IL QUADRO TEORICO: PRECISAZIONE DEI CONCETTI DI BISOGNO, DISAGIO, RISCHIO 1. Verso una precisazione del concetto di bisogno “II concetto di bisogno occupa un posto centrale in molte scienze sociali e in molti pensatori” (Gasparini, 1987, 262). Tale concetto appare particolarmente significativo in un periodo di rapidi mutamenti, in cui sembrano essere entrati in crisi gli stessi criteri di analisi della realtà umana e giovanile, in particolare. Il concetto di bisogno, trovandosi all’incrocio di varie discipline che si occupano dell’uomo (sociologiche, psicologiche, antropologiche, filosofiche ed economiche) 1, può costituire un punto di partenza proficuo per l’oggetto della nostra indagine. Tale approccio consente di mettere al centro il soggetto (ragazzo) e far convergere attorno a lui varie discipline per coglierne nuove tendenze e nuovi bisogni. D’altra parte per analizzare i bisogni è necessario precisare preliminarmente che cosa s’intenda con tale termine. 1.1. La difficoltà di definire il bisogno Il bisogno sembra un concetto molto intuitivo ed immediato, anche per l’uso quotidiano che se ne fa. Tuttavia è difficile determinarne la natura e la specificità a livello teorico. Non aiuta certo alla sua definizione la molteplicità degli approcci e delle interpretazioni. Per alcuni esso ha origine nella natura umana, si manifesta come una pulsione e costituisce il punto di partenza obbligato per qualsiasi riflessione sull’uomo: una forza originaria dell’organismo capace di spiegare tutto il comportamento umano, senza soluzione di continuità tra aspetti materiali ed immateriali, individuali e sociali, economici, culturali e politici2. Per altri invece il bisogno non esiste in natura: è solo un costrutto culturale, elaborato dalle classi dominanti per imporre la propria logica di dominio sugli altri (popoli o individui)3. Tra queste posizioni estreme si situa tutta la gamma dei vari approcci che riconoscono al concetto di bisogno la capacità o meno di dire qualcosa sull’uomo. Di fatto tale concetto è spesso impiegato nelle scienze sociali e dell’uomo, accettandolo per il suo significato intuitivo, senza porsi problemi di definizione teorica. 1 “I bisogni umani sono stati sempre oggetto costante di ricerca da parte delle diverse discipline. […] La filosofia è stata la prima a cercare di chiarire il concetto di bisogni, privilegiando come origine di essi ora la natura, ora la cultura. Gli economisti hanno cercato di concepirli come il motivo principale della crescita della società del benessere. Altre tendenze economiche hanno analizzato i bisogni come manipolati dalla società finalizzata al progresso tecnologico in funzione del profitto, a scapito dei reali interessi dell'uomo. La psicologia, a sua volta, ne ha cercato l'origine ora nella natura istintuale dell'uomo, ora in quella sociale, attribuendo la ricerca della sua realizzazione come persona umana alla natura umana aperta. Dalla psicopedagogia emergono anche i bisogni formativi propri del periodo evolutivo adolescenziale. I ricercatori e i pianificatori sociali, a loro volta, si sono serviti dei contributi multidisciplinari per la valutazione della condizione di vita delle popolazioni, puntando sui bisogni sia sul polo del disagio, come «mancanza» di risorse, che sul polo della qualità della vita, come «tensione» verso uno standard accettabile di vita” (Caliman, 1997, 61-62). 2 E’ tipico dell’approccio funzionalista la tendenza a postulare la continuità tra bisogno come espressione dell’organismo e cultura come risposta al bisogno. In particolare Malinowski “si riferisce a un «organismo umano» o «societario» caratterizzato da una complessità di variabili che vanno dal livello biologico a quello psicologico a quello sociale a quello culturale. Egli parte da due assiomi: (1) che ogni cultura deve soddisfare il sistema biologico di bisogni; (2) che la manifestazione culturale è una «intensificazione strumentale dell'anatomia umana e si riferisce direttamente o indirettamente al soddisfacimento di un bisogno del corpo» (Malinowski 1971, 77). Le istituzioni sociali rappresentano le risposte culturali indirizzate alla soddisfazione dei bisogni a livello sociale” (Caliman, 1997, 87-88). 3 Per esempio, Braudillard vede i bisogni non tanto «come forza innata, infusa, appetenza spontanea, virtualità antropologica, ma come funzione indotta negli individui dalla logica interna del sistema, più esattamente, non come forza consumativa "liberata" dalla società dell'abbondanza, ma piuttosto come forza produttiva richiesta per il funzionamento del sistema stesso, per il suo processo di riproduzione e di sopravvivenza» (cit. da Gasparini, 1987, 268). Risulta invero difficile accertare l’esistenza di questa energia a livello originario 4, per cui, soprattutto in campo sociologico, si tende ad identificare il bisogno con l’oggetto verso cui si dirige. Se è vero che il bisogno non è rintracciabile allo stato puro, ma solo nelle sue oggettivazioni storiche5, è opportuno non confonderlo con queste. Esso comprende sia uno “stato di bisogno” (la domanda), sia un “oggetto del bisogno” (la risposta), storicamente e culturalmente determinato 6. E’ più facile che nelle indagini ci si rivolga all’oggetto del bisogno più che allo stato, ma ci dev’essere la consapevolezza della duplice natura del bisogno7. Tenendo conto di tutte queste osservazioni, ci sembra che, in via preliminare, la definizione più appropriata di bisogno, per ora, sia quella data da Gasparini, ritenuta ancor oggi una delle definizioni più indovinate (cfr. Piccoli, 2001, 9): “il bisogno risulta definito come tensione di un organismo o di un individuo o di un gruppo, orientato a individuare una concreta soluzione (oggetto, modello culturale, ecc.) che ricostituisca un equilibrio compromesso da una carenza” (Gasparini, 1987, 268). Tale definizione, raccogliendo i contributi di vari studiosi, ha il vantaggio di concentrarsi sulla “tensione” tra qualcosa che manca (bisogno-stato) e qualcosa che può soddisfare il bisogno (bisogno-oggetto). Per completarla l’autore propone più analiticamente i vari elementi che contribuiscono a identificare il bisogno: “a) i valori, gli ideali, gli stimoli da realizzare e da soddisfare; b) la tensione dell'individuo e/o del gruppo alle «cose» che realizzano l'equilibrio implicato nei valori e negli ideali sociali del gruppo; c) le cose e cioè gli oggetti verso cui tende l'individuo o il gruppo; d) il riprodursi costante di questa ricerca di un equilibrio, ed infine e) la relatività di questa tensione per le categorie” (Gasparini, 1987, 267). Più semplicemente si può anche affermare che “l'esistenza di un bisogno, presuppone: 1) il verificarsi di una sensazione dolorosa e la tendenza (che può divenire desiderio) verso una sensazione piacevole; 2) la conoscenza (più o meno determinata) di un mezzo capace di prevenire, decrescere, eliminare la prima, oppure di provocare, conservare o accrescere la seconda; 3) la possibilità di procurarsi tale mezzo affrontando un sacrificio” (Fossati, 1957, 702-703). Per indagare sulle caratteristiche del bisogno, a livello di “stato”, la sociologia si avvale del contributo di altre discipline, soprattutto della psicologia, della filosofia o dell’economia. Noi ci avvarremo soprattutto della psicologia per la sua maggior attinenza all’oggetto della nostra indagine: gli adolescenti. 1.2. I bisogni umani fondamentali Molteplici sono i bisogni umani, praticamente impossibile identificarli tutti. Per superare l’eterogeneità e molteplicità dei bisogni, vari autori, per ragioni di studio, hanno tentato di identificare i bisogni umani fondamentali e di elaborarne delle tipologie che aiutino nella classificazione e nello studio. 4 S.E. Asch afferma che «nessun bisogno fa riferimento o contiene una rappresentazione degli oggetti che lo possono soddisfare... Quando tale relazione (tra organismo e oggetto) è stata sperimentata ed ha modificato l'organismo lasciandovi una sua traccia, noi possiamo osservare il passaggio da una condizione di bisogno ad uno stato di motivazione» (Asch, cit. da Gasparini 1987, 263). 5 “Il concetto di bisogno si sviluppa storicamente tra un approccio naturalistico e uno sociologico. In alcuni momenti storici i bisogni sono stati intesi prevalentemente come aventi origine nella natura umana e in altri nella cultura. Le tendenze si alternano secondo varie prospettive, di natura filosofica, psicologica, economica e sociologica” (Caliman, 1997, 64). 6 “Non è una chiarificazione dappoco il distinguere la situazione di bisogno dall'oggetto che la soddisfa, poiché, se è la prima che bisogna rilevare e soddisfare, è con la individuazione dell'oggetto che si può concretamente pensare di soddisfare la situazione di disagio. È necessario perciò individuare un oggetto esterno che permetta di superare il disagio dello stato di necessità. Tale oggetto (bisogno-oggetto) dovrà essere congruente al bisogno-stato che deve soddisfare, e cioè dovrà costituire una risposta «adeguata» alla domanda implicata nello stato di necessità (bisogno-stato). In caso contrario l'oggetto non costituirà un bisogno: «reale», ma indotto e alienato. Tale bisogno-oggetto può essere materiale, come il cibo, l'alloggio, l'organizzazione dello spazio alloggiativo, ma anche non materiale; come il perseguimento di certe mete o di certi valori” (Gasparini, 1987, 271). 7 Questa duplice attenzione ai due aspetti del bisogno permette di superare la critica avanzata da quegli studiosi che scorgono nella teoria dei bisogni solo una costruzione ideologica, fatta per ridurre l’altro alla propria dipendenza. 2 1.2.1. Tipologie dei bisogni “I bisogni possono distinguersi in varie categorie. Due classificazioni hanno particolare rilievo: quella che si riferisce alla loro importanza, e quella che si riferisce alla loro manifestazione in riguardo al tempo. Essi possono essere così distinti in relazione alla loro importanza in : 1) primari (bisogni la soddisfazione dei quali è indispensabile o quasi indispensabile all'esistenza); 2) secondari; in relazione al tempo in: 1) occasionali; 2) ricorrenti; 3) presenti; 4) futuri” (Fossati, 1957, 703). “Secondo Ribot, i bisogni si presentano sotto una duplice forma: o esprimono una mancanza, un ‘deficit’, o manifestano un eccesso, l'esistenza di qualcosa di superfluo da eliminare. C'è comunque un punto di convergenza: la conservazione dell'individuo (La psychologie des sentiments, Parigi 1897, pp. 10-11). G. Dumas distingue due gruppi di bisogni: quelli relativi alla vita dell'individuo (fame, sete, ecc.), e quelli relativi alla vita della specie (bisogno sessuale, materno). Tra i primi distingue ancora: bisogni di acquisizione, di evacuazione, di consumo, di riparazione e di stimolazione (Les besoins, in Nouv. Traité de psych., II, Parigi I932, p. 444). Per Pradines tre sono le categorie di bisogno, secondo l'evidenza degli oggetti naturali dell'attività di relazione elementare : b. alimentari, b. sessuale, b. sociale (Traité de psychologie générale, I, Parigi 1946, p. 169). Evidentemente i bisogni si innestano anzitutto sugli istinti, ma esistono anche bisogni abituali, manifestazioni periodiche di tendenze ‘derivate’ (il b. di tabacco o di alcool); d'altra parte, poiché la soddisfazione delle tendenze individuali viene di solito regolata dal gruppo a cui l'individuo appartiene, il bisogno si plasma e si adatta alle esigenze sociali” (Cattonaro, 1957, 702). Doyal e Gough (1999), dopo un ampio excursus sulle principali teorie dei bisogni e sulle condizioni di vita in tutti i continenti e culture, affermano che due sono i bisogni fondamentali dell’uomo: la salute e l’autonomia. Questi solo sarebbero bisogni universali ed oggettivi. Molto nota è la classificazione dei bisogni fondamentali di Maslow. Anch’egli accetta la distinzione tra bisogni primari e secondari, così ripartendo i bisogni fondamentali: a) bisogni primari, fisiologici (o materialisti): 1. bisogni fisiologici; 2. bisogni di sicurezza (sicurezza, stabilità, dipendenza, protezione, libertà dalla paura, dall’ansia e dal caos, bisogno di struttura, di ordine, di legge, di limiti, di un forte protettore, ecc.); b) bisogni secondari, sociali e di autorealizzazione (post-materialisti): 3. bisogno di appartenenza, di amore e affetto; 4. bisogno di stima (che comprende da una parte il desiderio di forza, di successo, di adeguatezza, di padronanza e di competenza, per affrontare con fiducia il mondo, di indipendenza e di libertà; dall’altra il desiderio di reputazione o prestigio, di una posizione sociale, di fama e gloria, di dominio, di importanza, di dignità, di apprezzamento); 5. bisogno di autorealizzazione: diventare ciò che idiosincraticamente si è (cfr. Maslow, 1973, 83-99). L’autorealizzazione per Maslow è il “bisogno” per eccellenza, quello che presiede tutti gli altri bisogni ed è presente in loro con una tensione implicita. Esso non dovrebbe nemmeno essere considerato un bisogno, ma un meta-bisogno (metaneed). L’autorealizzazione presuppone dei bisogni complementari: quello di conoscere e capire e quello estetico (cfr. Maslow, 1973, 101-106). Dato per scontato che i bisogni di base o primari siano più o meno riconoscibili da tutti, diventa invece più problematico definire i bisogni di più alto livello. Mentre i primi dipendono dalla biologia o da una psicologia elementare (sicurezza), i secondi sono più propriamente “umani” e 3 quindi suscettibili del principio di soggettività, o comunque comprensibili solo all’interno di una certa cultura che li riconosce e ne orienta la soddisfazione8. Anche altri autori hanno trattato dei bisogni più elevati, sottolineandone l’importanza per il nostro tempo. Fromm ha sottolineato i bisogni esistenziali che corrispondono a quelli di amore, di trascendenza, di creatività, di radicamento e di appartenenza, di identità e di individualità, di sistema di orientamento e di devozione. Frankl, a sua volta, ha sviluppato la riflessione sul bisogno di significato della vita. Va comunque riconosciuta una difficoltà oggettiva a determinare tutti i bisogni e a raccoglierli in tipologie specifiche. Infatti, ogni tipologia, o individuazione di bisogni, obbedisce a categorie scientifiche specifiche, basate sovente su principi indimostrabili, come conferma lo stesso Caliman: “Una tipologia dei bisogni si presenta problematica per il fatto che ve ne sono molte a seconda della prospettiva all'interno della quale essi vengono considerati (filosofica, psicologica, sociologica ecc.), dalle correnti che ne risultano e dallo scopo al quale esse servono” (Caliman, 1997, 104). Pertanto le categorie o tipologie di bisogni vanno utilizzate secondo l’utilità pratica e l’impiego che se ne fa, senza pretendere che esse abbiano un validità assoluta. Soprattutto se si tiene conto che, man mano che l’umanità progredisce, emergono e acquistano identità bisogni che prima non apparivano. Infatti, i bisogni emergono e si specificano anche in rapporto al sistema sociale. Chombart de Lauwe che ha analizzato tale problematica, pur distinguendo tra un bisogno che è già obbligo e un bisogno che è ancora aspirazione, afferma che tale distinzione è relativa. “Il bisognoobbligo non è solamente quello primario ma anche il secondario, la cui soddisfazione è una condizione di sussistenza e quindi necessaria all'individuo o al gruppo per vivere fisicamente e socialmente. Assicurata questa soddisfazione, le aspirazioni si liberano e si differenziano, con tanta maggiore rapidità ed estensione quanto più a lungo sono state represse, e le loro potenzialità incidono talmente nella società così da imporne delle trasformazioni socio-economiche. D'altra parte i bisogni-aspirazioni, approfondendo la presa sugli individui o sul gruppo o sulla società, riportano a livelli sempre più elevati la soglia della necessità, trasformandosi così progressivamente in bisogni-obbligo” (Gasparini, 1987, 266-267). In effetti le analisi sociologiche di questi anni confermano la spinta sempre più in alto della soglia dei bisogni, con la comparsa di nuovi, precedentemente non evidenziati. 