Partendo dal pessimistico finale streheleriano dei "Giganti della
montagna" - il carrozzone dei comici che viene schiacciato
dall'abbatersi di un sipario di ferro -, i "Rusteghi" di Gabriele Vacis
da Goldoni raccoglie i cocci del teatro, guarisce le ferite dei
commedianti, ricompone le speranze infrante, conquista o
riconquista empaticamente il pubblico e riprende il cammino
dell'arte teatrale italiana.
di Enrico Bernard
Teatro Quirino 8-20 maggio
Fondazione del Teatro Stabile di Torino
Teatro Regionale Alessandrino
RUSTEGHI
I nemici della civiltà
da I Rusteghi di Carlo Goldoni
traduzione e adattamento
Gabriele Vacis e Antonia Spaliviero
con (in ordine alfabetico) Eugenio Allegri, Mirko Artuso Natalino Balasso, Jurij
Ferrini
e con Nicola Bremer, Christian Burruano, Alessandro Marini, Daniele Marmi
composizione scene, costumi, luci e scenofonia Roberto Tarasco
regia Gabriele Vacis
Dopo decenni di gestione clientelare, grazie alla chiusura del
carrozzone ETI, l'Ente Teatrale Italiano che, fondato come un centro
di promozione e diffusione del teatro italiano e delle nuove
drammaturgie, divenne invece un centro di smistamento
raccomandazioni, il Teatro Quirino torna ad essere un punto di
riferimento culturale e teatrale a livello nazionale.
Lo spettacolo di Gabriele Vacis, non saprei dire se tratto o
ispirato, dedicato o distillato dai "Rusteghi" di Goldoni è
sicuramente una tappa importante, una sorta di dichiarazione di
intenti, in questo processo di rinascita teatrale dalle ceneri e dalle
macerie della cultura della lottizzazione e della spartizione. Il
trionfale applauso finale alla compagnia è pure il segno di un
sentimento di liberazione anche da parte del pubblico, certamente
per lo spettacolo meritevole del consenso , ma anche perché in sala si
percepisce l'effervescenza e il desiderio del "nuovo" che sta
maturando.
Procediamo con ordine. Sarebbe un errore da parte mia
ripetere la pappardella del significato politico dell'opera di Goldoni, i
suoi risvolti sempre attuali, il "tetro pessimismo" goldoniano prima
della ritirata Oltralpe eccetera eccetera. Tutte cose già dette e
risapute che il programma di sala, precisino e corretto da un punto
di vista storico, un po' scolasticamente sintetizza. Sono d'accordo su
tutto: dall'amarezza di Goldoni per i successi di un mediocre autore
come Chiari che fece di tutto - lecito e meno lecito - per mettere in
ombra e in discredito l'autore "delle16 commedie in un anno", alla
rivalità e pizzico d'invidia dello stesso Goldoni per quel grande
innovatore che fu Carlo Gozzi, - e poi il disinganno, la
rappresentazione di una società borghese "buia e alla deriva" e via di
questo sacrosantissimo passo. Dirò di più: se il programma di sala
l'avesse scritto Lukàcs in persona, avremmo anche avuto una
riflessione sul grande realismo che da Goldoni passa a Goethe (e a
Manzoni) e di qui a Thomas Mann fino ad influire sulla prosa
neorealista tra le due guerre (Bernari, Alvaro e Moravia).
Tutto questo però non rappresenta e non racconta la <vera>
novità dello spettacolo di Vacis che, se fosse tutto in quelle note,
avrebbe allora un importante precedente in una commedia di Paolo
Ferrari (non parlo del rinomato, simpatico e valente attore
contemporaneo, ma dell'autore di un'opera del 1848 intitolata
"Goldoni e le sue sedici commedie nuove" rappresentatissima e
osannata nel suo secolo).
