anninovanta

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1. Gli anni ’90: i giovani in una cultura postmoderna
Nel quadro relativamente tranquillo e scontato degli anni ottanta, si inserirono avvenimenti di
portata internazionale che sconvolsero gli assetti tradizionali e rimisero in discussione il quadro
politico consolidato. Questi hanno preso l’avvio con il sovvertimento politico avvenuto nel blocco
sovietico alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90.
L’avvenimento più rilevante fu, simbolicamente, la caduta del muro di Berlino (1989), con
l’implosione dell’impero sovietico, la sua dissoluzione in tante repubbliche nazionali e, di
conseguenza, la frantumazione dell’Est europeo. Tali vicende sconvolsero la storia e cambiarono la
geografia politica del pianeta. L’effetto più rilevante, a livello mondiale, fu la caduta del principale
baluardo dell’ideologia comunista, la conseguente crisi delle visioni del mondo ispirate a forme di
egualitarismo sociale o socialiste, e l’egemonia indiscussa del modello liberista. Anche i partiti
legati a quel particolare tipo di pensiero entrarono in crisi, dissolvendosi o rinnovandosi
profondamente.
1.1. La politica italiana dopo l’89
Con la caduta del muro di Berlino e gli avvenimenti dell’Est europeo risultò non più così
essenziale il baluardo della democrazia eretto dalla DC e dagli altri partiti che dal dopoguerra
avevano, con formule diverse, governato l’Italia e assicurato la sua permanenza nell’area
occidentale. Così si ritenne che fosse giunto il momento di cambiare. La corruzione che aveva
caratterizzato in maniera più marcata l’ultimo decennio divenne l’occasione per dare una spallata al
sistema. Attraverso una serie di processi ad amministratori dei partiti di governo, avviata da un pool
di giudici di Milano, si diede inizio alla stagione di “Tangentopoli” che raccolse e condensò la
voglia di pulizia morale e di onestà dei cittadini insieme alla volontà di riscossa dei partiti rimasti da
sempre all’opposizione. Ciò portò alla progressiva dissoluzione o cambiamento dei vecchi partiti
che avevano per cinquant’anni governato l’Italia: DC, PSI, PSDI, PRI, PLI.
Nello stesso tempo nuove istanze politiche e nuovi partiti nascevano dalla frantumazione del
vecchio quadro politico. Già prima dell’89 in Italia erano emerse forti spinte particolaristiche, con
manifestazioni di xenofobia ed esaltazione delle tradizioni locali. La nascita del movimento politico
della “Lega Nord”, fornì una base ideologica ed un’organizzazione politica a queste istanze,
provenienti soprattutto da ambienti dell’artigianato, proprietà terriera, media e piccola industria
delle aree pedemontane e rurali del Nord Italia.
Poco dopo prendeva il via l’esperimento politico di “Forza Italia”, promosso da un imprenditore
milanese, Silvio Berlusconi, che faceva propri alcuni principi del neoliberismo economico, ma
soprattutto continuava la linea di pragmatismo politico inaugurata da Craxi e dall’ultima DC. Egli
riusciva anche nell’operazione di “sdoganare” il vecchio MSI, di ispirazione fascista, diventato
“Alleanza Nazionale” e, attraverso l’intelligente opera di mediazione politica dell’on. Fini, portarlo
progressivamente su posizioni più moderate e democratiche. Ciò consentiva a Berlusconi di
presentare queste tre forze politiche, insieme ad un residuo di vecchia DC, con un programma
comune. Essi, in forza di quest’alleanza riuscirono a vincere nelle elezioni del 1994 e ad andare al
governo, presieduto appunto dall’on. Berlusconi.
Tuttavia la forte opposizione dei partiti della sinistra, che nel frattempo avevano affrontato un
energico rinnovamento per opera dell’on. D’Alema, le indagini dei giudici milanesi sulle evasioni
fiscali e irregolarità nella gestione di aziende del gruppo Berlusconi, ed infine la venuta meno
dell’appoggio della Lega Nord per divergenze sul programma di governo fecero cadere, dopo sei
mesi, il governo Berlusconi. La formazione del nuovo governo fu affidata ad una coalizione di
centrosinistra, la quale, al termine del mandato, si presentò alle elezioni vincendole. Questa
coalizione, raccolta sotto il nome di Ulivo, metteva insieme parte della vecchia DC, rinnovata con il
nome di PPI (Partito Popolare Italiano), il Partito Comunista diventato DS (Democratici di Sinistra),
Verdi, Socialisti, ecc. Questa coalizione, con tre formule di governo (la prima guidata da Romano
Prodi, che era stato l’ispiratore dell’Ulivo), riuscì a concludere la legislazione. Ma nel frattempo
aveva perso il partito di Rifondazione Comunista, sorto come scissione dal vecchio Partito
Comunista quando era diventato DS.
1.2. L’economia
Gli avvenimenti a livello nazionale e internazionale ebbero notevoli ripercussioni a livello
economico. La caduta del regime sovietico comportò l’oblio delle teorie interventiste dello stato e
l’adozione a raggio universale dell’economia di mercato. L’indirizzo neo-liberista dalla Gran
Bretagna e dagli Stati si estese a tutta Europa, occidentale prima e poi anche orientale, con non
indifferenti problemi a livello sociale.
Ma, nonostante l’entusiasmo suscitato da questi avvenimenti e la fiducia incondizionata nelle
regole del mercato e nel capitalismo, dopo qualche anno la situazione economica non fu così
brillante come ci si era illusi.
“L’Occidente, finita la grande contrapposizione [con l’impero sovietico], ha conosciuto una lunga
congiuntura negativa, con alti tassi di disoccupazione” (Detragiache 1996, 107).
In un primo momento infatti (fine degli anni ’80, inizio anni ’90) la situazione economica sembrò
avviarsi verso un deciso miglioramento ed il tasso disoccupazione si contrasse 1. Ma qualche anno
dopo (’93) la situazione precipitò nuovamente e le condizioni lavorative peggiorano di molto. Una
leggera inversione di rotta si registrò alla fine degli anni ’90, inizio 2000, non per effetto del
miglioramento del quadro economico, ma per la maggior flessibilità del mercato e la capacità dei
giovani di adattarsi alle nuove situazioni.
Le trasformazioni a livello strutturale si ripercossero a livello culturale con andamento circolare:
la cultura risentiva delle trasformazioni sociali e si adeguava; ma è anche vero l’incontrario: la
società sceglie il tipo di cultura che le fornisce gli strumenti migliori per interpretare la situazione e
adattarsi. Ovviamente, con effetti di feed-back continui, per cui è difficile decidere “cosa influenzi
chi”. Ciò risultò particolarmente vero in quegli anni.
1.3. La cultura post-moderna
Le accelerazioni che aveva assunto negli ultimi anni la modernità, presero un ritmo così
rapido e vorticoso da far pensare di trovarsi in un altro tipo di civiltà, affatto diversa da quella che
l’aveva preceduta. Tale mutamento fu etichettato come “postmoderno”. Con tale termine, inventato
1 “Osservando i dati relativi alla forza-lavoro compresa tra i 14 e i 29 anni di età si riscontrano nel nostro paese segnali positivi
che invertono la tendenza negativa rilevata negli anni '70 e '80. Infatti, pur rimanendo una situazione pesante, vi è una relativa
diminuzione della percentuale di giovani disoccupati: dal 71.3% al 69.4% sul totale tra il 1988 e il 1989. Tuttavia il numero dei
disoccupati in Italia subisce nello stesso periodo una diminuzione di solo 22 mila unità, evidenziando come il mercato del lavoro
abbia reclutato in prevalenza manodopera giovanile. D'altra parte i tassi di disoccupazione giovanile nel loro andamento storico - dal
27.8% del 1987 al 26.8% del 1989 - farebbero ritenere che tale fenomeno costituisca un problema destinato a perdere di
drammaticità nell'arco di un decennio, anche a causa dei primi effetti del decremento della natalità che si è registrato in Italia a
partire dai primi anni '70 e in ragione di un mercato del lavoro in cui la domanda si indirizza soprattutto verso la componente più
giovane e qualificata penalizzando la forza lavoro adulta e i bassi livelli di istruzione. Va altresì rilevato che la disoccupazione
giovanile colpisce maggiormente il Sud del paese e la componente femminile, con tassi nel 1988, rispettivamente del 45.2% e
34.5%” (Malizia – Frisanco, 1991, 46-47).
dall’architettura ma preso a prestito anche dalla filosofia e sociologia, si volle dare un nome alle
caratteristiche che andava assumendo la modernità. Anche se il conio del termine risale agli anni
’70, la sua applicazione sociologica su larga scala avvenne proprio in quegli anni, come si può
evincere da varie pubblicazioni dell’epoca: segno che solo allora si cominciò prendere coscienza di
trovarsi non solo di fronte ad un diverso modo di produrre (postindustriale), o di organizzarsi della
società (più complesso), ma anche ad una vera svolta epocale.
In realtà è questione dibattuta tra i teorici se si tratti di un mutamento radicale, oppure
semplicemente un’accelerazione della modernità. C’è chi pensa che la modernità sia un periodo non
ancora concluso, per cui la interpreta come un progetto incompiuto (Habermas), una modernità
radicale (Giddens e Luhmann), una modernità esplosa (Touraine)2.
Altri invece intendono con il termine “postmodernità” una rottura radicale rispetto al passato.
Gli elementi assolutamente nuovi sarebbero: “l’assenza di una descrizione unitaria del mondo, di
una razionalità valida per tutti, di un concetto di giustizia condiviso, ma anche la riscoperta dei
limiti delle azioni umane, la tolleranza della diversità, il rifiuto di basarsi esclusivamente su valori
materialistici” (Ungaro, 2001, 20).
Alla forza delle ideologie o delle “grandi narrazioni” che avevano caratterizzato la
“modernità”, succederebbe un atteggiamento più rinunciatario e insicuro. E’ di quei tempi “la
scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i precedenti fondamenti
dell’epistemologia si sono rivelati inattendibili; il fatto che la storia è priva di ogni teleologia e che
di conseguenza non si può difendere plausibilmente alcuna versione di progresso; e infine la nascita
di un nuovo programma sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazione
ecologiche e forse i nuovi movimenti sociali in genere” (Giddens, 1994, 53). Prenderebbe così
corpo una forma mentale che tende a mettere radicalmente in dubbio la stessa possibilità di un
fondamento non illusorio per le convinzioni che finora avevano guidato la cultura moderna.
Entrò così in dubbio la validità del ragionamento umano3, i valori e le convenzioni sociali e
soprattutto l'idea stessa di uomo e di società4.
Il tipo di pensiero a cui ci si faceva riferimento era piuttosto quello di Nietszche o di
Heidegger, di Gadamer, di Derida, di Lyotard. Sul versante scientifico il “principio di
indeterminazione” di Eisenberg diventò la pietra di confronto per tutte le teorie.
1.3.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno
La relativizzazione del pensiero classico occidentale e lo scetticismo sui suoi atteggiamenti
mentali aveva comportato degli innegabili vantaggi: una maggior flessibilità e differenziazione
nella società; il declino delle ideologie totalizzanti; la diminuzione di individui dalla personalità
2 Con tali termini si indica che il progetto illuministico non è stato portato adeguatamente a termine, oppure che è stato talmente
estremizzato da comportare più conseguenze dannose del previsto (libertà che diventa licenza, scienza che si diventa anti-umana,
ecc.) (cfr. Ungaro, 2001, 16).
3 Il pensiero postmoderno, comprende tutte quelle filosofie e posizioni teoriche che, fin dalla fine del secolo scorso, hanno
espresso una forte critica alla ragione, intesa come "capacità progettuale di una soggettività che si dispiega verso un orizzonte di fini
di cui ritiene di possedere la chiave" (Villani 1985, 5-6; cit. da Ardigò 1988, 1). Esso reagisce ad un'impostazione classica della
razionalità, non riconoscendole più la validità di cui aveva goduto fino ad allora, ponendo con ciò in crisi i fondamenti stessi su cui
poggiava, particolarmente quello epistemologico e quello ontologico. Nello stesso tempo rinuncia, per principio, a cercare un proprio
fondamento, in quanto ritiene che la ragione umana non sia, di per sé in grado di raggiungere la verità e di trovare un fondamento ad
una forma di pensiero che non sia ideologica.
4 "L'idea forza della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione ai
valori ultimi, fondati sulla capacità dell'uomo di esercitare la ragione per un'opera di chiarificazione, di illuminazione (di qui il nome
di illuminismo come tratto qualificante la modernità) nei confronti del mondo e di se stesso. Ora - come hanno puntualizzato, sia pur
da angolazioni contrapposte, J. F. Lyotard e J. Habermas -, ciò che definisce l'essenza della condizione postmoderna è proprio la
negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si impernia sul disconoscimento dei valori ultimi, in grado
appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordinamento della società (fosse anche rivoluzionario o
riformatore), di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un'effettiva intelligibilità alla vita umana
e alla società" (Vaccarini 1990, 128-129).
autoritaria e l'accresciuta tolleranza ed accettazione delle "diversità" etniche, sociali e religiose; la
tendenza alla parità tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro; l'accresciuta sensibilità verso i
diritti di tutti i cittadini, e in particolare delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di
handicap); l'indebolimento del formalismo sociale e della deferenza verso l'autorità politica e
sociale.
Però esso rappresentò anche la distruzione di tutto ciò che era collegato al passato più che la
effettiva costruzione di una nuova razionalità. Ciò ha voluto dire crisi delle agenzie di
socializzazione tradizionali5; egemonia ideologica dell’ "individualismo radicale" e svuotamento di
valore del lavoro, dell'amore e del matrimonio, della comunità democratica6. Crisi dei valori e delle
concezioni base su cui aveva costruito finora il consenso e le motivazioni all’azione.
Insieme ne era venuta la "cultura del narcisismo", ispirata alla rigida dissociazione tra sfera
privata e sfera pubblica; perdita di potere e di funzione sociale dell'intellettuale; perdita di
credibilità intellettuale della nozione stessa di soggetto umano, e quindi della possibilità di definire
una identità qualsiasi. Crisi di senso e di orientamento generale.
La condizione dell’uomo moderno appariva sempre più simile a quella descritta da Berger: un
“homeless mind”, una “mente senza fissa dimora”; uno sradicato in patria, errabondo, inquieto,
senza un punto fisso, un punto di riferimento sicuro. Questa cultura fu il segno della profonda crisi
che stava attraversando la società.
1.3.2. Postmaterialismo e postmodernità
I valori postmaterialisti vennero da vari autori e dallo stesso Inglehart, associati alla nuova
cultura. E’ lo stesso autore a trattare la cosa imn maniera sistematica nel suo ultimo libro:
“Modernization and postmodernization. Cultural, economic and political change in 43 societies”
(1996), uscito in Italia col titolo “La società postmoderna” (1998). In essa affronta il rapporto tra
“posmaterialismo” e “postmodernizzazione”, affermando che il postmaterialismo è un processo che
contribuisce in maniera cospicua alla “postmodernizzazione” e ne definisce contenuti e prospettive.
In effetti rintraccia notevoli convergenze tra le sue ricerche sul postmaterialismo e i tratti della
società postmoderna.
I risultati delle ricerche condotte in 43 paesi, da quelli più avanzati a quelli più arretrati, gli
avevano dato conferme sempre più convincenti all’ipotesi materialismo/postmaterialismo. Oltre a
registrare una costante aumento del postmaterialismo tra le società avanzate dell’Occidente (tasso di
incremento medio di 1 punto percentuale per anno), in particolare tra i giovani ed i settori più
benestanti e colti della popolazione, egli andava scoprendo che i paesi che vivevano con un reddito
molto basso si trovavano ancora alle prese con i bisogni materiali di sopravvivenza, mentre nei
paesi più ricchi il processo di “postmaterializzazione” si andava affermando sempre più, pur con
alterne vicende.
5 "Famiglia e scuola hanno perduto la capacità di trasmettere immagini del mondo , modelli di azione e un senso profondo del
legame con gli altri, fattori questi che danno significato, intensità ed autenticità all'esistenza" (Vaccarini, 1990, 121).
6 "R. Bellah chiarisce che la modernità è stata promossa da una concezione, rispettivamente, del lavoro, dell'amore e del
matrimonio e della comunità democratica, che è contrassegnata dall'interdipendenza e dalla sintesi tra sfera privata e sfera pubblica,
tra individuo e collettività. [...] Il risultato di questa integrazione tra sfera privata e sfera sociale è la prospettiva di formare delle
personalità dotate di carattere e di capacità autonome e responsabili delle proprie azioni. Ora, l'«io» ribalta la suddetta concezione
propria della modernità postulando la dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività, e valorizzando in
modo esclusivo la sfera individuale e privata a scapito della sfera sociale e pubblica. Secondo questa ideologia individualistica l'«io»
è completamente libero da vincoli, e peculiarmente da vincoli dettati da un fine morale e stabile. La base teorica di questa libertà è
l'assunto che non esiste alcun criterio oggettivo di discernimento del vero dal falso, del bene dal male; pertanto sono soltanto i nostri
sentimenti a poter fungere da guida morale delle nostre azioni. L'«io» si trova dunque atomizzato, e indotto a scavarsi una nicchia in
cui cercare l'auto-espressione e adottare un proprio stile di vita. All'interno di questa nicchia l'«io» è illimitatamente libero; per
contro, tutto ciò che è all'esterno di questa nicchia gli è fondamentalmente indifferente. Ma, a ben vedere, l'indifferenza permea l'«io»
anche nella sua nicchia privata: infatti la nozione di un «io» assolutamente libero conduce all'esperienza di un «io» assolutamente
vuoto. Cioè ad una identità destrutturata e frammentata" (Vaccarini, 1990, 122-123).
1.3.2.1. Correlazione tra sviluppo economico e culturale
Il lavoro più interessante fu di accostare i tassi di sviluppo al tipo di cultura. Apparve
evidente che, a seconda del livello economico raggiunto, ogni società riproduceva un pattern
culturale preciso. Le società che vivevano in un’economia di sussistenza, riproducevano anche una
cultura in cui la tradizione aveva un ruolo molto importante, e le norme erano ancorate ad
un’autorità trascendente. Mentre le società in via di modernizzazione tendevano ad attribuire molta
importanza alla scienza-teconologia, al successo, ad avere un’autorità di tipo razional-secolare, e
quindi ad interessarsi di più della politica e a darsi norme che derivavano dal consenso sociale.
Infine, le società che avevano superato il livello di sopravvivenza e vivevano
nell’abbondanza, tendevano a mutare i loro criteri in base ai nuovi bisogni che la loro condizione
evidenziava: meno importanza alla scienza-tecnologia, preferenza per i temi ecologici e per la
qualità della vita, depotenziamento dello stato e della burocrazia, più libertà, più fantasia ed
autoespressione. Ma nello stesso tempo continuava il processo di secolarizzazione messo in atto
dalla modernizzazione: la riduzione dell’importanza della famiglia, la maggior tolleranza verso il
diverso, la parità di diritti tra uomo e donna, ecc.
Cioè, il carattere postmaterialista sembrava correlarsi più probabilmente con le tendenze
postmoderne che con quelle tipiche della modernità (secondo il modello weberiano).
L’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia era stato l’elemento centrale della modernità.
Ma le popolazioni di paesi con alte percentuali di postmaterialisti (alla fine del continuum
postmoderno) tendono ad avere poca fiducia che i progressi scientifici aiuteranno piuttosto che
ledere l’umanità […]; analogamente tendono a mettere in dubbio che assegnare una maggiore
importanza alla «tecnologia» sarebbe una buona cosa. Al contrario, le stesse società hanno alti
livelli di consenso nei confronti dei movimenti per l’«ecologia». Il fatto che le società informate
alla sicurezza tendano a rifiutare la scienza e la tecnologia è il punto principale di allontanamento
dalla fiducia fondamentale della modernizzazione - un’altra ragione del perché questa dimensione
riflette un cambiamento nella direzione postmoderna (Inglehart, 1998, 124).
Oltre all’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia, un’altra caratteristica chiave della
modernizzazione è stata la tendenza a burocratizzare tutti gli aspetti della vita. Ma i valori
postmoderni sono connessi con il declino del consenso per un governo grande: credere che lo Stato
(piuttosto che l’individuo) possa assumersi più responsabilità per assicurare che ciascuno
«provveda a» («responsabilità dello Stato»), è legato ai valori di sopravvivenza, e non ai valori di
benessere; lo stesso accade per la «gestione pubblica/dei dipendenti» piuttosto che per la gestione
privata. Il consenso per un governo grande era la componente principale per la modernizzazione. Il
fatto che non sia connesso con i valori postmoderni è un’altra indicazione che la
postmodernizzazíone rappresenta un fondamentale mutamento di direzione (Inglehart, 1998, 126).
Pertanto, conclude l’autore, “il postmaterialismo costituisce una componente centrale dei
valori postmoderni” (Inglehart 1998, 126).
1.3.2.2. Correlazione tra postmaterialismo e postmodernizzazione
Sulla postmodernizzazione Inglehart ha avanzato alcune osservazioni, distinguendo tra
aspetti che sono a suo avviso accettabili ed altri che non condivide.
a) Riconosce, con i tanti autori postmoderni, che sia in atto una “deenfatizzazione” della:
1. efficienza economica;
2. autorità burocratica;
3. razionalità strumentale, scientifica.
b) Condivide la richiesta di una società più umana, in cui ci sia:
1. più spazio per l’autonomia personale, per la cultura;
2. maggior tolleranza per la diversità, contro l’uniformità e la gerarchizzazione precedente;
3. maggior spazio per l’autoespressione e l’autoaffermazione;
4. più spazio all’estetica;
5. recupero selettivo del passato;
6. ricerca della qualità della vita.
Condivide anche una certa critica all’eccessiva fiducia nelle “metanarrazioni” (ideologiche,
politiche, religiose), ma rifiuta posizioni estreme come quelle di Lyotard e Braudillard che tendono
ad assolutizzare la cultura, quasi fosse tutto. Per lui postmodernità vuol dire aumento dell’influenza
della cultura sulla vita sociale, ma non riduzione alla sola cultura. La realtà rimane con la sua
componente oggettiva, non riducibile a solo pensiero. Natura e cultura sono egualmente presenti ed
è solo dal loro rapporto che è possibile la vita dell’uomo e della società. Come già aveva sostenuto
in un’opera precedente (1990) egli concepisce la società come un’interazione continua tra fattori
economici, politici e culturali. Ciò che caratterizza la società postmoderna è l’importanza che sta
acquisendo la dimensione culturale rispetto a quella economica e politica, che erano invece
prevalenti nella società moderna.
