3. I contenuti delle relazioni pubbliche Le relazioni pubbliche, lo si è già detto, sono quelle attività consapevoli che una qualsiasi organizzazione attiva per creare, sviluppare o consolidare relazioni con i suoi pubblici influenti: quei pubblici che la coalizione dominante1 ritiene possano agevolare oppure ostacolare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti. Dopo averne esplorato alcune criticità strutturali e ripercorso le dinamiche storiche negli Stati Uniti e in Italia, affrontiamo ora più in dettaglio alcuni aspetti legati alla loro operatività quotidiana. 3.1 A cosa servono La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di una organizzazione grazie ad una attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e coordinamento dei sistemi di relazione2 che si attivano fra l’organizzazione stessa e i segmenti di pubblico per lei influenti. Sistemi di relazioni che, per essere efficaci, devono essere trasparenti, bidirezionali e tendenzialmente simmetrici. Può apparire superfluo scrivere che le relazioni pubbliche contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione. Eppure, per molti anni è valso – ed è ancora oggi diffuso – lo stereotipo per cui, in una organizzazione, le relazioni pubbliche rientrano fra le funzioni non indispensabili. C’è di più: anche per reazione a questa connotazione riduttiva, fra gli stessi operatori circola l’argomento che le relazioni pubbliche si debbano proporre obiettivi propri, autonomi, istituzionali, quasi che la funzione fosse indipendente dalla specifica organizzazione e gli obiettivi fossero dunque sempre gli stessi, in qualsiasi contesto o situazione: migliorare l’immagine, elevare la visibilità del top management e così via. Qualcuno ha addirittura sostenuto che le relazioni pubbliche svolgono, all’interno di un’organizzazione, una funzione di “rappresentanza” delle istanze degli stakeholder, quasi si trattasse di un ombudsman degli stakeholder nel cuore dell’organizzazione. Si tratta di interpretazioni estreme, difficilmente condivisibili e molto spesso fuorvianti. Nel primo caso, alla funzione viene riconosciuto un ruolo nice to have (utile, ma non strettamente necessario) poiché le si attribuisce la sola esecuzione operativa di eventi, programmi e 1 James Grunig (1992) definisce la coalizione dominante come il gruppo di persone in una organizzazione che detiene il potere di definire strutture e decidere strategie e programmi in un determinato periodo di tempo; la sua legittimazione deriva da coloro verso i quali questo potere viene esercitato. È evidente che all’interno delle organizzazioni ci può essere notevole differenza tra i vertici formali definiti dallo statuto o dalla legge e quelli sostanziali che esercitano effettivamente il potere: da qui la considerazione che la coalizione dominante è situazionale, nel senso che può variare a seconda della questione in oggetto. 2 I termiini comunicazione e relazione vengono usati in maniera confusa. È bene quindi distinguere la relazione, la cui costruzione e gestione è il fine ultimo che le relazioni pubbliche si propongono, dalla comunicazione, che invece ne diventa uno strumento attuativo. iniziative decise da altri (dal vertice o dalle altre funzioni aziendali, quali il commerciale, il marketing, il personale o la produzione). Di qui la consuetudine di alcune organizzazioni di affidare in toto le loro relazioni pubbliche all’esterno. Non ritenendola funzione essenziale, strategica, e neppure necessariamente continuativa, è giocoforza -anzi “moderno”- applicare l’esternalizzazione (outsourcing), una pratica normalmente consigliata per le funzioni tattiche che non fanno parte del core business (il “nocciolo duro” dell’organizzazione, l’attività che la contraddistingue)3. Nel secondo caso, alle relazioni pubbliche viene attribuito un ruolo generico e comunque adatto per tutti gli usi. È assai vago infatti dire, come spesso fanno anche gli operatori, che l’obiettivo delle relazioni pubbliche è quello di migliorare l’immagine di un’organizzazione.4 Nel terzo caso, alle relazioni pubbliche viene attribuito un ruolo di rappresentanza (similsindacale) degli stakeholder all’interno di un’organizzazione5, in una accezione che accentua fino a stravolgerla la fase dell’ascolto, definita anche ‘riflettiva’, che invece, come vedremo più avanti, rappresenta una delle diverse funzioni strategiche delle relazioni pubbliche. L’ascolto aiuta anche a identificare, rispetto a un obiettivo determinato e noto, le variabili davvero prioritarie e gli influenti effettivamente tali. La sua finalità è comprendere a fondo atteggiamenti, opinioni, valori e comportamenti degli influenti, sia quelli sulle variabili sia quelli sui destinatari finali, per attivare con loro iniziative di relazione capaci di facilitare, con risultati misurabili, il raggiungimento di quel particolare obiettivo, tenendo comunque sempre presente la necessità (pena l’efficacia stessa della relazione) di assicurare che gli stessi influenti ricavino un valore aggiunto percepito dalla loro