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La rivolta dei boxers
La completa dominazione coloniale della Cina non poté essere raggiunta, non solo per i disaccordi
fra le grandi potenze (fra le quali gli Stati Uniti difendevano l’autonomia del paese), ma anche per il
precoce organizzarsi di movimenti popolari xenofobi, decisi a combattere contro la supremazia
politica ed economica degli europei e in difesa della cultura cinese.
La spartizione della Cina e la nascita di un movimento xenofobo
A fine Ottocento, la suddivisione in aree di influenza economico-politica dei territori del “Celeste
impero” era cosa compiuta.
La Cina, strangolata dall’indebitamento con le banche occidentali e reduce dalla disastrosa sconfitta
della guerra con il Giappone (1894-95), cui aveva dovuto cedere la Corea e Formosa, non era più in
grado di contrastare la penetrazione delle grandi potenze europee.
L’Inghilterra esercitava la sua influenza militare e commerciale nel sud, la Russia in Manciuria, la
Francia in Indocina, il Giappone nel Fukien, la Germania nello Shandong e l’Italia nel porto di
Tientsin.
L’esistenza di queste aree di influenza costituiva il primo passo verso lo smembramento coloniale
di questo immenso paese.
Solo gli Stati Uniti si opponevano alla perdita dell’unità territoriale e politica della Cina, in quanto
miravano a espandersi in questo immenso mercato giudicato capace di assorbire una grande
quantità di merci americane.
In questo contesto il rischio di una riduzione della Cina a colonia aveva suscitato la formazione di
un ampio schieramento conservatore e nazionalista, orientato alla restaurazione e
all’allontanamento con la forza dal suolo cinese dei “diavoli stranieri”.
Si venne così sempre più radicando, sia a livello dei ceti intellettuali, sia a livello di opinione
popolare, la tesi dell’equivalenza tra straniero e nemico, tra straniero e colonizzatore senza scrupoli.
In altre parole si andò costituendo un ampio e diffuso movimento d’opinione a carattere xenofobo
che identificava nella cacciata degli stranieri dal suolo cinese la condizione fondamentale della
restituzione alla Cina della sua dignità di paese libero e della sua autonomia culturale.
L’insurrezione dei boxers
Di questo desiderio di rivalsa si fecero interpreti, a partire dal 1898, diverse società segrete che
diedero vita a un movimento insurrezionale su vasta scala finalizzato a compiere atti di sabotaggio
contro le forze militari e le istituzioni commerciali straniere. Tra queste società, la più importante fu
quella i cui membri usavano l’appellativo di yihequan, perché affiliati all’antica società ginnica e di
arti marziali dei “Pugni della giustizia e dell’armonia”, da cui derivò il termine inglese boxer.
Il movimento era, agli inizi, fortemente nazionalista, anticristiano e contrario alla dinastia regnante,
i Qing mancesi.
Il moto insurrezionale si estese rapidamente, con sanguinose aggressioni ai missionari e ai
convertiti, dall’originario Shandong sino alla capitale Pechino (1900), ove il governo imperiale
cercò di deviarne la violenza contro gli europei residenti nella capitale, assediando le loro legazioni
(20 giugno-14 agosto) e dichiarando guerra alle potenze straniere le quali, dal canto loro, avevano
già occupato i forti di Dagu nei pressi di Tianjin.
Una durissima repressione
Il corpo di spedizione internazionale inviato subito in Cina al comando del generale tedesco von
Waldersee, di cui faceva parte anche un contingente italiano, ebbe rapidamente il sopravvento sulle
truppe cinesi e sulle bande dei boxers. Entrato in Pechino si abbandonò a feroci quanto
indiscriminati massacri e devastazioni (compreso l’incendio del palazzo imperiale) con la
distruzione o la dispersione di un vastissimo patrimonio culturale e artistico. Con il protocollo del
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1901 la Cina fu costretta a nuove concessioni e al pagamento di un’indennità di 450 milioni di
dollari. I profondi disaccordi politici tra gli occidentali impedirono tuttavia, ancora una volta, la
spartizione coloniale della Cina e la caduta della dinastia Qing, che riuscì a sopravvivere fino al
1911.
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