Welfare innovativo e comunitario: è la sfida del centrosinistra per le elezioni regionali di ACHILLE ARDIGÒ Alla vigilia delle prossime elezioni regionali avverto l’esigenza di sollecitare i governanti delle regioni di centrosinistra e i maggiori partiti dell’Ulivo, a costruire programmi di welfare statale e comunitario innovativi, in risposta alle grosse sfide aperte dalla crisi dello stato sociale. La crisi del welfare state è molto pesante anche nella nostra regione. Il governo sta distruggendo il precedente stato sociale; lo fa coi tagli assai brutali della Finanziaria, con lo scaricare sui comuni e sugli altri enti locali oneri fiscali e contributivi a danno delle popolazioni e con la controriforma della Costituzione italiana. Vi sono inoltre trasformazioni sia demografiche sia di vita di relazione nelle famiglie e nel mondo del lavoro, che stanno logorando le compatibilità strutturali e culturali del recente passato. Tale è la gravità del degrado che in numerose delle amministrazioni regionali di centrosinistra si consolidano meritorie controtendenze a salvare i modelli delle politiche sociali dell’ultimo governo D’Alema. E ciò nella speranza di forti esiti elettorali regionali che consentano di tornare a difendere quell’universalismo pur selettivo di welfare state, che è stato scompaginato sia da Berlusconi sia da Sirchia, subito dopo la vittoria del Polo delle libertà. Il programma del centrosinistra per le prossime elezioni regionali non può, tuttavia, essere sostanzialmente ricondotto a quel modello di universalismo selettivo che ha trovato il suo vertice nella grande riforma sanitaria del ministro Bindi, con il decreto legislativo 229/1999. Purtroppo, la destra mondiale continuerà a inferire nuovi colpi allo stato sociale keynesiano. Non a caso il vittorioso Bush, appena rieletto, ha iniziato a liquidare il welfare state sulle pensioni creato da Roosevelt, per sostituirlo con una miriade di portafogli individuali che i privati avranno da investire in Borsa. E l’allievo italiano del modello statunitense, sebbene in difficoltà, non rinuncerà a rischiare altri guasti in tale settore. La preparazione del programma di stato sociale per le prossime elezioni regionali ha bisogno, dunque, di impegnativi adeguamenti e innovazioni, a confronto con i drammatici problemi odierni non solo di finanza pubblica, ma anche di pesanti svolte strutturali e culturali, per mutazioni demografiche e di stili di vita. Consideriamo solo l’impatto pesante sullo stato sociale delle tendenze demografiche a partire dall’accelerato invecchiamento e del ridursi delle capacità economiche ed assistenziali di molte famiglie. A fine 2003, la popolazione ultrasettantacinquenne in Emilia Romagna aveva raggiunto le 451.235 unità, per più di due terzi donne. Il comune di Bologna al 2000 aveva registrati più di 50 mila residenti oltre i 74 anni; la dimensione media per ogni nucleo familiare era inoltre scesa, sempre nel comune di Bologna, a 2 componenti (1,74 nel centro storico). Infine, i nuclei familiari di un solo componente, sempre nel comune capoluogo, erano quasi 77 mila unità di cui oltre 30 mila di anziani. È quanto mai urgente, anche solo per dare speranza, che i maggiori partiti del centrosinistra e gli operatori di vertice regionali, si impegnino a progettare forti e severe innovazioni, a sfidare la durezza dei problemi economici e sociali. Va detto che proprio per il crescere intenso del bisogno di assistenze da parte di famiglie con anziani disabili a domicilio si è verificato, negli ultimi anni, uno svuotamento del ruolo pubblico di assistenza domiciliare a disabili. Anche in regioni avanzate come l’Emilia Romagna, non solo per i pesanti tagli della spesa sociale da parte del governo nazionale, si è fortemente ingrossata la spinta alla privatizzazione compiuta non solo da fondazioni e cooperative ma anche da tante famiglie 1 abbisognevoli di assistere a casa loro cari disabili. Sempre più famiglie con tale bisogno di