relazione con l’organizzazione. Resta in ogni caso il fatto che attività di relazioni pubbliche non finalizzate al raggiungimento di un obiettivo specifico di un’organizzazione sono del tutto inutili. Nella definizione viene anche sottolineato che le relazioni pubbliche sono un’attività consapevole e programmata. Infatti, per il semplice motivo di esistere e di operare, ogni organizzazione anche se priva di una funzione interna di relazioni pubbliche e/o di un servizio di consulenza esterno, sviluppa relazioni con altri soggetti6 quali i collaboratori, i dirigenti, gli azionisti, i clienti, gli aderenti, i soci, gli elettori, le istituzioni; e spesso si tratta di relazioni non consapevoli e non programmate. Intendiamoci, non vogliamo affatto sostenere che questo sia di per sé negativo. Riflettendo sull’esperienza di vita quotidiana è facile constatare come una parte significativa della nostra vita di relazione non sia 3 A proposito della differenza tra funzioni tattiche e strategiche rimandiamo al paragrafo 1.5 in cui si descrivono le funzioni tattiche-operative e quelle strategiche delle relazioni pubbliche, anche con riferimento ai ruoli individuati dal Bled Manifesto. 4 Si assiste anche ad una generale confusione attorno ai concetti di identità, immagine e reputazione. Il termine identità indica i valori alla base di una organizzazione veicolati con la comunicazione dei suoi comportamenti, mentre immagine fa riferimento alla percezione dell’identità che ne hanno i pubblici influenti e che viene solitamente trasferita da una comunicazione persuasiva. La reputazione, invece, si riferisce alla percezione dell’organizzazione che ne hanno i soggetti in base alla loro esperienza nel tempo, diretta od indiretta. Alcuni relatori pubblici attribuiscono prevalenza alla reputazione: i critici di questa scelta argomentano invece che la reputazione di per sé non implica, a differenza della relazione, strumenti di governo poiché soggetta soprattutto a variabili non governabili (a differenza della relazione) e non permette misurazione né valutazione: quindi non è una variabile manageriale. 5 È quella che viene definita “sindrome di Stoccolma”, ovvero la tendenza del relatore pubblico – fedele al suo ruolo riflessivo di interprete delle aspettative degli stakeholder presso la coalizione dominante – di sovrastimare l’importanza dello stakeholder presumendo che i suoi interlocutori interni la sottostimeranno, immaginando in tal modo di raggiungere un equilibrio accettabile. Il relatore pubblico rischia così di perdere la sua credibilità presso il cliente/datore di lavoro compromettendo così anche le stesse aspettative degli stakeholder e soprattutto l’efficacia del proprio lavoro. 6 Applicando alle organizzazioni la “teoria generale dei sistemi” del biologo austriaco Ludwig von Bertalanffy, è possibile postulare una stretta interdipendenza e interazione fra queste e tutti gli elementi che fanno parte della realtà sociale, economica e culturale nelle quali sono immerse. Attraverso tali interazioni ciascun attore influenza il comportamento degli altri. consapevole e neppure programmata. Vogliamo soltanto affermare che, in situazioni e condizioni normali, gli obiettivi si conseguono con maggiore efficacia se le relazioni con chi ne può condizionare o influenzare il raggiungimento sono gestite e coordinate in modo consapevole e programmato. Un ulteriore concetto presente nella definizione è quello di “sistema di relazioni”, inteso come insieme di rapporti fra un’organizzazione e altri soggetti. Possono essere singole persone, gruppi di persone, imprese, associazioni, governi, enti locali, istituzioni che – sempre rispetto a uno specifico obiettivo perseguito dall’organizzazione – sono accomunati da interessi, valori, convinzioni o comportamenti omogenei, conflittuali o semplicemente condivisi. Così, un’impresa che importa e commercializza modem sviluppa relazioni con i suoi azionisti, i produttori internazionali di modem, i dipendenti, i distributori, i fornitori, i clienti finali, le banche. E ancora: con l’amministrazione pubblica, i concorrenti, i produttori e distributori di hardware e di software, la stampa tecnica e così via. Un’organizzazione che persegua i suoi obiettivi in modo consapevole, cercherà di gestire e coordinare i suoi numerosi sistemi di relazione in modo da facilitarne il raggiungimento. In proposito, si può osservare come la scienza manageriale di oggi distingua un’organizzazione ben diretta da una meno ben diretta anche in base al livello di consapevolezza con cui questa gestisce e coordina i suoi sistemi di relazione con gli influenti. Negli ultimi anni è stata attribuita un’importanza sempre più decisiva al concetto di “relazione”, tanto che molti misurano il vero valore aggiunto di un’organizzazione in base al livello di consapevolezza, di governo e di possesso (ownership) della relazione con gli stakeholder7. Sotto quest’aspetto, appare paradossale che i relatori pubblici preferiscano chiamarsi diversamente8 e siano così restii a capitalizzare, acquisendo