Respinge anche il radicalismo estremo che nega ogni fondamento sul quale fondare criteri
morali universali. Egli invece condivide con Habermas la convinzione che sia possibile “una base
razionale per la vita collettiva […] quando le relazioni sociali sono organizzate in modo tale che la
validità di ogni norma dipende al consenso raggiunto in una comunicazione libera dal dominio”
(Inglehart, 1998, 45).
Come pure rifiuta il pregiudizio anti-occidentale di Derida. Egli sostiene che, se è vero che
la società industriale e moderna è nata in occidente, essa non è solo occidentale. Gli elementi
fondamentali della “modernizzazione” sono stati l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la
secolarizzazione, la burocratizzazione e una cultura basata sulla burocrazia: “una cultura che
richiedeva il passaggio da una status ascritto ad uno status acquisito, da forme diffuse a forme
specifiche di autorità, da obbligazioni personalistiche a ruoli impersonali e da leggi particolaristiche
a leggi universali” (Inglehart, 1998, 50). Tali aspetti non sono esclusivi della società occidentale. Se
hanno preso l’avvio in occidente fu per merito dell’etica protestante che cambiò il sistema di valori:
l’accumulazione economica non più osteggiata o tollerata, ma incoraggiata. Tale mutamento
culturale aprì la strada al capitalismo e all’industrializzazione. Ma laddove si danno gli stessi
mutamenti culturali, come per esempio nell’estremo oriente dove prevale la cultura confuciana,
avviene lo stesso processo. E l’industrializzazione è perseguita come una meta desiderabile da tutte
le nazioni, indipendentemente dalla loro posizione geografica o culturale.
1.3.2.3. Cambio epocale
Ciononostante, egli afferma, siamo di fronte ad un cambiamento culturale senza precedenti.
Il cambiamento dalla società moderna a quella postmoderna, viene fatto risalire ai limiti raggiunti
dalla società moderna, che egli spiega con la tesi dell’ “utilità marginale decrescente dei profitti
economici”. Questa motiverebbe il fatto che, una volta raggiunti certi livelli di vita, non interessa
più accumulare ricchezza, ma invece acquisire una maggior qualità di vita. Quindi, anche per lui,
come per Habermas, la società postmoderna si presenta come un “progetto incompiuto”, che
richiede di essere rivisto, ma non rifiutato. La postmodernizzazione deve rappresentare il
completamento del processo di modernizzazione, non la sua negazione.
La modernizzazione ha finito il suo tempo perché ha raggiunto il suo scopo. Infatti
l’industrializzazione ha prodotto due beni fondamentali:
1. maggiori possibilità di sopravvivenza (aspettative di vita)
2. più alti livelli di benessere soggettivo.
Tali realtà non vanno dimenticate o sottovalutate. Ovviamente è giunto il momento di cambiare
corso, perché la modernizzazione ha imposto anche alti costi, che non sono più necessari. I valori
del successo con i sacrifici che chiedeva, che limitavano l’autoespressione, non sono più così
urgenti. Così pure hanno raggiunto il loro limite le organizzazioni gerarchiche burocratiche che
sono state l’ossatura della società moderna.
Ma sono giunte ad un punto di svolta per due ragioni: primo, hanno raggiunto i limiti della loro
efficienza funzionale; secondo, stanno raggiungendo i limiti della loro accettabilità di massa
(Inglehart 1998, 48).
Così ecco che emergono nuovi valori e stili di vita, più funzionali alla nuova situazione
determinatasi in seguito al raggiungimento di una notevole sicurezza materiale.
I postmaterialisti non sono non materialisti, e neppure antimaterialisti. Il termine «postmaterialista»
indica un set di fini che sono ritenuti importanti dopo che le persone hanno ottenuto la sicurezza
materiale e proprio perché l’hanno ottenuta. […] L’emergere del postmaterialismo non riflette un
capovolgimento delle preferenze, ma un mutamento delle priorità: i postmaterialisti non
attribuiscono un valore negativo alla sicurezza economica e fisica – la valutano positiva come tutti
ma, diversamente dai materialisti, danno priorità all’autoespressione e alla qualità della vita
(Inglehart 1998, 57).
La società postmoderna attribuisce molta più importanza ai problemi della qualità della vita
ed esige livelli molto più alti di prestazioni sociali. Ci si aspetta un lavoro sicuro, un aumento degli
standard di vita, guide illuminate, un governo generoso, un’assistenza sanitaria d’alta qualità,
l’armonia razziale, un ambiente pulito, città sane, un lavoro soddisfacente e soddisfazione
personale.
Questi elementi costituiscono per la società moderna «entitlements», titoli espressi con una
convinzione moderna, una maggiore sensibilità che definisce gli atteggiamenti degli occidentali nei
confronti delle condizioni sociali, delle istituzioni nazionali e anche del mondo. Sempre più si crede
che certe cose sono (o dovrebbero essere) garantite. Non è che la gente non si preoccupi, ma si
preoccupa di cose diverse.
Questi atteggiamenti sono destinati progressivamente a diffondersi e a diventare patrimonio
comune di quote sempre maggiori di popolazione, non solo nelle nazioni occidentali, ma in tutti
quegli stati che vogliono intraprendere la strada verso la modernizzazione. Perciò il pattern culturale
postmoderno e/o postmaterialista sta per affermarsi come un modello culturale universale verso cui
tutto il mondo è incamminato. Ovviamente ferme stando le condizioni economiche e politiche
attuali.
1.4. L’Italia fra tradizione e postmodernità
Il problema se ci si trovi di fronte ad un cambio epocale o solo ad un mutamento di valori viene
affrontato anche dalla versione italiana della ricerca europea EVSSG (Gubert, 1992). Si trattava di
capire dove stesse andando la società, se verso un riequilibrio dei valori, come sosteneva il
coordinatore, dopo le accelerazione dei decenni precedenti, oppure verso una nuovo civiltà, dai
contorni ancora poco definiti. L’analisi dei valori diventa allora la cartina di tornasole per verificare
l’ipotesi più probabile.
1.4.1. I valori degli italiani
Per quanto riguarda i valori della famiglia, della sessualità e della coppia negli anni ’90, si
rilevarono comportamenti e valori contraddittori: si era assistito ad un calo di accordo tra le coppie,
era aumentata la disponibilità alla libertà nei comportamenti sessuali; ma nel contempo era aumento
il consenso al matrimonio come istituzione (auto-fondata sulla relazione), l’amore incondizionato
dei figli per i genitori, la soddisfazione per la vita di famiglia.
Per i valori del lavoro: era aumento il peso, già elevato, delle motivazioni strumentali, come il
guadagno, ma anche le motivazioni di tipo espressivo-comunicativo, specie tra i giovani.
Era ulteriormente calata la partecipazione ad associazioni, specie in quelle religiose, sindacali,
politiche, di volontariato sociale, ma per alcuni tipi (associazioni culturali, associazioni che si
occupano del “Terzo Mondo”) essa era cresciuta.
Si voleva che la società assegnasse meno peso al denaro, al lavoro, all’acquisizione di beni
materiali a favore, invece, di una maggiore attenzione alla crescita della persona, alla vita di
famiglia, alla qualità all’ambiente, ma a livello concreto si dava più importanza a mete di natura
economica, anche se cresceva pure la preoccupazione per garantire i diritti di libertà di parola e di
partecipazione sociale e politica.
Era calata la fiducia nello Stato, nelle sue istituzioni, l’impegno nei partiti e nei sindacati, ma
era cresciuto l’interesse e la partecipazione politica. C’ era stata una perdita delle posizioni
politicamente conservatrici, ma era aumentato di molto il favore all’autonomia dell’imprenditore e
la fiducia nel grande padronato.
Era cresciuta la convinzione che vi fossero dei criteri validi in ogni circostanza per
comprendere ciò che è bene e ciò che è male, ma nel contempo era aumentano il permissivismo e
l’incertezza di giudizio etico su azioni un tempo ritenute sicuramente immorali.
Era aumentata la riflessione sul senso della vita e della morte, l’importanza del riferimento
religioso per sé e nell’educazione dei bambini, la pratica religiosa, ma era diminuita l’affiliazione
alla chiesa e la credenza nelle “verità”, specie di tipo escatologico, che tradizionalmente avevano
fatto da supporto all’esperienza religiosa e che costituivano parte importante del patrimonio di fede
cristiano.
Era aumentato il senso di soddisfazione per la vita che si conduceva, ci si sentiva meno annoiati
e meno soli, meno tesi ed insoddisfatti, era aumentato il senso di fiducia nella gente, ma si era
rilevato più desiderio di star lontani da categorie o gruppi che potevano portare disturbo, più
desiderio di cambiare la società.
1.4.2. Postmaterialismo o riequilibrio? Modernità e tradizione nel caso italiano
Di fronte a questi dati Renzo Gubert propose alcune riflessioni conclusive, ponendosi il
problema se questi fossero indicatori di progresso o di ritorno al passato, di postmaterialismo o di
materialismo, di postmoderno o di pre-moderno. Egli suggerì un’altra ipotesi, senza escludere
quella postmaterialista, l’ipotesi del riequilibrio.
Difficile dire se la cosiddetta cultura post-materialistica stia crescendo o se recuperino alcuni valori
tradizionali. […] Per alcuni aspetti l’ipotesi del riequilibrio sembrava almeno altrettanto adatta a
render conto degli andamenti: aspetti trascurati della tradizione riemergerebbero, ristabilendo così
un equilibrio più accettabile tra soddisfacimento di bisogni di tipo prevalentemente materiale ed
altri di tipo prevalentemente spirituale, tra una socialità da “soci in affari”, come la chiamava F.
Toennies, ed una socialità più comunitaria ed attenta alla solidarietà (a cominciare dalla famiglia
per arrivare allo Stato ed alle organizzazioni internazionali), tra lo sviluppo della razionalità
strumentale e l’attenzione, anche razionale, ai valori, alla dimensione del “senso” della vita e
dell’universo (Gubert, 1992, ).
Egli concludeva, sottolineando come “per alcuni aspetti l’ipotesi del riequilibrio può senz’altro
sostituire quella evolutiva, ma a patto che essa non interpreti il riequilibrio come riproposizione tali
e quali di elementi della tradizione. E proprio le apparenti contraddizioni mettono in evidenza le
diversità rispetto al passato” (Gubert, 1992, ).
Egli rilevò le principali contraddizioni.
Nella famiglia, dove c’è un recupero “ma, si tratta di una famiglia fondata solo (per la gran
parte delle persone) sulla gratificazione derivante dalle relazioni tra i suoi membri” (Gubert, 1992,
572). Non è certo la famiglia tradizionale…
“Nel lavoro si rileva una compresenza di motivazioni strumentali e auto-realizzative, ma con
una prevalenza delle prime […]. Difficile dire se ci si trovi di fronte all’emergere della società
postmaterialista o ad un recupero di elementi trascurati della tradizione” (Gubert 1992, 572).
“Emergono tensioni in direzione di un cambiamento del modello di sviluppo, chiedendo più
attenzione alle dimensioni umanistica ed ambientale” (Gubert, 1992, 573), ma i modi di intervenire
sono diversi dall’azione politica classica. “E’ l’individuo che vuole mantenere senza deleghe il
controllo della sua quota di potere politico” (Gubert, 1992, 573).
E’ soprattutto il recupero dei criteri per stabilire ciò che è bene e ciò che è male che sembra
indicare un cambiamento di rotta in relazione al passato. […] L’atteggiamento morale è meno
intransigente quando si tratta di valori materiali e di convenzioni sociali che li concernono, mentre
è assai più esigente quando sono in gioco persone, il rispetto per esse, se questo rispetto limita in
qualche modo la possibilità di evitare fatiche e sacrifici e ottenere la massima gratificazione
immediata (Gubert, 1992, 573).
A questo punto egli avanzava ipotesi che, per quanto attiene l’etica, la “transizione postmoderna rappresenti solo un ulteriore sviluppo della modernità” (Gubert, 1992, 574). E che i
cambiamenti in atto segnassero, per molti aspetti, un recupero di dimensioni che agli inizi degli anni
Ottanta sembravano meno rilevanti (Dio e famiglia). Arrivava così a suggerire di utilizzare il
termine “postmaterialista” piuttosto che “postmoderno” per interpretare il momento storicoculturale.
In un certo senso, quindi, il termine post-moderno sembrerebbe meno adatto del termine postmaterialista: questo sottolinea il passaggio dall’accentuazione posta su oggetti e valori di tipo
materiale ad altri, ma potrebbe lasciare impregiudicati sia il grado di individualismo, sia quello di
edonismo, sia quello di secolarizzazione, in base ai quali si misurerebbe, secondo Thomas e
Znaniecki, la modernità in termini socio-culturali. Ed in effetti risulta aumentare l’individualismo,
ma neppure l’edonismo sembra conoscere battute d’arresto. […] E’ quindi rischioso ritenere
suffragata dai dati l’ipotesi del cambio epocale o dell’esaurimento della spinta culturale della
modernità; si è piuttosto di fronte ad un suo sviluppo secondo una dinamica dei bisogni ben
illustrata da Maslow, ma nei termini essenziali già nota a psicologi, sociologi ed economisti: la
disponibilità di un “bene” in dosi crescenti ne diminuisce l’utilità marginale, diminuisce la
desiderabilità di quote aggiuntive e quindi le preferenze si orientano verso “beni” relativamente
trascurati. Se a ciò si aggiunge l’altra dinamica, del resto assai simile, per cui allo stesso bisogno si
tende a dare risposte con “varianti” sempre più ricche e pregiate, si comprende almeno in parte la
crescente attenzione verso la “qualità” relazionale della vita, verso la “qualità” del lavoro, verso la
“qualità” dell’ambiente; si comprende come le mete per le quali valga la pena “combattere”,
mettendo a rischio la propria integrità ed il proprio benessere, siano sempre meno (o siano
inesistenti) e come tali scelte siano riservate esclusivamente al proprio personale convincimento
(Gubert, 1992, 575-576).
L’Italia, poi, nel contesto europeo, sembrava caratterizzarsi per una maggior tendenza postmaterialista: maggior peso alla famiglia, alla religione, e valori socio-politici più aperti alla
dimensione umanistica. Ma anche un minor permissivismo etico, una più forte appartenenza alla
Chiesa ed una maggiore fiducia in essa, una più elevata condivisione di valori di giustizia sociale.
Questi, egli notava, sono elementi propri della tradizione, che si mescolavano con elementi nuovi.
Per questo avanzava l’ipotesi: “che la caratterizzazione dell’Italia rispetto alla media europea derivi
dal congiungersi di due fenomeni, il permanere più forte di valori tradizionali e l’emergere di valori
secondo una prospettiva post-materialista” (Gubert, 1992, 576).
1.5. Valori e bisogni dei giovani europei
L’identikit del giovane europeo “medio” che emerse dalle inchieste dei primi anni ‘907 dava
l’immagine di una generazione tendenzialmente appagata sia sotto il profilo delle relazioni sociali
(il 75% viveva in famiglia ben oltre i 25 anni) sia per quel che riguarda le condizioni economicofinanziarie. Infatti più dell’80% si dichiarava molto o abbastanza soddisfatto della propria
condizione finanziaria e 9 giovani su 10 vivevano una realtà relazionale (amicale e parentale)
altrettanto soddisfacente. Confrontandoli con i dati di rilevazioni precedenti appariva un sensibile
miglioramento dei livelli di soddisfazione rispetto alle condizioni “materiali” e, soprattutto, una
minore variabilità tra gli Stati membri.
Tuttavia la realtà era meno idilliaca di quanto appariva a prima vista. Gli inoccupati tra i15-25
anni era pari al 7%; 19 giovani europei su 100 vivevano condizioni di difficoltà economicofinanziarie. Il disagio maggiore sembrava però stesse spostandosi verso la sfera valoriale (20% area
del disagio materiale ed 80% area della soddisfazione dei bisogni di sussistenza). Si parlava sempre
più di un “disagio derivante dall’esperienza della complessità, inteso come profonda sensazione di
smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale delle democrazie europee”
(Sorcioni 1992, 7). In questo senso venivano letti i fenomeni di xenofobia e di radicalismo
nazionalista esplosi in Germania, Francia e Italia che avevano visto giovani come protagonisti8.
Quindi il disagio sembrava investire sempre più la sfera immateriale dei valori, dell’identità, della
capacità di dare senso alla vita9.
D’altro canto la dimensione immateriale del disagio giovanile tendeva a generare nuovi
bisogni di sussistenza spostando verso l’alto la soglia minima di soddisfazione materiale attraverso
la selezione dei consumi e delle aspettative. Ciò comportava un aumento di domanda di beni di
consumo di status, dove i bisogni materiali non erano più causa delle nuove istanze valoriali ma
piuttosto l’effetto.
1.5.1. Una cultura postmaterialista ma soprattutto ricombinatoria
Il miglioramento delle condizioni materiali rendeva sempre più evidente l’avanzata di più
bisogni di tipo postmaterialistico. Il confronto con l’ “indice di Inglehart” confermava la tendenza
in atto. Prevalevano tra i giovani europei, rispetto alle generazioni precedenti, priorità e bisogni
valoriali di tipo post-materialistico e misto. I tassi di scolarizzazione, cresciuti costantemente negli
ultimi 15 anni in tutti gli Stati membri, risultavano sistematicamente più elevati tra i giovani che
non tra gli adulti. Di conseguenza si manifestava maggiore sensibilità verso istanze e riferimenti
valoriali di tipo post-materialistico.
7 Nel 1990 la Comunità Economica Europea realizzò un significativo sondaggio sui giovani dai 15 ai 25 anni (Young Europeans
in 1990). I dati di questo sondaggio sono stati analizzati da Maurizio Sorcioni (1992), un ricercatore del Censis, e riportati nella
rivista “Tuttogiovani Notizie”. Essi sono stati posti a confronto con i dati di qualche anno prima (Young Europeans: 1987) e con le
ipotesi di Inglehart. Un’altra significativa ricerca è stata quella EVSSG del ’90, affidata, per la parte italiana, al commento di docenti
dell’Università di Trento.
8 “Si tratta di tensioni che esprimono in modo esplicito […] un disagio latente, legato proprio alla difficoltà di vivere dentro quel
conflitto sociale della modernità (Darhendorf, 1988) tipico delle società aperte ed in particolare delle democrazie europee. Scriveva
Simone Weil, in un articolo comparso su Le Monde all’indomani dell’esito del referendum francese sul trattato di Maastricht, che la
perdita di identità evoca l’immagine del precipizio e che spesso dal terrore del vuoto può nascere la rabbia. Ed è verosimile ritenere
che proprio la crisi di identità valoriale e sociale costituisca il filo rosso che caratterizza le molteplici forme del radicalismo
giovanile” (Sorcioni, 1992, 7).
9 “. Ciò che appare ormai chiaro, in buona sostanza, è che i livelli di disagio presenti nel variegato universo giovanile europeo non
possano più essere valutati a partire dal grado di soddisfacimento soltanto dei bisogni materiali ma vadano piuttosto riconsiderati a
partire dal più vasto universo dei bisogni valoriali: dalle esigenze di autoespressione e qualità della vita fino ai bisogni crescenti di
identità” (Sorcioni, 1992, 7).
Ma quello che colpì in questi anni fu “l’incidenza di bisogni misti10”, che risultò trasversale
alle varie classi di età, interessando oltre metà della popolazione comunitaria (cfr Tab. 1.2).
Tabella 1.1. Polarizzazione valoriale nel corpo sociale europeo. Indice Inglehart per classi d’età. Confronto 19871990.
Tipologia della priorità valoriali
Materialisti
Misti
Postmaterialisti
Totali
Giovani (15-24)
’87
’90
16
10
60
62
24
28
100
100
Adulti (+25)
’87
’90
35
34
52
53
13
13
100
100
Fonte: elaborazione su dati C.E., Young Europeans, 1987 e 1990 (Sorcioni 1992, 8).
Confluivano nella categoria dei bisogni misti esigenze di autoespressione, individualità e
partecipazione insieme ad istanze materiali, quali la difesa della propria posizione socio-economica
(occupazione e reddito) o dell’identità territoriale. Coesistevano simultaneamente spinte verso
modelli di società aperta e chiusure verso l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). “Un crogiuolo di
esigenze ed aspettative, tipico dei processi di transizione, entro il quale possono manifestarsi
pulsioni integrative e spinte disintegrative, e dove i problemi d’identità possono esprimersi in una
logica tanto complessa quanto socialmente dolorosa” (Sorcioni 1992, 9).
Il bisogno di individualità si manifestava come opposizione alla cultura di massa,
scomposizione dei principali riferimenti ideologici, rifiuto delle tradizionali forme della
partecipazione politica. Superate le logiche di verticalizzazione del conflitto intergenerazionale
degli anni ‘70, il rapporto giovani-adulti era andato orizzontalizzandosi, con perdita delle gerarchie
valoriali, che faceva intravedere il vuoto lasciato dalla scomparsa dei vecchi meccanismi di
trasmissione dei valori. Di qui le difficoltà delle generazioni adulte e più in generale delle agenzie
educative (prima fra tutte la famiglia) ad assumere un ruolo non più autoritario ma autorevole nei
confronti delle giovani generazioni 11. “Ne consegue il carattere misto delle gerarchie valoriali,
caratterizzato dalla combinazione di bisogni, comportamenti ed aspettative anche contraddittorie in
uno stesso individuo”.
Di conseguenza anche la cultura giovanile appariva tendenzialmente ricombinatoria. Tutti i
linguaggi espressivi che interessavano l’arcipelago giovanile si caratterizzavano per un alto tasso di
contaminazione (di influenze etniche, artistiche, tecniche e comunicazionali). Musica, cinema,
tecnologie informatiche e in generale ogni forma espressiva consumata o direttamente prodotta dai
giovani europei, assume carattere combinatorio e ricombinatorio (si pensi ad esempio ai videoclip,
ai programmi televisivi rivolti ad un target giovanile o alle contaminazioni di diversi generi
musicali, primo fra tutti il rap).
1.5.2. Forme di partecipazione e bisogno d’identità
Uno degli scopi di queste indagine era verificare a che punto stesse il processo
d’integrazione europea tra i giovani. I giovani non manifestavano una esplicita ostilità al processo
di unificazione europea (solo 2 giovani su 100 erano negativi) piuttosto non lo consideravano in
10 “Rientrano in quest’ultima categoria istanze sociali, esigenze e valori materiali ed immateriali anche opposti tra loro, la cui
possibile coesistenza anche in uno stesso individuo tende inevitabilmente a generare gerarchie valoriali instabili, potenzialmente
antinomiche e per loro natura in continua trasformazione” (Sorcioni, 1992, 9).