1.2.2. Caratteristiche del bisogno Per un primo approccio al tema dei bisogni terremo presente l’impostazione di Maslow. Questo per due motivi. Innanzi tutto perché la sua classificazione ha fornito la base per analisi sociologiche come quelle condotte da Inglehart. In secondo luogo perché tale autore ha una visione, come tutto il gruppo di psicologi umanisti (Rogers, Allport, ecc.) cui appartiene, che riconosce all’uomo un ruolo attivo nella realizzazione di se stesso. Realizzazione che tiene conto sia del dato biologico che dei condizionamenti sociali, ma non si limita a gestire queste esigenze, tende invece ad un “oltre”, ad utilizzare tutte le potenzialità dell’individuo per un fine, un progetto su cui investire per realizzare la propria vita (autorealizzazione). Questo tipo di approccio al bisogno viene chiamato anche “realista”9. Secondo tale prospettiva il bisogno ha le seguenti caratteristiche: 8 Come aveva già acutamente osservato C. Tullio-Altan (1974), tolti i bisogni più elementari, tutti gli altri sono frutto di una precomprensione ideologica o filosofica, scientificamente non dimostrabile. Anzi, più si sale nella scala gerarchica meno appare l’evidenza di un determinato bisogno e più invece emerge la componente soggettiva o culturale. 9 Si può rinvenire all’interno della storia delle teorie sui bisogni tre tipi di approcci: oggettivista, soggettivista e realista. L’approccio oggettivista tende a far dipendere i bisogni dalla componente biologica (positivismo e funzionalismo), quello soggettivista o socializzante intende i bisogni come un prodotto dei rapporti umani, elaborati nell’interazione sociale (interazionismo e etnometodologia), quello invece “realista” tenta di accogliere e mettere insieme i contributi dell’approccio oggettivista con quelli dell’approccio soggettivista (cfr. Caliman, 1997, 101).. 4 a) La soggettività: cioè trova la sua sorgente nel soggetto. Il bisogno implica un soggetto che lo riconosce e lo prova, anche se non tutti i bisogni sono identificati o percepiti dall'individuo. Anche la soddisfazione può essere soggettiva, ma all’interno dei beni offerti da un determinato contesto sociale. b) La tensione: il bisogno tende verso l’oggetto che lo può soddisfare. Questa tensione, a livello di bisogni di base, s'impone al soggetto come una necessità, un'esigenza, uno stimolo che dev’essere appagato (motivo da deficit). In questo caso l'individuo ricerca l’equilibrio perduto, condizione per la sua sopravvivenza (omeostasi). Lo scopo è quello di ridurre la tensione. Il soggetto è dominato da un principio di necessità che appare nei bisogni di origine biologica e, in maniera analoga ma non uguale, in quelli di tipo sociale. Invece per i bisogni non materiali (bisogni secondari o postmaterialisti), costituiti da fini da conseguire come quelli esistenziali, di significato, di trascendenza, non si parla più di una ricerca di equilibrio (omeostasi), ma di tensione verso mete non più dettate dall'organismo, ma dal soggetto, dalla sua libertà di scelta e di valorizzazione dei fini (motivo di crescita). In questo caso la tensione non va ridotta, ma va invece continuamente alimentata. “L’autorealizzazione è motivata dalla crescita e non dalla mancanza di qualcosa” (Maslow, 1973, 227). L’autorealizzazione alimenta continuamente la tensione interna dell’uomo verso l’integrazione dei bisogni e alla unificazione della personalità. c) La proattività: la spinta alla realizzazione completa dell’uomo. La persona ha una tendenza fornita dalla natura umana: questa è costituita da un'intenzionalità finalizzata a perseguire obiettivi, fini e valori che la portano alla realizzazione del suo essere. Maslow intende tale tendenza come `self-actualization' o autorealizzazione. “L’autorealizzazione è uno sviluppo intrinseco di ciò che già esiste nell’organismo, o meglio di ciò che l’organismo è in se stesso” (Maslow, 1973, 226). L’autorealizzazione procede dall’interno e non dall’esterno, è espressiva, non motivata da altro che da se stessa, è capacità di utilizzazione piena delle proprie doti e capacità. E’ capacità di essere semplici, spontanei, naturali, creativi. E’ capacità di distinguere tra mezzi e fini, di essere distaccati nelle valutazioni, di accettazione di sé, dei propri limiti e degli altri, ecc.. d) La plasticità: ossia la capacità di adattamento a situazioni molto diverse, sia ambientali che personali. E’ il continuo, anche se graduale, cambiamento dei bisogni e delle modalità della loro soddisfazione. Considerando i bisogni umani, si può affermare che non esiste una connessione tra uno specifico bisogno e una determinata risposta. I bisogni, in quanto storici, possono essere soddisfatti da una larga modalità di risposte. Inoltre si moltiplicano e cambiano con la cultura, la quale offre modelli di soluzione, valori, norme e fini diversi e molteplici. 1.2.3. L’organizzazione gerarchica e dinamica dei bisogni Il bisogno, secondo Maslow, è animato da un principio progressivo e gerarchico. In quanto elemento naturale, il bisogno manifesta un dinamismo finalizzato a fornire all'organismo umano le risorse per la sopravvivenza. Da questo dinamismo emerge un’organizzazione che dà più importanza ai bisogni immediatamente necessari alla vita, come quelli di aria, di cibo, di acqua, di calore, ecc., o alla specie (riproduzione). L'appagamento di questi lo mette in condizione di avvertire un'altra serie di bisogni; il primo dei quali, gerarchicamente superiore, Maslow chiama “bisogno di sicurezza”, intesa come stabilità e dipendenza da un protettore efficiente. Tale sicurezza porta alla libertà dalla paura, dall'ansia e implica la garanzia della legge, delle norme di vita sociale e dell'ordine. In termini meno psicologici, questo tipo di “bisogno” è strettamente legato e soddisfatto dall'organizzazione e dal funzionamento del sistema sociale. 5 Quando nella società si manifestano le condizioni che assicurano la soddisfazione del bisogno di sicurezza, questa viene data per scontata; gli uomini cominciano allora ad avvertire una nuova serie di bisogni, esclusivamente umani, quali il bisogno di partecipazione alla vita comune, di amore; di stima e di autorealizzazione. I valori e le norme producono veri sistemi di significato che diventano il riferimento per il perseguimento dei bisogni. L'articolazione della gerarchia dei bisogni descritta da Maslow è presente anche in Malinowski e in Marx, seppure in termini più impliciti. Così ai bisogni di base corrispondono gli “imperativi primari di base” di Malinowski e i “bisogni fisici” di Marx, al bisogno di sicurezza corrispondono gli “imperativi derivati” di Malinowski e una certa accezione dei “bisogni sociali” di Marx, ed infine ai metabisogni corrispondono gli “imperativi integrativi” di Malinowski e il “bisogno ricco” di Marx (o i “bisogni radicali” della Heller). L'organizzazione gerarchica e dinamica dei bisogni viene spesso contestata; per alcuni studiosi resta ignoto il principio di questa strutturazione, per altri queste classificazioni sono a-empiriche, non possono essere provate e non si mostrano produttive; oppure sono una funzione indotta nell'individuo dalla logica interna del sistema o della produzione e consumo a servizio della differenza sociale. Tuttavia le prove empiriche offerte dalle ricerche di Inglehart, che in trent’anni hanno ormai monitorato circa l’80% della popolazione mondiale10, danno a questa teoria un notevole valore anche se manca di fondamento teoretico. 1.3. I bisogni formativi Un’altra tipologia possibile dei bisogni è quella dei “bisogni formativi”, particolarmente utile quando si tratta dell’età evolutiva. Vari sono gli approcci possibili e le modalità di analisi dei bisogni formativi. Una prima distinzione riguarda l’ambito, che può essere aziendale o istituzionale; una seconda i livelli (locale, nazionale, internazionale); una terza i settori o comparti produttivi; una quarta i soggetti: il “committente” o i soggetti in formazione (Ghiotto, 1992). In questa trattazione assumeremo il punto di vista dei soggetti in formazione, pur senza trascurare eventuali altre prospettive. All’interno dei “bisogni formativi” così intesi si possono riconoscere quelli oggetto dell’educazione intenzionale e quelli più collegati al processo di socializzazione. I primi sono frutto di una “serie di azioni e di interventi voluti e specifici, predisposti secondo un certo ordine metodico e posti da chi ha compiti e responsabilità educative, individualmente e/o collettivamente, in vista di favorire e promuovere il processo formativo e propriamente educativo dell'educando” (Nanni, 1984, 31). Questi sono bisogni rivolti alla preparazione del soggetto alle competenze e ai compiti della vita adulta, attraverso le vie specifiche della scolarizzazione e della formazione professionale. I secondi sono collegati alla dimensione socializzante, cioè a “tutte quelle influenze educative sulla personalità in sviluppo che sortiscono, senza piano né scopo volutamente educativo, dalle forze socio-culturali, politiche, economiche o dall’ambiente” (Nanni, 1984, 31). Tali interventi hanno attinenza con “il senso di appartenenza culturale e gruppale, le relazioni di fidanzamento, le relazioni con i soggetti e i gruppi sul territorio ecc. Essi riguardano soprattutto il bisogno di appartenenza, di sentirsi membro effettivo e inserito nel proprio gruppo” (Caliman, 1997, 154-155). Nella nostra analisi terremo conto di tutta la gamma dei bisogni formativi, senza limitarci a quelli oggetto dell’intervento educativo o formativo professionale. Infatti la ricerca cui facciamo riferimento ha mutuato “un concetto integrato e complesso di bisogno formativo, che rinvia alla globalità e unitarietà della persona umana. Non è solo il bisogno di istruzione o di formazione culturale e professionale in senso stretto ma qualsiasi intervento, opportunità, opzione, relazione, che permette all’individuo di arricchire il proprio bagaglio conoscitivo e strumentale per accedere 10 Cfr. il sito web dell’Università del Michigan dove Inglehart insegna: http://wvs.isr.umich.edu/index.html del 24. 05.2003. 6 ad uno status e ruolo più evoluto o ad una più ampia partecipazione sociale (Malizia, 2002, 21). Cioè a tutto ciò che permette di intraprendere efficaci pratiche di autosocializzazione. Tale concetto di “bisogno formativo” può essere accostato, integrandolo, a quello di “compito di sviluppo”. Il termine, ideato da Havighurst, sta ad indicare quei problemi che l'individuo si trova progressivamente ad affrontare nella sua crescita, la cui mancata risoluzione comporta gravi difficoltà per lo sviluppo successivo. 1.3.1. La teoria degli stadi di sviluppo Il concetto di compiti di sviluppo di Havingurst prende a sua volta le mosse dalla teoria degli stadi psicosociali di Erik H. Erikson, il quale ipotizza che ogni età abbia un compito particolare da svolgere in base al livello della sua evoluzione psicofisica e della sua interazione con l’ambiente11. Secondo Erikson, infatti, ogni stadio di vita dell’uomo è caratterizzato da un dilemma cruciale (o compito), che dev’essere risolto per passare a quello successivo. Sottostante a questa concezione c’è il convincimento che esista un momento favorevole o “critico” per apprendere determinati comportamenti e superare gli ostacoli, altrimenti non possibile o molto più difficile. In quel periodo della vita l’individuo percepisce l’urgenza di risolvere il compito specifico (che quindi si configura come un bisogno) ed ha in sé l’energia per farlo. Se il soggetto riesce a trovare la giusta soluzione ha raggiunto la maturità specifica del momento ed è pronto ad affrontare con successo i compiti delle età successive. Se invece non è riuscito a risolverlo, esso gli rimarrà come compito insoluto, che richiederà di essere affrontato in un momento successivo. Ma questo con maggior fatica, impegno e coraggio. John C. Coleman, con la sua “teoria focale” ha rivisto la teoria degli stadi di Erikson e l’ha modificata in tre punti: “In primo luogo, la soluzione di un problema non è considerata come una conditio sine qua non per passare a quello successivo. […] In secondo luogo la teoria non assume l’esistenza di confini precisi fra gli stadi, e perciò i problemi non sono indicati necessariamente ad un’età o livello di sviluppo particolari. Infine non c’è nulla di immutabile nella sequenza ipotizzata. Nella nostra cultura, sembra più probabile che gli individui affrontino certi problemi nelle prime fasi dell’adolescenza e ulteriori problemi in altre fasi, ma la teoria focale non postula una sequenza fissa” (Coleman, 1983, 234); La teoria di Coleman sembra recepire meglio le possibilità di adattamento delle persone, soprattutto adolescenti, e offrire maggiori strumenti per recuperare persone che hanno fallito in un compito di sviluppo particolare. In ogni caso la suddivisione in tappe di sviluppo sembra un concetto ormai acquisito per psicologia evolutiva. Si può forse discutere su qualche punto particolare, come ha fatto Coleman, o sull’età in cui questi compiti emergono, ma l’evoluzione è costante e continua, anche se nella vita dell’individuo possono alternarsi momenti critici, o turbolenti, a momenti di tranquillità. Inoltre queste tappe vanno commisurate al grado di sviluppo specifico di ogni persona. Ogni fase ricapitola la precedente e su di essa si innesta per svilupparsi ulteriormente. Talmente che qualcuno ha prospettato un andamento a spirale (Deconchy, 1966; cfr. Arto 1990, 104). 