nuove competenze e piena consapevolezza, il fatto che il termine “relazione” sia parte integrante della definizione stessa del loro lavoro: un vantaggio competitivo pressoché unico rispetto ad altri manager o consulenti di impresa. Tornando alla definizione, quando si dice che le relazioni pubbliche coordinano e gestiscono i sistemi di relazione di un’organizzazione si vuole soprattutto intendere che il coordinamento, a differenza della gestione, riguarda quei sistemi di relazione normalmente intrattenuti dalle altre funzioni manageriali. Per continuare con l’esempio dell’azienda che commercializza i modem, non spetterà certo alle relazioni pubbliche gestire i sistemi di relazione con la rete commerciale e neppure con i fornitori o le banche. Questo compito spetterà, rispettivamente, al direttore commerciale, all’ufficio acquisti e alla direzione finanziaria, così come competerà alla direzione risorse umane gestire le relazioni con i dipendenti e con i sindacati, e alla direzione marketing le relazioni con il mercato. La funzione delle relazioni pubbliche si eserciterà soprattutto nell’assicurare al vertice aziendale che quei sistemi di relazione siano coerenti e finalizzati al raggiungimento di obiettivi sinergici e nel “monitorare” che i messaggi chiave trasferiti siano efficaci e funzionali agli obiettivi perseguiti. Vi sono però anche alcuni sistemi di relazione la cui effettiva gestione viene normalmente delegata alle relazioni pubbliche. La situazione può variare secondo la specifica organizzazione, la sua Il benessere organizzativo è il risultato cumulato delle conseguenze che l’organizzazione produce sui pubblici influenti e che questi ultimi producono sull’organizzazione. Interpretando la capacità di creare benessere (wealth) come fattore di successo, sviluppare relazioni con gli stakeholder è un vantaggio che permette all’organizzazione di incrementare il suo valore. (Post, Preston e Sachs, 2002) 8 Sovente la comunità professionale si trova a discutere se i suoi professionisti debbano essere definiti comunicatori o relatori pubblici. Nel primo caso, la finalità del nostro lavoro è assistere le organizzazioni nel definire i contenuti, progettare e distribuire strumenti oppure programmi per trasferirli ad altri. Nel secondo caso, invece, la finalità dei relatori pubblici è di interpretare – ascoltandoli e dialogando con loro – i pubblici influenti, attivando e governando i relativi sistemi di relazione. Questa sottolineatura evidenzia come il termine comunicatore sottenda prevalentemente un ruolo tattico e operativo, mentre quello di relatore pubblico enfatizza il ruolo strategico e riflettivo, pur rimanendone l’operatività un elemento essenziale. 7 storia, la sua cultura e, più ancora, la leadership e l’autorevolezza di chi ricopre la funzione di relazioni pubbliche. Tuttavia, in condizioni normali, questi sistemi di relazione comprendono le istituzioni e gli organismi della decisione pubblica, la stampa e i cosiddetti “leader di opinione”. Sono inclusi frequentemente anche i dipendenti, i consumatori e gli azionisti ma, quando ciò accade, si tratta in molti casi di una co-gestione, rispettivamente con la direzione delle risorse umane, con la direzione del marketing e con la direzione finanziaria. I sistemi di relazione efficaci, si è detto, sono trasparenti, bi-direzionali e tendenzialmente simmetrici. Prescindendo dagli aspetti squisitamente etici, che pure non vanno sottovalutati, è certo che nella maggior parte dei casi, quando si ha a che fare con interlocutori con i quali l’organizzazione è genuinamente interessata a stabilire relazioni positive e durature, la trasparenza, la bi-direzionalità e la tendenziale simmetricità diventano condizioni di efficacia. Non si può infatti pensare di mantenere una relazione duratura e positiva con soggetti ai quali vengano trasferiti, con modalità non trasparenti, messaggi non corretti e ai quali non si assicuri la possibilità di dialogo e interazione. La questione etica interviene semmai, e in modo significativo, nei casi in cui l’operatore decida consapevolmente di avviare un’iniziativa non trasparente, unidirezionale o del tutto asimmetrica ritenendola più efficace. La distinzione è rilevante, perché l’operatore che agisce sistematicamente in modo non trasparente, unidirezionale e asimmetrico, prima ancora di violare l’etica professionale, è semplicemente un pessimo operatore. Nel caso in cui, invece, l’etica venga consapevolmente violata perché l’operatore è davvero convinto che, in quella determinata circostanza, la violazione consenta di ottenere un risultato più efficace, egli si trova di fronte alla propria coscienza e al giudizio dei suoi colleghi, i soli deterrenti realmente incisivi; sempre che non vengano violati i codici civili o penali, perché allora interviene lo Stato. Può darsi anche che un operatore decida di violare consapevolmente una norma deontologica perché la ritiene superata, da cambiare, e crede di poterlo fare solo rendendo pubblica la violazione. Un caso di questo genere è