11 “La difficoltà […] di generare nuovi processi di trasmissione valoriale partecipativi (e non solo anti-autoritari) ha finito per
produrre una riduzione dell’entropia generazionale. E se la crescita di bisogni ed istanze valoriali di tipo misto all’interno del corpo
sociale europeo appare la risultante di una progressiva attrazione della sensibilità collettiva verso quelle esigenze immateriali, di
qualità di cui appare portatrice la cultura giovanile, essa è anche il sintomo dell’assenza di quei valori riordinanti di cui invece
dovrebbe farsi portatrice la società adulta” (Sorcioni, 1992, 9).
grado di rispondere alle domande valoriali e di identità che la complessità della società aperta
comportava.
Questa freddezza al tema dell’integrazione europea contrastava con la forte disponibilità dei
giovani verso la lotta al razzismo e gli aiuti al Terzo Mondo. Insieme all’interesse verso le realtà del
Terzo Mondo, si notava un’accentuata attenzione alle culture di altri paesi e l’interesse verso la cultura locale. Il tema ambientalista si confermava come uno dei principali argomenti su cui si
coagulava l’attenzione dell’universo giovanile. Come pure alta appariva la sensibilità verso i problemi sociali mentre diminuiva l’interesse verso lo sport, lo spettacolo e i movimenti per la pace.
In compenso si manifestava basso interesse verso la politica internazionale e nazionale (ed in
parte anche verso i tradizionali “movimenti”), bassa adesione a partiti politici ed organizzazioni
sindacali, oltre a confermare la scarsa attrattiva delle tradizionali forme della partecipazione
politica. Appariva così evidente la frantumazione dei riferimenti politico-valoriali, l’incapacità delle
forme tradizionali di fornire risposte alle domande giovanili ed il fallimento dei tradizionali
meccanismi di generazione delle identità politiche.
In compenso si rivelavano tra i giovani forme di adesione a realtà e valori in antinomia tra
loro, dando ragione del sostanziale carattere combinatorio della cultura giovanile. Ciò portava ad
escludere forme di radicalismo, di cui fisiologicamente sono portatrici le giovani generazioni. Ma
era “al centro” che si manifestavano le più forti contraddizioni e tensioni valoriali generate da
quella combinazione di esigenze materiali ed immateriali, che è stata denominata dei bisogni misti.
1.6. Materialismo e postmaterialismo tra i giovani italiani
Le indagine IARD degli anni ’9012 hanno sempre posto la domanda sugli obiettivi politici,
utilizzando i quattro item di Inglehart. Le risposte ottenute sono raggruppabili e confrontabili per
anno di rilevazione. Ecco le tabelle con i risultati:
Tabella.2 – Indicazione dell’importanza relativa di alcune misure politico-sociali nei rapporti IARD
46. Se dovesse scegliere tra i seguenti obiettivi
politici, quale Le sembra personalmente il più
importante, quale metterebbe al secondo posto e
quale al terzo?
% di risposta all’item “primo posto”
Mantenere l’ordine nella nazione
Dare alla gente maggior potere nelle
decisioni politiche
Combattere l’aumento dei prezzi
Proteggere la libertà di parola
1992
1996
2000
15-24 a.
15-29 a.
15-24 a.
15-29 a.
15-24 a.
15-29 a.
35.8
31.6
35.6
32.2
26.5
27.0
26.2
26.9
27.6
21.9
27.4
23.2
8.2
24.5
8.8
23.4
14.8
31.7
16.4
30.4
12.4
35.5
12.8
35.1
Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 631).
12 Le ricerche IARD degli anni ‘90 si segnalano per l’ampliamento dell’età del campione (fino ai 29 anni) e per l’approfondimento
di alcuni ambiti, come le scelte politiche e associative, diventate particolarmente significative dopo i mutamenti della società e della
politica italiana in quegli anni.
Quella del ‘92 (febbraio-marzo) si svolse su un campione di 2.500 soggetti, scelti con gli stessi criteri delle precedenti.
L’innalzamento dell’età era motivata dalle mutazioni nella definizione stessa di gioventù, che tendeva a spostare sempre più in alto i
confini, anche per effetto delle difficoltà d’inserimento lavorativo. Ma la scelta procedeva pure dalla possibilità di seguire le stesse
coorti d’età nella loro maturazione. Infatti i nati negli anni ‘63-’68 erano presenti in tutt’e tre le rilevazioni. Ovviamente, oltre alle
possibilità di confronto, sono state le ripercussioni dei mutamenti sociali, sia in chiave economica, che politica e culturale, che hanno
attirato l’attenzione dei ricercatori di quest’edizione.
Quella del ‘96 (primavera), il cui campione era stato scelto con gli stessi criteri e numeri della precedente, analizzò con particolare
attenzione la propensione al rischio tra i giovani e il significato che vi attribuivano, oltre che dedicare più spazio all’analisi dei
significati e modi di vivere il tempo libero, i consumi e i nuovi orientamenti culturali che emergevano.
Figura. 1 – Grafico dell’andamento delle scelte materialiste/postmaterialiste dei giovani (15-24 anni) negli ultimi
3 rapporti IARD
40
35
Mantenere l’ordine
nella nazione
30
20
Dare alla gente
maggior potere nelle
decisioni politiche
15
Combattere
l’aumento dei prezzi
25
10
Proteggere la libertà
di parola
5
0
1992
1996
2000
Fonte: Elaborazione propria su dati IARD (cfr. Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 631).
Come si evince anche dal grafico, le tendenze postmaterialiste ci sono, ma non sono molto nette.
Come in Europa, anche in Italia prevale la tendenza al rimescolamento. Se da una parte
l’esigenza di sicurezza economica sembra saturata, per cui la domanda di combattere l’aumento dei
prezzi otteneva un bassissimo consenso, tuttavia la forte domanda di ordine e sicurezza sociale
indicava che questo bisogno non era ancora adeguatamente soddisfatto. Nel compenso i due item
postmaterialisti mostravano andamenti divergenti: in calo la richiesta di “dare maggior potere alla
gente nelle decisioni politiche”, mentre era in netta ascesa la domanda di libertà di parola, che era
diventata nel ‘96 la domanda più frequente.
Per quanto sia difficile trarre delle conclusioni su un periodo così breve, sembra che sia possibile
ricavare dai dati queste indicazioni:
1. I valori postmaterialisti si stanno affermando anche tra i giovani italiani, pur con lentezza,
incertezze ed involuzioni.
2. Permangono domande diffuse di sicurezza economica e sociale, dipendenti probabilmente
dalle situazioni economiche e politiche del nostro paese. Soprattutto il problema della sicurezza
sociale sembra molto avvertito (ma probabilmente anche economica, se teniamo conto della
domanda di occupazione).
3. Dei bisogni postmaterialisti emerge con molta evidenza quello di libertà, mentre è decisamente
in ribasso quello di partecipazione politica. Segno che i bisogni più avvertiti sono quelli di tipo
individualistico, mentre bisogni più ampi e collettivi stentano a tradursi in progetti politici.
4. In ogni caso l’avvertenza di un bisogno e la nascita di valori ad esso connessi sembra obbedire
ad una logica di tipo contingente: a seconda delle carenze del momento emerge l’avvertenza di un
bisogno con una domanda corrispondente. Non sembra sottostare alle risposte fornite dai giovani
italiani nel decennio ‘90 una cultura nettamente postmaterialista, bensì domande che riflettono la
necessità di saturare bisogni diversi, che possono essere indistintamente sia materialisti che
postmaterialisti, a seconda di quello sul momento più avvertito.
1.7. Bisogni e valori giovanili negli anni ‘90
Dall’analisi sinottica delle risposte date dai giovani nelle indagini IARD, viene confermata la
tendenza, già espressa negli anni ’80 a dare la preminenza ai valori-bisogni di ordine affettivo
(famiglia, amici, amore), in secondo luogo a quelli di tipo strumentale (lavoro, successo), infine a
quelli di tipo ludico-espressivo (gioco, divertimento, sport, tempo libero), e poi di tipo formativoculturale (studio). Mentre valori che riguardano prevalentemente la sfera sociale e l’impegno per gli
altri (impegno sociale, religioso, politico, patria) sono costantemente al fondo della scala delle
preferenze: tali valori sono percepiti nella loro importanza solo da un’esigua minoranza.
Pertanto, è l’emergenza dei valori affettivi che caratterizza quest’epoca a livello giovanile.
1.7.1. La partecipazione associativa
Un altro elemento che può indicare una coscienza “politica” è la partecipazione a forme
associative o di volontariato. Secondo Inglehart (1990), è la nuova via della democrazia, che
diventa meno rappresentativa e più diretta attraverso l’impegno personale e la partecipazione a
movimenti di opinione, a cortei, manifestazioni (“partecipazione politica non convenzionale”).
La partecipazione associativa volontaria dei giovani italiani ha visto una crescita notevole negli
anni ’80, per poi consolidarsi negli anni ’90 vicino alla media dei giovani europei.
1.7.2. Il senso di appartenenza territoriale
Uno dei tratti fondamentali carattere postmaterialista è la vocazione universalista. Infatti,
Inglehart prevede che il senso d’appartenenza si stia spostando dal piccolo clan o paese ai confini
del mondo intero, fino a sentirsi sempre più cosmopolita. Questo processo sembra aver avuto un
arresto ed un’involuzione, proprio in corrispondenza della crisi delle utopie universaliste, (fine delle
grandi narrazioni) e con la nascita movimenti xenofobi e particolaristici. In Italia questi
orientamenti sono stati raccolti e organizzati dal partito della Lega Nord. Tali spinte vengono lette
da Inglehart (1998) come una reazione di fronte alla minaccia ai valori tradizionali, reazione messa
in atto da componenti tradizionali della popolazione. In realtà, tra i militanti della Lega Nord si
contano parecchi giovani. Il fenomeno leghista può essere spiegato solo come una fenomeno
reattivo o è qualcosa di più? Soprattutto, qual è la posizione dei giovani rispetto al richiamo delle
tradizioni e al senso di appartenenza locale?
Le risposte dei giovani nelle inchieste IARD sembrano non confermare queste pessimistiche
previsioni, anche se le loro posizioni divergono alquanto dalle ipotesi avanzate da Inglehart.
Per quanto una certa parte di giovani sia stata attratta dalle proposte leghiste e vi abbia aderito,
diventandone tra i più accesi fautori, il caso non ha interessato che una parte marginale di loro. La
maggioranza dei giovani italiani, pur se interessati da questi movimenti, hanno reagito di fronte alla
minaccia separatista recuperando il valore della patria, fino ad allora poco considerato, se non
addirittura scomparso. Conseguenza di ciò è il recupero dell’istanza localista senza perdere il senso
di un’appartenenza più vasta. La cosa appare già nelle risposte del ‘96, cosicché l’estensore, che pur
aveva intitolato il capitolo “l’Italia: un puzzle di piccole patrie” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 145),
concludeva definendo i giovani “localisti, italiani e cosmopoliti, senza contraddizioni” (Buzzi,
Cavalli, de Lillo 1997, 168).
1.7.3. Il significato del lavoro
Rispetto al significato del lavoro, abbiamo due grandi trend nelle risposte dei giovani italiani.
Fino al ‘92, gli andamenti sono stati in sintonia con le previsioni di Inglehart: diminuisce
l’importanza del lavoro nella gerarchia dei valori (cede il posto agli affetti), in compenso crescono
le attese di autorealizzazione e autonomizzazione, con notevole disponibilità alla flessibilità. Ma
dopo il ‘92 le attese rispetto al lavoro si invertono: aumentano le domande in merito allo stipendio e
al reddito, mentre diminuiscono rispetto all’ambiente, ai rapporti, all’autoespressione, come si può
evincere dalla seguente tabella riassuntiva.
Tabella.3 – Elenco delle aspettative rispetto al lavoro di giovani italiani nelle ricerche IARD
23. Qual è l’aspetto più importante del lavoro tra le
cose di questo elenco? E quale metterebbe al secondo
1992
posto? E quale invece considera meno importante e
metterebbe al penultimo e ultimo posto?
% di risposta all’item “1° posto”
15-24 a. 15-29 a.
Lo stipendio, il reddito
Le condizioni di lavoro (ambiente di lavoro,
tempi di trasporto…)
Buoni rapporti con i compagni di lavoro
Buoni rapporti con i superiori, i capi
La possibilità di migliorare (reddito e tipo di
lavoro)
La possibilità di imparare cose nuove ed
esprimere le proprie capacità
L’orario di lavoro
La possibilità di viaggiare molto
La sicurezza del posto di lavoro
Non indica
1996
2000
15-24 a.
15-29 a.
15-24 a.
15-29 a.
18.6
13.6
19.0
13.4
32.8
14.9
32.0
13.7
29.8
11.4
29.9
10.4
9.8
3.5
15.4
9.2
3.2
15.6
9.4
3.5
12.5
9.6
3.5
13.3
6.1
3.4
9.5
6.0
3.3
10.9
31.1
30.8
22.8
23.4
14.6
16.0
1.5
3.1
1.8
3.0
1.1
1.3
1.4
2.3
3.4
4.0
0.7
0.8
0.8
2.8
13.6
7.9
1.4
2.2
12.9
7.1
Fonte: IARD (Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, p. 614)
Lo spartiacque sembra essere rappresentato dai dati della ricerca del ‘96, infatti in tale rapporto
viene evidenziato il “deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro” (Buzzi – Cavalli - de
Lillo, 1997, 55), conseguenza della sfavorevole congiuntura economica verificatasi a metà degli
anni ‘90. Mentre la ricerca del ‘92 aveva registrato una bassissima percentuale di giovani in cerca di
prima occupazione (3.7%) e il numero più basso da quando erano cominciate le ricerche IARD di
giovani in cerca di lavoro (26% sotto i 25 anni, 28.8% sotto i 30), quella del ‘96 registra un debole
aumento della ricerca di prima occupazione (5.4%) e più marcato di lavoro in genere (33.3% sotto i
25 anni, 36.8% sotto i 30), con un aumento complessivo di 6-7 punti percentuali di giovani con
problemi occupazionali. È indicativo che la domanda cresca più per il lavoro in genere che per la
prima occupazione, segno del deterioramento complessivo delle condizioni di lavoro e dell’aumento
dei rischi d’espulsione dal mondo del lavoro. Altra caratteristica di questi anni è l’aumento delle
disuguaglianze territoriali (favorito il Nord-Est, sfavorito il Sud e le Isole), che comportano
differenti opportunità d’impiego per i giovani, disparità nella qualità del lavoro e nella retribuzione,
maggiori discriminazioni per sesso e cultura.
Questi fattori di tipo strutturale possono dare ragione dei mutamenti registrati nelle valutazioni
del lavoro e sono perfettamente in linea con le ipotesi di Inglehart. Infatti, affermano i curatori del
rapporto del ‘97 che “l’aumento consistente di importanza attribuita alla retribuzione, cui
corrisponde una perdita di attenzione verso la dimensione formativa e realizzativa del lavoro” sia da
attribuire “alla crisi economica, al mutato clima del mercato del lavoro e alla maggior difficoltà di
trovare un posto, rispetto gli inizi degli anni Novanta” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 81). Le
diverse situazioni sociali e culturali influiscono a loro volta nella tipologia delle risposte. I giovani
più scolarizzati tendono ad essere relativamente più soddisfatti del lavoro, lo concepiscono più in
termini autorealizzativi, ma anche di carriera, mentre i meno scolarizzati mostrano maggior
apprezzamento per la dimensione relazionale ma anche per quella retributiva. Pertanto elementi
espressivi (o postmaterialisti) si intrecciano con quelli strumentali (o materialisti) in entrambi i casi,
rendendo difficile una lettura lineare dell’evoluzione dei bisogni e dei valori giovanili in merito al
lavoro. Ciò che appare evidente è che il bisogno immediato è quello che determina la risposta in
termini di preferenze e di valori.
Anche un altro elemento considerato da Inglehart, la soddisfazione, non sembra dare indicazioni
indiscutibili: a dispetto del deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro, aumenta il
numero di giovani che attribuiscono molta importanza al lavoro e di giovani occupati che
esprimono soddisfazione per il lavoro. Ciò, a detta degli estensori del rapporto, non va attribuito ad
“improbabili tendenze culturali emergenti”, ma, più verosimilmente, al “mutato clima del mercato
del lavoro”: i giovani occupati, “considerandosi in qualche modo dei privilegiati, esprimono più alti
livelli di soddisfazione del lavoro” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 79).
1.7.4. La famiglia
Nelle indagini degli anni ‘90 si prende ormai atto di una caratteristica tutta italiana: “il
prolungamento della fase giovanile”, che comporta, a differenza dei giovani del Nord-Europa, la
“famiglia lunga”: una lunga permanenza in famiglia, matrimonio molto in là negli anni,
conseguente ritardo della prima paternità o maternità, con logica diminuzione delle nascite.
Il fenomeno viene esplorato nelle sue probabili cause. Da una parte lo si attribuisce alle difficoltà
lavorative e abitative, al prolungamento della scolarità e alle incertezze per il futuro, dall’altra si
esplora la personalità dei giovani ed i modelli culturali prevalenti.
Nel ‘92 si attribuisce alla “sindrome di Peter Pan” (rifiuto di crescere, di assumersi responsabilità
adulte e di distaccarsi dalla comodità e dai vantaggi di essere figli) il motivo del prolungamento
della moratoria adolescenziale. Ma tali caratteristiche non sono esclusive dell’Italia. Né esistono dei
preconcetti morali sulla convivenza.
Lo si è anche attribuito alle caratteristiche culturali del nostro popolo: il “mammismo” o il
“familismo”. A parte l’indubbia importanza della famiglia nella cultura italiana, al primo posto
anche nei sondaggi degli adulti, la ricerca del ‘96 ha fatto giustizia di questi luoghi comuni: per
“famiglia” i giovani non intendono solo la famiglia d’origine ma anche a quella di destinazione.
Sono “coloro che non vivono più con i genitori, […], che apprezzano in misura maggiore l’item in
questione” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 343), mentre quelli che vi danno meno importanza sono i
più giovani o quelli che rimangono più a lungo nella casa dei genitori. E conclude:
“luogo degli affetti e delle relazioni primarie, rifugio e fonte di sicurezza, la famiglia rappresenta
per i giovani il privato per antonomasia. Può anche essere usata strumentalmente per i vantaggi e le
comodità che riesce a garantire, ma resta in ogni caso un’area nella quale proiettare la propria
progettualità ed investire per il futuro” (ibid., 344).
È proprio in questa ricerca degli affetti, delle sicurezze nel privato che va cercata la ragione del
permanere di tale valore presso gli italiani.
1.7.5. Valori affettivi
Nell’indagine del ‘92 avviene lo scavalcamento, come già visto, dei valori affettivi a scapito del
lavoro, indice dell’importanza sempre più strategica che stanno assumendo tali valori nella vita dei
giovani. L’analisi più dettagliata di tale fenomeno consente di evidenziare una parabola degli affetti
che raggiunge il picco attorno ai 17-19 anni, seguito da una successiva graduale discesa. Tale
parabola sembra esprimere in modo chiaro l’andamento dello sviluppo della socialità nell’età
giovanile.
“Intorno ai 15-16 anni inizia la ricerca di affetti fuori della famiglia, tra gli amici del proprio e
dell’altro sesso, che raggiunge il culmine tra i 17 ei i 19 anni. Nelle età più adulte, la maggior
sicurezza raggiunta, lo stabilizzarsi delle amicizie e degli affetti, l’ampliarsi delle sfere di vita
portano ad una relativa diminuzione del peso di quest’area” (Cavalli, de Lillo, 1988, 78).
Le ultime due ricerche confermano sostanzialmente le tendenze già emerse. Ormai appare
costante il fatto che, nelle graduatorie valoriali, i primi tre posti siano occupati da aspetti della vita
più direttamente legati alla sfera privata ed intima della persona. Nel contempo cala l’interesse e la
disponibilità per l’impegno pubblico, necessario per garantire quei diritti e quelle condizioni sempre
più esigiti come “titoli” dalla persona moderna. Da ciò emerge
“un quadro complessivo dei modi con i quali le nuove generazioni paiono costruire la propria vita
decisamente orientato verso il sé ed il privato. Si cerca anzitutto la soddisfazione sul piano delle
relazioni, siano essi parentali, amicali o d’amore e si chiede tutela dei propri diritti di cittadino e di
lavoratore. Solo dopo sembra si possa cominciare a dedicarsi alla dimensione collettiva (solidarietà
ed eguaglianza) ed infine al soddisfacimento dei vari interessi relativi a tempo libero e alla cultura”
(Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 348).
1.7.6. Il tempo libero
Negli anni ‘90 si continua nella stessa direzione, con sostanziali conferme rispetto al passato.
Qualche dato in più lo registra la ricerca del ‘96, nella quale il tempo libero riceve più attenzione,
distinguendo tra consumi culturali ed altre modalità di trascorrere il tempo libero, come l’attività
sportiva, che appare in crescita, ma declinante con l’età. Ma è soprattutto nel confronto tra consumo
colto e ludico, che appaiono le maggiori differenze con i dati delle precedenti indagini: si riducono
drasticamente i giovani che si riferiscono prevalentemente ad un modello di consumo colto oppure
ad un modello misto colto-ludico; aumenta, per contro, la componente quasi esclusivamente ludica
e i giovani con un basso livello di consumo culturale. A parziale limitazione di questa prospettiva
orientata al disimpegno si riscontra, all’aumentare dell’età dei giovani, una crescita d’interesse per
l’attualità, l’informazione, il dibattito politico nazionale e locale, veicolati sia dalla televisione sia
dalla stampa.
“È comunque da rilevare che gli stili di consumo culturali giovanili sono ancora del tutto
disomogenei al loro interno, risentendo fortemente dell’origine sociale, del grado d’istruzione,
della differenza di genere, del tipo di offerta culturale presente nelle diverse aree regionali e nei
comuni a seconda della loro ampiezza” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 357).
1.7.7. Il riferimento religioso
Altre ricerche condotte in Italia (e in Europa) negli anni ‘90 (ISPES-Famiglia Cristiana 1991,
Fondazione Agnelli 1992, Università Cattolica 1995) anche se su campioni adulti (dai 18 anni in su)
conferma questa soggettivizzazione in atto dell'esperienza religiosa. Essa si esprime nei giovani
(18-29 anni) nella privatizzazione dei comportamenti connessi con la fede, in una maggior
sensibilità per la dimensione sociale. Emergono esigenze di una religiosità più autentica, che va alla
ricerca delle motivazioni personali per credere e tende ad esprimersi in una preghiera più personale
o di piccolo gruppo che collettiva-pubblica (Mion 1991).
