… È chiaro che una prospettiva del genere esclude un rapporto causativo a senso unico, procedente dal passato al futuro, dato che le relazioni passate necessitano di quelle future tanto quanto queste necessitano delle prime: <<Difficultas aliqua est in explicando quid sit natura prius. Nam ut status posterior alicujus substantiae involvit priorem, ita vicissim status prior involvit posteriorem, unusquisque enim ex alio potest cognosci>>12. Per questo la consequenzialità temporale è intesa in senso organicistico piuttosto che sequenziale; essa appare come una necessità logica dettata dal principio di ragion sufficiente, in base al quale tutto ciò che è possibile si realizza, salvo contraddizioni insolubili tra gli stessi possibili: se ogni monade, ad esempio, può attraversare un certo numero di stati diversi, tutti ugualmente possibili ma reciprocamente escludentisi, allora essi non si realizzeranno simultaneamente, benché non vi sia motivo per cui non si realizzino in sequenza, a patto che vengano esclusi tutti quegli stati inarmonizzabili con l’intera serie. Nel particolare, l’ordine è dato dal passaggio dal semplice al complesso, ovvero, dallo sviluppo progressivo delle possibili combinazioni implicate nelle disposizioni primitive. Come rileva Francesco Piro, <<se il tempo si compone di “stati tra loro contraddittori”, non vi è modo di stabilire le condizioni dell’unità della serie temporale se non in termini di regole di successione che sono l’analogo di una procedura costruttiva>>13: duo status universi, etsi alter alterum involvat non aeque tamen facile intelliguntur, et ex fontibus explicantur. Et proinde Natura prius est, cujus possibilitas facilius demonstratur; seu quod facilius intelligitur. Ex duobus statibus quorum alter alteri contradicit, is est tempore prior, qui est prior natura. Duo existentia incompatibilia seu contradicentia tempore differunt, et illud prius est aut posterius tempore, quod est prius aut posterius natura. In natura, ut in arte tempore priora sunt simpliciora, posteriora sunt perfectiora. Nam natura est ars summa14. Ora, si consideri che un sistema siffatto, in virtù della completa integrazione di tutti gli elementi, implica il principio dell’immediata variazione degli elementi al variare di tutti gli altri. Si tratta di un concetto fondamentale nel pensiero di Leibniz, ch’egli enuncia sin da giovane, quando, nella Confessio Philosophi del 1672-73, afferma che se venisse a mutare un solo elemento nella serie delle cose esistenti cambierebbe la nozione di Dio stesso: Nam Deus esto A, series haec rerum esto B. Iam si Deus est ratio rerum sufficiens, seu ens a se, et causa prima, sequetur posito Deo existere hanc rerum seriem, alioquin Deus non esset ratio sufficiens, sed accedere deberet aliquid aliud a Deo indipendes requisitum, ad efficiendum ut haec rerum series existat. Unde sequerentur plura rerum principia ex sententia Manicheorum et vel plures essent dii, vel Deus non esset solus ens a se, et prima causa. Quorum utrumque falsum esse suppono. Ergo statuendum est posito Deo sequi hanc rerum, ac proinde veram esse hanc propositionem: si A est, etiam B erit. Jam constat ex regulis logicis syllogismi Hypotetici, locum habere conversionem per contrapositionem, et inde inferri posse, si B non est, nec A erit. Ergo sequetur sublata mutatave hac serie rerum, quae scilicet peccata comprehendit, tolli, mutarive Deum quod erat demonstrandum. Peccata ergo, tota hac rerum serie comprehensa ipsi rerum ideis, seu consistentiae Dei debentur: hac posita ponuntur, hanc sublata tollunt15. Applicata alla sfera psichica delle monadi, l’idea di variazione unisona consente a Leibniz di sostenere il carattere relazionale dell’azione anche su basi psicologiche, in conformità al principio per cui i fenomeni sono interamente spiegabili come percezioni interne delle monadi. È vero, infatti, che l’azione è intesa in senso intrapsichico, essendo definita attraverso i concetti di appetito, conato e azione (appetitus, conatus, actio), i primi due dei quali indicano il principio intrinseco che opera il passaggio involontario da una percezione all’altra, mentre il terzo si riferisce al mutamento in atto; ma il concetto