, può approva re le norme sull'uso e sull' amministrazione dei beni comuni. Il regolamento «assembleare» in quanto approvato da una semplice maggioranza dei condomini, non può certamente, con le sue no rme, menomare o limitare i diritti di ciascun condomino in relazione alle singole proprietà esclusive. Solamente un regolamento di tipo «contrattuale» può contenere disposizioni atte ad incidere sia sulle proprietà esclusive dei singoli, sia su quelle comuni. La disciplina della ripartizione delle spese condominiali contenuta in un regolamento di natura contrattuale, può essere innovata , in base al principio dell'autonomia contrattuale enunciato dall'art. 1322 cod. civ., da una nuova convenzione, che richiede il co nsenso di tutti i condomini. La stessa convenzione modificatrice del regolamento, può anche non avere forma scritta, se non incide in diritti i mmobiliari e può anche esprimersi per facta concludentia, manifestata da un comportamento univoco. (Cass. 16 luglio 1991 n. 7884). Regolamento contrattuale Perché un regolamento possa dirsi «contrattuale» e possa di conseguenza ave re una tale efficacia, è necessario che lo stesso venga approvato da tutti i condomini, nessuno escluso. È necessario altresì che il regolamento, in quanto incide su diritti reali immobiliari, sia consacrato in un atto scritto che rechi la firma di ogni interessato. Altra forma di regolamento di tipo «contrattuale» è que llo che sorge, unitamente al fabbricato, ad iniziativa del costruttore (che può anche essere una cooperativa edilizia), che lo impone agli acquirenti (o assegnatari) degli appartamenti, mediante un richiamo espresso nei singoli atti di trasferimento (Cass. 20 febbraio 1974 n. 4 54, Cass. 5 febbraio 1980 n. 832, Cass. 25 ottobre 2001 n. 13164). Il regolamento contrattuale di condominio, anche se non inserito nel testo del contratto di compravendita delle singole unità immobiliari, fa corpo con esso quando sia espressamente richiamato, di modo ch e le sue clausole rientrano per relationem nel contenuto dei singoli contratti di acquisto e vincolano i singoli acquirenti indipendentemente dalla trascrizione (Cass. 21 febbraio 1995 n. 1886, Cass. 14 aprile 1983 n. 2610, Cass. 13 luglio 1983 n. 4781). Un regolamento che abbia efficacia contrattuale, nel senso sopra indicato, costituisce «titolo» per la individuazione dei beni facenti parte della comunione edili zia. Sulla base, infatti, del suo contenuto, può stabilirsi se un determinato bene faccia parte della comunione o se sia invece da considerarsi di proprietà esclusiva di un singolo condomino, indipendentemente dalla circostanza che il bene stesso sia com preso tra quelli per i quali, secondo l'art. 1117 C.c., esiste la presunzione di comproprietà. Così ad esempio, tale regolamento, può stabilire (con efficacia nei confronti di tutti), che un' area scoperta, adiacente al fabbricato, o un' autorimessa, o il so tto tetto rientrino tra le proprietà comuni; che, al contrario, il lastrico solare o il tetto dell' edificio sia di proprietà esclusiva di un solo condomino; che un Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 30 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio cortile di proprietà di un singolo condomino, sia gravato da servitù di passaggio in favore del condominio; che, infine, gli spazi esistenti al disotto del piano scantinato siano rimasti di proprietà del costruttore. Il regolamento «contrattuale» può anche essere fonte di limitazioni per le sin gole proprietà individuali. In questo senso sono valide ed efficaci le clausole che fanno divieto ai proprietari di destinare gli appartamenti (od i locali) all' esercizio di determinate attività. Nel caso di trasferimento della proprietà individuale, il regolamento «contrattuale» se richiamato nell' atto di acquisto diventa obbligatorio anche nei confronti dell' acquirente. Le disposizioni che limitano le facoltà e i diritti del proprietario, in mancanza di tale espresso richiamo, possono valere nei confronti di tutti, solamente se il regolamento sia stato trascritto nei registri immobiliari. Le clausole contenute nei regolamenti condominiali, le