Pur aumentando coloro che attribuiscono importanza alla religione13, essa viene vissuta in forma
individuale, senza molte relazioni con le istituzioni. Il riferimento religioso non si traduce in una
partecipazione alla religione di Chiesa, tantomeno in una accettazione dell'autorità morale della
13 Sarebbero oltre ¾ i giovani, secondo l’ultima indagine IARD (2000) ad attribuire importanza alla religione nella propria vita
(35.7% molta o moltissima, 42.4% abbastanza)
gerarchia nei comportamenti soprattutto in materia sessuale ed elettorale14. Anche sui contenuti
dottrinali rimane positiva e corretta solo l'immagine di Gesù, per il resto dubbi e incertezze sono
quanto mai diffusi. Segni della sempre maggiore assunzione, da parte giovanile, della mentalità
post-moderna, nonché del passaggio della mentalità secolarizzata e della razionalità scientifica su
questa generazione (Mion 1991, id. 2002 ).
I giovani che hanno un atteggiamento più critico verso l’istituzione Chiesa sono
i giovani che invitano la Chiesa ad una presenza sociale più rispettosa della propria missione
religiosa e ad evitare la ricerca di posizioni di vantaggio sociale e politico; che si discostano
maggiormente dalle indicazioni del magistero ecclesiale nel campo della morale sessuale e
familiare, con particolare riferimento alle questioni dell'aborto, del divorzio, della contraccezione,
della condizione dei divorziati e separati, dei rapporti sessuali prematrimoniali; che rifiutano e non
comprendono varie prescrizioni che regolano i rapporti interni al mondo ecclesiastico, tra cui il
celibato del clero, la questione del sacerdozio femminile, il significato della vita dei religiosi in
convento e la loro separatezza dal mondo (Garelli, Offi 1997, 198).
In ogni caso i giovani religiosi (soprattutto se accoppiano la fede alla pratica) tendono ad
essere più ottimisti e più soddisfatti della loro esistenza, e ad aver più fiducia nelle istituzioni. Per
cui l'appartenenza religiosa si associa ad un più elevato livello di integrazione sociale (Cavalli, De
Lillo 1988, 88). A conclusioni simili è giunto la ricerca di Donati e Colozzi (1997)15 la quale
evidenzia, di fronte alla crisi di “generazionalità” che stanno passando i giovani, che in coloro che
hanno una “credenza religiosa”, risulta ridotto significativamente tale rischio16.
Nel complesso questi giovani sembrano caratterizzarsi per un modello culturale e una visione del
mondo che per vari aspetti si diversificano dai modelli prevalenti nella società (Garelli, Offi 1997,
199).
Pertanto, quando si parla di «ritorno del religioso» o dello «spirituale» o del «soprannaturale» se
ne vuole sottolineare la forma diffusa e libera (la «religione diffusa» di R. Cipriani). Questo vale
per la fede cattolica attraversata da:
relativizzazione delle credenze, crescita di autonomia, privatizzazione della pratica religiosa,
sviluppo del ruolo dei laici di fronte alla scarsità dei sacerdoti, valorizzazione dell'impegno
«terreno e sociale» a danno di un'attenzione al Trascendente e alla Storia della Salvezza,
affievolimento del senso di colpa e della necessità di una salvezza, nonché della perdita di
coscienza circa la gravità del peccato (crisi della pratica della confessione e dei Novissimi)
(Mion 1995, 42-43).
Ma vale anche per le nuove forme di credenza (dalla New Age alle sette religiose, passando per le
varie forme di credenze orientali), che si caratterizzano per essere
libere, individuali, diffuse, fondate soggettivamente e colorate di una patina di scientificità
(astrologia, telepatia, vita extraterrestre), piuttosto immanenti, non colpevolizzanti, a orientamento
mondano pur nei loro rapporti con l'«aldilà» attraverso lo spiritismo e la reincarnazione (Mion
1995, 42).
Sia dentro che fuori le chiese, dunque, emergono istanze religiose innovative, che riflettono
l'attuale clima culturale, che si presentano come le forme religiose della post-modernità.
Osservando gli andamenti di questi ultimi vent’anni emergono con un certa costanza i caratteri di
un nuovo tipo di religiosità, sempre più soggettiva e a forte componente emotiva.
Rientrano in questa nuova sensibilità religiosa la riscoperta del carisma, la ricerca di una religione
dell'esperienza a forte accentuazione emotiva e comunitaria, la tensione nei confronti di un'integrità
spirituale da salvaguardare. In particolare si tratta di un tipo di religiosità che mira a superare le
appartenenze formali o istituzionali che ricerca un'espressione della fede più coinvolgente, non
14 Comunque l’appartenenza religiosa contribuisce a rendere più attenti i giovani nel rispetto di valori tradizionale, soprattutto nei
campi dell’etica sessuale e familiare ((Buzzi, Cavalli, de Lillo 2002, 380-383).
15 L’inchiesta è stata condotta nel 1996 su un campione di 1.557 giovani rappresentanti l’universo giovanile italiano tra 15-29
anni, su commissione della Chiesa italiana.
16 “Il senso della generazionalità nel giovane trova nelle variabile religiosa i fattori più significativi in senso assoluto” (Donati,
Colozzi, 1997, 261)
esente da vincoli affettivi, che costituisca un fattore di identificazione, che risponda al criterio della
"significatività". Un tempo questa identificazione era data dall`osservanza", dalla frequenza alle
pratiche religiose, dall'adeguamento alle prescrizioni delle chiese; oggi si ricerca questa
identificazione religiosa in realtà meno anonime e burocratizzate, che esprimono una particolare
sensibilità religiosa, caratterizzate da maggior capacità di coinvolgimento, informate da
un'adesione "volontaristica".
La domanda di una religione comunitaria e emozionale si accompagna anche alla ricerca di eventi
religiosi straordinari, di luoghi eccezionali in cui si manifesti la tensione religiosa. È la ricerca di
"nuovi santuari", di ambienti di conferma della propria tensione sociale e religiosa, che offrano la
consapevolezza di partecipare a una ricerca più ampia, che travalica le varie appartenenze e
confessioni religiose e accomuna diverse culture e sensibilità. Questa religiosità che si esprime nei
momenti forti e in luoghi privilegiati risulta poi difficile da comporre nella vita quotidiana, nelle
situazioni sociali e religiose ordinarie.
Ancora, si tratta di un tipo di sensibilità religiosa particolarmente attratta dalle grandi personalità,
assai sensibile ai leaders carismatici e alle figure che testimoniano nella vita gli ideali che
proclamano.
Si delinea in tal modo l'esigenza di dare larga evidenza ai valori della fede, in un tempo in cui
prevalgono le comunicazioni forti e spettacolari. Sovente ci si identifica anche in personalità che
hanno una precisa collocazione nelle chiese, che vengono comunque rivalutate più per le loro
qualità personali che per il loro ruolo istituzionale (Garelli, Offi 1997, 200).
Sembra che i bisogni a cui queste forme religiose rispondono sia un bisogno di sicurezza di fronte
alle molteplici precarietà e incertezze della vita moderna. Ma ciò non comporta un ricompattamento
nella Chiesa, anche se c’è una maggior simpatia verso di essa (e verso il Papa), soprattutto quando
sembra perdente. Ma l’etica l'etica si sta autonomizzando in rapporto alla religione.
Si riscontra infatti tra i giovani un’idea di religione più allargata e generica, tipica di quanti hanno
difficoltà a riconoscere il primato di una particolare forma religiosa e a identificarsi con essa […].
Una quota rilevante di giovani sembra aver maturato un'idea assai ampia di religione, considerando
tale qualsiasi istanza umana che risponde al problema del senso dell'esistenza. Si sta dunque
affermando una religione dalle attese umane, come una generale fonte dei valori, per vari aspetti
priva di prospettive trascendenti (Garelli, Offi 1997, 197).
D'altra parte, chi aderisce al Cristianesimo, sia nel senso di una forte riaffermazione di identità,
sia nel senso di un rinnovato impegno missionario e di adattamento alle prospettive della nuova
modernità, dimostra una capacità di scelta molto più alta che nel passato e trova sovente in esso
delle risposte ai suoi bisogni.
A livello sociale la religiosità sta acquistando oggi più di ieri un valore fondamentale anche nella
formazione dell'identità giovanile. Ciò non significa che tutti la assumano, ma piuttosto che per chi la
sceglie diventa un tratto centrale, molto importante, attorno a cui unificare le altre dimensioni umane
per la costruzione della propria personalità.
Ne emergono in particolare due tratti:
- il primo, che la religiosità, molto più che nel passato, è diventata oggetto di una specifica scelta,
personalmente e liberamente voluta;
- il secondo, che fede e religiosità diventano piuttosto funzionali alla propria crescita personale,
una tessera importante e tra le più valide con cui dare senso al mosaico della propria vita nel segno
dell'autorealizzazione. Ne consegue un rapporto con la fede più centrato sull'uomo. Le sue motivazioni
via via dovranno necessariamente purificarsi con il maturare della fede e della propria relazione con
Dio (Mion 1995, 46).
1.8. Disagio e rischio negli anni 90
Negli anni ’90 l’adozione dei termini disagio e rischio per descrivere le situazioni prossime alla
devianza dei giovani, divenne definitiva. Questo grazie sia ad alcune opere che tentarono una
riflessione sistematica dei termini, sia all’adozione da parte di molte ricerche di tali classificazioni,
alcune delle quali di un notevole spessore scientifico.
1.8.1. La sistemazione del termini disagio
Il termini disagio ricevette un’ulteriore precisazione in alcune opere sistematiche di considerevole
valore.
1.8.1.1. Il disagio in “Emarginazione e Associazionismo giovanile” (1990)
L’opera “Emarginazione e Associazionismo giovanile” (Mion 1990), a cura dell’Osservatorio
della Gioventù dell’UPS, diede un contributo notevole al chiarimento teorico del termine “disagio”,
potendosi avvalere delle riflessioni sviluppate sul tema da Milanesi nel decennio precedente e del
confronto con l’evoluzione dell’emarginazione in Italia dal ‘45 all’87. Il concetto di “disagio”
venne collegato a quello di “emarginazione”, come frutto di situazioni emarginanti e, a sua volta,
possibile causa di ulteriore emarginazione e devianza.
1.8.1.1.1. Il disagio dal punto di vista psicologico
Il termine venne interpretato, dal punto di vista psicologico, come una “qualità esperienziale
che può colpire i sentimenti, gli stati d'animo, il pensiero e la volontà. Può essere provocato da
situazioni esterne, ma il più delle volte sorge dall’interno ed è in grado di raggiungere la sfera
esperienziale conscia” (Arnold, 1986, cit. da Mion, 1990, 165). Si evinse pertanto che, all’interno di
un individuo, esso si presentava come un “sintomo della presenza di un non-equilibrio, di una
situazione di tensione a livello di identità personale e di relazione con gli altri, di manifestazione di
bisogni non soddisfatti o frustrati, soprattutto quelli attinenti alla propria identità e alla realizzazione
del sé” (Mion, 1990, 165).
Particolare attenzione fu riservata al tema dell’identità, intesa come «l'insieme delle
caratteristiche e delle modalità di comportamento individuali che, nella loro organizzazione e
strutturazione, spiegano l’adattamento unico dell’individuo al suo ambiente nella totalità» (Hilgard,
1971, cit. da Mion, 1990, 165): all’interno di una società complessa e competitiva essa diventava
sempre più problematica e difficile da conseguire. Ciò provocava senso di insicurezza, con
conseguenti sentimenti di oppressione, paura, ansia.
Vennero anche segnalati sintomi di scarso adattamento emotivo, riconoscibili in alcuni fattori di
comportamento negativistico o antisociale, come: atteggiamenti di tipo oppositivo e di riluttanza a
collaborare, difficoltà comunicativa, umore facilmente alterabile, scarsità di motivazioni, notevole
dipendenza dagli altri, ansietà, malinconia, ipereccitabilità, sensi di colpa, eccessiva timidezza,
scarsa autostima, isolamento, spavalderia, esibizionismo, intolleranza, aggressività fisica e verbale,
resistenza a conformarsi alle norme, incapacità di dilazionare la gratificazione immediata, difficoltà
di percezione realistica, ecc. Tutti sintomi in qualche modo riconducibili ad un quadro psicologico
alterato se non addirittura patologico
Anche la sindrome di “vuoto esistenziale” (Frankl), mancanza di significato, noia venne in
qualche modo ricondotta al tema del disagio.
Gli autori, fondandosi su dati ONU, hanno cercato di individuare alcuni sintomi prevalenti:




violenza fisica;
carenze o deviazioni dell’amore paterno e materno;
assenza di formazione scolastica e professionale adeguata ai singoli casi;
frustrazioni varie riconducibili a condizioni materiali ed economiche disagiate o alla



situazione di vita della famiglia, frequentemente oppressa dalle difficoltà per vivere, qualche
volta delinquente essa stessa;
impossibilità di accedere alle professioni e alle attività del tempo libero che interesserebbero;
appartenenza ad una cultura marginale o emarginata;
riferimento ad una scala di valori radicalmente differenti da quelli della cultura ufficiale (7°
Congresso Mondiale dell'ONU su «La prevenzione del crimine e il trattamento del
delinquente», Milano 1984, cit. da Mion, 1990, 167).
1.8.1.1.2. Il disagio dal punto di vista sociologico
L’analisi del concetto di disagio dal punto di vista psicologico era servito agli autori per mettere
a fuoco il concetto nella sua genesi come problema personale. Ma l’intento era quello di coglierne
la valenza all’interno di un quadro socio-politico-culturale che ne fornisse le coordinate entro cui
aver senso. Questa visione consentiva di collegare l’identità ai processi di socializzazione e di
stabilire una linea metodologica di lettura del disagio e della condizione giovanile, ricca di stimoli e
prospettive.
La prima cornice analizzata fu quella della società nel suo insieme, nella sua strutturazione e
organizzazione. Se ne posero in evidenza le caratteristiche di complessità, soprattutto le difficoltà
per il singolo di ricondurre ad unità gli elementi del sistema, con conseguente senso di dispersione e
di smarrimento: una situazione anomica. Nei giovani tale realtà implicava un senso di
“disorientamento, incertezza, perdita di riferimenti valoriali, ansia, pressioni dall’esterno su una
identità ancora in formazione e quindi debole” (Mion, 1990, 175).
Particolarmente venne denunciata la pressione del sottosistema economico-produttivo, che
continuava a “fondare la logica dello sviluppo nel cerchio produzione-consumi privati. E’ una
logica sostanzialmente insensibile ai bisogni collettivi, che aumenta l’emarginazione dei ceti sociali
non protagonisti dello sviluppo, favorendo invece il potere e il benessere dei ceti già in situazione di
privilegio economico, sociale, culturale” (Mion, 1990, 175).
Tale logica aveva ripercussione in tutti gli altri sottosistemi della vita sociale:
a) nel mondo del lavoro: Il sottosistema economico generava aumento di produzione ma anche di
disoccupazione. Aumentavano così i tentativi di accedere al lavoro, non tanto per ricevere da
esso identità, ma soprattutto per avere quella quota di reddito che permetteva di soddisfare il
bisogno di consumare. Essendo opportunità rara, aumentavano i casi di lavoro nero, irregolare,
precario, sottopagato, ecc. Il bisogno che veniva frustrato, oltre evidentemente a quello
econmico, era quello dell’autorealizzazione, sempre meno possibile attraverso l’impiego ed il
lavoro. Ciò provocava un doppio disagio: sia della scarsità del lavoro come anche del “gap”, fra
aspettative e bisogni soggettivi.
b) nel sottosistema formativo: “l’impoverimento dei contenuti formativi, il progressivo distacco
della cultura scolastica dai problemi della società, la svalutazione dei titoli di studio (soprattutto
quelli medio-bassi), la loro irrilevanza ai fini dell'ottenimento di posti di lavoro (Mion, 1990,
176).
L’istituzione scolastica, incapace di trasmettere competenza e professionalità, generava
sentimenti di sfiducia, incertezza e insicurezza. L’esito era l’accettazione passiva dell’istituzione
così com’è, con i suoi pregi e difetti, senza tendere al cambiamento. Il disagio consisteva perciò,
oltre che negli abbandoni e fallimenti scolastici, nel sentimento di rassegnazione, che costringeva a
stare dentro un’istituzione senza crederci e quindi senza investimenti di risorse. Ciò mortificava la
speranza d’autorealizzazione o anche solo la percezione che la scuola potesse essere un mezzo
importante per conseguirla.
c) nel sottosistema familiare. Anche la famiglia metteva in evidenza una serie di sviluppi
problematici:
contrazione delle dimensioni medie del nucleo familiare, forte decremento della natalità, allargarsi
dello strato di famiglie ai limiti della povertà relativa a fronte di un aumento complessivo dei livelli
di consumo, progressivo impoverimento di funzioni e di ruoli. Tali fenomeni espongono la fa-
miglia e i suoi componenti al rischio di una maggiore problematicità nei rapporti interpersonali, di
incertezza circa i ruoli dei membri, di conflittualità nei rapporti con la società (Mion, 1990, 177).
La famiglia perso il monopolio della funzione socializzante, esposta alla concorrenza dei massmedia, della socializzazione orizzontale, della scuola, aveva abdicato alla sua funzione,
accontentandosi di gestire i rapporti interni, dove ogni cosa, essendo basata sulla relazione e non più
sul ruolo, era soggetta a negoziazione. Se teneva, non era certo perché “forte”, ma perché aveva
saputo adattarsi, ritagliandosi un ruolo “di distribuzione del reddito per i consumi giovanili, da un
lato, e di erogazione di prestazioni assistenziali, affettive e morali” (Mion, 1990, 178).
Pertanto si poteva parlare di “un disagio contenuto dei giovani nella vita familiare” (Ibidem,
179), perché i giovani trovavano in essa un luogo di compensazione dei conflitti sociali.
d) nelle altre forme (istituzionali e non): “le istituzioni politiche, religiose, il sistema di significati,
di produzione di valori” (Mion, 1990, 180). Lo sfondo appariva contrassegnato da una situazione
diffusa di anomia,
definita durkheimianamente come frattura tra sistema normativo e sistema strutturale per effetto di
diverse velocità di cambio. Essa determina l'incapacità, da parte del sistema normativo, di
governare il rapporto fra società e individuo, in quanto esso non gode più della necessaria fiducia e
legittimazione (Mion, 1990, 180).
Se gli atteggiamenti dei giovani apparivano complessi e contraddittori, non erano però esenti
manifestazioni di disagio “sotto forma di sfiducia, di angoscia nei confronti del futuro, di
comportamenti adattivi, di rinuncia alla dimensione di progettualità e di responsabilità individuale e
collettiva” (Mion, 1990, 180).
Anche le aggregazioni e i movimenti non sfuggivano a simili responsabilità.
Spesso il loro trovarsi insieme è una sorta di contenitore, in cui i bisogni idividuali si incontrano e
negoziano un terreno di scambio affettivo, di «partigianeria», di confronto sui consumi e sulle
mode e sulle proprie piccole vicende quotidiane. Non è un luogo ben preciso né un universo
simbolico ben definito: è più un guscio caldo in cui i giovani si sentono accettati e meno soli
(Mion, 1990, 180).
I segni di malessere potevano essere:
a) la povertà degli stimoli che tutto sommato sembrano attraversare i consumi e i luoghi di incontro
dei giovani;
b) la differenziazione delle opportunità di accesso al consumo di beni culturali più elaborati che
cresce con il crescere del livello di istruzione e di reddito (Mion, 1990, 180).
1.8.1.1.3. Disagio, marginalità, devianza
In merito al rapporto tra, disagio, marginalità devianza, venne fatto presente la continuità
esitente tra questi tre ambiti:
Fra conflitto palese (i movimenti) e processi di emarginazione (la devianza) c'è un terreno
intermedio che funziona come un continuum fra i due poli estremi. In altri termini il passaggio
dall’un polo all’altro, può trovare una spiegazione solo andando a vedere i sintomi di malessere
presenti nella “normalità». Tra conflitto ed emarginazione c'è qualcosa di più fluido e nello stesso
tempo di più diffuso che è la condizione di marginalità oggettiva e soggettiva nelle quali la
maggioranza dei giovani si trova (Mion, 1990, 180).
Quindi il disagio, secondo gli autori, prenderebbe sovente le mosse da una situazione di
emarginazione, troverebbe nelle pratiche sostitutive delle vie di autorealizzazione all’interno delle
opportunità che la società complessa offre, oppure potrebbe tradursi in pratiche oppositive al
sistema o di fuga, con aumento, quindi, della marginalità e devianza. Il percorso avverrebbe “dal
disagio al disadattamento, alla devianza” (Mion, 1990, 182).
In sintesi, il disagio sarebbe espressione delle seguenti problematiche:
- i giovani sono proiettati nell'esistenza con responsabilità non assumibili ed autonomia non
maturata, sprovvisti di strumenti di analisi critica e di capacità costruttiva di autodifesa dai rischi
ambientali;
- carenze gravi della famiglia e della scuola nel momento in cui sono chiamate a fornire valori e
modelli di orientamento e di comportamento ;
- situazione nuova in ambito educativo, caratterizzata dall'esistenza di un sistema policentrico di
educazione-formazione cui non si sono adeguate le sedi tradizionali di educazione (famiglia e
scuola);
- stato di confusione e di disorientamento derivante dalla compresenza di messaggi e stimoli
contraddittori: comportamenti e messaggi divergenti dei genitori, degli educatori, e dell'ambiente
(mass-media, ecc.);
- mancanza di collegamento e coordinamento dei vari interventi a servizio della persona: famiglia,
scuola, sanità, assistenza, cultura, sport, inserimento nel mondo del lavoro;
- mancanza di una cultura della prevenzione intesa non come affannosa ed esclusiva ricerca di
evitare, attraverso moderne e sofisticate attrezzature clinico-diagnostiche, disagi, malattie,
devianze, ma come umana e consapevole responsabilizzazione della persona a realizzarsi in quanto
tale; e ciò mediante la conoscenza, il rispetto, la stima e lo sviluppo creativo delle potenzialità
proprie e altrui, per la promozione di una situazione di «benessere» personale e comunitario (Mion,
1990, 185).
1.8.1.2. Il disagio in “Disagio giovanile e politiche sociali” (1992)
Il libro che rappresentato lo sforzo più compiuto di sistematizzazione dell’argomento del disagio
fu quello di Neresini – Ranci (1992), che raccoglse e tentò di sistematizzare i contributi di vari
autori italiani sul tema del disagio giovanile.