successo non molti anni fa in Italia in merito alla questione della correlazione, sia pure parziale, fra retribuzione e risultati ottenuti da un’azione di relazioni pubbliche. La deontologia infatti escludeva a priori tale correlazione, basandosi su un codice redatto quando l’unico modo per garantire un risultato era quello di “corrompere” l’intermediario (giornalista, politico o funzionario pubblico che fosse) e non tenendo conto dell’evoluzione tecnologica grazie alla quale è oggi possibile misurare i risultati con criteri relativamente oggettivi e, quindi, collegare a essi una parte della retribuzione. La polemica suscitata all’interno della professione dal caso accennato ha portato al superamento della norma e attualmente è frequente il caso di operatori che collegano una parte della propria retribuzione al raggiungimento di determinati risultati. La questione dell’etica professionale – qui trattata solo nei suoi aspetti essenziali – è, per le ragioni che abbiamo visto, centrale rispetto all’identità e alla percezione che nella società si ha delle relazioni pubbliche9. I processi con cui si attuano, a differenza della pubblicità, sono invisibili al grande pubblico e troppo poco noti perfino agli interlocutori più diretti, i cosiddetti “influenti” o “stakeholder”: una carenza in larga parte voluta dagli stessi operatori, che non sempre considerano imperativo essere trasparenti. Le cosiddette front organizations, per esempio, sono organizzazioni più o meno complesse, e più o meno prestigiose, che appaiono indipendenti e, in quanto tali, presentano all’opinione pubblica e al processo decisionale pubblico, con credibilità e autorevolezza (assai variabili a seconda dei casi), 9 La percezione miopica che si ha delle relazioni pubbliche dipende anche in larga parte della scarsa rappresentatività delle associazioni professionali. In Italia, per esempio, su 70.000 operatori di relazioni pubbliche stimati, solo il 10% (6-7.000) partecipa ad una delle diverse associazioni. Anche in una prospettiva globale si rileva all’incirca la stessa percentuale, stimando che nel mondo vi siano circa tre milioni di persone che operano nelle relazioni pubbliche di cui solamente 300.000 appartenenti a una associazione professionale. opinioni, ricerche, documenti, che in realtà rappresentano (indirettamente) gruppi di interesse molto specifici e non esplicitati. Molti operatori ritengono, e nella gran parte dei casi non a torto, che soltanto se presentati come “indipendenti” queste opinioni, queste ricerche, questi documenti possono essere valutati dagli influenti per il loro valore, mentre se venissero direttamente attribuiti alle fonti primarie, cioè ai gruppi di interesse che li hanno promossi e finanziati, la loro credibilità tenderebbe ad annullarsi, o comunque diminuirebbe fortemente. È una questione assai controversa poiché si può anche dimostrare che, in diversi casi, è proprio la trasparenza degli interessi rappresentati che attribuisce credibilità alle opinioni espresse. Comunque, è indubbio che, per un operatore, la via della front organization è la più usuale e, tutto sommato, la più semplice. 3.2 A chi si rivolgono Le relazioni pubbliche si rivolgono, in linea generale, ai pubblici influenti di un’organizzazione: soggetti dotati di poteri decisionali rilevanti per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti, oppure ritenuti influenti su questi10. In particolare, un’organizzazione attiva relazioni con questi pubblici per indurre in essi opinioni, atteggiamenti, comportamenti che consentano il raggiungimento degli obiettivi con il migliore rapporto costi/benefici e che, allo stesso tempo, permettano a quei pubblici di ricavare un qualche valore aggiunto dall’avere aiutato (o comunque non ostacolato) l’organizzazione nel raggiungere tali obiettivi. In questo concetto risiede il principio della tendenziale simmetria fra le parti di una relazione che presidia saldamente la descrizione di relazioni pubbliche efficaci. In sostanza i pubblici influenti di una organizzazione trovano interesse a contribuire a ridurre gli ostacoli o addirittura a favorirne gli obiettivi soltanto se pensano di ricavare un qualsivoglia ma misurabile valore aggiunto dalla relazione che in tal modo attivano con l’organizzazione. Per quanto riguarda il concetto di “stakeholder”, letteralmente, to hold a stake significa possedere o portare un interesse, un titolo, inteso (quasi) nel senso di un “diritto”. In sostanza, lo stakeholder è un soggetto (una persona, un’organizzazione o un gruppo di persone) che ritiene di sua sponte – non perché riconosciuto dall’organizzazione – di detenere un titolo per entrare in relazione con questa, un soggetto le cui opinioni o decisioni, i cui atteggiamenti o comportamenti possono oggettivamente favorire oppure ostacolare il raggiungimento di un suo specifico obiettivo. Così, per tornare ancora una volta all’esempio dell’impresa che importa modem, questa non riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi se si apre una fase di conflitto con i