11 Scala dei compiti o momenti critici di ogni età, con l’indicazione dell’elemento che costituisce l’energia di base fornita dalla natura per affrontare positivamente il compito 1. Infanzia: Fiducia di fondo vs. sfiducia di fondo. Energia di base: speranza; 2. Prima fanciullezza: Autonomia vs. dubbio e vergogna. Energia di base: volontà: 3. Età del gioco: Iniziativa vs. senso di colpa. Energia di base: finalità; 4. Età scolare: Industriosità vs. senso di inferiorità. Energia di base: competenza; 5. Adolescenza: Identità vs. confusione d’identità. Energia di base: fedeltà; 6. Giovinezza: Intimità vs. isolamento. Energia di base: amore; 7. Età adulta: Generatività vs. stagnazione. Energia di base: cura; 8. Età senile: Integrità vs. disperazione e disprezzo. Energia di base: saggezza (cfr. Erikson, 1984, 56-57). 7 Anche le teorie del “ciclo vitale” assumono in sostanza questo concetto. 1.3.2. I bisogni adolescenziali La condizione adolescenziale e giovanile richiede la soddisfazione di particolari bisogni, che riguardano soprattutto la formazione della personalità, l'integrazione nella società e nel gruppo dei pari, il contatto con persone significative di riferimento, ecc. Tali bisogni o compiti possono differire da cultura a cultura ed anche all'interno della stessa cultura vi possono essere delle priorità diverse. Havighurst fece una lista di tali compiti12, che però risentiva del momento storico e della situazione ambientale in cui venne elaborata. In effetti il problema di stabilire quando comincia e finisce l’adolescenza (o le altre fasi della vita), quali sono i compiti cui essa deve rispondere è uno dei problemi più dibattuti nel settore. Quel che appare ormai sempre più evidente è il peso delle coordinate storico-culturali nel determinare questa fase dell’età che appare sempre più “come una categoria di tipo sociale e culturale che semplicemente biologico” (Tonolo, 1999, 31). In ogni caso, un prestigioso studioso italiano della materia (Pamonari, 1993) ha indicato i limiti di quest’età “fra gli 11 e i 18 anni” (p. 43). Ma da una ricerca successiva risulta che l’acquisizione di una certa identità in Italia arriva molto più avanti, probabilmente verso i 22-23 anni (Tonolo, 1993). Sempre secondo Palmonari, i principali bisogni formativi o compiti di sviluppo dell’adolescente sarebbero in rapporto con: 1) l’esperienza della pubertà ed il risveglio della pulsioni sessuali; 2) l’acquisizione del pensiero ipotetico deduttivo; 3) l’allargamento degli interessi personali e sociali; 4) la problematica dell’identità (o della riorganizzazione del concetto di sé) (Cfr. Palmonari, 1993, 61). 1. Accettazione delle trasformazione del proprio corpo. Nella pubertà le trasformazioni corporee sono così rapide, vistose e variabili da incidere profondamente sul concetto di sé, sul livello di autostima. Un peso del tutto particolare ha lo sviluppo di tipo sessuale. Esso richiede un’attenzione adeguata ai bisogni affettivo-sentimentali, che possono offrire un sostegno emotivo e favorire la maturazione personale verso l’assunzione di compiti adulti. Accettare serenamente il giudizio e il confronto con gli altri: il confronto ed il giudizio degli altri diventano fondamentali per l’immagine di sé e quindi per la definizione della propria identità. 2. Sviluppo del pensiero formale. Nell’adolescenza l'individuo raggiunge lo stadio più evoluto del pensiero: dalle operazioni concrete a quelle "astratte". Tale tipo di pensiero dà un potere nuovo all’adolescente: "l'adolescente come essere intelligente, per il suo sviluppo cognitivo, è capace di ristrutturare ogni volta più organicamente e personalmente la realtà grazie alla possibilità di andare al di là del mondo concreto ed alla capacità di pensare in termini astratti" (Arto, 1990, 312). E' questa nuova possibilità ad orientare la persona verso la risoluzione dei suoi compiti di sviluppo: essa gli permette di distanziarsi dal qui ed ora e scoprire i limiti dei propri genitori. Insieme alle figure genitoriali, sono messi in discussione anche i valori da queste acquisiti. Nasce la capacità critica nei confronti del sistema sociale, delle credenze politiche o religiose, che può tradursi nell’impegno verso la realizzazione di sistemi alternativi. 12 Questa è la lista dei compiti di sviluppo elaborata da Havighurst (1953) a proposito della fase adolescenziale: instaurare relazioni nuove e più mature con coetanei di entrambi i sessi; acquisire un ruolo sociale maschile e femminile; accettare il proprio corpo ed usarlo in modo efficace; conseguire indipendenza emotiva dai genitori e dagli altri adulti; raggiungere la sicurezza di indipendenza economica; orientarsi verso, e prepararsi per una occupazione o professione; prepararsi al matrimonio o alla vita familiare; sviluppare competenze intellettuali e conoscenze necessarie per una competenza civica; desiderare ed acquisire un comportamento responsabile; acquisire un sistema di valori ed una coscienza etica come guida al proprio comportamento (Cfr. Palmonari 1993, 60) 8 3. Esigenze di autonomia ed inserimento sociale. Uno dei compiti fondamentali dell’adolescente è quello di migrare dall’arcipelago familiare al continente della società. Come forma alternativa alla famiglia, egli trova nel gruppo di coetanei l’ambiente ideale dove sviluppare la sua nuova dimensione sociale (bisogno di affiliazione in gruppi formali o informali). I coetanei diventano un modo “per valutare in modo autonomo, al di fuori del controllo degli adulti, il proprio comportamento e le proprie scelte. […] Per questo il gruppo è stato descritto come luogo di apprendimento, laboratorio di sperimentazione sociale” (Zani, 1999, 41-42), strumento di riferimento normativo e comparativo e di sostegno affettivo, di fronte alle problematiche dell’età. Inoltre egli incontra nuove figure di adulti, diversi dai genitori, con cui identificarsi e dai quali attende relazioni significative. 4. Definizione dell’identità. E’ il compito specifico dell’età (Erikson), caratterizzato dall’attività sintetica dell’Io, che funge da centro organizzatore e regolatore di tutti i processi. Per Erikson l’identità è un processo dinamico che dura per tutta la vita, ma che diventa cruciale soprattutto in adolescenza. Esso permette di rimanere se stesso pur nel continuo divenire. Ciò comporta: la consapevolezza della propria unicità; il senso di continuità e conformità; l’integrazione di bisogni e delle identificazioni precedenti13; il senso di solidarietà col gruppo sociale di appartenenza. Per far questo, secondo la prospettiva di Erikson, la società gli viene incontro, concedendogli una “moratoria psicosociale” 14. Inoltre gli offre un'ideologia15 (o cultura) per aiutarlo a farsi un'identità culturale, che dia senso e coerenza alle sue azioni; e un posto in società, attraverso il lavoro, il riconoscimento delle sue capacità e della sua originalità, con cui può assumere un suo ruolo e godere di uno status sociale16 1.3.3. Correlazione tra compiti di sviluppo e bisogni umani fondamentali I compiti evolutivi rappresentano dei bisogni “ad un livello ‘sovraordinato’, in quanto includono una vasta gamma di bisogni quotidiani e tengono conto della varietà delle condizioni e delle situazioni in cui gli adolescenti possono trovarsi nel corso dello sviluppo” (Zani, 1999, 40). Pertanto possono avere lo stesso valore tipologico che avevano quelli di Maslow. In effetti si possono ravvisare parecchie analogie e convergenze tra la tipologia di Maslow e quella dei compiti di sviluppo appena delineata. 13 L'identità che il ragazzo aveva costruito prima dell’adolescenza era ancora "provvisoria", legata prevalentemente alle identificazione e proiezioni infantili. Nell'adolescenza egli deve approdare ad una identità "finale" in cui siano integrati armonicamente in un complesso unico e possibilmente coerente “dati costituzionali, esigenze libidiniche idiosincratiche, capacità preferite, identificazioni significative, difese efficaci, sublimazioni ben riuscite e ruoli consistenti” (Erikson, 1974, 192). 14 "La moratoria é un periodo di attesa concesso a chi non é pronto a far fronte ad un obbligo o imposto a qualcuno che deve prender tempo. Moratoria psicosociale vuol dire dunque un indugio nell'assumere impegni da adulto; ma non è soltanto un indugio. E' un periodo caratterizzato da una permissività selettiva da parte della società e da una provocante leggerezza da parte dei giovani; eppure molto spesso implica un impegno profondo, sia pure frequentemente transitorio, da parte dei giovani ed una conferma dell'impegno, più o meno ufficiale, da parte della società" (Erikson, 1974, 185). 15 Per Erikson ideologia non ha un significato politico, bensì è "un fatto ed un bisogno psicologico, collegato a fenomeni politici, ma non da essi spiegato" (Erikson, 1974, 249). Essa rappresenta l'insieme degli ideali, dei valori, delle tradizioni e delle istituzioni tipiche di una società. Potremmo forse più propriamente chiamarla, per rimanere più legati alla terminologia sociologica, cultura. 16 Per status si intende "una posizione in un sistema sociale che implica aspettative reciproche di azione rispetto a coloro che occupano altre posizioni nella stessa struttura". I criteri di attribuzione dello status sono il sesso, l'età, la parentela; inoltre altri fattori sociali come la differenza nelle abilità degli individui, la diversità nelle difficoltà inerenti ad un compito, la diversità d'importanza dei vari tipi di lavoro.... "Ogni individuo in qualsiasi momento della sua vita occupa più di uno status. Alcuni di questi status rimarranno sostanzialmente immutabili (razza, sesso, religione, posizione nella famiglia, ecc.). altri invece cambieranno secondo le circostanze. [...]. Qualunque sia il numero e la qualità delle posizioni che un individuo occupa nella società egli in qualsiasi fase della sua vita occupa sempre uno status o posizione generale, distintiva nella comunità o nella società, che da E. T. Hiller è stato chiamato statuschiave" (Bartoli, 1987, 2057-2060). "Un ruolo rappresenta lo stato dinamico dello status. L'individuo socialmente è assegnato ad uno status che egli occupa in relazione ad altri status. Quando egli usa i diritti e doveri che costituiscono lo status, egli svolge un ruolo" (Linton, cit. da Bartoli, 1987, 2060). 9 Le esigenze di sviluppo corporeo e sessuale possono rientrare nella categorie dei bisogni primari o biologici. Quelle di autonomia nelle esigenze di libertà ed autoespressione. Quelle di inserimento sociale nei bisogni di affiliazione, sicurezza e stima. Ma è soprattutto nel concetto di identità che tutti questi bisogni possono essere ritrovati e coordinati. Pertanto si può istituire un parallelo tra il concetto di autorealizzazione di Maslow e la maturità richiesta da ogni fase di sviluppo17. Infatti, possiamo considerare ogni tappa della vita un momento di autorealizzazione particolare, con una sua maturità specifica. La tensione all’autorelizzazione (e quindi il bisogno di…) si manifesterebbe perciò sia all’interno di ogni fase, sia come tensione finale, che è possibile raggiungere così solo in età avanzata (o forse mai, visto il carattere ideale che ha questa tappa nella prospettiva maslowiana). Lo sviluppo cognitivo permetterebbe all’adolescente di prendere coscienza dei suoi bisogni e delle esigenze specifiche dell’età, e di dare una risposta adeguata e coordinata alle sue molteplici esigenze. 1.4. I bisogni giovanili attuali Visto il loro carattere storico ed evolutivo, oltre che dalle teorie, ci lasceremo guidare, nell’individuazione dei bisogni, anche da un criterio empirico, utilizzando i risultati delle ricerche per evidenziare quelli emergenti. Questo senza esimerci dal compito di valutare questi risultati secondo alcuni criteri di giudizio che superino il puro dato statistico e cerchino di avanzare modelli di spiegazione più generali. 1.4.1. Una premessa metodologica: rapporto tra bisogni e valori Il bisogno è composto, come abbiamo visto da uno stato di tensione (bisogno-stato) e da un oggetto verso cui tende (bisogno-oggetto) che ne rappresenta la soddisfazione. E’ impossibile dal punto di vista sociologico indagare direttamente sul bisogno-stato. Qualsiasi domanda, anche quando venisse formulata direttamente chiedendo alla persona “di che cosa hai bisogno?” non potrà che rilevare l’oggetto del bisogno, cioè quanto la persona percepisce come funzionale alla sua vita18. Così dicasi di altre domande simili: “cosa ti manca?”, “cosa potrebbe fare il governo per migliorare la condizione di questo paese?”, ecc. All’interno di una cultura i bisogni si manifestano come “valori”, cioè come oggetti (materiali o immateriali) di desiderio e quindi perseguiti come “bene”19. I bisogni quindi starebbero alla base sia del comportamento sia dei valori e quindi della cultura. La cultura, infatti, può essere anche definita come “il modo con cui l’uomo soddisfa i propri bisogni” (Malinowski 1962, cit. da Piccoli, 2001, 11). Pertanto, partendo dalla teoria dei bisogni è possibile indagare sia sul tipo di valori e quindi di cultura di una società, come anche sui comportamento e sul sistema di personalità, ed in definitiva sull’organizzazione sociale. Questo almeno stando alla teoria dell’azione di Talcott Parsons, secondo il quale “tre sono le categorie base dell’azione: 1) l’attore; 2) la situazione dell’azione; 3) l’orientamento dell’azione (motivi, valori, 17 Questo accostamento è stato compiuto dallo stesso Maslow: “Le espressioni in cui viene formulata l’autorealizzazione mostrano ugualmente che si tratta di rendere reale o attuale ciò che la persona già è, sebbene in forma solo potenziale. La ricerca dell’identitàè più o meno la stessa cosa, dato che consiste nel ‘divenire ciò che veramente si è’. Questo vale anche per ciò che si vuol dire, quando si parla di divenire ‘pienamente funzionale’, ‘pienamente umano’, di individualizzarsi, di realizzarsi in modo autentico, ecc.” (Maslow, 1973, 170). 18 “A ogni bisogno umano corrisponde un oggetto o un elemento socioculturale (organizzazione, comportamento, bene materiale), socialmente determinato, che ha il compito di soddisfare quel bisogno” (Piccoli, 2001, 12). 