Essi, rilevarono che l’apparizione di tale termine avvenne in concomitanza con la “dissolvenza”
teorica del termine “devianza” e in parallelo con la trasformazione del concetto di “normalità”.
Questo per effetto della complessificazione della società e dissoluzione dei sistemi di controllo, per
cui “la norma tende a diventare più flessibile e meno rigidamente determinata” (Neresini – Ranci,
1992, 21). Per cui l’apparizione del termine “disagio” rappresentò la logica conclusione di un
processo di “normalizzazione della devianza” (Neresini – Ranci, 1992, 23).
L’espressione “disagio” fu posta in relazione con la voce “disadattamento”, ed assunse il
significato primo di “mancanza o carenza di adattamento” (Neresini - Ranci 1992, 29). Il termine
venne applicato sempre più sovente alla condizione giovanile per sottolineare il fatto che “un non
completo adattamento caratterizza in misura determinante l’essere stesso della condizione
giovanile” (Neresini – Ranci, 1992, 29). Infatti la gioventù sembrava collocabile tutta sotto la
categoria dell’emarginazione, ed esposta al rischio di devianza.
Pertanto l’attenzione si stava spostando da singoli atti o comportamenti ad uno stato generico che
connotava tutti gli adolescenti ed i giovani. Per cui il disagio era assunto come “la manifestazione
presso le nuove generazioni delle difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi che sono loro richiesti
dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità personale e per l’acquisizione delle abilità
necessarie ad una soddisfacente gestione delle relazioni quotidiane” (Neresini – Ranci, 1992, 31)
Sovente tale termine era utilizzato quasi come sinonimo di “adolescenza”, per indicare il
disorientamento, il malessere e le difficoltà che un giovane incontrava nel processo di maturazione.
Si tendeva infatti a connotare la stessa condizione giovanile, particolarmente quella adolescenziale,
come una situazione diffusa di disagio, come un periodo di difficoltà di adattamento ad una società
che, ai normali problemi di crescita, pone ulteriori ostacoli all'inserimento sociale dell'adolescente e
del giovane.
Tuttavia questa tendenza non era esente da rischi ed equivoci, poiché, mentre termini come
“devianza” e “marginalità” godevano di uno statuto scientifico, con teorie ed indicatori precisi, il
disagio diventava il contenitori di ogni malessere, privando lo studioso di parametri precisi per
definire il problema e l’operatore sociale, politico o culturale, di precisi strumenti di intervento.
Pertanto gli autori ritennero fosse giunto il momento di evidenziare rapporti e distinzioni fra i
termini fino ad allora impiegati17.
Pertanto precisarono che “la devianza corrisponde sostanzialmente all’acquisizione di un
ruolo e di una identità sociale - individuale o di gruppo - che si raggiunge mediante l’assunzione di
comportamenti che infrangono una norma socialmente condivisa (= devianza latente) e che
diventano socialmente visibili a causa e l’intervento delle agenzie di controllo sociale” (Neresini –
Ranci, 1992, 33). Mentre per emarginazione si intendeva “una condizione sociale, caratterizzata
dalla permanente esclusione dal sistema di diritti/doveri e dall’accesso a una serie di risorse
normalmente disponibili che, al contrario, individuano l’area/condizione della normalità” (Neresini
– Ranci, 1992, 33).
Per cogliere nessi e differenze tra i tre termini ricorsero ad un grafico, che riportiamo con la
corrispondente spiegazione.
Fig. 1.2. Schema dei rapporti tra emarginazione, devianza e disagio
Fonte: Neresini – Ranci, 1992, 34
a) la condizione di marginalità esprime solo la punta emergente di comportamenti devianti molto
più diffusi e di una base di disagio ancora più estesa;
b) non tutta l’emarginazione giovanile coincide tuttavia con l’assunzione di comportamenti
devianti manifesti, ovvero socialmente visibili. Esiste infatti una quota della popolazione giovanile
che, a causa della scarsa dotazione di risorse economiche e socioculturali di cui dispone, è
destinata a occupare posizioni marginali, connotate dalla precarietà occupazionale e dalla
17 “Troppo spesso, infatti, questi tre termini vengono usati come sinonimi, mentre pare più conveniente utilizzarli come
designazioni di fenomeni diversi che vanno considerati prima singolarmente e poi nel contesto delle loro reciproche interazioni”
(Neresini – Ranci, 1992, 33).
subalternità culturale. D'altra parte, questa situazione rimane un terreno molto favorevole all'assunzione di comportamenti devianti (= devianza potenziale) e al manifestarsi del disagio, anche se
non si dà una relazione di causalità automatica e diretta;
c) l'assunzione di comportamenti devianti latenti - cioè di comportamenti che pur infrangendo le
prescrizioni normative vigenti non raggiungono la soglia minima di visibilità sociale, oltre la quale
scattano i meccanismi sanzionatori del controllo sociale e prende avvio il processo di acquisizione
del ruolo deviante - è un fenomeno che non coinvolge necessariamente soggetti interessati in
misura considerevole dalla situazione di disagio. Ovviamente, la devianza latente costituisce una
potenziale causa di emarginazione (= emarginazione potenziale) ferma restando; anche in questo
caso, l'esclusione di rapporti di causalità diretta;
d) il disagio giovanile si presenta quindi come un fattore di accelerazione verso l'assunzione di
comportamenti devianti e dei processi di emarginazione. Non per questo il primo coincide con i
secondi, ma dimostra un'estensione notevolmente più ampia.
In coerenza con quanto sostenuto precedentemente, è necessario inoltre supporre che quanto
rappresentato nella figura […] non si concentri esclusivamente in un'unica zona della condizione
giovanile […] ma si distribuisca piuttosto in modo disomogeneo […] così come in modo diseguale
si distribuiscono le risorse e la loro capacità/possibilità di utilizzazione ai diversi livelli della
stratificazio-ne sociale (Neresini – Ranci, 1992, 33-35).
L’analisi poi proseguiva seguendo i vari percorsi a rischio, in cui i giovanili trovavano vari ostacoli
all’assunzione di compiti adulti, inserimento sociale e definizione dell’identità. Pertanto il percorso
di maturazione dell’adolescente/giovane appariva sempre più come un percorso ad ostacoli, in cui
alcuni riuscivano altri meno. Questo grazie alla differenziazione pronunciata operata dalla società
complessa, dove lo stesso disagio appariva funzionale all’aumento di differenziazione della società
e alla flessibilità richiesta dai rapidi mutamenti sociali. Infine veniva compiuta una rassegna delle
principali forme di disagio, lette come strategie di riduzione della complessità.
1.8.1.3. “La gioventù negata” (1994)
Gli anni ’90 hanno visto una vera e propria fioritura di ricerche sul disagio giovanile, tuttavia quella
del Labos (1994) certamente la più rappresentativa, per ampiezza del campione e per varietà e
profondità di approcci 18. Tale ricerca ha indagato a fondo sulle differenze tra “normalità” e
“disagio”, così da individuare, in via sperimentale, le componenti specifiche del “disagio” al di là di
una “normalità” più o meno agevole. Ciò ha contributo all’individuazione, delimitazione e
interpretazione del disagio giovanile. Nello stesso tempo ha gettato uno scandaglio nella vita di
molti giovani per scoprire i percorsi attraverso cui un malessere diffuso può evolvere in una
situazione deviante, ma anche come quest’esito può essere efficacemente contrastato e, quindi,
quali sono le potenzialità giovanili su cui investire.
1.8.1.3.1. L’interpretazione del disagio
Rispetto alle interpretazioni di Neresini – Ranci (1992), quest’opera, che era diretta da Pollo e
annoverava tra gli autori Milanesi, ritoccò, in base ai dati elaborati con l’analisi fattoriale, i rapporti
tra disagio, devianza ed emarginazione. Essi fornirono il seguente schema del rapporto tra disagio,
devianza ed emarginazione, dandone la spiegazione che segue.
18 Le interviste erano state rivolte a 2.000 soggetti “normali”, scelti con metodo casuale a campionatura stratificata in tutto il
territorio italiano (92 comuni di 58 provincie). Inoltre a 350 giovani sottoposti a trattamento da parte dei servizi sociali, scelti con lo
stesso sistema di campionamento. Infine a 75 soggetti a disagio conclamato intervistati con il metodo delle “storie di vita”.
Figura 1.2 – Modello del rapporto tra disagio, devianza ed emarginazione
Fonte: Labos 1994, 62
Secondo la spiegazione fornita dagli autori, il significato dello schema è il seguente:
1) esistono situazioni in cui ognuno dei fattori non è correlato (o sovrapposto) all'altro; cioè
devianza che non produce disagio (e viceversa); devianza che non produce marginalità (e
viceversa); marginalità che non produce disagio (e viceversa);
2) esistono situazioni in cui la sovrapposizione (o interazione) di due variabili non significa
necessariamente la «produzione» della terza; così il disagio associato alla devianza non produce
necessariamente marginalità (e viceversa); il disagio associato alla marginalità non produce
necessariamente devianza (e viceversa); la devianza associata alla marginalità non produce
necessariamente disagio (e viceversa);
3) le coppie devianza-disagio, devianza-marginalità, marginalità-disagio possono trovarsi in
contesti diversi in una relazione di causa-effetto intercambiabile, in cui il primo termine della
relazione a livello manifesto è premessa probabilistica dell'altro (che in questo caso si colloca a
livello latente);
4) relazioni più complesse, con sovrapposizione o interrelazione dei tre fattori possono essere
interpretate con approccio sistemico (Labos, 1994, 62).
1.8.1.3.2. La cultura edonistico-consumista
1.8.1.3.3. I fattori del disagio giovanile
La ricerca evidenziò la multifattorialià del disagio. Sosteneva che esso “così come d’altronde la
devianza, appare come il prodotto di un insieme complesso di cause, nessuna delle quali da sola
sembra essere sufficiente a produrlo, ma la cui simultanea presenza eleva notevolmente la
probabilità che esso si manifesti nella vita del giovane” (Labos, 1994, 26). Queste cause erano
connesse con il sistema di valori della cultura sociale, le condizioni sociali di vita dei giovani e la
loro struttura di personalità.
1.8.1.4. I valori della cultura sociale
La ricerca scoprì che il fattore principale del disagio giovanile era un preciso sistema di
valori , quello della
19
19 “Tra le cause più direttamente legate alla cultura sociale si segnala con la massima evidenza un particolare sistema di valori la
cui presenza è significativamente maggiore nei giovani che vivono o hanno vissuto l’esperienza del disagio” (Labos, 1994, 26).
vita intesa come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione e della novità. Questo sistema
di valori è presente in giovani che danno una estrema importanza alla vita eccitante, stimolante,
variegata e con molte novità, al piacere, alla gratificazione dei desideri e al godimento attraverso il
sesso e il cibo, all’audacia, all’avventura e anche alla creatività (Labos 1994, 26).
Aggiungendo:
I modelli edonistico-consumistici della società industriale moderna, che hanno bisogno di continue
stimolazioni, eccitazioni e novità per trovare la felicità-piacere nella vita. E’ un sistema di valori
che spinge i giovani che lo hanno assunto verso la ricerca del senso della vita, o perlomeno dell’appagamento della loro sete di vita, all’esterno di sé, nelle cose materiali e immateriali che li
circondano (Labos, 1994, 26).
Gli autori sostenevano che questo sistema di valori “è portatore di rischio di disagio per la vita
del giovane” (Labos, 1994, 26). Infatti, dall’eccessiva valorizzazione dell’eccitazione, del piacere e
dell’avventura conseguirebbe una continua ricerca di nuove forme, luoghi, attività e persone
attraverso cui soddisfare il proprio desiderio.
Questa ricerca può condurre a esperienze limite e ad accettare proposte e occasioni di consumo di
sostanze stupefacenti o psicotrope, di azioni rischiose per la propria e l’altrui vita, di azioni
trasgressive o devianti (Labos 1994, 26-27).
Ciò si verificava specialmente se tale cultura non era “limitata, circoscritta da altri sistemi di
valori antagonistici” (Labos, 1994, 27).
Questo dato confermava il ruolo dei valori negli stili di vita dei giovani e quindi
l’importanza della cultura sociale per spiegare la genesi del disagio 20. L’eccessiva accentuazione
dell’affermazione individuale, quasi narcisistica, che appariva dominante nella cultura sociale, unita
alla ricerca del piacere e dell’eccitazione come fonte di felicità esistenziale, appariva come uno dei
fattori di distruttività. Giovani incapaci di difendersi da tali provocazioni erano facilmente esposti
ad esperienze rischiose e devianti. Quando gli stessi giovani incontravano invece la proposta di una
realizzazione di sé più profonda, legata allo sviluppo dell’interiorità e della solidarietà, essi si
aprivano a una realizzazione di sé che li portava lontani dalle secche del disagio e valorizzava la
loro capacità di trasformazione evolutiva della condizione umana21.
Questo fatto indica con molta evidenza che quando l’espressione del desiderio nel giovane non
incontra come suo limite, da un lato, l’Altro da me con i suoi bisogni, il suo stesso desiderio e la
sua libertà e, dall’altro lato, la ricerca di una profonda armonia interiore, dei valori della propria
dignità di persona umana, della libertà della coscienza critica, esso può innescare dei percorsi di
disagio e di distruttività personale (Labos, 1994, 27).
Pertanto appariva evidente il ruolo fondamentale della cultura e della socializzazione
nell’evoluzione positiva o negativa del disagio giovanile.
1.8.1.4.1. I fattori sociali della produzione del disagio
Oltre al sistema di valori, la ricerca individuò in alcune condizioni di vita dei luoghi privilegiati
di produzione del disagio. Questi condizioni furono rinctraccaite nella famiglia, nella scuola, nel
gruppo dei pari, nell’ambiente urbano, nella carenza di lavoro, nell’incertezza verso il futuro e in
alcuni problemi esistenziali e materiali specifici.
20 “Questo dato conferma e precisa come i valori giochino un ruolo significativo nell`influenzare gli stili di vita che possono
produrre disagio o al contrario agio nella vita dei giovani e come, quindi, la cultura sociale trasmessa dal mondo adulto alle giovani
gcnerazioni abbia in sè i germi del disagio” (Labos, 1994, 27).
21 La ricerca era arrivata a queste affermazioni utilizzando i risultati dell’analisi fattoriale. In essa appariva che i giovani del
disagio manifestavano in maniera significativamente più frequente i tratti della cultura edonistico-consumista (cioè la ricerca
dell’eccitazione e del piacere, ecc.). Mentre giovani “in cui compare un sistema di valori che può essere definito come quello
dell’armonia interiore e dell’alterità solidale (in quanto evidenzia la condivisione dei valori dell’uguaglianza, della giustizia sociale,
dell’armonia interiore, del rispetto di sé, della libertà di pensiero e di azione, dell’apertura mentale e della tolleranza, e la negazione
dei valori del potere sociale e della ricchezza materiale) sono quelli più immuni dall’esperienza del disagio e della devianza” (Labos,
1994, 27).
a) La famiglia
La famiglia nucleare manifestava una forte fragilità dal punto di vista educativo in quanto,
potendo contare solo su uno o due ruoli educativi adulti al proprio interno, quando andava in crisi
uno di essi, o addirittura entrambi, gli effetti all’interno del processo formativo diventavano
immediatamente rilevanti. Normalmente le famiglie i cui figli si trovavano in condizioni di disagio
erano caratterizzate “svantaggio economico, basso livello di istruzione dei genitori, disoccupazione
o occupazione precaria dei genitori, isolamento relazionale nel contesto urbano della famiglia,
coppia genitoriale separata o conflittuale, assenza o carenza del ruolo educativo e normativo da
parte dei genitori, comunicazione violenta di uno o di entrambi i genitori nei riguardi dei figli.
Il ruolo della famiglia è primario nel provocare forme di disagio nei suoi giovani membri, in
quanto essa svolge due funzioni essenziali per la vita umana: la prima a livello individuale e la seconda a livello sociale.
b) La scuola
La dispersione scolastica è uno dei problemi non ancora risolti dalla scuola italiana, nonostante
tutti gli sforzi delle competenti autorità in merito. La ricerca Labos ha chiarito l’esistenza del nesso,
anche se in modo non deterministico22, tra la dispersione scolastica e le varie forme di disagio o di
devianza in cui sfociano alcuni percorsi esistenziali giovanili.
Non è perciò un caso che nelle storie dei giovani, vittime del disagio, si riscontri una serie
frequente di vicende scolastiche negative. Questo è stato evidenziato anche da altre ricerche. In
particolare una ricerca del CEIS di Roma, condotta da M. Pollo, ha messo in luce l’intreccio che si
stabilisce tra disagio scolastico e tossicodipendenza. In particolare il metodo delle storie di vita ha
permesso di ricostruire la catena causale innescata da incidenti relazionali con insegnanti:
“problema relazionale con uno o più insegnanti  perdita di fiducia in sé e/o negli insegnanti 
perdita di interesse per lo studio e abulia” (Pollo, 1999, 226).
c) Il gruppo dei pari
Il gruppo dei pari è in alcuni contesti sociali urbani uno dei luoghi di formazione del disagio in
quanto in queste realtà il sistema di norme che il gruppo, a livello informale, ha elaborato, sono devianti rispetto a quelle tipiche del contesto sociale più vasto. Infatti, per appartenere al gruppo è
necessario assumere alcuni valori e praticare alcune condotte, definite come devianti o perlomeno
marginalizzanti nella cultura sociale.
In questi gruppi, che in alcuni casi sono vere e proprie bande giovanili, se il giovane non si
associa nell’esecuzione di un atto vandalico, nel consumare sostanze stupefacenti o alcoliche, nel
compiere una bravata o nel compiere un’azione microcriminale, viene stigmatizzato,
marginalizzato o espulso. I gruppi giovanili informali di questo tipo sono, per fortuna, una minoranza; tuttavia per molti giovani, abitanti di certi quartieri urbani degradati o marginali, sono
l’unico luogo d’aggregazione (Labos, 1994, ).
La rilevanza di questi gruppi diventava ancora più forte in presenza di carenze di relazioni
significative dei giovani con gli adulti nel determinare i percorsi di socializzazione e i progetti di
vita dei giovani che li frequentavano.
d) L’ambiente urbano
Si è scoperto che l’ambiente urbano, ovvero la qualità urbanistica e, quindi, sociale di un
quartiere aveva una qualche influenza sui percorsi di formazione del disagio. Quartieri ghetto
costruiti in modo anonimo, lontano dal centro della città, privi di servizi sociali, culturali, ricreativi
e commerciali, dove era stata concentrata una forte percentuale di popolazione marginale o deviante
e dove non esisteva alcuna identità storico-culturale, apparivano come uno dei fattori classici nella
22 “La sottolineatura del modo non deterministico vuole indicare che mentre in moltissime situazioni di disagio o di devianza
giovanile sono riscontrabili esperienze di insuccesso scolastico, non tutti coloro che sono vittime della dispersione scolastica entrano
in situazioni di disagio o di devianza. Nonostante questa doverosa precisazione, rimane il fatto che la ricerca ha evidenziato che la
dispersione scolastica è uno dei maggiori fattori di rischio presenti nella condizione giovanile in Italia, specialmente quando è concomitante con altri fattori di rischio come quelli costituiti dalle scadenti situazioni familiari, dal gruppo dei pari deviante, dal degrado
urbano e così via” (Labos,1994, 29-30).
produzione del disagio e della devianza giovanile.
e) La carenza del lavoro
I ricercatori riscontrarono nei percorsi del disagio sia l’inaccessibilità ad un lavoro regolare, sia
una sequela di tentativi falliti d’adattamento al lavoro. Il tutto aggravato dalla carenza cronica,
specialmente in alcune aree geografiche, del bene-lavoro per i giovani. Questo faceva sì che la
maggioranza dei giovani italiani vivesse una condizione frustrante d’insoddisfazione per le scarse
opportunità di lavoro offerte dall’ambiente sociale in cui viveva. Infatti, i più insoddisfatti per le
opportunità di lavoro erano per quasi tre quarti quelli del Sud.
In questo quadro generale deprivato i giovani più svantaggiati o a rischio si smarrivano nei
percorsi dei lavori precari e irregolari o in quelli generati da un’aspettativa irrealistica, che creava
una forbice incolmabile tra le loro reali possibilità e i loro sogni ad occhi aperti, oppure ancora nei
percorsi di quell’ozio assistito almeno da un minimo di benessere che portava a sperimentare le
nebbie del tempo vuoto nel tentativo di dare un senso al proprio esistere.
f) Il futuro
Fu scoperta, dai ricercatori, una relazione abbastanza definita tra l’incertezza verso il futuro e alcune esperienze di disagio. Infatti, l’atteggiamento d’incertezza era ritenuto sintomo di una certa
angoscia o perlomeno d’insicurezza ansiosa verso il futuro, dovuto alla mancanza di un progetto di
futuro nell’orizzonte esistenziale di molti giovani.
L’insuccesso scolastico e la sua derivata dispersione scolastica potevano diventare veri e propri
traumi nel progetto esistenziale del giovane.
“I giovani che hanno abbandonato gli studi appaiono in assoluto come i meno ottimisti, seguiti da
vicino da quelli che sono stati bocciati” (Labos, 1994, 31).
Questo significava che l’incertezza verso il futuro poteva essere un altro luogo di produzione del
disagio.
1.8.1.5. I problemi esistenziali, psicologici e materiali più rilevanti nella vita dei giovani
Oltre a questi luoghi sociali nella dimensione del disagio, a volte come cause ma altre già come
effetti (anche se difficili da distinguere), apparivano altri problemi, emergenti dal vissuto dei
giovani. Dall’approfondimento emerse un elenco problemi personali che andava dalla disoccupazione al consumo di droghe.
Il problema più diffuso appariva quello relazionale all’interno della famiglia. Al secondo posto i
problemi di salute, o fisica o psichica. Un quarto dei giovani manifestava difficoltà di adattamento
all’interno della propria attività primaria (in genere scolastica). Ciò confermava che la scuola non
riusciva a fornire un’adeguata accoglienza a giovani con problemi. Una buona parte delle difficoltà
scolastiche dei giovani avevano un fondamento relazionale. Seguivano i problemi di lavoro, dovuti
alla disoccupazione o alla fuoriuscita dal lavoro. Un quinto dei giovani denunciava l’assenza di
luoghi di aggregazione destinati a loro. Il problema della droga o dell’alcoolismo, anche se con
diversi gradi di gravità e di dipendenza, tocca una quota relativamente alta di giovani (il 7.9%) ad
indicare che il disagio conclamato occupa uno spazio tutt’altro che residuale e marginale nella vita
sociale.