quali limitano il diritto sui beni comuni o sulle cose di proprietà esclusiva, integrano veri e propri oneri reali o servitù prediali, ed in tanto sono opponibili ai terzi acquirenti a titolo particolare, in quanto siano specificamente trascritte ovvero siano state oggetto di particolari clausole inserite nell’atto di acquisto. (Cass. 11 novembre 1974 n. 3525, Cass. 27 giugno 1973 n. 1856, Cass. 14 marzo 1975 n. 970; Cass. 11 maggio 1978 n. 2305, Cass. 12 maggio 1982 n. 2966, Cass. 13 luglio 1983 n. 4781, Cass. 17 marzo 1994 n. 2546). Modifica ed impugnazione del regolamento Il regolamento può essere modificato. Per la modifica del regolamento «assembleare», è richiesta la stessa maggioranza prevista per la sua approvazione. Per quanto attiene al regolamento «contrattuale» occorre distinguere le norme che incidono sulla proprietà (quelle cioè che individuano i beni comuni e quelle che limita no i diritti dei condomini sulle loro proprietà individuali) da quelle che attengono semplicemente all'uso delle cose comuni, alla tutela dell' edificio ed alla amministrazione. Le prime sono modificabili solamente con l’assenso di tutti i condomini, nessuno escluso (in pratica si tratta di formare un nuovo regolamento contrattuale), le seconde possono essere invece modificate dall' assemblea con le maggioranze previste (Cass. 12 marzo 1976 n. 864, Cass. 21 gennaio 1985 n. 208, Cass. 18 aprile 2002 n. 5626). Secondo quanto previsto dall'art. 1138 c.c. il regolamento condominiale approvato dall'assemblea può essere impugnato, da ciascun condomino, entro trenta giorni dalla deliberazione di approvazione (se il condomino era presente all'assemblea) o dalla comunicazione del verbale (se era assente). Decorso tale termine, senza alcuna impugnativa, il regolamento diventa definitivo e valido per tutti i condomini, i loro eredi ed aventi causa. Da quanto sopra esposto risulta quindi che, oltre alle disposizioni del codice civile, anche il regolamento costituisce, in definitiva, la legge del condominio. Deve dirsi ancora che il regolamento, se ha origine ed efficacia «contrattuale», può addirittura validamente dettare norme in contrasto con le disposizioni del codice. Esistono comunque alcune disposizioni di carattere generale che lo stesso art. 1138 c.c. dichiara espressamente inderogabili. Ciò vuol dire che né un regolamento contrattuale, né quello di origine «assembleare», possono derogare con alcune regole fondamentali del condominio. Le disposizioni inderogabili sono quelle che riguardano l'irrinunciabilità della proprietà sui beni comuni (art. 1118), l'indivisibilità degli stessi (art. 1119), il divieto di innovazioni dannose per il condominio (art. 1120), la necessità della nomina e la possibilità della revoca dell'amministratore (artt. 1129), i poteri di rappresentanza del condominio in favore dell' amministratore (art. 1131), la possibilità che ogni condomino si dissoci dalle liti promosse dal condominio (art. 1132), la formazione delle deliberazio ni in assemblea e la possibilità di impugnazione delle stesse (art. 1137). Le tabelle millesimali Secondo quanto disposto dall'art. 1118 c.c. il diritto di ciascun condomino sulle cose di proprietà comune è proporzionato a l piano o al valore dell' apparta mento che sia di proprietà esclusiva di questi. Tale misura del diritto è importante soprattutto per quanto attiene alla suddi visione delle spese (o degli eventuali redditi) in relazione ai beni facenti parte della comunione edilizia. La stessa misura è anche determinante per stabilire la sfera di influenza che ogni singolo proprietario può avere nelle decisioni del condominio, poiché, nella formazione delle maggioranze necessarie per 1'approvazione delle deli bere assembleari, deve tenersi conto anche (e soprattutto) del valore delle quote rappresentate dai partecipanti all' assemblea. In questo senso assumono grande importanza, nella vita del condominio, le «tabelle millesimali» che rappresentano appunto la individuazione precisa (in termini di frazioni millesimali) del valore di ciascun appartamento, rispetto al valore tot ale dell' edificio. La loro formazione è