La novità drammaturgica del lavoro di Vacis non è tanto o solo
quella relativa al discorso storico-politico, essa sta bensì nella ricerca
di una forma con la quale il regista "usa" Goldoni per andare oltre
Goldoni così da gettare una luce, partendo dalla drammaturgia
goldoniana ma puntando alla contemporaneità, nel teatro in cui
siamo - stasera, ora e qui. Così si spiega la sala lungamente illuminata
dall'alto, quasi a voler avvolgere il pubblico in un teatro trasformato
in un universo (quello che con Pirandello potrei definire della vita
rappresentata) che ingloba un altro universo (la vita realmente
vissuta dagli attori che, scambiati i ruoli, sono "loro" sul palcoscenico
così come lo siamo noi, attori involontari, in platea).
Questo gioco del teatro nel teatro, che si definisce con un
luogo comune "pirandelliano", anche se portato alle estreme
conseguenze prima da Tieck nel "Gatto con gli stivali" (ho scritto
ampiamente su questo tema, si consulti internet) e poi - solo poi da Pirandello nella trilogia, che giustappunto viene battezzata
dall'Agrigentino come "La trilogia del teatro nel teatro", risale
naturalmente ad una più antica tradizione drammaturgica non
estranea neppure a Shakespeare, - tanto che per esempio il "teatronel-teatro" ha una funzione centrale nell'"Amleto". Detto questo, è
però anche vero che il ponte di passaggio, il trait d'union tra la forma
del teatro-nel-teatro sei-settecentesca e la modernità di Pirandello si
ritrova sì nel romantico tedesco Ludwig Tieck, ma prima ancora di lui
in Goldoni. E in particolare in quel capolavoro di drammaturgia e
formalismo teatrale che è "Il teatro comico" in cui cadono le
distinzioni tra attore, autore, spettatore e personaggio reale. Un testo
da cui Pirandello (che scrive un importante saggio sul Goldoni
disprezzato dalla cultura ottocentesca) attinge a piene mani.
Ecco allora che, parlando di <caduta della distinzione tra
attore, personaggio e spettatore>, Vacis cala la sua mossa teatrale
ancor prima dell'inizio dello spettacolo: altro che programma di sala
storicamente puntualizzante, è questa la vera dichiarazione d'intenti
del regista! Ed eccola qui: il pubblico entra in sala a rilento, i
fumatori si attardano ancora all'entrata per l'ultima tirata,
l'altoparlante annuncia minacciosamente come nel "Giudizio
Universale" di De Sica che "tra dieci minuti avrà inizio lo spettacolo,
spegnere i cellulari". Seninché gli attori "in borghese" e un po' di
soppiatto, chiacchierando del più e del meno, salutando qualche
amico tra il pubblico hanno già dato <inavvertitamente> inizio alla
rappresentazione, come se nulla fosse. Il fatto è che sono talmente
uguali a noi spettatori (confabulano, ridacchiano, si scambiano
strette di mano e pacche sulle spalle) che il pubblico <vero> neppure
li nota. Anzi, dal momento che loro stanno lì a farsi i fatti loro, anche
noi stiamo qui a continuare a farci i fatti nostri. Poi ci diranno che
succede.
La questione però non è così semplice, dal momento che sono
loro, gli attori, ad osservare noi nella nostra ridicola, comica, pietosa
recita quotidiana. Così i veri rusteghi, i selvaggi, i rinoceronti (a metà
dello spettacolo cala dall'alto un gigantesco rinoceronte alla Ionesco,
tanto per essere chiari) siamo noi, servi del quotidiano, servi della
politica: "servi-servi-servi siamo tutti solo servi" recita una battuta
tremendamente vera del copione. Servi che si tramutano in selvaggi,
come appunto i rusteghi di Goldoni, gente indurita e senza cuore,
senza civiltà, senza cultura, siamo noi tutti <selvaggi> quando
rendiamo nel nostro "piccolo" servi, umiliandoli, i più deboli e
bisognosi. Da Marchionne - per fare un esempio dei nostri giorni - coi
suoi operai nel pubblico, al padre di famiglia testardo e possessivo
coi suoi figli nel privato.