Altri problemi, come quello della casa, quello economico, quello della cura di qualche familiare e
quello relativo alle carenze dei servizi, non erano esclusivi del giovane, ma della famiglia, ed egli li
viveva alla pari degli altri, anche se influenzano significativamente la sua condizione esistenziale e
sociale.
L’indagine cercò anche di scoprire con chi il giovane parlasse dei suoi problemi. Risultò che
molti giovani non ne parlavano con nessuno23. La comunicazione con i genitori appariva molto
23 «Basti pensare che il 29% di chi ha vissuto in modo problematico il lutto elabora questo da solo, con tutte le conseguenze che
una mancata elaborazione sociale del lutto può comportare sulla sua vita psichica. A tutto questo occorre aggiungere che il 23.7% dei
debole quando si trattava di problemi giudiziari, di consumo di droghe, di relazionalità all’interno
della famiglia e di elaborazione del lutto, mentre era totalmente assente nel caso della violenza
agita. La comunicazione in famiglia diminuiva sempre più man mano i problemi si facevano più
gravi e si configuravano come espressione del disagio. Proprio laddove il problema era più grave e
doloroso, la stragrande maggioranza dei genitori era assente. Tali dati evidenziavano quel disagio
sommerso, nascosto e solitario, che non emergeva alla consapevolezza sociale, ma che alimentava,
con la sofferenza e la distruttività di cui era portatore, il sottosuolo della vita sociale rendendone più
fragili le fondamenta.
La ricerca affrontò anche l’analisi della dimensione psicologica. I risultati indicarono,
semplificando, due tipi di giovani che potevano essere considerati a rischio di disagio.
Il primo tipo, che riguardava prevalentemente le ragazze, attestava la presenza di un 9% di
giovani che, dietro ad un’identità di facciata apparentemente funzionante, nascondevano una
notevole fragilità interna. Si trattava di giovani che avevano un adattamento acritico alla realtà, che
si realizzava attraverso una falsa identità costruita sull’adeguamento alla normalità sociale. Il prezzo
di quest’adattamento era spesso la messa in atto di meccanismi di difesa nei confronti della
conflittualità che questo stesso adattamento generava. Meccanismi di difesa che non consentivano
un’adeguata elaborazione dei conflitti, e questo poteva essere la fonte di significative forme di
disagio psicologico specialmente nel momento dell’ingresso di questi giovani nell’età adulta.
Il secondo tipo, che riguardava il 9.6% di giovani, era caratterizzato dalla presenza di modalità
aggressive nei confronti del mondo esterno e di meccanismi di difesa che non favorivano il loro
adattamento sociale. Giovani che avevano delle difficoltà profonde di soluzione della propria crisi
adolescenziale che si manifestava in un atteggiamento aggressivo di svalutazione della realtà
esterna, del mondo adulto e dei suoi valori, al punto da provocare un rifiuto e una rottura con questa
stessa realtà.
Tale tipo di giovane era quello che più probabilmente viveva negativamente l’esperienza
scolastica e poteva accedere a forme di devianza con comportamenti sia auto che etero-distruttivi.
Ciò significava che tale dimensione psicologica era quella più fortemente correlata alle
espressioni del disagio e della devianza, sia come causa che come effetto. Entrambi questi due tipi
di giovani a rischio di disagio indicavano chiaramente la presenza per questi giovani di problemi relazionali con il mondo adulto, frutto di carenti o distorti rapporti educativi e socializzanti.
1.8.2. 2.2.2. Esiti dei percorsi del disagio: i comportamenti devianti
La ricerca Labos, accanto alla rilevazione dei problemi che sono alla base del disagio dei giovani,
ha esplorato la presenza di quei comportamenti che, secondo i modelli culturali correnti, possono
essere definiti devianti. I risultati indicano nell’abuso di alcool, nell’uso di droghe leggere e nei
vandalismi i comportamenti devianti più diffusi.
L’uso di droghe pesanti appare molto più ridotto sia come consumo abituale che come consumo
saltuario. E’ preoccupante, comunque, che un quarto dei giovani italiani abusi, almeno
saltuariamente, delle bevande alcoliche e che un quinto faccia uso di droghe leggere. Questo
significa che la cultura dell’eccitazione, dello sballo e della soluzione dei problemi attraverso la
fuga in stati di alterazione della coscienza sia abbastanza radicata nel mondo giovanile e non solo in
esso. D’altronde la presenza di un sistema di valori come quello della vita come ricerca del piacere,
dell’avventura, dell’eccitazione e della novità, è compatibile con questo tipo di comportamento. Se
a questo si aggiunge la presenza di forme di malessere solitario e non espresso, si comprende più
facilmente il dato sull’uso di queste sostanze stupefacenti o alcoliche.
giovani non esprime i problemi affettivo-relazionali familiari, che il 20.1% si tiene per sé i problemi di salute, che il 15.9% non parla
con alcuno dei suoi problemi con le droghe o l’alcool, e che vi sono poi percentuali simili di giovani che non comunicano i problemi
di violenza agita e subita» (Labos, o.c., 34).
Anche la violenza sotto forma di vandalismi ha una presenza preoccupante e lascia intravedere, se
non controllata e prevenuta, una possibile evoluzione verso quelle forme che affliggono la vita di
alcune metropoli statunitensi. In ogni caso essa, pur essendo in molti casi una forma di devianza
primaria, non strutturata, può essere la base di partenza verso forme di devianza secondaria e
strutturata che i dati indicano già presenti, anche se in misura più ridotta, nel mondo giovanile. Il
fatto che, almeno qualche volta se non spesso, il 7.4% dei giovani sia stato implicato in furti, scippi
o rapine, 1’1.9% in azioni della criminalità organizzata e il 2.2% nello spaccio di droga, indica la
plausibilità di questa ipotesi24.
Il dato sulle azioni all’interno della criminalità organizzata, molto più elevato nelle zone a rischio
per questo tipo di criminalità nel Paese, pone il problema dell’attrazione della mafia, della camorra
e della ‘ndrangheta su alcuni giovani marginali o devianti occasionali che non appare
sufficientemente contrastata dall’azione delle agenzie educative e socializzanti.
Non va dimenticata una forma di violenza molto diffusa anche negli ambienti bene, che è il
bullismo. Il 41% degli allievi della scuola elementare e il 26% della scuola media inferiore dichiara
di essere stato vittima del bullismo. Si ritiene che esso sia praticato da circa il 3% della popolazione
scolastica25. Esso si manifesta direttamente con «attacchi fisici, come pugni, calci e atterramenti, o
verbali, come insulti, minacce e prese in giro»26. Il fatto che esso si manifesti in età così precoce
indica un elemento preoccupante di non controllo dell’aggressività e di volontà di imporsi sulla
scena attraverso la violenza e la sopraffazione dell’altro.
Infine occorre segnalare i dati relativi all’autodistruttività attraverso i tentativi di suicidio27, la
guida in stato di ubriachezza28, il consumo di droghe pesanti29. Questo dato deve far riflettere
sull’istanza di morte che affligge una parte niente affatto marginale del mondo giovanile, cui
l’egoismo del presente, l’assenza di senso della vita al di là della ricerca dell’avere, del piacere e del
consumo fine a se stesso, sembra aver tolto la speranza e soprattutto la capacità di cogliere l’amore
alla vita e la sua promessa di felicità.
Per molti giovani poi il rischio della morte rappresenta il tentativo estremo, o di affermare la
propria individualità contro l’anonimato sociale, o di dichiarare quell’unità mistica con il tutto che
la vita opaca del presente non consente di cogliere. Infatti, come suggerisce Morin «questa
affermazione dell’Io nel rischio di morte contiene molto spesso un’esaltazione del Sé».
«La presenza di questa autodistruttività non può essere banalizzata, in quanto interpella la
responsabilità del mondo adulto sulla necessità di offrire all’orizzonte esistenziale dei giovani sia la
conquista della loro identità, messa in crisi dalla complessità sociale, sia la capacità di alterità che
sola può metterli in relazione con l’esperienza di amore che tesse la presenza umana nel mondo. Lo
stesso senso religioso della vita ha bisogno di questo fondamento antropologico per aprire il
giovane all’invocazione verso l’assoluta Trascendenza. I comportamenti devianti dei giovani che
abitano il disagio conclamato sono lo specchio crudele attraverso cui è possibile leggere la
24 Il numero di minori che ogni anno viene denunciato all’autorità giudiziaria si aggira sullo 0.4% e quelli per cui l’autorità
giudiziaria avvia un’azione penale si dimezza (0.2%). Ciò non vuol dire che questa sia la fotografia del fenomeno, che probabilmente
sfugge ad una rilevazione statistica, anche perché esso dipende da variabili complesse, come il controllo della polizia e la fiducia dei
cittadini nelle istituzioni. Notevole è il numero di minori stranieri denunciati. «Nel periodo 1991-1998, la proporzione di minori
stranieri denunciati è costantemente aumentata fino al 1995, per poi stabilizzarsi nel triennio 1996-1998. Nel 1991 i minori stranieri
denunciati rappresentavano il 17.6% del totale dei minori denunciati, valore che sale nel 1998 al 25.9% (ma la punta più alta è stata
raggiunta nel 1995 con il 27.6%)» (Presidenza del Consiglio, o.c., 141-142).
25 Ibidem, 157.
26 Ibidem, 155.
27 «Nel periodo 1993-1998 la Polizia di Stato e l’Arma dei Carabinieri hanno accertato in Italia 300 casi di suicidi e 826 tentati
suicidi di minorenni » (Presidenza del Consiglio, o.c., 173). Ma si sa che, almeno nei casi di tentati suicidi, non sempre il fatto viene
denunciato.
28 I minori deceduti per incidenti stradali in Italia nel periodo 1966-1999 sono stati 1.108, con un tasso annuo del 3.6%. Molti di
questi, almeno per la fascia 15-17 anni, sono da mettere in correlazione con a guida in stato di ebbrezza, soprattutto al sabato sera
(Cfr. Ibidem, 175-177).
29 I soggetti in trattamento presso i Ser.T nel 1999 risultavano 143 sotto i 15 anni, 4.629 tra i 15 e i 19 anni. I tossicodipendenti
sotto i 18 anni segnalati per la prima volta ai prefetti nel 1999 sono stati 3.390, di cui 3.149 maschi. I decessi di minori per
tossicomania sono stati 19 nel 1999 (Cfr. Ibidem, 178-1799).
finitudine dell’attuale condizione sociale e scoprire le vie da percorrere per il suo superamento»30.
1.9. I nuovi modi del disagio giovanile
1.
Guidicini e Pieretti hanno indagato sui nuovi modi con cui si manifesta il disagio giovanile.
Il loro campo d’indagine era abbastanza ristretto (la città di Udine), ma è stata interessante la
metodologia utilizzata ed il tentativo di cogliere e interpretare con nuove categorie le forme
giovanili del disagio. Ne sono emerse indicazioni interessanti:
· l’asintomaticità del disagio, cioè «l’assenza di precisi legami tra quelle che sono le condizioni di disagio
[…] e la presenza a monte di meccanismi in quanto cause scatenanti»31;
· la presunzione soggettiva di privazione, quale «risultato di una condizione di insoddisfazione rispetto ad
un qualcosa di cui si era stati privati»; il disagio «sottende sempre una concezione di bisogno insoddisfatto
[…]. Di qui il convincimento ultimo di trovarsi di trovarsi di fronte a soggetti che vivono in una costante
situazione di tensione e bisogno di un qualcosa che dovrebbe soddisfare un’interna pulsione di crescita, di
libertà, di autorealizzazione; la quale trova invece, più spesso, limitazioni oggettive nel sociale. […] Di
qui una situazione sempre più spesso sfuggente; se è vero che ad una costante crescita di nuove richieste i
giovani credono di trovare limitazioni sociali sempre meno disposte ad offrire tutto e subito. Quello del
disagio giovanile diventa quindi vieppiù un percorso di difficile soluzione in quanto il rapporto tra
pulsioni da un lato e controlli dall’altro si prospetta sempre più incerto. Ed il raggiungimento di un teorico
equilibrio mera utopia»32;
· la crescente labilità nelle scelte: «una minor chiarezza ed una crescente genericità nella individuazione di
ciò che il soggetto considera come fondamentale nel quadro del suo sistema di riferimenti emotivi»;
· la caduta di valori simbolici ‘forti’, «riferiti a certi elementi che tradizionalmente venivano letti dai
giovani come centrali nella propria esperienza di vita quotidiana»33.
Donde l’introduzione del concetto delle “microfratture” per indicare la molteplicità di cause e di
situazioni che concorrono alla condizione di disagio. «Una molteplicità di elementi insignificanti
(se visti singolarmente, per quanto riguarda la storia dei singoli soggetti) che possono però nel
complesso determinare una condizione ultima di disagio. Quindi la condizione di malessere/disagio
non più come risultato di uno specifico e circoscritto ambito di impatto o di squilibrio del soggetto
rispetto alla società che lo circonda, in una immagine evolutiva di bisogno, bensì come sommatoria
di un percorso di microsituazioni di rottura il più delle volte difficilmente classificabili e
ponderabili»34.
Tutto ciò rende difficile la definizione di disagio, la sua misurazione ed infine l’individuazione di
misure di prevenzione, contenimento e contrasto del disagio. Certamente la percezione di come i
giovani vivono il disagio chiede di «spostare l’interesse sull’informale, sulla cultura, sullo psichico,
sulle microfratture che si rigenerano costantemente dentro al sistema relazionale»35. Ma se questa è
la prospettiva, quale via percorrere? Sembrerebbe logico investire di tutta la responsabilità la
componente soggettiva; ma sono da trascurare del tutto i meccanismi strutturali? La ricerca, senza
tralasciare quest’ultima ipotesi, chiama in causa l’area dei valori e della cultura. Se la società è
“evanescente” non riesce più a fornire gli elementi necessari per la formazione del soggetto 36.
Perciò le forme del disagio “conclamato” (tossicodipendenza, violenza, distruttività, ecc.) sono più
che altro espressione di una profonda sofferenza interiore cui la società non riesce a dare risposta.
In ogni caso questa ricerca, oltre ad indagare sui percorsi individuali di formazione del disagio,
30
Labos, o.c., 38.
P. Guidicini – G. Pierretti, I nuovi modi del disagio giovanile, Milano, F. Angeli, 1995, 13.
32 Ibidem, 14.
33 Ibidem, 15.
34 Ibidem, 17.
35 Ibidem, 21.
36 “Il rapporto individuo/società, se la società è evanescente, non riesce più ad essere intriso di elementi di indicazione cogenti, è
debole, precario, aleatorio. Non riesce, il rapporto individuo/società, ad inserirsi in strutture di significatività forti che permettano una
coerente e disciplinata organizzazione psichica della risposta individuale” (Ibidem, 252).
31
rimanda alle responsabilità sociali, soprattutto in chiave culturale.
1.9.1. Trasgressione e rischio come valore
Le ricerche IARD hanno sempre inserito nelle loro analisi un capitolo che raccoglieva le
principali risposte in ordine a condotte devianti o a rischio, a valutazioni morali non conformi al
pensiero della maggioranza, alla propensione e contiguità con la devianza. Queste risposte
forniscono uno spaccato degli orientamenti valoriali e della propensione al rischio dei giovani
italiani, indipendentemente dalle loro situazioni oggettivi di marginalità o meno.
“La popolazione giovanile si è sempre caratterizzata per una maggior propensione trasgressiva
rispetto alle norme morali e legali della società, ma è negli ultimi anni che il distacco si è acuito”
(Cavalli, de Lillo, 1993, 179).
Pertanto la trasgressione può essere letta come un fatto evolutivo: fa parte del normale processo
di crescita, più precisamente di presa di distanza dal mondo adulto e dal modello infantile
“eterodiretto”. La propria autonomia e la possibilità di assumersi il proprio posto nella società passa
inderogabilmente attraverso la negazione del passato e delle dipendenze, cui il bambino era
vincolato. Un secondo tipo di approccio la legge come un fatto culturale che ha ripercussioni su
tutta la società: l’aumento di tale fenomeno negli ultimi anni, come affermano i conduttore della
ricerca IARD farebbe intravedere un fenomeno nuovo: un cambiamento culturale.
Infine nelle stesse ricerche IARD è stata introdotta dal 1996 anche la valutazione della
componente di rischio come elemento di sviluppo della personalità. Si partirà dai giudizi di
ammissibilità di certi comportamenti ritenuti socialmente condannabili 37, per poi indagare sulla
disponibilità (o non indisponibilità) a compiere certi atti e terminare con l’analisi del rischio.
Una volta i “comportamenti a rischio” erano stigmatizzati ed il rischio era connotato in senso
negativo (era un “disvalore”). Ancor oggi l’opinione pubblica è molto preoccupata, oltre che per le
manifestazioni trasgressive dei giovani, anche per i “comportamenti a rischio”, come: lanciarsi
dall’alto legati ad un elastico, camminare sui cornicioni, attraversare torrenti in piena, guidare a
forte velocità, andare contromano, sfidarsi a chi si toglie per ultimo da una situazione pericolosa,
come dai binari del treno, o da uno scatolone in mezzo alla strada, oppure gettare sassi dai ponti o
contro i treni. Tuttavia non sembra che le preoccupazioni degli adulti trovino corrispondenza nelle
considerazioni dei giovani. Infatti, gli adolescenti sono particolarmente attratti dai comportamenti a
rischio, come riferisce il 3° Rapporto EURISPES:
Molti adolescenti sono attratti da comportamenti "spericolati" che soddisfano il desiderio di vivere
sensazioni nuove ed eccitanti: questo fenomeno è noto come sensation seeking, ossia ricerca di
sensazioni forti. Spesso tali condotte sono sostenute da un atteggiamento di ottimismo
ingiustificato, basato sulla credenza di essere immuni dal pericolo e dall'egocentrismo caratteristico
dell'adolescenza. Per un adolescente affrontare sfide che tendono a superare le sue normali capacità
è funzionale all'esigenza di "sentirsi adulto" e permette di lenire le ansie legate ai cambiamenti di
questo delicato momento di crescita. Il legame con il gruppo dei pari, inoltre, fornisce il "teatro"
ideale per la messa in atto di comportamenti trasgressivi, attraverso i quali il/la ragazzo/a dimostra
il proprio valore e si sente accettato. La situazione di gruppo, inoltre, facilita un abbassamento
nella percezione dei pericoli insiti in una determinata situazione (EURISPES 2002, 140)
Queste modalità di affrontare il rischio appaiono, quindi, del tutto connaturate con l’esperienza
adolescenziale e con il “farsi adulto”. Inoltre, l’assunzione di rischio è vissuta dai giovani come
caratteristica intrinseca di molti ruoli, da quello professionale (o scolastico) a quelli relazionali ed
affettivi. Oggi, infatti, si sta imponendo un nuovo modello interpretativo - di ispirazione
37 “I giovani si mostrano tendenzialmente più tolleranti nei giudizi, rispetto a quelli che attribuiscono alla società” (Buzzi,
Cavalli, de Lillo 2002, 304).
anglosassone e tedesca38 - che considera il rischio in un’accezione positiva; saper rischiare è, ad
esempio, una condizione essenziale per il successo in una società sempre più competitiva e sempre
meno garantita. La diversa percezione del rischio segnala lo spostamento di prospettiva da un
orientamento verso traguardi di sicurezza ad obiettivi nei quali trova spazio il mettersi in gioco e il
non accontentarsi. L'etica del successo sembra avere, in altre parole, contagiato larghe masse di
giovani che appaiono consapevoli che il saper rischiare faccia parte delle abilità che la società
attuale richiede a chi vuole farsi strada nella vita.
Di qui la tendenza ad assumersi sempre più rischi da parte dei giovani e a non calcolare le
conseguenze dei loro gesti, come appare dalle indagini dello IARD condotte espressamente su
questo tema.
Appare preoccupante la ricorrenza di alcuni comportamenti che possono potenzialmente mettere a
repentaglio la salute e la sicurezza dei giovani. In particolare può essere notato come la guida
spericolata caratterizzi l'esperienza di più di un terzo dei giovani del campione, che alla guida in
stato di ebbrezza non sia del tutto estraneo un giovane ogni sette e che un quinto del campione ammetta esplicitamente di aver corso dei rischi nei rapporti sessuali (le incidenze tra i soli maschi di
18-24 anni sono notevolmente superiori). In altra parte del testo è evidenziata l'esposizione alle
droghe e all'alcol: il trend che emerge appare registrare un forte aumento, negli ultimi quattro anni,
della contiguità del mondo giovanile alle sostanze psicotrope (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 91).
Questa tendenza si manifesta soprattutto nei maschi (doppia, rispetto alle femmine, nella guida
imprudente, nella prossimità alle droghe e nel gioco, tripla nello sport);
ma soprattutto sembra convalidare l'ipotesi che vi sia una significativa relazione tra la valutazione
positiva della capacità di accettare dei rischi come mezzo di successo con la percezione di
affrontare, volontariamente e frequentemente, pericoli o situazioni che possono compromettere la
salute o la sicurezza della persona (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 91-92).
In una società del caos i giovani si presentano con comportamenti più spontanei che nel passato,
più liberi ed indipendenti. Ciò comporta una maggior esposizione al rischio. Per loro la violazione
della norma non costituisce un comportamento riprovevole, bensì un’accettazione della sfida insita
in una situazione pericolosa, un modo per affermarsi e realizzarsi. La propria affermazione nel
mondo e la definizione dell’identità passa sovente attraverso delle prove di coraggio, di sfida, di
confronto col limite39.
La rivalutazione del rischio come valore coinvolge innanzitutto i giovani provenienti da un
background culturale medio-elevato, più pronti a cogliere i processi di cambiamento culturale ma
anche più svincolati da bisogni di sicurezza.
1.9.2. Rischio e reversibilità delle scelte
L'accettazione consapevole del pericolo può essere sostenuta solo in concomitanza con un
secondo assunto esistenziale, che appare largamente condiviso dai giovani: ogni comportamento per
essere desiderato deve essere revocabile; si possono anche compiere scelte rischiose nella
convinzione però che non siano irreversibili.
È sotto questa ottica che si spiega il forte aumento dell'esposizione alle droghe e all'alcool e la
propensione a compiere azioni dannose per la salute e l'incolumità fisica: agirebbe, infatti, la
convinzione che qualsiasi comportamento, "se sottoposto al controllo dell'attore, perde, o riduce di
38
Cfr. gli sudi di Giddens (1994), Luhmann (1991), Beck (1999), Baumann (1999)
E’ interessante uno studio promosso in Italia dalla Fondazione Corazin e affidato ad un’equipe di psicologi sociali guidata da C.