dipendenti, se le banche interrompono il credito, se i distributori scelgono un prodotto concorrente, se la stampa tecnica non sostiene l’efficacia del prodotto, se l’assistenza tecnica non funziona, se il ministero delle Finanze decide di imporre una tassa sull’innovazione tecnologica e così via. 10 Riprendendo il dibattito sulla questione dei pubblici (si veda il paragrafo 1.2) è interessante citare i lavori di Joao Duarte, giovane ricercatore portoghese, che interpreta i pubblici come gruppi di persone che interagiscono con le organizzazoni in via continuativa, e non necessariamente su una questione specifica come argomentato da Grunig e Repper nella loro teoria situazionale. Questa interpretazione è utile perché – collegata al concetto di diversità – appare rappresentare un possibile nuovo paradigma per le relazioni pubbliche in quanto: - da un lato osserviamo la maggior efficacia – assiomatica ma profondamente verosimile – della comunicazione onewith-one; - dall’altro lato citiamo la constatazione – lapalissiana ma banalmente trascurata – che ogni essere umano é diverso dall’altro. Questa concezione estensiva di diversità (non associata cioè soltanto a questioni di genere, razza e cultura), incrociata con la nuova definizione di pubblici, offre all’interazione quotidiana organizzazione-ambiente una nuova prospettiva di cui le relazioni pubbliche devono prendere consapevolezza per operare in maniera socialmente responsabile. Ogni organizzazione ha stakeholder che possono più o meno variare rispetto agli obiettivi perseguiti e più o meno distinguersi da quelli di un’organizzazione concorrente. I giornalisti che si occupano di moda, per esempio, saranno stakeholder per tutti gli stilisti, ma ciascun stilista avrà azionisti, clienti e distributori diversi. Così, anche per un produttore di profumi il giornalista che si occupa di moda è importante ma, fra i tanti giornalisti, tenderà sicuramente a privilegiare l’esperto di bellezza. C’è poi un’ulteriore questione che, ai nostri fini, chiarisce meglio l’impiego del termine “stakeholder” rispetto a quello, che peraltro molti utilizzano abitualmente come sinonimo, di “influente” ed è la questione della fonte di legittimità. Il termine “influente”, infatti, implica che sia l’organizzazione a ritenerlo tale, quindi la fonte di legittimazione è l’organizzazione stessa. Nel caso dello stakeholder, invece, è egli stesso a ritenere di avere il titolo per rivendicare il diritto di interloquire, e non sempre l’organizzazione gli riconosce questo titolo. Un esempio: negli anni Sessanta, i primi movimenti per la protezione del consumatore sorti negli Stati Uniti non venivano riconosciuti dalle imprese, ci sono volute mille battaglie prima che le aziende decidessero di prenderli in considerazione. Anche in Italia, alla fine degli anni Settanta, nessuna impresa considerava legittima la rappresentanza degli interessi generali rivendicata dall’allora nascente movimento ambientalista. Oggi, al contrario, nessuna azienda le cui attività incidano sull’ambiente (e sono praticamente tutte) pensa che gli ambientalisti non siano interlocutori rilevanti. Dal punto di vista pratico, i due termini possono sembrare in prima analisi intercambiabili, ma è bene essere consapevoli delle differenze. Esistono infatti tre diverse categorie: – influenti che si ritengono stakeholder, ovvero soggetti che l’organizzazione per prima ritiene influenti e che però sono anche stakeholder, cioè consapevoli e interessati a una relazione; – influenti che non si ritengono stakeholder, ovvero soggetti che l’organizzazione ritiene influenti ma che non si considerano tali; – stakeholder non ritenuti influenti dall’organizzazione, ovvero soggetti che si ritengono stakeholder ma che non vengono considerati tali dall’organizzazione. La distinzione è importante dal punto di vista operativo, perché per ogni specifico obiettivo perseguito l’organizzazione deve in primo luogo decidere quali siano i suoi influenti e quindi individuare quali tra questi sono effettivamente consapevoli di essere stakeholder e quali non lo sono, tenendo conto anche di quegli stakeholder che l’organizzazione, per i motivi più diversi, non intende riconoscere come influenti. Rispetto al primo gruppo, si può pensare che la relazione instaurata (o da instaurare) possa effettivamente essere, come suggerisce Grunig (si veda il capitolo 5), a due vie e tendenzialmente simmetrica, e che il modello comunicativo adottato possa essere diretto, sbrigativo, essenziale, argomentativo, pull. Rispetto al secondo gruppo, invece, l’organizzazione dovrà operare, in una prima fase, con modalità push, persuasive e con argomenti tali da attirare la loro attenzione cercando poi di persuaderli a diventare stakeholder, così da potere instaurare anche con loro una relazione interattiva e tendenzialmente simmetrica. Ne consegue che, per l’interlocutore soltanto influente, l’organizzazione dovrà adottare un diverso modello comunicativo, più indiretto, più attraente, e verosimilmente più oneroso. Seppure a volte questo