19 Il valore, in sociologia, può essere definito come “il fine perseguito dal gruppo sociale, che appare come legittimo ai soggetti che lo compongono e al quale essi sono legati emotivamente” (Capraro, 1992, 31) 10 norme, ecc.). Tali categorie servono di base per la costruzione di tre sistemi: il sistema di personalità, il sociale e il sistema culturale” (Ferrari Occhionero, 1985, 11). Pertanto il valore risulta il punto di snodo tra natura (i bisogni) e cultura (o storia). Esso è indicativo sia del bisogno-stato che dell’oggetto a cui esso tende. Come indicatore del bisognooggetto il valore indica quali sono i bisogni percepiti come più importanti da una data società e quindi informare sul suo livello d’organizzazione in funzione della soddisfazione dei bisogni. Per risalire al bisogno-stato si fa ricorso a raffinate operazione statistiche (particolarmente l’analisi fattoriale) che offrono un’indicazione abbastanza attendibile sul bisogno sottostante. Tuttavia tale operazione non è priva di incertezze ed ambiguità perché il valore non ha solo un riferimento al bisogno, ma anche al sistema di credenze20. Pertanto tra bisogno e valore esiste un rapporto di reciprocità, ma non biunivoca. A proposito, è rimasto famoso il rapporto descritto da Weber tra cultura e bisogni: “sono gli interessi e non le idee a dominare immediatamente l’attività dell'uomo. Ma le concezioni del mondo, create dalle idee, hanno spesso determinato, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività... In base alla concezione del mondo si determinava ‘da che cosa’ e ‘verso quale meta’ l’uomo voleva (e, non dimentichiamolo, poteva) essere ‘redento’ ” (Weber, 1976, 342-343). “La totalità dei comportamenti umani si ridurrebbe, quindi, a cercare di soddisfare i bisogni […], che si manifestano sempre uguali e con la stessa intensità dalla comparsa dell'uomo sulla terra; quello che cambia, nel corso dei secoli e a seconda delle circostanze, non è il bisogno ma il modo di soddisfarlo, cioè la cultura” (Piccoli, 2001, 12). Questa variazione è ciò che interessa particolarmente la sociologia. La comparsa di una serie di valori nuovi in una data società indica l’emergenza di nuovi bisogni, collettivamente percepiti. Per cui assumeremo come “indicatori di bisogno” quei valori che le varie indagini progressivamente evidenzieranno come tali, con la consapevolezza dell’ambiguità di tale procedimento. D’altra parte accettare il rischio fa parte dei procedimenti della scienza che sovente inferisce su una realtà cui non può accedere immediatamente, dando per scontato che una convergenza d’indizi o di giudizi possa costituire una prova, fino a dimostrazione contraria. 1.4.2. L’evoluzione dei bisogni e dei valori in senso postmaterialista Ronald Inglehart è stato uno dei sociologi che ha applicato questo metodo alle sue ricerche. Egli, come altri studiosi, ha provato a tradurre il modello gerarchico dei bisogni di Maslow in uno strumento di ricerca sociologica a valenza universale. Attraverso questo tipo di indagine è riuscito a monitorare l’evoluzione dei bisogni e dei valori. Egli ha identificato nell’attuale andamento culturale, soprattutto nel mondo occidentale e in maniera più evidente nelle fasce giovanili, un movimento evolutivo verso l’autoespressione, l’autorealizzazione, maggior libertà ed autonomia personale. Tale impulso spinge a sottrarsi al controllo sociale, all’obbligo di rispettare norme imposte, di abbandonare gli aspetti formali o i doveri istituzionali, mentre il miglioramento delle condizioni economiche, una stabile condizione di pace e di sicurezza sociale, l’aumento di cultura favorisce nelle persone il passaggio dal livello di pura sopravvivenza, dominato dalla paura e dall’insicurezza, a situazioni in cui è possibile l’autodeterminazione personale, l’autoespressione, l’autodirezione, la ricerca di una vita più bella, gratificante e significativa (qualità della vita). 20 Il valore può avere un contenuto cognitivo o volitivo. Dal punto di vista cognitivo corrisponde ad “un bisogno che riesce a soddisfare, oppure trova il suo significato in una verità più universale, accettata dal soggetto. Nel primo caso […] è legittimato da una ‘razionalità strumentale’, […] nel secondo caso […] da una ‘razionalità sostanziale’ ” (Capraro, 1992, 31-32). Dal punto di vista “volitivo”, il valore per il soggetto si presenta come “desiderabile, appetibile e orienta l’azione della persona, che vuole perseguirlo. E' a questo punto che il valore diventa prescrittivo e normativo per l’agente e acquista una sua esemplarità. Infatti il soggetto è pronto ad impegnarsi e a sottoporsi ad uno sforzo continuo pur di affermare il valore in cui crede […]” “L'azione risulta così motivata sia dagli orientamenti di bisogno (need's orientations), che sono i condizionamenti oggettivi e le modalità di soluzione sedimentate nel sistema culturale, sia dagli orientamenti di valore (value's orientations), che corrispondono alle scelte operate dalla persona in base ai valori interiorizzati” (Capraro, 1992, 32). 11 Pertanto nei paesi ad economia industriale avanzata, dove per decenni non si è più patito la fame, anzi c’è stata abbondanza, non c’è stata guerra, né gravi disordini politico-sociali, la popolazione nata in questi periodi tende a ritenere soddisfatti i propri bisogni di sostentamento e sicurezza e a rivolgere la propria attenzione a bisogni di tipo superiore, che sono quelli di appartenenza, stima, autorealizzazione e autoespressione, che coinvolgono soprattutto gli aspetti intellettuali ed estetici della vita, conforme al modello gerarchico dei bisogni elaborato da Maslow . A livello politico ciò comporta perdita di importanza dei partiti tradizionali, delle organizzazioni sindacali, dei grandi apparati burocratici o aziendali, delle istituzioni, del Welfare e dell’intervento statale in economia e nella società, perdita di fiducia nella scienza e nella tecnologia. Preferenze per la pace e l’ecologia, per la libertà e l’uguaglianza, per uno sviluppo sostenibile, per i diritti umani, per i “movimenti delle donne”, per le minoranze oppresse, come i “gay”, o penalizzate, come gli “handicappati”, ecc. Nel lavoro la propria realizzazione, intesa come autoespressione, consiste nel “fare ciò che piace”, sviluppare le proprie doti e potenzialità, essere creativi, fantasiosi e vari, avere buone relazioni con gli altri, magari rinunciando anche ad uno stipendio più alto o ad una carriera migliore. C’è meno attaccamento al lavoro e al successo, vengono meno i caratteri del self-made man, la determinazione, la disciplina, il sacrificio, il ruolo del lavoro nell’autorealizzazione, ecc. Così pure cala l’importanza di rispettare l’orario, di risparmiare, di accumulare, ecc. Riguardo alla famiglia: più libertà sessuale, minori vincoli, minor rigidità di ruoli, non determinati da appartenenze di genere o da posizione generazionale; stabilità e benessere della famiglia dipendenti soprattutto dalla capacità comunicativa e dalle esigenze affettive, più che dal rispetto di norme o vincoli sociali. A livello religioso, prosegue il processo di secolarizzazione, che porta ad interpretare il mondo con categorie scientifiche e ad abbandonare la visione di un “cosmo sacro”: ciò comporta la diminuzione della fede organizzata in sistemi coerenti e totalizzanti, la perdita di fiducia nelle chiese, la scomparsa della pratica religiosa. Questa cultura tende ad affermarsi progressivamente man mano che le coorti di popolazione giovanile sostituiscono quelle adulte e anziane, diventando maggioritarie nel paese (generational replacement). Infatti è di fondamentale importanza il periodo in cui una persona ha ricevuto la sua socializzazione: il tipo di bisogno che è stato percepito come “il più importante” nel periodo della socializzazione determina anche il tipo di valori di base di quella persona. Essendo molto difficile cambiare struttura cognitiva una volta acquisita nell’età “prerazionale”, di fronte al cambiamento culturale è probabile che sorgano resistenze, causate dall’incertezza di fronte al nuovo che avanza e che mette in crisi credenze, valori e norme ritenute valide da sempre. Il disagio allora sarà quello che si esprime come resistenza al cambiamento o come paura di fronte al nuovo. Questo è percepito soprattutto da chi è stato socializzato in un’altra cultura e contesto sociale, in cui erano prevalenti i bisogni materiali e quindi i valori e le norme che si riferivano a quel preciso contesto. Queste caratteristiche di tipo postmaterialista, Inglehart (1998) le accostare alla cultura postmoderna, pur senza farla coincidere. Anche Carlo Tullio-Altan ha rilevato gli stessi fenomeni, ponendo l’accento sull’aspetto relazionale e sociale. Per Tullio-Altan è infatti molto importante il bisogno di una nuova socialità, più autentica e personalizzata, che si esprime attraverso il superamento della concezione strumentale dell’altro e nell’accoglienza dell’ “alterità”. In ogni caso appare chiaro che in tale situazione il sacrificio di se stessi, in termini di libertà e di possibilità di autorealizzazione, comincia a perdere di significato. Pure Giovanni Grasso ha sottolineato il fattore interpersonale, come anche le aspirazioni all’autoespressione e alla partecipazione dei giovani, con la necessità che arretrino vincoli autoritari e tradizionali. In particolare egli punta l’indice sul particolarismo “familista”, che blocca le persone sui rapporti di tipo primario, chiusi dentro l’ambito familiare e locale, impedendo loro una visione più universale dei rapporti. Il suo contributo specifico riguarda il bisogno di integrazione culturale, 12 sia sociale che personale. La mancanza di quest’integrazione produce sofferenza psichica e sociale, rendendo instabile tutto il sistema (anomìa). Il conflitto è presente nel sistema culturale, sia esterno (istituzioni), sia interno (sistema intrapsichico) con effetti di ansia e instabilità. Queste ricerche hanno confermato la sostanziale validità del modello gerarchico dei bisogni di Maslow, pur lasciando scoperto qualche elemento problematico, che non mancheremo di evidenziare. 1.4.3. La decisa affermazione dei bisogni espressivi e relazionali Da una serie di ricerche condotte in Italia sono emersi, in ordine di importanza, i seguenti bisogni giovanili: 1. di relazioni familiari soddisfacenti (domanda di relazioni di tipo affettivo ed emotivo e di libertà e autonomia); 2. di relazioni amicali (aggregazioni spontanee, richieste di amicizia, di scambiare opinioni su argomenti di interesse comune, di fare attività sportiva spontanea: bisogno di sicurezza); 3. di tempo libero e di consumi (sulla strada, in piazza, ai giardini, nei bar, birrerie, pizzerie, discoteche; in letture sbrigative, davanti alla TV o con hobbies e passatempi non impegnativi); 4. di istruzione (nella scuola e FP in ordine ad acquisire una maggior professionalità, meno come interesse per la cultura); 5. di occupazione e di autorealizzazione (conciliando pragmaticamente aspetti espressivi con quelli strumentali); 6. di valori e di significati (gli affetti, il successo nella scuola e lavoro, l’impegno); 7. meno avvertiti i bisogni di tipo impegno solidale e di trascendenza (cfr. Malizia Frisanco - Pieroni, 1997, 18). Da questi dati è evidente l'emergenza di nuovi bisogni, connessi prevalentemente con la sfera “espressiva” e relazionale. Tali bisogni sono soprattutto di ordine affettivo (famiglia, amici, amore) e ludico-espressivo (gioco, divertimento, sport, tempo libero). Mentre i valori che riguardano la sfera sociale e l’impegno per gli altri (impegno sociale, religioso, politico, patria) sono costantemente in fondo della scala delle preferenze. Anche dalle indagini che hanno applicato l’indice Inglehart risulta che l’item “dare maggior poter nelle decisioni politiche” è costantemente in ribasso. Viene confermata da questi dati la tendenza all’espressività e ad una socialità più autentica, come pure la caduta del formalismo e dell’accondiscendenza nei confronti dell’autorità. In questo modo vengono confermati i presupposti di base di Inglehart che assegnano un ruolo fondamentale alla socializzazione nell’evoluzione dei valori collegati ai bisogni e che questi vengono percepiti secondo una logica di “rational choice”. Ma, rispetto alle previsione degli autori del “cambio culturale”, vengono meno le caratteristiche di una partecipazione politica e di una solidarietà universale. E’ vero che è cresciuta la partecipazione ai movimenti come quello dei diritti umani e di difesa delle minoranze oppresse, dell’ecologia, della pace; così pure dagli anni ’80 è aumentata la partecipazione a forme di volontariato, ma tutti questi fenomeni sono rimasti circoscritti ad ambiti ristretti. Quando essi sono diventati un movimento collettivo lo è stato per breve tempo, in occasione di emergenze. Ma, esclusi i promotori, questi movimenti hanno avuto la consistenza di una fiammata. Pertanto, al di là di una generica sensibilità su temi come l’ecologia, la pace, i diritti umani, la tolleranza, che può diventare disponibilità alla mobilitazione in momenti di emergenza, i giovani degli ultimi decenni non hanno dimostrato la capacità di tradurre i valori in un progetto 13 politico, la crescita di una vera coscienza politica o civile, né la capacità di coltivare solidarietà “lunghe”21. L’unico tipo di solidarietà che è emerso è quello del piccolo mondo della quotidianità. Pertanto i bisogni sembrano concentrarsi prevalentemente attorno alla “socialità ristretta”, oltre che alle richieste di libertà e autonomia. Prevalgono i valori centrati sull’individuo più che sulla società, viene privilegiato il polo privatistico dei bisogni, misconoscendone quello pubblico e sociale. Ciò pone alcuni interrogativi sull’indice Inglehart, e più in generale, sulla validità del modello gerarchico di Maslow. Soprattutto viene posto in questione uno degli elementi più qualificanti della teoria di Maslow: l’automatismo del passaggio dai bisogni inferiori a quelli superiori e, tra questi, l’apertura alla solidarietà. Le risposte indicano una tendenza al ripiegamento su solidarietà più brevi rispetto a quello previste. D’altra parte, chi può determinare quali siano i bisogni una volta superata la soglia della necessità? 1.4.4. Il problema dei “bisogni misti” Oltre alla difficoltà di determinare una tipologia dei bisogni, dalle ricerche viene messo in discussione un altro principio maslowiano: che un bisogno affiori quando il precedente è stato saturato. Dalle ricerche emerge sempre più la crescita di “bisogni misti” (Sorcioni, 1992). I giovani sembrano essere, come osservava Ricolfi, “materialisti sul piano dei valori e dei modelli culturali e postmaterialisti sul piano delle preferenze” (1990, 522). A fronte di significative avanzate dei valori post-materialisti, si segnalano infatti frequenti regressioni a valori e bisogni materiali, soprattutto in occasione di recessioni economiche, difficoltà occupazionali o momenti di insicurezza. Questo è un fenomeno previsto da Inglehart, il quale riconosce che lo spostamento dai valori materialisti a quelli postmaterialisti non elimina il permanere dei bisogni materiali: il postmaterialista non è un antimaterialista, procede alla soddisfazione di bisogni postmaterialisti solo dopo aver soddisfatto quelli materiali, ma non vi rinuncia. Queste regressioni o mescolanze dipendono da vari fattori sociali, cui i giovani si adattano rapidamente. La non linearità del processo di sviluppo economico ha reso più incerta la soddisfazione dei bisogni di sopravvivenza. Soprattutto la disoccupazione ha fatto riemergere tra i giovani l’insicurezza economica, anche se la soddisfazione dei bisogni di base è sostanzialmente assicurata dalla famiglia e dagli ammortizzatori dello stato sociale. Tuttavia la mancanza di sicurezza economica influisce sui tempi di maturazione delle responsabilità sociali, della nuzialità e sui tassi di natalità, cioè sui tempi d’ingresso dei giovani nella vita adulta. Lo stesso aumento di instabilità sociale ha fatto percepire più fortemente il problema della sicurezza sociale, con crescita delle domande di controllo sulla delinquenza, sui flussi migratori, sullo spaccio di droga, sull’operato degli amministratori pubblici: in definitiva ciò ha comportato una ripresa delle politiche di destra. Ma oltre a queste esigenze, in parte previste a causa del mutare delle situazioni sociali, è la ripresa di attenzione per i valori materiali, dettati da esigenze di status e ruolo, misurate attraverso il possesso di beni materiali “status symbol”, che rimette in seria discussione il modello di MaslowIngehart. Questo determina un ritorno a bisogni e valori materialisti proprio in nome di quel progresso che avrebbe dovuto assicurarne il superamento. Ciò costituisce un motivo assolutamente nuovo e non previsto, che rimette profondamente in discussione la gerarchia finora adottata. 