Castelli (1994) in cui vengono monitorate le esperienze del limite che si ottengonno in discoteca, roccia e deltaplano. L’esperienza
del limite viene assunta come fonte di conoscenza, ottenibile attraverso la prova sul corpo, che richiama analoghe esperienza di
culture primitive. Attraverso queste esperienze limite l’adolescente arriva a conoscere meglio se stesso, contribuendo con ciò a
definire la propria identità. “E’ l’accettare il rischio di assumersi il ruolo del potere istitutivo della situazione nella quale si possono
sperimentare i sé possibili” (Castelli 1994, 15). Inoltre, essendo attività condotte davanti ad un pubblico, diventano una forma di
presentazione di sé agli altri.
39
molto, il suo, potenziale di pericolosità. Ma non è solo questo: la tensione alla reversibilità delle
scelte, modello di riferimento dominante di una società incerta e contraddittoria, sembra
accompagnare il giovane anche nelle decisioni importanti che dovrebbero condizionare il proprio
futuro. È probabile che il procrastinamento di alcune scelte cruciali, quali il matrimonio o la
procreazione, abbia origine dal fatto ché si pongano come eventi irreversibili (Buzzi, Cavalli, de
Lillo 1997, 92-93).
Nel complesso, più della metà dei giovani manifesta quest’orientamento. Sono soprattutto i più
grandi, quelli delle regioni centrosettentrionali e dalle aree metropolitane o con un background
familiare medio-alto: ciò dimostra che sono i caratteri elitari, collegati al maggior sviluppo
socioeconomico del territorio, a massimizzare tale tendenza. Tendenza che con il passare degli anni
si fa più pronunciata: si rafforza il relativismo etico, la preferenza a non compromettersi e a
rimandare le scelte impegnative.
La reversibilità, quando è applicata alle decisioni importanti della vita, pone tuttavia un limite
all'accettazione del rischio come strumento di successo: scelte che consentano ampie vie di fuga
sembrano piuttosto motivate da una certa prudenza (o da un certo timore) (Buzzi, Cavalli, de Lillo
1997, 93).
La ricerca IARD del ’96 ha provato ad incrociare la prospettiva della reversibilità con quella del
rischio. Ciò ha dato origine ai seguenti tipi di orientamento all'azione:
a) il primo è costituito da coloro che appaiono orientati ad accettare scelte personali non prive di
rischi pur consapevoli che alcune di queste non siano reversibili; sono giovani che si pongono di
fronte alle decisioni importanti in modo fermo e risoluto, consapevoli che nessun traguardo può
essere conseguito se ci si abbandona a troppi tatticismi; nel complesso sono il 19,5% del campione;
b) il secondo individua i giovani che si pronunciano per il rischio reversibile e dunque accanto ad
una posizione tesa ad accettare le sfide della vita ve ne è una seconda, contrapposta alla prima, che
rivendica prudentemente le possibilità di ritornare sui propri passi; è una tendenza che non riesce a
celare una certa ambiguità di fondo; sono il gruppo più esteso (28,7%);
c) il terzo raccoglie coloro che non propendono per l'assunzione di rischi e si dicono convinti che le
scelte importanti non possano essere riviste; in loro prevale, con tutta probabilità, una visione
prescrittiva dell'esistenza, dove tutto è già previsto e irrevocabile; in questo tipo si riconoscono il
18,4% dei giovani intervistati;
d) il quarto segnala una posizione ultra-prudenziale: nessun rischio e contemporanea garanzia di
poter recedere dalle scelte operate; prevale su tutto il desiderio di non compromettersi, di non
assumersi alcuna responsabilità di scelta, sentimento condiviso dal 21,3% del campione;
e) il quinto è un gruppo residuale (12,1%) che identifica orientamenti non del tutto chiari o
inconsapevoli. La tipologia risulta fortemente legata all'età. Ad esempio la necessità di saper
rischiare per avere successo nella vita senza rinunciare alla possibilità di tornare indietro nelle
decisioni è una posizione che aumenta notevolmente con l'età mentre, per converso, diminuisce
l'orientamento teso all'accettazione del rischio in campi decisionali irreversibili (Buzzi, Cavalli, de
Lillo 1997, 94).
Se è vero che rischiare costituisce un’esperienza tipicamente giovanile, oltre che specifica della
società post-moderna, ciò si combina con caratteristiche di personalità o ambientali, che possono
dare ragione delle diverse posizioni assunte rispetto al rischio.
1.9.3. La dimensione temporale
Questi fenomeni, appena rilevati negli anni ‘80, diventano sempre più radicati e diffusi col passar
del tempo.
Infatti, nell’indagine successiva (‘92), si registra un ulteriore aumento di coloro che rimangono
nella fase di “moratoria” e s’innalza l’età di coloro che approfittano di tale concessione,
soprattutto tra gli studenti: chi si trova in questa situazione mostra molta più incertezza e “il
futuro appare ancora opaco o aperto, non risulta […] possibile fare dei progetti di vita su delle
previsioni attendibili” (Cavalli, de Lillo, 1993, 218). Tale atteggiamento accenna a diventare un
tratto culturale di una generazione, uno stile di vita che si estende anche ad altre fasi d’età.
Applicando le tipologie emerse dalla ricerca sul tempo (Cavalli 1985), risulta che tra i
giovanissimi (15-17 anni) prevale la destrutturazione temporale (sia auto che etero), mentre tra i
più grandi (25-29 anni) si nota una maggior strutturazione del tempo, ma ancora a quell’età si
incontrano dei destrutturati (soprattutto nella modalità “auto”: 13%). Ciò avviene in giovani di
famiglie culturalmente elevate, che stanno ancora studiando, mentre i più strutturati si trovano nei
giovani che hanno un lavoro. Tuttavia auto-destrutturato non vuol dire aver rinunciato a gestire il
proprio futuro, solo aver più possibilità e tempo per progettarlo come si vuole. Infatti, i ricercatori
concludono con queste osservazioni:
“É interessante notare […] che i due tipi (autostrutturati e auto-destrutturati) che presentano, sia
pure con modalità diverse, un orientamento attivo e progettuale nei confronti della costruzione del
proprio futuro tendono ad essere presenti con frequenza maggiore nelle regioni del Nord e del
Centro. […]. I tipi individuati, […], forniscono indicazioni utili per cogliere altri aspetti della
condizione giovanile. Nell’ambito dei comportamenti di consumo, ad esempio, il giovane autodestrutturato, che combina «moratoria» e ottimismo volontaristico, tende più degli altri tipi verso
consumi «ricchi» che uniscono divertimento e accesso a cultura, mentre il tipo che si colloca al
polo opposto (l’eterostrutturato) presenta un mix di consumi «poveri» sia sul versante della cultura
che delle attività propriamente ludico-giovanili. Tendenze nella stessa direzione si rilevano per
quanto riguarda l’associazionismo e il grado di partecipazione sociale e politica. Anche rispetto a
queste variabili i due tipi polari appaiono gli auto-destrutturati, molto attivi nelle associazioni e
con tassi alti di partecipazione; e gli eterostrutturati, che mostrano invece
livelli di attività
e partecipazione consistentemente più bassi e ciò è vero soprattutto per le fasce centrali del
nostro campione (18-24 anni) dove evidentemente la divaricazione tra giovani che ancora
studiano e giovani invece che o lavorano, oppure stazionano nell’area grigia della
disoccupazione e del lavoro precario, si fa più marcata” (Cavalli, de Lillo, 1993, 224).
La sindrome di presentificazione nella ricerca del ‘96
La quarta indagine verifica fino a che punto la “sindrome di presentificazione” è penetrata tra i
giovani italiani. Attraverso l’analisi fattoriale individua tre tipologie di atteggiamenti verso il
tempo:
II primo tipo, denominato “presentificazione passiva”, è tutto incentrato sulla rimozione, del
passato. Per lui
“non solo il passato è pieno di ricordi tristi ma bisogna dimenticare subito quello che è successo
ieri, non farsi condizionare dalle decisioni prese in precedenza, intanto, quel o che è stato è stato e
non serve rimuginare rimorsi o rimpianti, del resto, poco si può imparare dalle proprie stesse
esperienze e non ha neppure molto senso preoccuparsi troppo del futuro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo
1997, 28-29).
Questo fattore presenta un legame molto forte con il fatalismo ed è più presente nelle situazioni
“deboli” (basso livello socio-culturale, Mezzogiorno e Isole, tra coloro che non studiano e non
lavorano).
Il secondo, chiamato di “presentificazione attiva”, ha due tratti comuni al fattore precedente:
“«ciò che è stato è stato», e non bisogna quindi lasciarsi troppo influenzare da azioni o omissioni
compiute, e non bisogna neppure preoccuparsi troppo di ciò che potrà accadere in futuro (Buzzi,
Cavalli, de Lillo 1997, 29).
Tuttavia, si discosta dal precedente in queste due particolarità:
“non è vero che il passato sia pieno di ricordi tristi e che bisogna dimenticarlo il più presto possibile; infatti, si può imparare molto dalle proprie esperienze, e, comunque, fare esperienze
interessanti nel presente é più importante che pianificare il futuro” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997,
29).
L’accento, in questo caso, é posto sull’esperienza presente, come processo di esplorazione e di
crescita. Il futuro è ancora avvolto nelle nebbie, ma questo non è fonte di preoccupazione. Questo
fattore non ha nessun legame col fatalismo.
Il terzo fattore, chiamato di “progettualità”, si riferisce a quei giovani
“che hanno idee abbastanza chiare su quello che sarà il loro futuro e che ritengono importante
pianificarne le tappe. Questo fattore presenta una connessione moto forte (ma negativa) con
l’indice di fatalismo” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 29).
Da queste tre tipologie appare chiaro un diverso rapporto col tempo, da parte dei giovani. Essi
hanno imparato a rapportarsi ad esso, ad accettarne la sfida. Infatti, i ricercatori ne ricavano
l’impressione
“che i nostri giovani hanno imparato a muoversi in un orizzonte di incertezza, senza tuttavia nella
maggior parte dei casi, farsi schiacciare dall’angoscia che potrebbe derivarne” (Buzzi, Cavalli, de
Lillo 1997, 30).
La capacità poi di gestirlo in termini costruttivi per la propria identità, oppure remissivi e
rinunciatari, può dipendere dall’atteggiamento che ognuno riesce ad assumere nei suoi riguardi.
Capacità che dipende sovente dal background culturale e sociale della famiglia, dal suo status
attuale, ma anche dal suo impegno e dalla volontà che ognuno riesce a esprimere nei confronti del
futuro. Di certo non bisogna attendersi gli stessi atteggiamenti ed esiti di anni fa, perché sono
cambiate le condizioni sociali, ci avvertono i ricercatori.
“É difficile, in un mondo che muta rapidamente in modi largamente imprevedibili, elaborare
progetti di lungo periodo; gli unici progetti che hanno prospettiva di durare sono quelli flessibili
che scontano la necessità di doversi adattare alle circostanze mutevoli che di volta in volta si presentano. Quello che agli occhi di molti adulti, cresciuti in orizzonti sociali e culturali più
consolidati, può sembrare un atteggiamento ripiegato sul «giorno dopo giorno, poi, si vedrà»,
palesa invece una capacità di «adattamento non rinunciatario» alle opportunità e ai casi deva vita in
condizioni di incertezza che molti giovani sembrano aver sviluppato in misura notevole” (Buzzi,
Cavalli, de Lillo 1997, 30).
Un altro lavoro significativo sulla dimensione temporale è stato condotto da Donati e Colozzi
(1997). Attraverso la tecnica del budget time hanno indagato su due dimensioni essenziali: quella
della scelta tra attività alternative e quella della durata. Globalmente emerge
Come la vita dei giorni feriali sia fortemente ipotecata dai tempi scuola/lavoro e da quelli di studio
a casa e come invece nei giorni festivi tenda a prodursi una significativa redistribuzione verso i
tempi trascorsi con gli amici e in attività ludiche (Donati, Colozzi 1997, 219).
Anch’essi hanno creato una tipologia di giovani rispetto alla dimensione temporale:
1. Gli strutturati istituzionali (giovani con un tempo vincolato): 36.7% del campione. Sono
giovani inseriti nel mondo del lavoro e di fascia d’età elevata. Sono giovani cui
materialmente manca il tempo per svolgere altre attività oltre il lavoro e quello dedicato al
partner. Costoro credono nei valori della vita e della religione, come attribuiscono
notevole importanza a valori come la correttezza. Questo gruppo
presenta una positiva correlazione tra strutturazione della vita quotidiana in termini di
selezioni temporali, e capacità di percepire positivamente il proprio futuro personale
(Donati, Colozzi 1997, 236-237) .
2. I programmati (giovani con il tempo della conformità sociale): 29.2%. Sono studenti, di
fascia d’età bassa, che dedicano molto tempo anche allo studio pomeridiano. Dedicano
pure abbastanza tempo al dialogo con i genitori e ad attività ludiche. Sono impegnati in
attività associative, in genere in ambito cattolico. Si distinguono per una duplice
dipendenza (dai genitori e dall’impegno scolastico).
A questa eteronoma strutturazione temporale corrisponde però, in ogni caso, una positiva
percezione del futuro personale (Donati, Colozzi 1997, 237).
3. Gli esploratori (i giovani con un tempo scelto con volontà autonoma): 20.7%. Sono
giovani impegnati nella scuola o lavoro, ma vi dedicano meno tempo rispetto al gruppo
precedente. Dedicano molto più tempo agli amici, al divertimento e all’attività associativa
e poco al dialogo familiare. I loro valori appaiono fondamentalmente esterni alla famiglia
e danno poca importanza alle religione organizzate.
Il vero tratto distintivo dell’ “esploratore” è il limitare i tempi obbligati per dare maggiore
spazio a quelli della comunicazione interpersonale, dell’impegno associativo e del
divertimento. A questa mappa temporale si associa una percezione della vita come
sopravvivenza, ma anche il desiderio di prefigurarsi un concreto futuro professionale
(Donati, Colozzi 1997, 238).
4. I destrutturati (giovani privi di tempi obbligati): 13,4%. Non dedicano tempo ad attività di
tipo scolastico o lavorativo, per cui la loro giornata è piena di altre attività come
comunicazione interpersonale, televisione, divertimento. Soprattutto tendono a trascorrere
molto tempo con gli amici, il partner, TV, ecc.
I giovani appartenenti a questo gruppo in gran parte si dichiarano agnostici o cattolici non
praticanti e politicamente si distribuiscono sulle due posizioni estreme della destra e della
sinistra. I «destrutturati» tendono a percepire la vita come semplice sopravvivenza,
prevalentemente sono sicuri che non formeranno una famiglia e si dichiarano scettici
circa l'effettiva possibilità di diventare protagonisti della società del futuro. Per questi
giovani il tempo non si presenta né come risorsa né come vincolo ma viene distribuito tra
più attività apparentemente senza un vero senso unitario e pur trascorrendo essi molto
tempo a dialogare in famiglia non presentano precisi orientamenti valoriali. In questo
ultimo gruppo la destrutturazione della vita quotidiana raggiunge il suo massimo livello
ed anche la capacità di prospettare positivamente il futuro personale appare
compromessa. 1 destrutturati percepiscono la vita come sopravvivenza e sono convinti
che non riusciranno a diventare protagonisti della società di domani (Donati, Colozzi
1997, 239).
In conclusione essi rilevano che:
un alto grado di strutturazione della giornata essenzialmente tra attività lavorative, di studio ed altri
impegni implica un maggior grado di progettualità. Dedicare molto tempo ad attività ludiche tende
a ridurre le capacità progettuali e tra chi dichiara di avere progetti, l'orientamento alla professione
si trova in forte correlazione positiva con il crescere delle ore dedicate a studio e lavoro al contrario
di quanto non accada per l'orientamento alla famiglia. I «tempi forti» della progettualítà sono
dunque quelli del lavoro, della scuola, dello studio a casa, dell'impegno associativo e della
religione. […] Riservare tempi cospicui alle attività ludiche, agli amici e alla televisione si associa
ad una debole capacità progettuale.
Questa indagine quindi ha evidenziato
una scissione tra coloro che organizzano la loro giornata secondo un alto livello di strutturazione e
coloro che invece tendono ad assecondare il fluire degli eventi e delle esperienze senza un preciso
disegno organizzativo. Strutturazione della vita quotidiana/ progettualità e destrutturazione/non
progettualità appaiono così come due modalità alternative di vivere la condizione giovanile. I
giovani in un mondo delle possibilità eccedenti, cercano criteri di selezione che corrispondono a
diversi modi di vivere e di rappresentare il tempo. Le possibili attività della giornata appaiono così,
fondamentalmente, selezionate secondo modalità differenti: secondo una modalità procedurale (di
un tempo vissuto come impegno in un gran numero di attività) o secondo una modalità di piena
contingenza (vivendo in un presente esteso fatto di scelte sempre reversibili) e coloro che
prediligono la prima tendono a mostrare una più solida capacità progettuale.
Molto netta appare anche la contrapposizione, sempre in termini di progettualità, tra coloro che
presentano una positiva propensione verso i valori della famiglia e della religione e coloro che
invece attribuiscono a questi valori una rilevanza inferiore. I primi presentano una maggiore
fiducia nel futuro e una maggior capacità progettuale rispetto ai secondi (Donati, Colozzi 1997,
243-244).
Tuttavia l’obiettivo di questa ricerca non era tanto studiare la temporalità ma la “generazionalità”,
cioè il sentirsi generati e sentirsi capaci di generare, in senso ampio. Questo concetto implica il
rapporto con la generazione dei padri e quella dei figli. I risultati di quest’analisi dicono che esiste
ancora un senso di generazione tra i giovani italiani maggiore di quello che si potesse sperare. Ma
non è assoluto. In particolare i giovani pensano di avere ricevuto molto dalle generazioni degli
adulti, ma non si ritengono in grado di dare altrettanto a chi verrà dopo di loro. Per cui agli autori
viene da concludere che “il senso della relazionalità non ha futuro” (Donati, Colozzi 1997, 273),
anche se poi attenuano il pessimismo dell’affermazione appellandosi al principio di resilienza. In
ogni caso appare che progettualità e generazionalità si correlano positivamente tra loro:
dai dati emerge una stretta correlazione tra aiuti della famiglia a diventare grande, ad aver fiducia
in se stessi, a programmare il futuro e sviluppo della capacità progettuale. Tra chi dichiara di non
aver ricevuto a questo proposito nessun aiuto dalla famiglia, il 62,7 % non ha indicato per il proprio
futuro alcun progetto. La percentuale scende al 39% per chi invece dichiara di aver ricevuto molto
aiuto dalla famiglia. Infine il grado di progettualità cresce anche al crescere della componente attiva
della relazione intergenerazionale, così chi attribuisce molta importanza al problema di cosa
trasmettere alle generazioni future presenta un più alto grado di progettualità rispetto a chi considera
questa componente poco o per niente importante (Donati, Colozzi 1997, 243).
1.9.3.1. La neutralità morale
A questo quadro, fornito dalla sempre maggior complessificazione della società, vanno ad
aggiungersi i cambiamenti avvenuti sul piano culturale: la crisi delle “grandi narrazioni”,
l’emergenza di un pensiero nichilista, il pluralismo ideologico che si sono tradotti, in pratica, in una
specie di “neutralità morale”. Viene così meno da parte della società la capacità di orientamento, di
offrire punti di riferimento sicuri: il che rende più difficile all’adolescente una soluzione efficace dei
suoi problemi. In un momento in cui ha estremamente bisogno di aiuto da parte della società, perché
in preda a nuove pulsioni e in allontanamento dalla famiglia, la latitanza “normativa” della società
provoca in lui disorientamento. È probabile che, in questo stato, assuma direzioni di sviluppo non
funzionali alla sua piena realizzazione, o comunque che la sua crescita segua “un’incerta traiettoria”
(Bobba, Nicoli 1987).
Da più parti infatti si parla di una sindrome di caduta di senso, fenomeno che sembra colpire molti giovani, con sintomi di perdita dell’autostima, sentimenti di inutilità, venir meno del
protagonismo, interiorizzazione dell’emarginazione come modello totalizzante di comportamento,
con esiti di autoemarginazione in subculture separate. Ci si trova probabilmente di nuovo davanti ad
una situazione anomica come quella indicata da Durkheim, allorché registrava il passaggio da una
società rurale e tradizionale ad una urbana e moderna.
E’ proprio la ricerca di Donati e Colozzi (1997) a mettere il dito su questa piaga.
I risultati della ricerca […] dicono che le odierne generazioni giovanili debbono crescere - come
generazione - in risposta a difficoltà peculiari, decisamente diverse da quelle delle altre generazioni
passate e compresenti, che assumono una valenza etica di mondo vitale diversa dal passato
(Donati, Colozzi 1997, 24-25).
La novità consiste nel dover “fare delle scelte etiche in una vita quotidiana che non ha più paletti
da nessuna parte” (Donati, Colozzi 1997, 25).
E ciò perché la società
viene percepita come sempre più anomica (priva di regole), a-morale (in-differente alle scelte
etiche), quando non immorale (cioè corrotta). Con un termine di Zigmunt Bauman 1993, trad. it.
1996], una società adiaforica, che riduce le scelte etiche a questioni tecniche, ossia è indifferente
al problema del bene e del male (Donati, Colozzi 1997, 25).
Pertanto questi giovani devono affrontare la
difficoltà di vivere in una società eticamente neutra, che, cioè, non fa scelte etiche, non le indica,
ma dice a ciascuno: la scelta d'azione è personale, tu devi fare la tua, dato che non c'è regola
sociale comune, e le opzioni non sono più confrontabili, anzi non fanno più differenza (Donati,
Colozzi 1997, 25).
Così si crea il paradosso: ognuno può seguire la propria regola, come se la regola potesse essere
un fatto soggettivo, quando invece è sorta per “regolare” i rapporti intersoggettivi.
Vivere in una società così fatta può essere esaltante, ma non è certo facile. Essa non aiuta a
prendere decisioni. Decide di non decidere, cioè decide di non avere norme morali in comune, ma
invia un messaggio paradossale: segui la regola che ti sei dato. Come se ciascuno potesse seguire la
sua regola privata. Una siffatta cultura può risultare comoda e può ridurre i conflitti, ma non serve
per crescere (Donati, Colozzi 1997, 25).