avere chi assista in casa, per tanta parte della giornata, il proprio disabile specie vecchio, hanno deciso di pagarsi in proprio assistenti o badanti spesso extracomunitarie, e di abbandonare in parte i ricorsi alle prestazioni assistenziali delle strutture pubbliche, pure per complessità di gestione e ore di assistenza domiciliare limitate. Un dato non recente di fonte sindacale, in provincia di Bologna ci dice che con la legge Bossi-Fini sono state regolarizzate 13.600 persone di cui 6.500 sono state le cosiddette colf e badanti . E la domanda di badanti sta in sensibile crescita, anche nei compensi. Per motivi di convenienza non solo economica, le famiglie che assumono badanti tendono a ridurre i ricorsi alle provvidenze pubbliche residenziali della regione quando in parte da retribuire. Tale crisi del ruolo pubblico di assistenza domiciliare ai disabili è verificata anche dal fatto che, in Emilia Romagna, nessuna autorità regionale e locale sa ancora quante siano, e quali, le badanti della regione. Eppure la regione ha varato alcune leggi eccellenti in materia, tra cui la legge regionale 12 marzo 2003 numero 2, e da ultimo anche stanziamenti cospicui. Con una delibera regionale in data 9 novembre 2004 la giunta regionale dell’Emilia Romagna ha avvertito la priorità di maggiori stanziamenti assistenziali alle famiglie, agli anziani, ai minori e agli immigrati, per il complessivo importo di 86,5 milioni di euro. È comunque legittimo chiedersi quanta parte della nutrita prassi sociosanitaria delle regioni di centrosinistra, sulle orme delle innovazioni legislative in materia sia andata oltre la grande riforma sanitaria del ministro Bindi, espressa col decreto legislativo 229/1999, insieme con forme di universalismo selettivo di welfare in altri ministeri, proprie dell’ultimo governo di centrosinistra. L’esigenza di un maggiore impegno comparativo e innovativo per il nuovo programma regionale di centrosinistra mi spinge, peraltro ad avanzare due riflessioni. La prima riflessione è che la riforma Bindi è stata il modello migliore di welfare state sanitario dal dopoguerra e tuttavia essa è dopo quasi un quinquennio, da superare. La gestione di quel welfare state dell’ultimo governo del centrosinistra si appoggiava, inoltre, a condizioni politico-sociali del paese ormai tramontate: un neocapitalismo industriale con ancora forti masse operaie e di lavoro dipendente con ancora medie o medio-grandi fabbriche, donde il grande potere ai sindacati e ai partiti di centrosinistra a sostenere un interventismo statale. Il potere dello stato sociale era visto con priorità da dare al welfare state keynesiano, per poter sostenere le aspirazioni di coloro che «non potevano raggiungere attraverso il mercato un livello di vita stabile e prospero». Situazioni non più ripresentabili oggi, stante la prolungata stasi della produttività industriale e i crescenti deficit del bilancio nazionale. Anche la precarizzazione di molti posti di lavoro dipendente, sebbene di qualità, hanno indebolito i sindacati. La seconda e più complessa riflessione riguarda una prospettiva più vasta del superamento del welfare state dell’ultimo governo D'Alema. Per prepararci ad uscire dalla disordinata e limitante politica sanitaria del centrodestra, occorre costruire una società dei servizi oltre la società industriale. E l’esperienza delle sperimentazioni di un decennio del Cup2000 attesta la praticabilità di tale cambio di modello di società sempre più per spinte dal vasto mondo degli utenti di servizi pubblici apprezzati anche dalle strutture ospedaliere anche più eccellenti. Società dei servizi che non dovrà significare solo la prevalenza del terziario, ma la ripresa di investimenti anche just in time rispetto ad una qualificata domanda di servizi sociali e con forte modernizzazione nei flussi di Ict, verso un modello solidale insieme decentrato e di strategia unitaria nazionale nel contesto europeo. (dal quotidiano “EUROPA” 23 novembre 2004) 2