non sia possibile e in determinate situazioni possa essere persino non auspicabile, in teoria un’organizzazione dovrebbe comunque tendere a trasformare i suoi influenti in stakeholder e a dialogare, a due vie e in modo tendenzialmente simmetrico, anche con quegli stakeholder che, a una prima analisi, non erano stati inclusi fra gli influenti. Il concetto di “stakeholder” viene anche spesso contrapposto a quello di “shareholder”, cioè a quello di “azionista”. Da anni, gli analisti dell’organizzazione e gli economisti d’impresa discutono se l’impresa debba essere in prevalenza una share o una stakeholder company. È un dibattito di notevole interesse che, in estrema sintesi, attribuisce al modello capitalistico anglosassone una prevalenza della shareholder company, ovvero di un’azienda il cui interesse primario è soddisfare le aspettative degli azionisti, e al modello capitalistico del continente europeo e del Giappone la prevalenza della stakeholder company, il cui interesse primario è invece soddisfare le aspettative di tutti gli aventi titolo (inclusi, ovviamente, gli azionisti). Queste due diverse accezioni del ruolo dell’impresa nella società capitalistica accompagnano, fino a farne ormai parte integrante, il dibattito intorno al welfare e al ruolo dello Stato nelle società contemporanee. Pur trovando la discussione stimolante, è necessario, ai nostri fini, richiamare l’attenzione su alcune mistificazioni che essa può nascondere. Se, per esempio, è vero che la stakeholder company dovrebbe essere, almeno sulla carta, quella più sensibile alle attività di relazioni pubbliche, è anche vero però che queste ultime nascono, crescono e maturano soprattutto sul mercato anglosassone, terra d’elezione delle shareholder company. Non solo: se consideriamo, come dovremmo, le imprese italiane come appartenenti al modello stakeholder company, sarebbe assai arduo riconoscervi negli anni, il segnale di un genuino interesse del management (fatte sempre le dovute eccezioni di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente raccontando la storia delle relazioni pubbliche nell’Italia del dopoguerra) a soddisfare le aspettative di tutti gli aventi titolo. Inoltre, la transizione in atto verso la nuova economia, con la fortissima accelerazione dei processi di finanziarizzazione e globalizzazione delle imprese, tende inevitabilmente a far prevalere, anche in Europa e in Giappone, il modello shareholder company, anche se non si può negare che gli scandali finanziari degli ultimi anni, emersi nei Paesi di entrambi gli schieramenti, hanno contribuito notevolmente a mettere all’ordine del giorno del dibattito economico e manageriale questioni di corporate governance e responsabilità sociale11 delle organizzazioni, tipiche invece del modello stakeholder company. 3.3 Il concetto di “comunicazione integrata” Si è detto che le relazioni pubbliche sono soltanto una delle varie discipline della comunicazione di impresa. Tra le altre, la più nota è sicuramente la pubblicità, che si propone soprattutto di creare, rafforzare e consolidare un’immagine di marca (le sue applicazioni sono l’annuncio, lo spot, il comunicato radio, il manifesto, il banner ecc.). Seguono la promozione – che ha lo scopo, prevalentemente, di vendere il prodotto e le cui applicazioni sono l’offerta speciale, la vetrina sul punto di vendita, il concorso a premi – e il direct mail o direct response o direct marketing – che ha l’obiettivo di stabilire una relazione diretta e di fedeltà con 11 La responsabilità sociale delle organizzazioni (o CSR, Corporate Social Responsibility) si è insediata in maniera pervasiva all’interno delle funzioni spettanti alle relazioni pubbliche. Anche la Global Alliance è impegnata dai primi mesi del 2004 in un intenso e acceso dibatto sulla connessione tra responsabilità sociale e relazioni pubbliche. Tutte le ricerche fin qui analizzate (per l’Italia segnaliamo il libro a cura di Nicoletta Cerana, Comunicare la responsabilità sociale, Franco Angeli, 2004) evidenziano la tendenza di assegnare alle relazioni pubbliche un ruolo importante nella gestione della CSR. Ciò enfatizza la crescita del loro ruolo nella definizione delle scelte strategiche (e ciò rappresenta un enorme opportunità per la nostra professione che va sostenuta). Al contempo, però, ciò comporta anche un paio di minacce: 1) si rafforza l’idea – sempre latente nei critici della CSR – che la responsabilità sociale sia solamente un’operazione di rp, o ancor peggio di immagine; 2) l’organizzazione – affidandone la gestione alle relazioni pubbliche – perde l’opportunità di considerare la CSR come occasione per la diffusione interna di una cultura organizzativa che ponga al centro dell’impresa i suoi sistemi di relazione con l’ambiente esterno. il consumatore provocando un’azione di risposta, e le cui applicazioni sono il coupon di risposta e/o l’iscrizione al club. Si discute inoltre se le sponsorizzazioni debbano o possano essere considerate una disciplina autonoma rispetto alle altre. La questione è controversa: le