prescritta obbligatoriamente, solo per i condomìni che abbiano più di dieci partecipanti. Le stesse, quindi , non sono assolutamente necessarie (potendo i valori essere ricavati semplicemente da elementi obiettivi, rapportati ad esempio alla superficie di ogni appartamento), ma certamente la loro mancanza può essere fonte di difficoltà nella gestione del condominio, per la cont inua possibilità da parte di ogni condomino di poter contestare i criteri di ripartizione delle spese o la formazione delle maggioranze in assemblea. Generalmente le tabelle millesimali sono predisposte dal costruttore dell' edificio e richiamate nei singoli atti di acquisto , diventando caratteristica immutabile di ogni unità immobiliare. Al di fuori di tale ipotesi le tabelle debbono essere predisposte ed approvate da tutti i condomini, nessuno escluso, trattandosi di un atto ricognitivo dell' estensione dei diritti dei singoli (Cass. 6 marzo 1967 n. 520; Cass. 23 dicembre 1967 n. 392; Cass. 5 luglio 1973 n. 1887).. Va detto tuttavia che non essendo richiesta, per l'adesione, la forma scritta, l'assenso dei condomini che non abbiano partecipato alla loro approvazione, può risultare da un comportamento non equivoco (quando ci oè le tabelle stesse non siano state in alcun modo contestate per lungo tempo). Quando in un condominio non esistono le tabelle millesimali, ciascun condomino può attivar si per la loro determinazione. Qua lora non sia possibile addivenire ad un accordo tra tutti, la formazione delle tabelle può essere chiesta all' autorità giudiziaria, introducendo un giudizio ordinario che deve svolgersi, necessariamente, nei confronti di tutti. Chi assume l'iniziativa deve cioè citare in giudizio, davanti al tribunale, tutti i condòmini (Cass. 30 marzo 1990 n. 2590, Cass. 29 novembre 1995 n. 12342). Le tabelle millesimali, qualunque sia l'origine della loro formazione (predisposte dal costruttore, derivanti da accordo unanime o determinate dal tribunale) sono modificabili solamente con l'accordo di tutti i partecipanti alla comunione edilizia (Cass. 7 novembre 1981 n. 5905). La loro modifica richiede cioè la stipulazione di un accordo da parte di tutti gli interessati. In mancanza di un tale accordo, la revisione delle tabelle può essere chiesta al tribunale (sempre nelle forme di un giudizio ordinario) solamente nel caso in cui le stesse siano frutto di un errore oppure quando si sia verificato un mutamento nelle condizioni dell' edificio che abbia portato ad una alterazione del rapporto originario tra i valori dei singoli piani o appartamenti (art. 69 disp. atto c.c.). Tra gli errori che giustificano una revisione delle tabelle, oltre agli erro ri materiali di Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 31 Alberto Bucci – Guida rapida al condominio calcolo, possono annoverarsi una errata valutazione dei coefficienti, presi a base della determinazione dei valori, l'errata trascrizione delle superfici o dei volumi dai quali partono i conteggi (Cass. 11 gennaio 1982 n. 116, Cass. 27 marzo 2001 n. 4421; Cass. 2 8 marzo 2001 n. 4528). E poiché la legge vieta espressamente (art. 68 disp. atto c.c.) che nella formazione delle tabelle possano prendersi in considerazione il canone locatizio, i miglioramenti o lo stato di manutenzione delle singole unità immobiliari, è certamente modificabile la tabella che abbia erroneamente tenuto conto di tali circostanze. I mutamenti delle condizioni dell' edificio sono quelli che incidono sui valori, quali ad esempio una sopraelevazione, un aumento di cubatura di un singolo appartamento, il perimento o l’espro priazione di parte del condominio, la realizzazione di innovazioni che arrechino pregio ad alcune unità immobiliari (realizzazione di un ascensore). Deve tenersi conto, tuttavia, che in questo ambito le tabelle millesirnali sono rivedibili solamente quando i mutamenti abbiano portato ad una «notevole alterazione» del rapporto tra i valori e che, di conseguenza, modesti mutamenti di scarsa incidenza non possano essere addotti alla base di una richiesta di revisione davanti al tribunale. Alberto Bucci – Guida rapida al condominio pag. 32