di variazione unisona permette di affermare che il mutamento percettivo interno a una monade determina immediatamente il mutamento in tutte le altre monadi, senza che sia necessario alcun contatto diretto tra i termini. Otteniamo, in questo modo, un sistema di corrispondenze percettive atto a definire le relazioni interindividuali come riflessioni o reazioni di natura puramente psichica, per la costruzione del quale, risulterebbe improprio ricorrere a categorie spazio-temporali di valore assoluto. Tuttavia, perché l’idea di variazione unisona possa avere effetto entro un sistema formato da soggetti psichici, è necessario che questi ultimi siano considerati come sottosistemi percettivi coimplicati in un sistema intersoggettivo generale per il quale risultino valide le stesse leggi di proporzionalità di cui si è detto sopra. Ciò implica, com’è ovvio, il fatto che le monadi percepiscano un tempo ed uno spazio comuni e, conseguentemente, che le relazioni spaziali siano interpretate come l’ordine dispositivo in cui si presentano alla coscienza determinati insiemi di immagini condivise da più monadi, e quelle temporali come l’ordine della serie cui appartengono tali insiemi. Per questo Leibniz li denomina “ordini di esistenza”, e ritiene che aggiungendo loro i concetti di appetito e azione, ovvero il riferimento all’attività volitiva di un soggetto che assicuri unità e dinamismo alla serie degli insiemi suddetti, si ottenga già qualcosa di sostanziale. Si esprime così nel breve frammento De tempore locoque, duratione ac spatio (1689-90), dove, dopo aver ribadito la concezione dello spazio e del tempo come ordini di relazioni di esistenza (<<Tempus et Locus, seu duratio et spatium sunt Relationes reales, seu existendi ordines>>16), egli dichiara che <<si spatio seu magnitudini addatur appetitus vel quod eodem redit conatus, adeoque et Actio, jam aliquid substantiale introducitur>>17. Da quanto si è detto, possiamo concludere che la metafisica leibniziana neghi la possibilità di ubicare l’anima, sia pure per ragioni affatto diverse da quelle addotte da Descartes. Rimane inspiegato, tuttavia, il motivo per cui Leibniz rimanda all’Enchiridium Metaphisycum di More, ove è espressa con convinzione la tesi contraria, ovvero l’onnipresenza dello spirito. Ritengo che la contraddizione vada compresa in rapporto alla critica che Leibniz rivolge alle dottrine che assumono lo spazio geometrico come realtà indipendente dal pensiero. Si consideri che l’idea di More, in rapporto a ciò, si concilia assai meglio con il panpsichismo leibniziano di quanto non faccia il dualismo cartesiano: per chi, come Leibniz, crede nella natura psichica del fenomeno, la distinzione tra pensiero e spazio appare assai più distante dal vero di quanto non sia la credenza in uno spazio a quattro dimensioni di cui la quarta, attributo dello spirito, comunica le proprietà della propria sostanza (unità, pensiero, vita e movimento) alle prime tre. D’altro canto, l’influsso di More nei confronti di Leibniz non va esagerato, né riguardo le operazioni particolari dello spirito sulla materia, né riguardo il concetto di monade. Nel primo caso, infatti, l’ipotesi moreiana di uno spirito universale, o anima del mondo, si scontra contro il complesso edificio che la metafisica leibniziana costruisce intorno alla compresenza di individualità monadica e interattività armonica; nel secondo caso, invece, le monadi di More si distanziano da quelle teorizzate dal tedesco poiché non comprendono l’intero universo entro di sé, e non rinviano, pertanto, al rapporto tra unità e pluralità implicato nel binomio individuo-armonia universale. 12 G. W. Leibniz, Quid sit natura prius (1679?), in Sämtliche, VI, IV, 180. F. Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell’azione in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002, 49. 14 G. W. Leibniz, Quid sit natura prius (1679?), in Sämtliche, VI, IV, 180-81. 15 G. W. Leibniz, Confessio Philosophi: in ivi, VI, III, 123-24 (tr. it. in Confessio Philosophi e altri scritti, 26-27 a c. di F. Piro, Cronopio, Napoli 1992, 26-7). 16 G. W. Leibniz, De tempore locoque, duratione ac spatio, (1689-90?), in Sämtliche, VI, IV, 1641. 17 Ibid. 13