sponsorizzazioni, a seconda dell’accezione, fanno parte delle relazioni pubbliche, della pubblicità e delle promozioni. Nel primo caso rientrano le sponsorizzazioni classiche (culturali, sociali, ambientali), nel secondo quelle sportive e nel terzo le cosiddette “trasmissioni televisive sponsorizzate”. In gergo, mentre la pubblicità viene definita una disciplina “above the line”, sopra la riga, cioè visibile, trasparente, quantificabile, esplicita, tutte le altre si definiscono invece “below the line”, sotto la riga, cioè più difficilmente identificabili e quindi quantificabili. Ciascuna di questa discipline, nel tempo, ha consolidato un proprio corpus di conoscenze e proprie regole. Questo comporta, per esempio, che non si possano applicare alla promozione le stesse regole della pubblicità. L’efficacia dell’una o dell’altra dipendono infatti da criteri e modalità operative diverse: la promozione, se ha successo, produce effetti immediati (il concorso aiuta ad avvicinare il consumatore a un nuovo prodotto oppure a svuotare i magazzini di prodotti noti), mentre la pubblicità si propone obiettivi più a medio termine (rafforzamento dell’immagine di marca). Così, il direct marketing genera informazioni relative al singolo consumatore, per sviluppare iniziative di database o relationship marketing, mentre le relazioni pubbliche, nel caso di supporto a specifici obiettivi di marketing, organizzano eventi e sviluppano relazioni con i media per ottenere approvazione e consenso da parte di opinion leader credibili e capaci di attirare l’attenzione dei consumatori sul prodotto o servizio. È però anche vero che, per informare il consumatore dell’esistenza di una promozione, è spesso necessario servirsi della pubblicità, del direct mail e delle relazioni pubbliche. Così come, per parlare del sostegno a una politica riguardante l’ambiente, un classico obiettivo delle relazioni pubbliche, è possibile che una campagna pubblicitaria sui quotidiani possa essere molto utile per affermare verso gli influenti una posizione della Federchimica in merito a una nuova legge sull’impatto ambientale. Insomma, in funzione dell’obiettivo specifico perseguito dall’organizzazione, ciascuna disciplina può essere usata come disciplina-guida che coordina le altre oppure come disciplina-supporto che viene, a sua volta, coordinata da un’altra. Ecco allora cosa significa all’origine l’espressione “comunicazione integrata”: l’uso integrato delle diverse discipline della comunicazione d’impresa, utilizzando le specifiche caratteristiche di ciascuna per arrivare a sviluppare sinergie comunicative tali da raggiungere il risultato più efficace con il miglior rapporto costi/benefici. Tuttavia, in questi ultimi anni, l’espressione viene utilizzata anche in diverse altre accezioni. La comunicazione si dice infatti “integrata” quando: – – – – – le organizzazioni si sforzano di rendere coerenti i messaggi rivolti all’esterno con quelli inviati ai collaboratori interni (comunicazione esterna e interna); le organizzazioni si sforzano di rendere coerenti i messaggi al mercato con quelli inviati agli influenti (comunicazione di marketing e istituzionale o corporate); la comunicazione online è coerente e sinergica con quella offline; i componenti della funzione di comunicazione di un’organizzazione lavorano in forte simbiosi e sinergia (oggi è possibile anche farlo online via Internet o Extranet) con i comunicatori delle varie agenzie esterne di professionisti; i componenti della funzione di comunicazione di un’organizzazione lavorano in forte simbiosi e sinergia con le altre funzioni dell’azienda (risorse umane per la comunicazione interna, finanza per la comunicazione finanziaria, marketing per la comunicazione al mercato); – all’interno delle amministrazioni pubbliche, e per alcuni effetti perversi derivanti dalla legge 150 del maggio 2000, gli uffici del portavoce, gli uffici stampa e gli uffici relazioni con il pubblico riescono a dialogare fra loro perseguendo obiettivi comuni o perlomeno coerenti. È importante sottolineare la forte e visibile azione degli operatori più consapevoli, volta a rimediare con lo studio, la sperimentazione, la verifica, l’ascolto delle esperienze di altri, quelle che sono oggi le aree di maggiore criticità della comunicazione di impresa, che si presentano quando: – – – – – – – 3.4 ogni disciplina viene usata da funzioni diverse per raggiungere obiettivi diversi con messaggi diversi; il comunicatore interno non sa quello che fa quello esterno e viceversa; il comunicatore istituzionale va per la sua strada senza confrontarsi con quello che si occupa di comunicazione al mercato e viceversa; si va in Rete con un proprio sito senza preoccuparsi di dire cose coerenti con quelle che si dicono sui canali classici della comunicazione; i comunicatori aziendali e le agenzie esterne parlano linguaggi diversi e non si capiscono, con il risultato che il prodotto non piace agli uni ma neppure alle altre; i comunicatori in azienda si comportano come tecnici specialisti e, quindi, sono vissuti come