I giovani devono da soli, senza esperienza e senza indicazioni, decidere quale via seguire, cosa è
importante o no, cosa porta alla vita e cosa alla morte. Addirittura devono scegliere quando invece
la società non sceglie. Questa sarebbe, secondo gli autori, la causa vera della profonda sofferenza
giovanile.
Il giovane percepisce, con un senso più acuto di quanto non avvenga negli adulti e negli anziani,
che sta a lui/lei scegliere, e che dalla sua scelta - non da altri - dipende il fatto di vivere o di morire.
In questo sentimento della vitalità della decisione etica sta il fatto nuovo di essere o non essere
generazione (Donati, Colozzi 1997, 25).
In conclusione, il messaggio che si ricava dalla ricerca è questo:
crescere in una società eticamente neutra significa non avere punti di riferimento per le proprie
scelte, se non nel privato della famiglia e del proprio «io», finché reggono.
Crescere in una società che sceglie di essere eticamente indifferente rende le cose più difficili, non
certo più facili, per i giovani, e tremendamente più rischiose per essi, cosicché rimane tutta da
dimostrare la tesi oggi dominante secondo cui la vita dei giovani è tanto migliore quanto più ampie
sono le loro possibilità di scegliere fra questo e quello, laddove nessuna di tali scelte possa essere
intesa come avente un valore ultimo, non negoziabile. Potrebbe essere vero esattamente il
contrario. Come dimostra il fatto che il senso generazionale dei giovani, con l'annessa capacità di
costruire il futuro, aumenta laddove vengono fatte precise scelte etiche, che rinunciano a
qualcosa, in quanto selezionano certe possibilità a scapito di altre, mentre il senso della
generazionalità crolla laddove si sceglie di vivere secondo compromessi, negoziazioni e
opportunismi che conseguono al pensare le scelte come sempre reversibili (Donati, Colozzi
1997, 33-34).
In effetti, le cose sono facilitate lì dove ci sono dei punti di riferimento, che aiutano ed
indirizzano verso scelte con un preciso codice etico. I giovani mostrano un miglior senso di
“generazionalità”, sentono maggior fiducia nel futuro e dimostrano una certa progettualità
quando aderiscono ad un credo religioso e/o hanno ricevono hanno ricevuto una trasmissione
sapiente da parte della famiglia.
Se mancano tali sostegni, il peso e l’aleatorietà delle scelte lasciate al singolo diventa
talmente opprimente che il giovane non ne regge il peso e la sua capacità generazionale (e
quindi anche la sua identità e capacità progettuale) si dissolve.
Alcuni indicatori […] dicono che gruppi consistenti di giovani hanno già attraversato il confine
oltre il quale vi è la perdita radicale di senso generazionale, e si stanno dissolvendo come soggetti
del loro futuro (Donati, Colozzi 1997, 31).
1.9.4. Criminalità e delinquenza
Nel giro di pochi anni la criminalità minorile ha cambiato volto: da un lato il numero di ragazzi
denunciati penalmente è più che raddoppiato; dall’altro, sotto il profilo qualitativo, il fenomeno si è
differenziato anche a seconda delle aree geografiche di diffusione: all’aumento di reclute nel
Meridione tra i “ragazzi della mafia” (minorenni in attività della criminalità organizzata), si
contrappone nelle regioni centro-settentrionali la consistente e talora massiccia presenza di ragazzi
stranieri devianti (Occhiogrosso, 1993).
Negli ultimi tempi alla devianza tradizionale si va aggiungendo quella “nuova” già rilevata in
alcune regioni del Centro-Nord. Delitti come quello di un barbone ucciso senza motivo (a Roma), o
di una quindicenne bruciata dal cugino che la voleva sposare, con la complicità di un amico di
costui e dal fratello di lei, sono tanto aberranti, quanto incomprensibili. Esse risultano anche uscite
dallo schema tradizionale della delinquenza minorile e di quella dei giovani adulti, che finora si è
concentrata tra i ceti più emarginati della popolazione ed esigono un’attenta riflessione, non
potendosi semplicisticamente ascrivere alla follia. Probabilmente la carenza grave di servizi e
sostegni psicologici, la latitanza di centri d’accoglienza e socializzazione, l’appiattimento delle
aspirazioni individuali su mete di gratificazione materiale ed immediata (soldi, macchine, telefonini
e oggetti di valore in generale) hanno esasperato quel “malessere del benessere”, che si sta
riscontrando in varie parti d’Italia e che costituisce un dato nuovo nel panorama della criminalità
minorile italiana
La realtà è che accanto alle vecchie forme di delinquenza minorile (reati contro il patrimonio
soprattutto) si sono venute aggiungendo nuove modalità di devianza, quali la prostituzione
(soprattutto maschile), la violenza sessuale (nelle versioni etero e omosessuale), la criminalità
organizzata (con periodiche ondate di reclutamento di manovalanza criminale tra i giovani da parte
del crimine «eccellente»: mafia, camorra, ’ndrangheta).
Talune di queste forme devianti sono associate alla tossicodipendenza, che diventa pertanto una
copertura di altri comportamenti non meno inquietanti.
La forte presenza di minori italiani nei CPA e IPM nelle regioni del sud pone il problema
dell’attrazione della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta su alcuni giovani marginali o devianti
occasionali.
La Commissione antimafia - nella sua relazione sulla delinquenza minorile nelle zone ad alta
densità criminosa (dell’8 marzo 1991) - segnalava «la cooptazione, da parte di nuclei criminali, di
minori anche di 12-13 anni per poi destinarli alla consumazione di reati da strada come il
contrabbando, il lotto clandestino, lo spaccio di droga, furti e rapine di varia entità; sono stati portati
esempi di minori usati come sicari per un corrispettivo di 300.000 lire o legati a gruppi criminali per
restituzioni mensili di 500.000 lire». Anche se come rilevava la Commissione - «la camorra non
arruola, ancora, esplicitamente i bambini di Napoli», è però vero che «il terreno di cultura su cui
raccoglie i frutti è vasto e rischia pericolosamente di estendersi», perché a Napoli «sono migliaia i
bambini disorientati, indifesi, insicuri, che vivono allo sbando e senza attenzione familiare, senza
guida, senza riferimenti istituzionali, spersi in una eterna provvisorietà» (Moro 1992, 65).
1.9.4.1. Violenza simbolica o espressiva
Accanto alla violenza criminale, vanno crescendo in Italia forme di violenza, cosiddetta
“espressiva” o “simbolica”: una violenza, cioè, che non ha degli obiettivi precisi (procurarsi dei
beni altrimenti non accessibili, imporre il proprio potere in un territorio, rispondere alle
provocazioni di altri gruppi o delle forze dell’ordine,e cc.). Questa violenza ha come scopo
principale quella di manifestare un disagio, di esprimere, con forme altamente spettacolari, il
proprio malessere.
Si sta modificando l’identikit del minorenne deviante (P. Guidicini; G. Pieretti, 1994). Accanto al
modello tradizionale del ragazzo di periferia, che sta in un quartiere invivibile, che non va a scuola
ed appartiene ad una famiglia incapace di essere una valida guida, ne sta emergendo uno diverso,
che si può definire quella derivante dal “malessere del benessere”. Sempre di più si assiste in tutta
Italia, alla presenza di una devianza proveniente da ragazzi appartenenti a famiglie benestanti e che
si manifesta con comportamenti violenti e immotivati, che vanno dall’omicidio del barbone, al
lancio di pietre contro autovetture, prostitute, al danneggiamento di cabine telefoniche o di
cassonetti o di autovetture per la strada; ma che assumono talora anche comportamenti
autolesionistici (suicidi, tentato suicidio, tossicodipendenza ecc.).
Vari sono stati i tentativi di interpretazione di questo fenomeno. Dal vederli come un’invocazione
di attenzione su di sè, al collegarli alla frantumazione sociale e culturale del nostro tempo, alla
perdita di un centro e di identità della nostra società, al tentativo di riduzione della complessità.
Sembra che il comune denominatore sia una certa difficoltà a riconoscersi ed integrarsi in questa
società. Perciò si esprimerebbero con rabbia distruttrice contro tutto ciò che simboleggia una civiltà
da cui si sentono attratti e respinti insieme. In effetti queste manifestazioni diventano più evidenti
nelle grandi concentrazioni urbane e si esprimono contro i simboli del centro (metropolitana,
vetrine, automobili).
Sovente le radici del malessere stannno anche nelle situazioni familiari, ed in particolare,
nell’atteggiamento di genitori troppo impegnati nel lavoro alla ricerca sempre più intensa del
benessere, ma poco attenti ai figli, ad un sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità.
L’esplodere di tali comportamenti devianti, che costituiscono per lo più la reazione dei figli a tale
contesto, coglie spesso i genitori impreparati.
Questi fenomeni sono continuati, pur in forma più ridotta, anche negli anni ’90 ed hanno attecchito
soprattutto tra alcune frange giovanili, caratterizzando il panorama delle metropoli italiane e
internazionali, li si incontra sulle piazze, nei concerti, in discoteca, nei cortei e nelle manifestazioni.
Tra questi giovani si celebrano alcuni dei riti e si alimentano alcuni tra i miti più tipici della
condizione giovanile; è tra di loro che si sviluppano certi linguaggi che, sebbene non condivisi dalla
generalità dei giovani, ne esprimono almeno in parte il bisogno di diversificazione, di innovazione e
di contrapposizione nei riguardi del mondo adulto.
Vi è però in questi gruppi una forte spinta di tipo narcisistico a cui non si accompagna un adeguato
contenuto ideologico. Questo forse anche uno dei motivi per cui queste aggregazioni raramente
assumono il carattere della banda; manca loro sia la strutturazione interna rigida, la
programmazione di obiettivi concreti e utilitari, la violenza o la determinazione che permette di
affermarsi contro altri gruppi o contro le forze dell’ordine.
Sono gruppi composti prevalentemente da adolescenti maturi (16-18 anni) ed hanno generalmente
una vita alquanto labile.
Anche se sono manifestazioni piuttosto elitarie, esse rappresentano una modalità tipica di reazione
dei giovani al disagio; la contestazione del sistema è alquanto velleitaria, limitandosi ad affermare
la propria diversità contro l’altrui «regolarità», ma senza intenzione di cambiare l’esistente; di
conseguenza il bisogno di darsi un’identità si manifesta in negativo, più come attesa che gli altri
definiscono la propria posizione che come attiva ricerca di valori e di atteggiamenti; le espressioni
di diversità risentono molto dello stile veicolato dai mass media, che divulgano il vangelo del look
spettacolare.
Questi fenomeni sono particolarmente accentuati in soggetti che vivono sulla propria pelle
l’emarginazione e la deprivazione culturale e materiale. Essi sentono il bisogno di sottolineare la
loro appartenenza ad un gruppo (e la differenziazione dalla “gente”) attraverso l’abbigliamento.
Attraverso questa modalità comunicativa evidenziano due esigenze fondamentali. La prima è il
bisogno d’appartenenza, manifestato dall’uniformità dell’abbigliamento. La comunicazione
dev’essere visiva e immediata; più diminuiscono gli interessi culturali, più aumenta l’importanza
della comunicazione non verbale. L’altra consiste nell’esagerazione nella scelta del look e degli
indumenti. Tutto deve essere eccessivo. Se la moda dice che i capelli devono essere corti, loro li
rasano a zero, se il jeans deve essere stretto diventerà una vera e propria fascia elastica, aspettando
solo che qualcuno gli ordini di passare al “largo” per correre a comprare pantaloni di tre taglie più
grandi40. La funzionalità diventa un aspetto del tutto secondario. In questi anni, per esempio,
40 Ciò corrisponde a quanto rilevato da una ricerca Eurisko (1989) sui modelli e comportamenti di consumo dei teen-agers. In tale
ricerca risultava un gruppo di “antenne” socialmente e culturalmente avvantaggiato, sempre all’avanguardia anche per quel che
comprano scarpe (che dovrebbero essere da ginnastica) così alte che non riuscirebbero a giocarci
neppure a carte, figuriamoci a calcio.
La mancanza di altri mezzi di comunicazione spinge i ragazzi del “gruppo” ad usare poche frasi
fortemente caratterizzate. Emerge da un lato la voglia di mettersi in mostra e dall’altro la violenza
che assorbono dai mezzi di comunicazione sociale (cinema, canzoni, TV e pubblicità). Questo
diventa l’unico medium comunicativo per chi non ha la cultura necessaria per rielaborare i
messaggi. Viene fuori così un modo di atteggiarsi e di parlare che da un lato cerca la battuta di
spirito e dall’altro si muove sempre su argomenti violenti, come la minaccia fisica, per cui il
“gruppo” ha un vero e proprio culto. E’ un fenomeno che affonda, sovente, le sue radici nelle classi
popolari, nelle borgate delle grandi città, di cui questi giovani sentono vivamente la marginalità
presente o imminente; di qui il bisogno fondamentale di affermare la propria identità minacciata,
sottolineandola nei modi più spettacolari.
In definitiva, anche se non si può parlare di puro folclore giovanile, il fenomeno dei gruppi
trasgressivi rivela più la fragilità di certe frange dell’attuale condizione giovanile che non la
presenza di germi contro-culturali capaci di imprimere una nuova direzione al processo di
mutamento sociale; i gruppi trasgressivi infatti si collocano a buon diritto entro l’orizzonte di una
società che fa dello spettacolo uno dei canoni essenziali della sua fondamentale scelta consumista,
radicalmente negata alle rivoluzioni ideologiche.
1.9.5. Violenza giovanile
Alle medesime conclusione arriva anche una ricerca condotta quasi dieci anni dopo da parte di L.
Berzano (1997), per conto della città di Torino. D’altra parte il dato risulta omogeneo con altre
ricerche e osservazioni che siamo andando cumulando nei paragrafi precedenti, riferite sia alle baby
gang, sia ai “gruppi spettacolari”, sia a quelli di tifosi. Solo i gruppi no-global vanno in
controtendenza.
Per questo sua caratteristica fondamentalmente espressiva e simbolica, la violenza giovanile ha
bisogno di accentuare l’elemento spettacolare.
La violenza ha bisogno di un «palco», di una «cassa di risonanza», di un «pubblico»; i veri
destinatari non sono sempre coloro che materialmente subiscono la violenza fisica, ma la più vasta
«audience» sociale che non sembra degnare di attenzione i giovani e i loro problemi (Labos 1988,
3001).
Da questo punto di vista questo tipo di violenza non viene presa molto in considerazione, sia
dalle forze politiche che dall’opinione pubblica, perché s’accorgono che “essa spesso si esaurisce
quando abbia raggiunto il suo scopo dimostrativo” (Labos 1988, 301).
Allo stesso tempo la spettacolarità di certe manifestazioni violente instaura processi circolari di
apprensione sociale, di sopravvalutazione della violenza stessa, di scoperta emotività dell'opinione
pubblica di fronte alle ipotesi di conflittualità sociale presumibilmente ingovernabile.
Infine va sottolineato il fatto che la spettacolarità ha anche una funzione di auto-securizzazione
nei riguardi degli attori stessi della violenza:
quanto più la violenza è dimostrativa tanto più l'attore si convince del proprio potere di
comunicazione, di persuasione e di attivo condizionamento dell'ambiente, l'impressione di un facile
superamento dell'angoscia da impotenza (Labos 1988, 301).
I bersagli di tale violenza sono, in ordine: le persone, la cosa pubblica, le istituzioni, le forze
dell’ordine, i cittadini, la proprietà, ecc. E’ più riprovevole se fatta contro le persone, soprattutto se
inermi, anche se non mancano giovani che approfittano di queste persone. Invece appare più
giustificabile, ai loro occhi, se fatta contro le istituzioni, contro i gruppi “altri” o “ostili”, contro
riguardo i generi di consumo, mentre i più deprivati culturalmente e socialmente si dimostravano molto più succubi delle mode (che
le antenne avevano lanciato), riproduttori passivi e privi di gusto di stili elaborati e abbandonati da altri.
persone singole percepite come disturbanti il “codice” distintivo della comunicazione intergruppo.
La violenza negli stadi è considerata la meno grave e meno pericolosa. C’è comunque una certa
tendenza a sminuire la gravità dell’azione violenta da parte di chi ne è attore.
Sono anche interessanti le attenuanti addotte per legittimare l’uso della violenza.
Un'attenuante comunemente citata è la difesa della propria incolumità fisica o di quella delle
persone più vicine (familiari, amici); segue con molto rilievo, in più di un'inchiesta, il motivo della
difesa del gruppo, della sua immagine, della sua identità; infine come attenuante importante
emerge, nel giudizio che danno sportivi, ragazzi a rischio e giovani dei gruppi d'interazione la
provocazione altrui (spesso esagerata intenzionalmente per creare un alibi al proprio
comportamento). Lo stato di eccitazione (variamente motivato) è addotto come attenuante dai giovani a rischio, ma è poco valutato dagli altri gruppi (Labos 1988, 314).
Questo modo di giustificare la violenza è legato soprattutto
all'attribuzione di una funzione espressiva/dimostrativa, che accumula valenze reattive e difensive
nei riguardi di situazioni difficili e contraddittorie, se non proprio nei confronti di una situazione
obiettivamente ostile e minacciosa. Questo modo di sottovalutare la propria violenza (agita o
prevista) sembra confortare l'ipotesi secondo cui la violenza giovanile non è oggi principalmente
connessa alla frustrazione di bisogni molto specifici o alla presenza di situazioni particolarmente
punitive nei riguardi dei giovani; si tratta invece di una possibile reazione inadeguata ad una
condizione generalizzata di disagio complessivo e indistinto che è soprattutto percepito come
incapacità di governare la complessità e la contraddizione della vita quotidiana (Labos 1988, 314).
Rispetto agli attori della violenza, scrivevamo poco fa che questa appare come una violenza
“normale” quindi difficile da identificare in certi target sociologici, come quando si parlava della
devianza classica. Essa appare sempre più una violenza frutto del disadattamento a vivere in una
società che non lascia spazio ai giovani e non si cura le sue esigenze. Infatti
il giovane presumibilmente violento è un maschio, caratterizzato da maggiore irritabilità e
ruminazione (introversione?), incline ad attribuire a cause esterne il senso dei propri accadimenti
personali, preoccupato della propria immagine-identità e globalmente più coinvolto nel disagio
socioeconomico-culturale (bassa scolarità, basso reddito familiare, alta esposizione alla violenza
subita, bassa estrazione sociale, ecc.) (Labos 1988, 304).
Da un’altra parte si aggiunge che questi giovani sono:
poco scolarizzati (in gran parte sono drop-outs) vengono da famiglie sradicate (ex-emigranti, di
origine contadina, dal Sud) e in genere anche incapaci di offrire una comunicazione educativa
soddisfacente. […] Hanno a disposizione un eccesso di tempo da spendere in forme estese (e non
intense) di comunicazione; sono infatti ragazzi che in generale né studiano né lavorano (Labos
1988, 305).
Pertanto, se è il “disagio della civiltà” a costituire il dato comune e forse anche l’eziologia della
violenza giovanile, almeno come comportamento, certamente il disagio socio-economico costituisce
un elemento aggravante e più frequente nelle persone con tratti violenti. La ricerca condotta a
Torino sui “gruppi a rischio”, curata da F. Garelli, ha evidenziato nel giovane con i tratti del
“deviante” il fatto
che respira la cultura della violenza nella vita quotidiana; l'indagine sembra sottolineare soprattutto
l'avvenuta interiorizzazione di certi tratti culturali che allo stesso tempo sono connotazioni
permanenti della personalità del giovane a rischio: un atteggiamento generalizzato di diffidenza e
di difesa contro tutto e tutti, una facile disponibilità alla reazione e alla ritorsione, la tendenza a
caricare ogni comportamento con il bisogno dell'autoaffermazione ad ogni costo, come rivalsa
contro la vita precaria (Labos 1988, 305).
Questo tipo di giovane appare particolarmente carente di cure parentali e con scarsa
socializzazione, colpito inoltre da «deprivazione relativa». Il fatto della carenza di educazione e
cura familiare (e contemporanea socializzazione deviante di gruppo) è messo in risalto soprattutto
dai testimoni privilegiati.
Mentre invece la ricerca di Berzano (1997) dà molto rilievo alla deprivazione relativa e alla
situazione di marginalità, che costiturebbe il contesto privilegiato dell’esplosione violenta.
Marginalità che vuol dire non saper cogliere le opportunità che il sistema offre, rimanerne esclusi
per incapacità e disorganizzazione sia mentale che sociale (il disordine sociale si riproduce a livello
individuale e genera anomia). Marginalità è anche venire esclusi oggettivamente dal lavoro, da ciò
che esso significa a livello personale e sociale. Di qui la rabbia, il risentimento, il ricorso alla forza
e alla violenza, come segno di ribellione ad una società che emargina.
Nella società in cui nulla più canalizza e organizza i sentimenti violenti di ingiustizia e di
esclusione, la rabbia diventa un principio d’azione ed è naturale e legittimo rompere, distruggere
gli altri e sé stessi. Allorché il sentimento di rabbia è diffuso, esso è una sorta di predisposizione
che può esplodere per i motivi più diversi, contro le vittime più varie e nelle forme più impensate:
vandalismi, rodei giviolenti con moto o auto, saccheggi, violenze espressive (Berzano 1997, 24)
Pertanto, se
la violenza giovanile prende spesso i connotati dell'impotenza e dell'inadeguatezza di fronte alle
crescenti esigenze e condizioni che la società elabora per consentire l'inserimento (Labos 1988,
300),
ciò vale soprattutto per coloro che sono meno attrezzati di strumenti per la comprensione e il
governo dei rapporti con l'ambiente; e questo rinvia a sua volta alle carenze dei processi di
socializzazione ed ancora più specificatamente, […] alle carenze dei processi e delle relazioni
educative (cioè degli strumenti che avviano alle opzioni personali e non solo si accontentano
dell'adattamento) (Labos 1988, 314).
Ciò vale soprattutto per un mondo in cui sono venute meno le tradizioni, che consentivano di
regolare i conflitti e di creare sistemi d’identificazione, che non ha più un unico principio
ordinatore. Di fronte a questa situazione, complessa e anomica, i giovani marginali sperimentano un
senso di
frustrazione radicale conseguente alla loro relativa integrazione nell’universo culturale della classi
medie e alla totale sfiducia di mobilità sociale ascendente, nemmeno attraverso mezzi illegittimi
(Berzano 1997, 25).
Di conseguenze esplode la rabbia, testimonianza di una violenza diffusa
derivante dalla disorganizzazione, dalla frustrazione e dal risentimento, [più] che dalla
valorizzazione di una specifica subcultura popolare (Berzano 1997, 26).
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