Parallelamente a questa chiave di lettura che attualizza Goldoni
sia sul piano della forma (il teatro nel teatro) che su quella del
contenuto (politico, la piccola borghesia schiavizzata e frustrata che
si rifà sui deboli e si inselvatichisce a furia di rifiutare la cultura - e il
teatro, "mi non vado all'Opera, siamo matti!" dice Canciano che pure
ha riservato un palco per quieto vivere e ostentazione di ricchezza) vi
sono molti altri elementi da segnalare. Cercherò di evidenziare
almeno un altro punto fondamentale.
Come accennavo precedentemente, Goldoni visse con una certa
inquietudine e fastidio l'ascesa di Carlo Gozzi che prima gli fece
concorrenza, poi rapidamente gli rubò letteralmente le scene, cioé i
teatri e il pubblico veneziani. La questione si poneva in modo
abbastanza indigesto per Carlo Goldoni che vedeva nell'altro Carlo,
ossia Gozzi, non un rivale destinato ad essere una meteora come
Chiari, ma un vero e proprio antagonista - anche sul piano
drammaturgico - di tutto rispetto. Si sa come stanno le cose che qui
ripeto sinteticamente: se la riforma teatrale goldoniana spoglia le
maschere della commedia dell'arte dall'artificio, dal mestiere, dalla
finzione per trasformale in espressioni di vita reale, Gozzi al
contrario recupera l'originaria libertà dell'attore, l'improvvisazione,
non più però affidata al canovaccio abborracciato, bensì ad una
precisa struttura drammaturgica. Con Gozzi nasce insomma il teatro
della sperimentazione in cui la drammaturgia si sostiuisce al copione,
ma non lo elimina, mettendone invece in evidenza l'aspetto
formalistico e drammaturgicamente rivoluzionario. Basti dire che
l'influenza di Gozzi è fortissima sul futurismo e lo sperimentalismo
del primo Novecento, ma anche nella sperimentazione italiana (e non
solo) degli anni Sessanta e Settanta.
Tornando allo spettacolo di Vacis, è evidente il tentativo di
fondere il realismo goldoniano con lo sperimentalismo di Gozzi:
un'operazione drammaturgica che riesce al regista che dà dunque
vita ad una <nuova forma> in cui assoluto realismo e assoluta
improvvisazione permettono alla rappresentazione di farsi ora
storica, ora politica, ora <immediata> come un discorsetto al
pubblico con tanto di spiritosa <moralina> della serata. Goldoni
arricchito da Gozzi diventa dunque un contenitore di contenuti e di
forme che fuoriscono come i venti e le tempeste dal vaso di Pandora
del testo goldoniano e investono il pubblico, costringendolo ad aprire
l'ombrello della riflessione e dell'autocritica in quell'arcaico processo
teatrale che si chiama catarsi.
Così Vacis, che viene pur sempre dalla scuola del Piccolo,
partendo dal pessimistico finale streheleriano dei "Giganti della
montagna" - il carrozzone dei comici che viene schiacciato
dall'abbatersi di un sipario di ferro -, raccoglie i cocci del teatro,
guarisce le ferite dei commedianti, conquista o riconquista
empaticamente il pubblico e riprende il cammino dell'arte
servendosi di tutti i <trucchi del mestiere> (le forma
drammaturgiche) che il teatro mette a disposizione, compreso
Ionesco coi suoi rinoceronti, dando un senso e una speranza, nonché
un futuro, al teatro stesso visto come elemento di rinascita nazionale.
Tant'è che lo spettacolo si chiude prima degli applausi sulle note di
"Va pensiero".
In conclusione si tratta di uno spettacolo forse in qualche punto
discutibile, come ad esempio gli inserti attualizzanti microfonati (è
diventata una mania quella di aggiungere testi narrativamente
mediocri , <tanto pe' parlà o pe' scrive> diciamo a Roma, che non ci
azzeccano nulla e un po' rompono), ma comunque da vedere e capire,
recitato in maniera disinvolta, scherzosa, allegra, un po' in dialetto e
un po' in lingua, da un drappello di attori che cercano di ridare vita,
voce e respiro - ed anche un po' di coraggio - allo spirito innovativo,
partendo dalle tradizioni drammaturgiche del nostro teatro.