21 Alcuni autori hanno salutato le recenti mobilitazioni giovanili per la pace (soprattutto contro l’intervento USA in Iraq) come una ripresa della partecipazione e della protesta sociale (cfr. I. Diamanti, Gli studenti calabroni riscoprono la politica, in “La repubblica”, 13.04.2003). A nostro giudizio si dovrà ancora attendere per vedere se veramente tale mobilitazione avrà la costanza e la capacità di tradursi in un progetto politico. In realtà molte mobilitazioni giovanili degli anni ’80 e ’90 sembrano “riconducibili alla strategia dell’ ‘evitamento’, descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi” (Ferrarotti, 1986, 15). 14 Non che questo voglia dire che la tensione all’autorealizzazione e ad una qualità di vita migliore sia tramontata. Ma sono gli strumenti ed i percorsi per arrivarci che sono cambiati. Ciò porta ad un rimescolamento dei motivi e dei valori, con presenza di istanze sociali, esigenze e valori materiali ed immateriali anche opposti tra loro, “la cui possibile coesistenza anche in uno stesso individuo tende inevitabilmente a generare gerarchie valoriali instabili, potenzialmente antinomiche e per loro natura in continua trasformazione” (Sorcioni, 1992, 9). Queste comprendono esigenze di autoespressione, di difesa della posizione socio-economica (occupazione e reddito) o dell’identità territoriale. Coesistono simultaneamente spinte verso modelli di società aperta e chiusure verso l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). Un crogiuolo di esigenze ed aspettative, entro il quale possono manifestarsi pulsioni integrative e spinte disintegrative, e dove i problemi di identità possono esprimersi in una logica tanto complessa quanto socialmente dolorosa. Questi fenomeni darebbero luogo alla “generazione combinatoria” di cui parla Sorcioni, e comproverebbero la mancanza di criteri stabili di orientamento valoriale, la tendenza a combinare bisogni, valori e linguaggi a seconda del momento, senza alcun criterio ordinatore, semplicemente guidati dal piacere o dal gusto del momento. Per il resto viene confermata la lettura di Inglehart, ma con tempi e modalità di attuazione diversi da quelli previsti. Anche tra i giovani italiani sta emergendo un uomo postmoderno, caratterizzato dalla ricerca di condizioni di vita qualitativamente più significative, di soddisfazione immediata dei propri bisogni, alla ricerca i rapporti interpersonali e sociali soddisfacenti. Da uno stile di vita più gioioso, immediato, spontaneo. Un uomo che non cerca nella politica, nelle mete ideali, nei grandi progetti storico-collettivi la sua realizzazione, ma nel quotidiano, nelle relazioni faccia a faccia, nella costruzione di un mondo vitale carico di senso. Un uomo teso alla difesa dell’ambiente, della natura, della convivenza pacifica tra tutte le genti. Un uomo contrassegnato dalla tolleranza, più che dalla affermazione intransigente di principi assoluti. Un uomo che, probabilmente, è alla ricerca di un senso a tutto quello che fa. Senso che sovente gli viene garantito dal “fare”, da una giustificazione ex-post, da un senso comune che è quello dell’ambiente in cui vive. Un senso che, tuttavia, forse non basta e va cercato in una dimensione più alta. Ma ciò potrà essere raggiunto solo con un atteggiamento adattivo e acritico, come sembra apparire dai comportamenti giovanili, o dalla stessa forza spontanea della natura come sembrano suggerire Maslow e Inglehart, oppure è necessario un impegno cosciente e deliberato, forse anche organizzato e condiviso, come sosteneva Tullio-Altan? E’ possibile tutto ciò senza una progettualità giovanile, politica e sociale; senza il coinvolgimento delle istituzioni e delle agenzie educative? 2. Il disagio e il rischio in rapporto ai bisogni Il termini “disagio” e “rischio” sono entrati di recente nella letteratura sociologica, in seguito alle critiche rivolte dalla corrente interazionista sul ruolo dello stigma sociale nella definizione della devianza. Attraverso questi termini si vuole indicare uno stato non ancora definito di devianza, che, se affrontato adeguatamente, può evitare di passare da una devianza primaria ad una secondaria e definitiva22. I due termini sono pressoché intercambiabili e rappresentano, con la loro elevata Ricordiamo che secondo la “labeling theory” sono tre i livelli attraverso cui si diventa devianti: 1) Un primo livello è costituito dalle affinità, cioè, delle “pre-condizioni obiettive (a livello biologico, psicologico, culturale) e soggettive (sentirsi nell'occasione di ‘poter’ deviare) non meccanicisticamente connesse ad un reale atto o comportamento deviante (Milanesi, 1984, 439). 2) Un secondo livello è costituito dall’affiliazione, cioè, da “comportamenti non conformi alla norma a cui si sono già associati in maniera dialettica sia alcuni atti di ‘affiliazione’ (cioè di considerazioni positive circa l'ipotesi e la possibilità di diventare un deviante ‘secondario’) sia alcuni atti di stigmatizzazione (cioè di definizioni/significazioni negative degli atti non conformi alla norma) (Milanesi, 1984, 439-440). È questo livello che indica la situazione di “rischio”, nel senso che esiste la possibilità che la devianza primaria possa strutturarsi in una devianza secondaria. 3) Un terzo livello, corrispondente alla devianza vera e propria, è invece dato dalla “quantificazione di comportamenti devianti 22 15 indeterminatezza, la logica conclusione di un processo di “normalizzazione della devianza” (Neresini – Ranci, 1992, 23). L’apparizione di questi termini segna la progressiva dissolvenza teorica dei termini “devianza” e “marginalità” e di conseguenza il loro superamento sul piano interpretativo. All’affermazione di tali termini ha dato un notevole contributo la situazione di complessità sociale e di pluralismo etico, che rende difficile determinare le situazioni di reale devianza o marginalità, che hanno senso solo in situazione di normativa chiara (devianza) o di centro-periferia (marginalità). 2.1. Disagio e bisogni Il disagio, è componente intrinseca del bisogno. Infatti, il bisogno comporta “uno stato d’insoddisfazione dovuto alla mancanza di ciò che è sentito come necessario alla vita fisica o morale” (Cattonaro, 1957, 702). Pertanto il disagio, “sottende sempre una concezione di bisogno insoddisfatto” (Guidicini – Pieretti, 1995, 14). Tale stato di disagio o insoddisfazione spinge a sua volta il soggetto a cercare l’oggetto o la situazione-fine che ne rappresenta la soddisfazione e quindi annulli la tensione23. Come tale non costituisce niente di problematico: fa parte dei normali meccanismi dell’organismo, attraverso cui esso provvede alla sua sopravvivenza e affermazione nel mondo. Il problema sorge quando il disagio diventa “cronico”, cioè una situazione permanente e senza prospettive ragionevoli di soluzione: ciò quindi genera profonda “frustrazione”. Ciò diventa più problematico nel momento in cui vengono sempre più soddisfatti i bisogni di base. Dai dati emersi, infatti, sulle ricerche in Italia e in Europa, risulta che, pur essendo soddisfatti molti più bisogni del passato, il disagio tra i giovani è in aumento. Questo non può essere spiegato semplicemente attraverso la giustificazione che con l’aumento della gamma dei bisogni aumenta anche la probabilità che qualcuno non arrivi alla soddisfazione di bisogni socialmente rilevanti 24, come anche quella dell’aumento delle aspettative e dei bisogni indotti. Probabilmente ci sono altre cause e meccanismi che rimettono in questione tutta l’organizzazione sociale e, forse, anche alcune teorie sui bisogni. Le ricerche hanno dimostrato che esiste un tipo di disagio ascrivibile piuttosto alla categoria della frustrazione dei bisogni primari, ed un altro tipo di bisogno più collegato ad una situazione di bisogni e/o valori postmateriali. Il secondo tipo di disagio merita un approfondimento particolare perché nuovo e più minaccioso: è quello che tocca la maggioranza dei giovani nei paesi evoluti e che minaccia un numero sempre maggiore di popolazione. 2.1.1. Il disagio da marginalità o frustrazione dei bisogni materiali Un primo tipo di disagio si manifesta con i caratteri tipici della povertà classica: situazioni di emarginazione dovute alla penuria materiale e culturale che spinge a forme di devianza o di subcultura deviante e marginale come reazione di fronte alla mancanza di beni o diritti fondamentali per la vita. ormai abituali, rafforzati da una strutturata ‘carriera’ soggettiva nella devianza e da una ripetuta stigmatizzazione di tali comportamenti (anche da parte di controllori "esterni” e, in certi casi, dalle istituzioni totali). In questo caso il "rischio" di devianza potrebbe essere considerato come possibilità di strutturazione irreversibile del comportamento deviante, di fissazione entro una "subcultura deviante", di interiorizzazione profonda dell'identità negativa (o dello stigma) (Milanesi, 1984, 440). 23 “Lo stimolo organico che sta alla base di un bisogno è soltanto un segnale (la vera causa è più profonda) e spinge l'individuo verso una situazione-fine in cui si annulli la tensione provocata dal senso di insoddisfazione che accompagna lo stimolo stesso” (Cattonaro, 1957, 702). 24 In una società evoluta e ricca diventa sempre più rilevante il concetto di “deprivazione relativa”. 16 In Italia permangono ancora forme di povertà e marginalità oggettive che aggravano il quadro sociale e contribuiscono a mantener desta la consapevolezza che non tutti sono arrivati a soddisfare neppure i bisogni più elementari, e che l’accesso alle risorse sociali, economiche e culturali, non è realmente aperto a tutti. Permane sempre la figura tradizionale del ragazzo di periferia, che abita in un quartiere invivibile, che non va a scuola, che non ha opportunità valide di inserirsi nella vita ed appartiene ad una famiglia incapace di essere una valida guida. A questo si aggiungono le forme di povertà estrema degli immigrati, che ripropongono temi classici della sociologia: la povertà e l’emarginazione studiati dalla scuola di Chicago agli inizi del 1900. Queste situazioni portano a loro volta a forme di devianza, la cui spiegazione può essere reperita nei manuali di sociologia: la necessità di accedere ai beni necessari alla sopravvivenza di cui sono privi, il raggiungere con mezzi illeciti i fini che sono propri di tutta la società, la subcultura deviante di cui è impegnato l’ambiente, ecc. Così assistiamo ancora alla persistenza di vecchie forme di delinquenza minorile (reati contro il patrimonio, o contro le persone), cui si aggiungono quelle (relativamente) nuove, quali la prostituzione (soprattutto maschile), la violenza sessuale (nelle versioni etero e omosessuale), la pedofilia. Un certo tipo di criminalità sembra trovare il suo “habitat” privilegiato in ghetti popolari, tra stranieri (spaccio di droga), nomadi (furti), oppure italiani delle periferie o aree suburbane. Così assistiamo ad un aumento di ragazzi denunciati penalmente, soprattutto nel Meridione, per affiliazione alla mafia o ad altre organizzazione criminali. A loro volta tali manifestazioni devianti costituiscono una minaccia per l’intero ordine sociale e determinano un abbassamento del livello di sicurezza di tutti i cittadini. 2.1.2. I disagio da “benessere” C’è un altro tipo di disagio che non nasce da situazioni materiali deprivate, da marginalità sociale e culturale, bensì dall’eccedenza delle opportunità, dall’abbondanza di beni di consumo, dal centro e non dalla periferia del sistema socio-economico. L’abbondanza produce una situazione di sofferenza diffusa o disagio, chiamato anche “a-sintomatico”, cui mancano molti degli indicatori che una volta definivano il disagio o la marginalità sociale. Questo “disagio diffuso” o “asintomatico” si qualifica per “una molteplicità di elementi insignificanti (se visti singolarmente, per quanto riguarda la storia dei singoli soggetti) che possono però nel complesso determinare una condizione ultima di disagio” (Guidicini - Pieretti,1995, 17). Questa “asintomaticità” del disagio chiede di “spostare l’interesse sull’informale, sulla cultura, sullo psichico, sulle microfratture che si rigenerano costantemente dentro al sistema relazionale” (Guidicini - Pieretti, 1995, 21). Si tratta del disagio che nasce da determinate situazioni, come la mancata comunicazione interpersonale, la solitudine e l'isolamento che colpisce i giovani senza appartenenza, gli alienati e i culturalmente sradicati; l'handicap e il disagio psichico e fisico; la deprivazione culturale; l'impossibilità e incapacità di certi giovani ad accedere alle istituzioni (famiglia, chiesa,), o alle opportunità offerte dal sistema economico-sociale e culturale, che possono andare dal tempo libero (attività sportive, associazionismo, turismo, ecc.) alla cultura (Internet e i nuovi linguaggi) alla partecipazione sociale (partiti, sindacati, associazioni, movimenti, ecc.). Alcuni giovani, dietro ad un’identità di facciata apparentemente funzionante, nascondono una notevole fragilità interna. Un certa parte di giovani ha difficoltà di adattamento all’interno della propria attività primaria (in genere scolastica). Sovente queste difficoltà hanno un fondamento relazionale. Ciò significa che questa dimensione psicologica è quella più fortemente correlata alle espressioni del disagio e della devianza, sia come causa che come effetto. Molte di queste forme denunciano sia carenze di tipo evolutivo della personalità sia situazioni poco favorevoli dovute al sistema sociale. 