Codici a barre e diversità della vita Tutti conoscono cos’è e come funziona un codice a barre: è una configurazione di barre parallele di vario spessore e distanza che possono essere interpretati automaticamente mediante appropriati sensori; in generale, questo sistema ha lo scopo di identificare in modo univoco un prodotto, in particolar modo un prodotto commerciale. Ma cosa ha a che fare il codice a barre con la diversità della vita? Da quando Linneo, oltre 250 anni fa, propose il suo metodo di classificazione gerarchica delle specie, una percentuale molto bassa degli animali e delle piante ha ottenuto oggi un nome (è stata cioè identificata). Paul Herbert, un genetista dell’università canadese di Guelph, ha proposto un nuovo metodo per accelerare il processo di identificazione delle specie: utilizzare brevi sequenze di DNA in modo analogo ai codici a barre dei supermercati. Ogni specie dovrà essere infatti “etichettata” con una sequenza nucleotidica di DNA univocamente associata a quella specie, da utilizzare come riferimento per comparare la sequenza di DNA di una potenziale nuova specie. Una delle più importanti componenti di questa iniziativa è infatti la costruzione di un database pubblico contenente tutte le sequenze delle specie già identificate. Esiste già un importante database di tutte le sequenze note di DNA e di aminoacidi chiamato GenBank ma, più recentemente, è stato creato il Barcode of Life Database (BOLD), che riporta solo le sequenze definite “codici a barre” (barcode), ospitato presso uno dei più ricchi e completi siti internet che presentano questo progetti, il Barcode of Life. Esistono geni che sono più appropriati di altri per essere utilizzati come codici a barre. Il gene ideale deve soddisfare alcune importanti condizioni: 1)essere sufficientemente conservato per essere amplificato via PCR (reazione a catena della polimerasi: è un metodo per ottenere molte copie di un gene, essenziali per poter procedere con il sequenziamento) con primers (brevi sequenze di DNA note indispensabili per avviare il processo di amplificazione dei geni) uguali, che devono quindi funzionare su un vasto range di specie; 2)abbastanza divergente da consentire di identificare e distinguere anche specie strettamente imparentate tra loro; 3)non essere molto più lungo di 650 basi nucleotidiche, in quanto questa è la lunghezza ottimale affinché un gene sia sequenziato rapidamente, senza errori e con bassi costi. Per quanto riguarda gli animali, i geni mitocondriali sono piuttosto attraenti, poiché sono condivisi da gruppi sistematici diversi e non contengono sequenze addizionali interne (definite introni) che possano complicare il processo di amplificazione tramite PCR. La possibilità di rintracciare primers in grado di amplificare il gene mitocondriale COI (citocromo c ossidasi subunità 1) in diversi phyla, ha eletto questo gene a “target ufficiale” particolarmente promettente per l’identificazione delle specie animali. Nelle piante, che possiedono una variabilità dei geni mitocondriali più ridotta, i geni più indicati per questo scopo sembrano essere invece il gene matK (maturasi K) o il gene nucleare ITS (internal transcribed spacer). Sebbene l’idea di utilizzare particolari sequenze standard come la COI sia nuova, il “codice a barre” si serve dei metodi biomolecolari già comunemente usati nei laboratori di biologia molecolare, quali l’amplificazione tramite PCR ed il sequenziamento. Si presume che il metodo del codice a barre sia in grado di distinguere tra specie, comprese quelle strettamente imparentate, con un’accuratezza molto alta, ma alcuni biologi evoluzionistici ritengono che in molti, forse troppi, casi non sia possibile individuare confini definiti tra le specie; secondo quanto sostenuto da Craig Moritz e Carla Cicero nell’articolo DNA Barcoding: Promise and Pitfalls apparso su PLOS Biology, dell’ ottobre 2004, in una specie separatasi da un’altra da soli 10.000 anni il codice a barre, basato su un solo gene, potrebbe non essere in grado di evidenziare mutazioni (cioè differenze nella sequenza) e dunque di distinguere le specie. Inoltre, un approccio incentrato sull’analisi di un singolo gene può non essere in grado di discriminare gli ibridi, cioè i prodotti di incrocio tra membri di specie diverse, dalle loro specie parentali pure. Per approfondire ulteriormente il tema del codice a barre genetico, suggerisco anche il sito internet Consortium of the Barcode of Life che, oltre ad illustrare in termini generali quali siano le finalità del progetto del codice a barre genetico, indica i protocolli per l’ottenimento dei codici a barre, dà indicazioni di meeting e conferenze e offre link ad articoli ed ai principali altri siti sul tema. La creazione del programma Codice a Barre delle Vita (Barcode of Life) coinvolge la cooperazione di diversi gruppi di scienziati e di diverse istituzioni: i musei, gli orti botanici, gli zoo e gli acquari, quali depositari di uno straordinario potenziale di informazione biologica, giocano un ruolo di primo piano in questo progetto, avendo la possibilità di fornire un numero molto elevato di campioni di DNA. Sebbene il codice a barre non sia lo strumento ideale per lo studio delle relazioni evolutive profonde, un’identificazione delle specie basata sul DNA, oltre ad essere uno strumento preziosissimo per i tassonomisti che potranno così identificare in modo veloce e poco costoso le specie ancora senza nome, potrebbe essere utile anche ai coltivatori che hanno necessità di individuare specie di piante non native che hanno invaso i loro campi, a medici che devono individuare il miglior antidoto per un morso di serpente, fino a supporre studenti curiosi di saperne di più sugli esemplari di fiori raccolti in un’uscita in campo… incrementando così l’interesse per la biologia della conservazione e per la comprensione dell’evoluzione. Astrid Pizzo