tali dagli altri dirigenti interni, venendo così meno al ruolo fondamentale di coordinamento e gestione dei sistemi di relazione dell’organizzazione; i comunicatori di una amministrazione pubblica vivono separati gli uni dagli altri, ignorando le rispettive attività. Come si attuano Per ciascun specifico obiettivo perseguito dall’organizzazione, definito dopo l’ascolto attivo delle aspettative degli stakeholder rispetto alle conseguenze indotte in loro dalle sue finalità, l’attività di relazioni pubbliche si realizza innescando un flusso continuo e costante di azioni che: – – – – – – inizia con l’identificazione delle variabili (esterne, interne) le cui dinamiche orientano l’obiettivo definito; prosegue con l’ascolto dei pubblici influenti sulle variabili identificate e dei pubblici influenti sui destinatari finali; continua con la definizione dei messaggi chiave; applica un pretest che analizza i livelli di familiarità del contesto e del contenuto del messaggio e di credibilità/autorevolezza percepita della/e fonte/i; progetta specifiche iniziative di relazione realizzate con stumenti di comunicazione; si conclude con un’ulteriore fase di ascolto che misura l’efficacia delle azioni realizzate, facilitando così la progettazione e la realizzazione di nuove azioni. L’espressione “flusso continuo di azioni” usata nella definizione iniziale sottolinea la funzione operativa delle relazioni pubbliche. Troppo spesso infatti, in questi ultimi anni, gli operatori di relazioni pubbliche, frustrati perché tendenzialmente utilizzati come “tattici”, hanno abusato del termine “strategico” quasi a sottolineare la volontà di estraniarsi da una funzione operativa. Se quanto affermato fin qui appare convincente, il ruolo strategico delle relazioni pubbliche all’interno di una organizzazione appare evidente e non merita ulteriori sottolineature. Perché questo ruolo venga riconosciuto anche dagli altri, è però indispensabile che la funzione dimostri, con criteri misurabili e condivisi dal resto del management, la propria capacità di facilitare il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. Questo “flusso continuo” passa attraverso quattro macrofasi: ascolto iniziale, progettazione, attuazione, ascolto. La macrofase di ascolto iniziale è sostanzialmente una fase attiva sul campo, e che si realizza solo in parte a tavolino. È, di per sé, un’intensa e importante fase relazionale che fornisce all’organizzazione elementi utili per definire con chiarezza e consapevolezza le proprie finalità e i propri obiettivi nonché per decidere le politiche comunicative, gli stessi messaggi, e le azioni da intraprendere per diffonderli. Può anche succedere che, a seguito di un’attenta fase di ascolto cambino, talvolta anche sostanzialmente, gli stessi obiettivi perseguiti. Durante la macrofase della progettazione, in funzione di specifici e ben definiti obiettivi e in base ai risultati dell’ascolto, viene progettata una strategia relazionale che, normalmente, si attua utilizzando appositi strumenti di comunicazione e che, in funzione di parametri almeno parzialmente predeterminati e condivisi, si ritiene possano, meglio di altri, essere efficaci. La terza macrofase, quella dell’attuazione, esalta al tempo stesso la creatività e la capacità comunicativa delle relazioni pubbliche. Essendo le risorse disponibili (umane e finanziarie) sempre limitate, la sfida non consiste soltanto nel produrre iniziative che aiutino l’organizzazione a raggiungere l’obiettivo perseguito, ma soprattutto nel realizzarle con il miglior rapporto costi/benefici. La quarta macrofase, quella dell’ascolto, è cruciale. Qui è però necessario intendersi: l’ascolto non è separato dalla comunicazione, ma ne costituisce sempre una parte integrante. Malgrado ciò, come per qualsiasi altra funzione di management anche le relazioni pubbliche sono tenute a dimostrare di poter raggiungere risultati misurabili, valutando a seconda di ogni specifica situazione i quattro indicatori classici: – – – – output: la capacità dello strumeno di raggiungere l’interlocutore (quantitativa e misura l’efficienza); outtake: la ricezione da parte dell’interlocutore (quanti-qualitativa e misura sempre l’efficienza); outcome: la modifica effettiva del cambiamento nell’interlocutore (quali-quantitativa e misura l’efficacia della singola azione); outgrowth: la modifica effettiva del cambiamento della relazione fra le due parti (qualitativa e misura l’efficacia del programma nel suo insieme) Inoltre, avendo a che fare in prevalenza con sistemi di relazione le cui dinamiche sono per definizione veloci, il riavvio del ciclo porta inevitabilmente a una revisione degli obiettivi, e quindi delle variabili, degli stakeholder o degli influenti, della progettazione e, infine, dell’attuazione delle stesse o di altre iniziative prevalentemente comunicative. Le quattro macrofasi sopra descritte, sia pure a grandi linee, corrispondono alla migliore pratica operativa delle relazioni pubbliche e trovano applicazione in ogni efficace piano di relazioni pubbliche.