17 2.1.3. Componente soggettiva ed oggettiva del disagio Il disagio, come frustrazione dei bisogni, risulta avere una componente soggettiva ed una oggettiva. “Soggettivamente il disagio si manifesta “come un insieme di percezioni, emozioni e sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che denotano uno stato generale di insoddisfazione più o meno profonda nei riguardi delle condizioni obiettive entro le quali il giovane è chiamato a vivere” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31). Pertanto il disagio rappresenta innanzitutto la percezione soggettiva, uno stato d’insoddisfazione che è, come abbiamo visto, solamente la segnalazione dell’organismo di un di qualcosa che non va. La situazione diventa patologica nel momento in cui il soggetto non riesce, o non può, soddisfare il bisogno. Si ha così la frustrazione del bisogno che segna un radicamento del problema e uno stato cronico di sofferenza. Obiettivamente, però tale situazione di disagio è anche opera della società che non fornisce al soggetto il materiale o gli strumenti per soddisfare il bisogno, o addirittura ne impedisce in qualche modo la soddisfazione. “Oggettivamente il disagio ha le sue radici nella somma di inadempienze, ritardi, tradimenti, incomprensioni di cui i giovani sono oggetto e che si sintetizzano nell'incapacità della società a rispondere alle esigenze di crescita, di autorealizzazione e di inserimento dei giovani” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31). I meccanismi sociali i responsabili del disagio sarebbero: 1. l’irrilevanza sociale della condizioni giovanile; 2. la situazione generale di complessità sociale con il conseguente tentativo giovanile di ridurla; 3. la mobilità sociale con il rimescolamento delle appartenenze; 4. la moltiplicazione e frantumazione delle appartenenze sociali e delle esperienze collettive; 5. l’ingovernabilità dei sottosistemi (economico, politico e sociale); 6. la fragilità degli ancoraggi e della legittimazione dei valori; 7. la precarietà dei percorsi dell’identità e dell’autorealizzazione giovanile; 8. l’allungamento dell’età giovanile con aumento della discrepanza tra adolescenza biopsicologica e adolescenza sociale (cfr. Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 32). A queste condizioni generali della società, si aggiungono situazioni particolari di povertà e di abbandono che aggravano la situazione personale o di alcune categorie. Pertanto, l’adolescente, lasciato da solo a definire bisogni e percorsi per soddisfarli, sperimenta ben presto il disagio, cioè la distanza tra il desiderio e le reali possibilità di appagarlo. “In tal senso il disagio vissuto è proporzionale al divario tra le attese sempre più elevate provenienti dal sistema sociale e i mezzi utilizzabili per rispondervi, tra i bisogni (materiali e post-materiali) segnalati dal soggetto e la difficoltà a soddisfarli nella vita reale” (Caliman – Pieroni, 1998, 14). 2.2. Rischio, disagio e bisogni Anche il termine “rischio” è stato impiegato come alternativa a quello di “devianza” e viene collegato al disagio. Il rischio è un aggravamento della situazione, già pericolante o disagiata, che può evolvere, per una serie di cause concomitanti (endogene ed esogene), in comportamenti devianti (auto o etero distruttivi) che possono costituire l’inizio di un vero e proprio percorso deviante (rischio di…). Anche nel presentare tale termine viene sottolineato il collegamento ai bisogni. Infatti il rischio viene definito come una serie di “situazioni obiettive e soggettive in cui vengono rese difficili e, al limite negate, le possibilità e le capacità (personali e di gruppo) di autorealizzazione e 18 di partecipazione consapevole” (Milanesi, 1984, 47), oppure, “di soddisfazione dei bisogni fondamentali” (Milanesi, 1984, 422). Anche il rischio, come il disagio, ha una componente soggettiva: “percepire come soggettivamente pericolosa una situazione in cui mancano le premesse soggettivamente considerate necessarie alla soddisfazione di bisogni soggettivamente ritenuti fondamentali” (Milanesi, 1984, 426); ed una obiettiva: “essere in una situazione in cui mancano certe premesse obiettivamente necessarie alla soddisfazione di bisogni obiettivamente fondamentali” (Milanesi, 1984, 425). Le situazioni di marginalità, povertà, assenza delle istituzioni, mancanza di cultura e/o presenza di subcultura deviante rendono la soluzione del rischio più probabile. Questo avviene quando la situazione di malessere, sofferenza diventa insopportabile per il soggetto, il quale tenta di uscire dallo stato di disagio dando delle risposte irrazionali. “L'irrazionalità consiste nel fatto che le decisioni adottate si rivelano obiettivamente distruttive per l'individuo e per la società e non avviano assolutamente a soluzione i problemi che la persona ha” (Milanesi, 1984, 32). Il rischio quindi si concretizza quando si adottano comportamenti che non costituiscono una reale risposta al bisogno e vanno in senso contrario alla linea dell’autorealizzazione. Questo tipo di risposta può essere spiegata secondo alcuni modelli psicologici: quando la frustrazione diventa insopportabile (la capacità di sopportare la frustrazione è molto soggettiva) diventa quasi inevitabile il passaggio all’atto (acting out), che si verifica soprattutto con l’esplosione aggressiva, grazie all’energia accumulata nella situazione frustrante25. Tale atto aggressivo può essere rivolto verso se stessi (autodistruttività) o contro gli altri (eterodistruttività), ma sempre con effetti dannosi, che riducono la tensione solo in senso temporaneo, ma non danno una vera risposta al bisogno. Ecco perché si parla di una risposta irrazionale. Inoltre la mancata risposta diventa causa di una nuova insoddisfazione e quindi di ulteriore tensione ed esplosione violenta, creando un circolo vizioso condizionato dal meccanismo stimolo-risposta errata. L’abitudine a questo tipo di risposta, la mancanza (o la non conoscenza) di soluzioni adeguate nel proprio ambiente, la subcultura in cui si trova immerso e i rinforzi positivi verso questo tipo di comportamenti rischiano di fare di un semplice meccanismo una vera situazione patologica ed insanabile. Il rischio, viene anche definito in base ai comportamenti adottati ed agli esiti cui può condurre. Ecco alcune tipologie di rischio (ma molte potrebbero essere di “disagio”) impiegate in alcune ricerche italiane. 25 “K. Lorenz e P. Leyhausen, partendo da alcune osservazioni sul comportamento animale, hanno ipotizzato che la violenza (in forma di aggressività reciproca) è connessa con l’ansia e l’insicurezza derivanti da una situazione di sovrappopolazione in un’area limitata, aggravata dalla presenza di sistemi rigidi di controllo e di strutture sociali costrittive, che creano la sensazione di non poter né evadere, né espandersi, né realizzarsi. Questo modo di lettura che è stato chiamato «ecologico» è ricco di applicazioni alla reale condizione di molti giovani italiani, obiettivamente «bloccati» nella soddisfazione di molti bisogni anche fondamentali (famiglia, lavoro, partecipazione) da situazioni di reale penuria delle risorse, di crescente mancanza di spazi, di assurda negazione del bisogno di espansione” […]. “Analogo discorso va fatto per il contributo offerto dalla psicanalisi. Freud (e in parte anche i successivi suoi discepoli) collega la violenza all’aggressività, o meglio ad uno sviluppo abnorme e unilaterale dell’aggressività, che è a sua volta una dimensione di base della personalità. La violenza non sarebbe quindi un comportamento solo o prevalentemente appreso, ma invece largamente derivato da una distorsione nel rapporto tra gli istinti di base. L’aggressività infatti è descritta da Freud come una manifestazione di un impulso o istinto di morte, di per sé distruttivo o aggressivo, che si può trasformare in forza positiva e costruttiva solo se adeguatamente controllata, canalizzata e orientata dall’opposto impulso o istinto di vita, che rappresenta una forte spinta alla ricerca degli altri, all’amore, alla felicità, all’autoconservazione. Nella prospettiva freudiana ogni conquista umana individuale o collettiva è sostenuta da una forte carica di aggressività sublimata, mentre ogni distruzione reca il segno di un’aggressività scatenata, sottratta al controllo della ragione umana. L’equilibrio istintuale è però sempre instabile e il rischio della violenza attraversa in continuità l’esperienza quotidiana” […]. “Il carattere appreso della violenza è invece sottolineato da Dollard e coll., i quali la mettono in relazione alla situazione di frustrazione; ma allo stesso tempo negano che vi sia un nesso deterministico tra frustrazione e aggressione violenta, poiché i modi di adattamento o superamento della frustrazione sono molti. [...] Il fenomeno che stiamo studiando sembra più diffuso nelle società caratterizzate da un’alta competitività e da processi di rapido cambio sociale, nelle quali la corsa al potere è sollecitata dall’ideologia del «rendimento ad oltranza» ma allo stesso tempo è preclusa, almeno attraverso le vie legittime, ad ampie minoranze che non sono dotate degli stessi «punti di partenza» e delle facilitazioni o privilegi di cui godono i detentori del potere. Di qui la violenza come ultima risorsa degli «esclusi»” (Milanesi, 1977, 30-35 passim). 19 2.2.1. Rischio di devianza Il rischio di devianza si connette al concetto stesso di devianza. Però, rispetto alla devianza classica, il rischio di devianza se ne differenzia per una minor strutturazione. Questo per evitare, secondo la lezione dell’interazionismo simbolico, di stigmatizzare chi infrange occasionalmente la norma: comportamento che produrrebbe solo una radicalizzazione ed interiorizzazine dell’identità deviante. Infatti, il vero deviante non è colui che ha infranto la norma, ma chi lo ha fatto in maniera visibile e ne ha ricevuto una sanzione sociale (stigma), per cui il suo status diventa irreversibile. Pertanto il “rischio di devianza” è una situazione in cui chi ha infranto una norma “lo ha fatto solo occasionalmente, o comunque non è ancora entrato nella spirale della stigmatizzazione” (Milanesi 1984, 439). Il rischio consiste nella probabilità che dalla devianza primaria si possa passare ad una devianza secondaria, cioè in una serie di “atti di affiliazione e di stigmatizzazione, tendenti a provare l'accettazione (almeno iniziale) da parte del deviante di una definizione negativa degli atti compiuti” (Milanesi 1984, 440). 2.2.2. Rischio fisico Il concetto di rischio fisico, è connesso con lo stato di salute, intesa come “condizione ottimale di funzionalità bio-fisiologica che permette un armonico sviluppo della personalità complessiva del giovane” (Milanesi, 1984, 452). La salute è il presupposto fondamentale per le possibilità di autorealizzazione e partecipazione. Il rischio per la salute comprende i seguenti livelli progressivi di rischio: 1. esposizione a comportamenti altrui presumibilmente dannosi alla salute (es. fumo); 2. sintomi di salute precaria nel soggetto; 3. malattie pregresse nella storia clinica dei famigliari o del soggetto stesso; 4. comportamenti considerati gravemente dannosi per la salute del soggetto (abitudini alimentari, uso incontrollato di medicinali, abuso di alcool e stupefacenti, condotte rischiose, ecc.). Quest’ultimo tipo di rischio si collega con il rischio di devianza. 2.2.3. Rischio consumistico Il rischio consumistico è legato essenzialmente allo sviluppo del consumo come conseguenza del miglioramento delle condizioni materiali dell’uomo contemporaneo; alle esigenze dell’economia basa sull’espansione dei consumi; alla logica dell’apparire che prevale su quella dell’essere; all’uso massiccio di oggetti status-symbol per definire la propria posizione sociale e anche la propria identità26. Tale dinamica si giocherebbe prevalentemente nel tempo libero, interpretato “secondo una modalità di fruizione che implica un certo pericolo di svuotamento delle opportunità di crescita personale e sociale” (Milanesi, 1984, 458). 26 Questo problema è connesso con il fatto che alcuni oggetti, azioni-simbolo son connessi con la definizione di status e di ruolo e che oggi tali definizioni sono continuamente posti in discussione. Loredana Sciolla accenna alla "moltiplicazione dei criteri di classificazione [...] ciò significa che uno stesso individuo, in base a certi criteri , può essere collocato in basso in alto e, in base a certi altri criteri, in basso nella gerarchia di status". Inoltre "se da un lato un individuo non può essere definito in modo univoco a partire dalla sua collocazione sociale e professionale, dall'altro anche i simboli materiali di status ( il quartiere di residenza, il modo di vestire, ecc.) sono sottoposti a rapidi mutamenti e comunque non bastano ad eliminare l'insicurezza di status [...]. Più in generale si potrebbe dire che ogni individuo ed ogni gruppo nella società moderna sono continuamente sottoposti a richieste di identificazione, ossia a richieste di specificare e definire i propri attributi e i propri confini" (Sciolla, 1983a, 61). 20 Il tempo libero, secondo Dumazedier (1978), infatti, può avere valenze autorealizzative e promozionali, come anche ludiche o compensative. Ma il tempo libero viene troppo spesso vissuto come tempo separato dal tempo “occupato”, cioè dal tempo “forte” del vissuto quotidiano (nel caso dei giovani dal tempo dedicato allo studio, al lavoro, alla famiglia). Si tratta di una separatezza che implica anche una evidente contrapposizione: non è raro, infatti, il caso che il tempo libero venga considerato dai giovani come il tempo "vero", quello in cui è possibile costruire la propria identità. Da questa dicotomia tra tempi e illusione libertaria nasce il rischio consumista, che “si configura quando il tempo libero, vissuto nella separatezza e nella contrapposizione rispetto al tempo totale dell'esperienza quotidiana offre solo (e necessariamente) occasioni di divertimento e relax che hanno lo scopo di reintegrare e omologare alla società dei consumi, secondo modelli che sono appunto funzionali ad essa e da essa elaborati”(Milanesi, 1984, 460) In questo tipo di socializzazione avviene una canalizzazione coatta dei bisogni secondo modelli consumistici, dove “il giovane è chiamato solo a consumare cultura, gioco, festa, relax e se fosse possibile anche tutto lo spazio della sua socialità, senza mai essere stimolato a produrre tutto ciò in forma più costruttiva” (Milanesi, 1984, 461). Inoltre anche molti comportamenti devianti (tossicodipendenza ed alcoolismo in primo luogo) rispondono alla stessa logica. 2.2.4. Rischio formativo Il rischio formativo si verifica quando “il ragazzo vive il rapporto con le agenzie di formazione in modo problematico, cioè sulla base di una generalizzata incertezza, sfiducia, incoerenza di orientamenti” (Milanesi, 1984, 468). Questa situazione indica uno scollamento con le agenzie di formazione. Questa si risolve in atteggiamenti negativi verso l’istituzione scolastica (ripetenze, concezione negativa della scuola); o verso l’istituzione familiare (discrepanze valoriali, mancanza di sostegno, abbandono), o nella lontananza da altre istituzioni sociali (es.: Chiesa, associazionismo, volontariato, offerte culturali, ecc.), che potrebbero migliorare il rapporto dei giovani con la società e con se stessi. 2.2.5. Rischio sociale o di marginalità Qualcuno inserisce anche il “rischio sociale”, inteso come la scarsità sul territorio di opportunità per la riuscita: difficile accessibilità all’istruzione, difficoltà nel reperimento del lavoro, povertà, scarse opportunità di aggregazione e di strutture di tempo libero organizzato o “ricco”, disgregazione familiare, conflitti relazionali, contatto con culture di carattere individualista, violento, consumista, deviante, ecc. Tali elementi potrebbero essere configurati come situazioni semplicemente di disagio, di marginalità, ma possono condurre anche a soluzioni devianti. Il confronto personale tra quello che viene richiesto al soggetto e le sue reali possibilità, peraltro fortemente condizionate da questi fattori, genera spesso la sensazione e la coscienza dell’impossibilità di attingere alle risorse. Non di rado a tale divario si accompagna anche un sentimento d’impotenza, che provoca la propria e vera rinuncia a raggiungere la propria maturità attraverso i mezzi normali e legali. È la condizione di sofferenza o lo stato d’animo al quale viene ridotto il soggetto a caratterizzare di più la condizione di disagio come impossibilità reale (oggettiva e soggettiva) di acquisire in modo ottimale ai mezzi per fronteggiare le sfide. Ciò comporta che chi si trova in tali condizioni tenda ad associarsi in bande o gruppi che praticano il rifiuto sistematico della legalità, la ricerca di forme di sopravvivenza parassitaria, il rifiuto di ogni forma di partecipazione sociale e di ogni attività associativa strutturata, l’attrazione verso modelli fortemente 21 consumistici, edonistici e violenti. Tali soluzioni si configurano a loro volta come rischio di devianza 2.3. Bisogni frustrati nelle situazioni di disagio e di rischio Il disagio e le condotte a rischio, cui dà luogo, costituiscono quindi una segnalazione di un bisogno “frustrato”. Tuttavia, data la duplice natura del bisogno, il disagio segnala un “bisognostato”, non indica ancora quale sia l’oggetto di tale bisogno, il bene o la situazione che ne rappresenta la corretta soddisfazione. Anzi, s’è visto, sovente l’adolescente non riesce ad interpretare correttamente i suoi bisogni e dà risposte irrazionali che lo espongono al “rischio”. L’operazione interpretativa non è né facile né univoca. Infatti, mentre i bisogni espressi direttamente indicano chiaramente l’oggetto, nel caso del disagio è molto più alto il rischio di arbitrarietà. Non per niente si parla, tra gli studiosi, del “disagio interpretativo”. Infatti, al di là di bisogni abbastanza facilmente individuabili, come quelli primari, le interpretazioni si sprecano. Capire quale sia il bisogno che emerge da un certo disagio è operazione interpretativa, che dipende sovente dalle impostazioni di base dell’interprete, oppure da esperienze pregresse, o da desideri e sogni che ognuno porta dentro di sé. 2.3.1. Ambivalenza delle condotte giovanili Per rendere più esplicito il nostro ragionamento forniamo alcuni esempi di diversità di interpretazioni in cui ci siamo imbattuti negli autori che abbiamo accostato. Un primo esempio può essere fornito dalla diversa valutazione che viene data ai comportamenti trasgressivi o a rischio. C’è chi li considera come un rifiuto all’integrazione sociale e quindi frutto di una cattiva socializzazione (struttural-funzionalismo), chi invece un elemento di innovazione nella società (sociologia critica). C’è chi li valuta come un bisogno evolutivo, di autonomia, di presa di distanza dal mondo adulto e dal modello infantile “eterodiretto”. La prospettiva interazionista e costruttivista ha evidenziato che tali comportamenti svolgono delle precise funzioni nel processo di adattamento tra l'individuo e l'ambiente e sono il risultato di un'azione orientata ad uno scopo, in relazione ai compiti di sviluppo ed alle opportunità offerte dal contesto. Lo sviluppo dell'identità e la partecipazione sociale si declinerebbero, infatti, in funzioni specifiche definite come "adultità": trasgressione, affermazione e sperimentazione del sé, fuga dalla realtà e ricerca di una risoluzione emotiva immediata, costruzione di un legame sociale e di gruppo con i coetanei. Dato il progressivo rinvio dell'ingresso nell'età adulta che caratterizza le società occidentali; spesso il ragazzo assume comportamenti che vengono ritenuti significativi dello status sociale adulto come ad esempio il fumo di sigaretta o il consumo di alcool. La definizione della propria identità sovente viene cercata in attività di natura prevalentemente simbolica, che si connota di tratti negativi, nell’impossibilità di sperimentare un ruolo positivo, di “contare” in questa società. Tuttavia alcuni dei comportamenti trasgressivi e rischiosi, a giudizio di altri, denunciano non solo la ricerca di una via autonoma di realizzazione, ma anche un disagio dovuto a bisogni non soddisfatti a tempo debito: “scarsa autostima, disagio psicologico (immaturità affettiva e cognitiva, inquietudine, ecc.), vissuti abbandonici, incapacità di riconoscere l'autorità genitoriale, fallimenti scolastici o difficoltà in ambito lavorativo” (EURISPES, 2002, 148). D’altra parte il rischio e la trasgressione sono anche elementi costitutivi di questa società: saper rischiare è una condizione essenziale per il successo in una società sempre più competitiva e sempre meno garantita. Per gli adolescenti l’accettazione della sfida insita in situazioni pericolose 22 diventa un modo per affermarsi e realizzarsi in un mondo dove il saper rischiare fa parte delle abilità che la società richiede a chi vuole farsi strada nella vita. I bisogni che sembrano emergere da certe forme di divertimento, come quello in discoteca sono quelli di appartenenza, di compagnia, d’identità, di espressività. Ma anche tentativi di nascondere problemi di personalità e di identità, o di sfuggire ai problemi della vita attraverso stati di alterazione della coscienza (lo “sballo”). Inoltre, tali strade sembrano far intravedere l’esistenza di un sistema di valori come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione e della novità (Labos, 1994). I disturbi delle condotte alimentari sembrano indicare difficoltà ad accettare le trasformazioni del proprio corpo ed il confronto con quello degli altri. Ma anche la dipendenza da modelli estetici imposti dalla moda e dalla pubblicità. Le fughe (dalla famiglia o dalla vita) possono rappresentare una reazione finalizzata all'evasione e all’evitamento delle difficoltà, acuite nel corso dell'adolescenza dalle trasformazioni psico-fisiologiche, dal bisogno di agire, da capacità cognitive ed emozionali ancora immature, pensando “di diminuire l’angoscia e di trovare vie d’uscita da una situazione che si percepisce come insopportabile” (EURISPES, 2002, 148). Molti casi di suicidio o tentato suicidio hanno alle spalle significative perdite/separazioni, genitori con problemi di alcolismo o con disturbi psichici, esperienze di vittimizzazione violenta (fisiche, molestie o abusi sessuali, psicologiche), isolamento. Tuttavia tali forme possono anche dipendere da disturbi psichiatrici, disordini della condotta ed altre forme di disagio psichico (instabilità emozionale, comportamenti autodistruttivi, incapacità di controllo degli impulsi, scarsa tolleranza allo stress, scarse capacità di risoluzione dei problemi, credenze rigide o irrazionali, ecc.). A loro volta, le forme di autodistruttività come l’anoressia, la bulimia, il consumo di droghe, le fughe da casa i suicidi o tentati suicidi possono rappresentare un richiamo su di sé ed un tentativo di risolvere in maniera “drammatica” i propri problemi. Sovente le radici del malessere stanno anche nelle situazioni familiari, ed in particolare, nell’atteggiamento di genitori troppo impegnati nel lavoro alla ricerca sempre più intensa del benessere, ma poco attenti ai figli, ad un sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità. Tali forme possono anche essere una specie di denuncia sociale: «Per molti giovani poi il rischio della morte rappresenta il tentativo estremo o di affermare la propria individualità contro l’anonimato sociale o di dichiarare quell’unità mistica con il tutto che la vita opaca del presente non consente di cogliere. Infatti come suggerisce Morin “questa affermazione dell’Io nel rischio di morte contiene molto spesso un’esaltazione del Sé” » (Labos, 1994, 38). Anche forme di violenza, cosiddetta “espressiva” o “simbolica” avrebbero come scopo principale quella di manifestare un disagio, di esprimere, con forme altamente spettacolari, il proprio malessere: la difficoltà a riconoscersi ed integrarsi in questa società. Perciò si esprimerebbero con rabbia distruttrice contro tutto ciò che simboleggia una civiltà da cui si sentono attratti e respinti insieme. «La presenza di questa autodistruttività non può essere banalizzata, in quanto interpella la responsabilità del mondo adulto sulla necessità di offrire all’orizzonte esistenziale dei giovani sia la conquista della loro identità, messa in crisi dalla complessità sociale, sia la capacità di alterità che sola può metterli in relazione con l’esperienza di amore che tesse la presenza umana nel mondo. Lo stesso senso religioso della vita ha bisogno di questo fondamento antropologico per aprire il giovane all’invocazione verso l’assoluta Trascendenza. I comportamenti devianti dei giovani che abitano il disagio conclamato sono lo specchio crudele attraverso cui è possibile leggere la finitudine dell’attuale condizione sociale e scoprire le vie da percorrere per il suo superamento » (Labos, 1994, 38). “Un’ulteriore ipotesi, negli ultimi anni divenuta molto nota, è quella della forbice che si creerebbe tra competenze intellettive di vario tipo dei ragazzi e competenze sociali ed emotive. Ci si è accorti, infatti, che abbiamo costruito dei ‘mostri intelligenti’, capaci di usare tecnologie, che ricevono un'infinità di informazioni, molto di più che nel passato, ma sempre più fragili dal punto di 23 vista emotivo e sociale, in termini di comunicazione sociale, di abilità di stare con gli altri, di accorgersi delle proprie emozioni, di avere empatia” (Dipartimento di giustizia minorile, . 2.3.2. Principali bisogni frustrati Dopo questa carrellata sulle possibili interpretazioni del disagio e rischio, ci accingiamo a stilare una lista dei principali bisogni “frustrati”, sulla scorta delle indicazioni ottenute dalla lettura di vari autori, con la consapevolezza dell’alta problematicità che impone ogni intervento definitorio e dell’aleatorietà che ha un’operazione come quella che stiamo compiendo. In ogni caso, il disagio giovanile sembra poter essere ricondotto ai seguenti gruppi di bisogni: 1. Bisogni materiali (situazioni di povertà materiale, di emarginazione, ecc.): situazioni residuali in Italia, anche se non completamente scomparse. Si verificano molto di più con gli immigrati. 2. Bisogni di sicurezza (economica, sociale, personale). Il problema più grave è dato dalla mancanza di lavoro che minaccia potenzialmente tutti i giovani in Italia, anche se col tempo la maggioranza trova una soluzione; in ogni caso il sistema di sostegni familiari e sociali consente di non cadere nell’indigenza. Altro problema molto sentito è la sicurezza sociale, minacciata soprattutto dalla delinquenza, dall’immigrazione, ma anche dalle condotte a rischio degli stessi giovani. Infine ci sono problemi di sicurezza personale che però si collegano a quelli affettivi, cognitivi e dell’identità. 3. Bisogni affettivi, da soddisfare sia nella famiglia, che nel gruppo o nelle relazioni diadiche. Bisogni che sovente la stessa famiglia, per ragioni di lavoro, di coppia, o di maturazione personale, non riesce a garantire ai figli; ciò mina la fiducia di base nel bambino in tenera età, o la possibilità di dialogo e di un adeguato sostegno affettivo nell’adolescente. Questa carenza a sua volta riduce la sicurezza personale, incide negativamente sulla capacità di maturazione affettiva, con effetti di moltiplicazione del disagio. 4. Bisogni sociali, di relazione ed appartenenza, di inserimento ed accoglienza in un gruppo e nella società, di autonomia dalla famiglia, di adattamento alla società e modificarla, di contribuire al suo sviluppo, di partecipazione e protagonismo sociale, di sperimentazione sociale. 5. Bisogni formativi, connessi con i compiti di sviluppo dell’età: comprendono sia i bisogni di istruzione e formazione professionale, come anche quelli di sociali, di autonomia, di identità, di maturazione psichica, sociale e culturale, di equilibrio emotivo e mentale. 6. Bisogno cognitivi: di percepire chiaramente la situazione e il suo significato (cioè le conseguenze delle proprie reazioni ad essa), di una visione del mondo chiara. 7. Bisogni di stima, sociale e personale (o autostima per il proprio valore, misurato sovente in base a quello che si sa fare o all’apprezzamento sociale), di avere un concetto positivo della propria adeguatezza e competenza. 8. Bisogni di accettazione di sé, del proprio corpo, emozioni, sentimenti, limiti, cambiamenti, ecc. 9. Bisogni autorealizzativi: di occupazione, di disporre dei mezzi necessari per controllare le situazioni e soddisfare i bisogni fondamentali; 10. Bisogni espressivi e comunicativi, che si realizzano prevalentemente nel tempo libero, nei divertimenti e nei consumi, nella comunicazione sociale e interpersonale, nella soddisfazione estetica, nella produzione artistica o negli hobbies. 11. Bisogni esistenziali: di significato, di senso, di un quadro di valori organizzato che conferisca coerenza ed unità alle esperienze, ai vissuti e alle idee che si va formando. 24 12. Bisogni trascendentali: di uscire fuori di sé, di relazionarsi con l’altro, il diverso, di accettare gli altri nella loro diversità, le situazioni impreviste, disponibilità a cambiare punto di vista, abitudini, situazioni di vita, flessibilità, ecc. 13. Bisogno di integrazione dei motivi, dei valori, dei comportamenti ed atteggiamenti, di possedersi completamente, in totalità. 2.3.3. Interazione tra soggetto e società Questi bisogni, emergenti dal disagio, indicano che la società non è ancora riuscita a soddisfare tutti i bisogni, nonostante il suo enorme sviluppo ed il livello di benessere raggiunto. Comunque non tutto dev’essere imputato alla società: molto sovente il disagio può indicare anche precise responsabilità personali, o comunque ragioni che hanno origine all’interno del soggetto o dalla sua storia personale. Ragioni che sono più difficili da spiegare perché provengono da un’ampia costellazione di variabili. Tuttavia va riconosciuto che, al di là dei singoli casi riconducibili a patologie personali o familiari, qualora un tipo di fenomeno diventa generalizzato esso rimanda a cause sociali che incidono in maniera significativa sulle condotte e sugli atteggiamenti dei singoli. Da molti autori la società è stata chiamata in causa, come causa prima di comportamenti che hanno visto i giovani come protagonisti. In fondo si riconosce che, nell’interazione individuo-società, l’individuo è sempre in posizione svantaggiata, particolarmente nel caso dell’adolescente, che ha una personalità ancora in formazione, e quindi non ha ancora dei criteri stabili di valutazione e di comportamento. Pertanto, sia per l’impostazione del nostro lavoro, sia per queste considerazioni dello svantaggio personale, tendiamo a considerare il disagio giovanile frutto di cause sociali, le quali influiscono sui comportamenti, sugli atteggiamenti e sui valori che l’adolescente adotta. Ciò rimanda ai meccanismi della socializzazione e dell’inculturazione, alle responsabilità della società nel suo complesso e delle agenzie preposte a tali interventi. Soprattutto quando i bisogni appaiono non tanto sul piano materiale, ma soprattutto su quello immateriale. Molti dei disagi evidenziati sembrano infatti indicare carenze sul piano formativo, che chiama in causa i processi di socializzazione. 2.4. Fattori macrosociali del disagio e del rischio Le dinamiche del disagio e del rischio sono riconducibili a fattori più generali che investono tutta la società, nella sua complessità. Ne indichiamo alcuni, senza la pretesa di essere esaustivi, tantomeno di mostrare i collegamenti con i fenomeni della devianza-disagio giovanile, se non secondo criteri di logica astratta, non sempre dimostrabili empiricamente. 2.4.1. Gli effetti della sistema economico Il sistema economico sembra avere un ruolo di rimordine nella produzione del disagio, anche perché ad esso è tradizionalmente attribuito il compito di provvedere i beni necessari alla soddisfazione dei bisogni vitali. Questo sistema ha subito delle profonde trasformazioni negli ultimi anni che vanno sotto il nome di rivoluzione “post-industriale”27. Questo sovvertimento ha 27 - "Grosso modo - scrive Domenico De Masi - [i tratti essenziali della società post-industriale] consistono in una prevalenza 25 comportato un cambio nel modo di produrre e distribuire le merci, ma anche nei valori e nell’organizzazione della società. “Deverticalizzazione” delle imprese, “terziarizzazione” dell’economia, “razionalizzazione” dei comportamenti e della produzione, rivoluzione microelettronica ed informatica, “flessibilità”, “creatività”, “qualità”, “delocalizzazione” delle industrie e “globalizzazione” del mercato, sono alcuni termini che hanno tentato di descrivere questo nuovo dell’economia. 2.4.1.1. Effetti sull’occupazione giovanile Un effetto di questo tipo di economia è la riduzione dell’occupazione. La rivoluzione microelettronica e informatica, la “deverticalizzazione” e la “delocalizzazione” consentono di ridurre notevolmente la manodopera o di avvalersi di manodopera a basso costo. Aumenta la divaricazione tra società produttiva e società riproduttiva, con tendenza a legittimare l’alto livello di selettività che l’innovazione tecnologica è in grado di introdurre in tutte le forme di vita associata. I giovani, con le donne, sono coloro che più scontano gli effetti di queste trasformazioni strutturali. A loro si apre di norma il settore dei lavori precari, non garantiti, del lavoro nero, del lavoro a domicilio... Si tratta di occupazioni che non permettono al giovane un’emancipazione e autonomia di vita. È anche forte il rischio di disoccupazione intellettuale, perché ai giovani si aprono più possibilità di lavoro in occupazioni di livello inferiore rispetto a quelle cui potrebbero aspirare col titolo di studi conseguito. Tuttavia la maggior qualificazione alla fine premia coloro che hanno investito in formazione. In ogni caso, le incertezze nel mondo del lavoro rendono molto più precaria la situazione giovanile e la fase di socializzazione, costringendo i soggetti a ripiegamenti adattivi. L’espulsione dei giovani dal sistema produttivo o la loro marginalizzazione in attesa di una cooptazione, costringe a disancorare la definizione dell’identità da uno dei suoi referenti principali: il lavoro. In compenso la precarietà lavorativa e la lunga permanenza nelle strutture formative trasferisce nel tempo libero e nei valori espressivi molte delle attese di realizzazione che prima erano investite sulla professione e sui valori ad essa afferenti. Infine le difficoltà di transizione tra scuola e lavoro rendono precario e aleatorio anche il rapporto con la scuola che non riesce a garantire quell’ingresso nella vita sociale adulta che ne giustificava l’esistenza. Infine l’incertezza e la precarietà lavorativa rende tutto più relativo e fa perdere fiducia nelle istituzioni e nella società, oltre che in se stessi, riducendo significativamente il livello di autostima. Se per molti giovani il tempo impiegato nella formazione e nella ricerca di lavoro viene compensato dai vantaggi che ne traggono in seguito, gli effetti negativi si cumulano invece per i giovani più svantaggiati. Essi si smarriscono nei percorsi dei lavori precari e irregolari o in quelli generati da un’aspettativa irrealistica, che crea una forbice incolmabile tra le loro reali possibilità e i loro sogni ad occhi aperti, oppure ancora nei percorsi di quell’ozio assistito almeno da un minimo di benessere che porta a sperimentare le nebbie del tempo vuoto nel tentativo di dare un senso al proprio esistere. degli addetti al settore terziario, rispetto ai lavoratori dell'industria e dell'agricoltura; in un declino dei modelli di vita improntati alla fabbrica e alla grande industria; in un emergere di valori e culture centrate sul tempo libero; in un ruolo centrale della conoscenza teorica, della pianificazione sociale, della ricerca scientifica, della produzione di idee della istruzione; in un declino della lotta di classe polarizzata, sostituita da una pluralità di conflitti e di movimenti, anche per la presenza di nuovi soggetti sociali; in un prevalere di attributi caratteriali narcisistici che soppiantano o integrano quelli edipici nella struttura delle personalità individuali" (De Masi, 1985, 46). L'evoluzione verso questo nuovo tipo di società "è stata resa possibile dalla rivoluzione microelettronica e si è imposta per il ruolo che son venute ad assumere la variabile demografica nonché la variabile energetica" (Terranova, 1988, 62). Il mercato dei beni simbolici diventa strategico. La scienza costituisce fattore di produzione e fondamento del potere. La lotta per il potere diventa lotta per il controllo dei mezzi di produzione di significato. 26 2.4.1.2. Consumismo e nuovi bisogni Il sempre maggior consumo è il motore dell’economia, perciò è necessario inventare sempre nuovi bisogni che possono essere soddisfatti solo da prodotti sempre più sofisticati. La spinta ai consumi viene incrementata dalla pubblicità. Questo nuovo elemento della dinamica economica rende obsoleta, o almeno molto precaria, una classificazione “naturale” dei bisogni. La necessità di consumare ha determinato, inoltre, un cambio radicale delle strategie del sistema produttivo. Mentre nella fase iniziale dell’industrializzazione era necessario coltivare virtù come la dedizione maniacale al lavoro, lo spirito di sacrificio, il risparmio, la disciplina del corpo, ora invece è necessario consumare: quindi via libera al piacere, alla distensione, alla diminuzione dei controlli. Il consumo deve essere una cosa ‘libera’, non imposta. D’altra parte per esigenze di mercato bisogna far consumare le merci prodotte e non altro: quindi ecco la sottile seduzione della pubblicità per indurre al consumo dei prodotti voluti. Com’è possibile ottenere questo se non operando sui desideri?28 Bisogna liberare la libidine ed indirizzarne la soddisfazione entro i canali della produzione commerciale. La cosa avrà successo se sarà presentata come un cammino di liberazione. Alla voce grave del dovere si sostituisce quella suadente del piacere e dei media che ne sono i mentori. Secondo la tesi di un discepolo di Braudillard, Buxton (1987), il consumo ha potuto superare la barriera dei bisogni naturali ricorrendo alla logica della differenziazione sociale tramite gli “oggetti-simbolo” (moto/auto, abbigliamento, sport, turismo, ecc.). Questi hanno potuto essere introdotti attraverso delle sottoculture popolari (spesso contrassegnate da stili musicali e di abbigliamento) che hanno fatto di alcuni oggetti i caratteri distintivi di una certa sottocultura e di un certo livello sociale. Di queste si appropria un certo ceto sociale, e sono praticate come segno di distinzione e di appartenenza a quella classe. L'aspirazione, presente in molti ceti sociali, ad avanzare nella scala sociale, produrrebbe una continua sostituzione degli oggetti/attività-simbolo, con una ‘escalation’ consumistica che sposta continuamente i confini, senza peraltro modificare sostanzialmente lo status sociale di ognuno. Il gioco è solo funzionale al mondo produttivo, ma l’illusione pubblicitaria fa credere che dal possesso di un oggetto si potrà raggiungere uno status sociale più elevato o una maggior felicità. Così verrebbero trasferiti nel tempo libero i rapporti di forza che prima erano agiti nel mondo del lavoro. Infatti i conflitti che caratterizzano la società sarebbero giocati "nella pratica delle attività di tempo libero, concepite come pratiche di consumo culturale" (Lalive d'Epinay, 1980, 87). I giovani, cui non è offerta altra opportunità di inserimento sociale se non quella del consumo, investono moltissimo su questo aspetto, anche perché, il consumo diventa la “sede della identificazione individuale e sociale dell'individuo” (Ancona, 1988, 18). Un’identità destinata a rimanere comunque passiva e dipendente dal consumo, dove i valori della produzione saranno rimpiazzati da quelli del consumo. La spinta consumistica produce inoltre uno spostamento verso l’alto della soglia minima di soddisfazione materiale, con effetto di ritorno ai valori materiali e alla pratica della differenziazione sociale attraverso il possesso di alcuni oggetti-simbolo. Ciò genererebbe la situazione dei “bisogni misti” e della “cultura combinatoria” ci cui parlava Sorcioni (1992). I bisogni materiali non sono più causa delle nuove istanze valoriali ma ne sono l’effetto. Molte forme di disagio nascono proprio da questa logica perversa: oggi se è inclusi (in) o esclusi (out) in base ai consumi. Ciò impedisce di poter usare una scala dei bisogni attendibile e certa. Ciò che è necessario non viene più definito in base ad una logica materiale bensì ad istanze valoriali che dipendono dagli stili di vita e dalla pressione consumistica. Cosicché e le situazioni si intrecciano e diventano problematiche per la serie di variabili intervenienti. Non è più possibile 28 - La produzione. “non contenta di sfruttare del corpo la forza-lavoro, ne sfrutta la forza del desiderio allucinandolo con quei bisogni da soddisfare quali la bellezza, la giovinezza, la salute, la sessualità che sono poi i nuovi valori da vendere” (Galimberti 1989, 207). 27 risalire da un sintomo ad una causa certa. Per esempio, l’anoressia, che può essere un problema adolescenziale raro, è diventato un problema sociale in seguito al mito della magrezza e di un certo modo di intendere la bellezza, soprattutto femminile. Inoltre, diventando il consumo un referente sociale indispensabile, si innesta la corsa ad essere i primi del proprio ambiente a possedere certi oggetti-simbolo. Bisogna essere sempre all’erta e pronti a cogliere i segnali del mutamento delle mode. Se non si è rapidi in questo gioco si è rapidamente “out”. Così, il continuo susseguirsi di mode e di stili di consumo favorisce nei giovani il consolidarsi di una cultura dell’immediatezza. L’autorealizzazione si attua più nell’avere e nell’apparire che nell’essere. 2.4.1.3. La cultura dell’eccitazione e della novità Come effetto del massiccio ingresso della logica dei consumi è nata una nuova cultura che minaccia i giovani in un momento di fragilità psichica, offrendosi come via di soluzione ai problemi dell’incertezza identitaria e valoriale. La ricerca Labos (1994) ha individuato come fattore principale del disagio giovanile un sistema di valori che intende la vita come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione e della novità. “Questo sistema di valori è presente in giovani che danno una estrema importanza alla vita eccitante, stimolante, variegata e con molte novità, al piacere, alla gratificazione dei desideri e al godimento attraverso il sesso e il cibo, all’audacia, all’avventura e anche alla creatività” (Labos, 1994, 26). “E’ un sistema di valori che spinge i giovani che lo hanno assunto verso la ricerca del senso della vita, o perlomeno dell’appagamento della loro sete di vita, all’esterno di sé, nelle cose materiali e immateriali che li circondano” (Labos, 1994, 26). Gli autori sostengono che questo sistema di valori “è portatore di rischio di disagio per la vita del giovane” (Labos, 1994, 26). Infatti dall’eccessiva valorizzazione dell’eccitazione, del piacere e dell’avventura consegue una continua ricerca di nuove forme, luoghi, attività e persone attraverso cui soddisfare il proprio desiderio. Questa ricerca può condurre a “esperienze limite e ad accettare proposte e occasioni di consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope, di azioni rischiose per la propria e l’altrui vita, di azioni trasgressive o devianti” (Labos 1994, 26-27). Tale atteggiamento, favorevole al rischio, viene assecondato anche da alcune caratteristiche intrinseche della società attuale. Oggi, infatti, si sta imponendo un nuovo modello interpretativo - di ispirazione anglosassone e tedesca - che considera il rischio in un’accezione positiva: saper rischiare è, ad esempio, una condizione essenziale per il successo in una società sempre più competitiva e sempre meno garantita. La diversa percezione del rischio segnala lo spostamento di prospettiva da un orientamento verso traguardi di sicurezza ad obiettivi nei quali trova spazio il mettersi in gioco e il non accontentarsi. L'etica del successo sembra avere, in altre parole, contagiato larghe masse di giovani che appaiono consapevoli che il saper rischiare faccia parte delle abilità che la società attuale richiede a chi vuole farsi strada nella vita. 2.4.1.4. Permanenza di povertà e bisogni materiali Nonostante l’indubbia crescita economica della società italiana ed occidentale in questi trent’anni, e la situazione generale di benessere, permangono sacche di reale marginalità (talora di tipo residuale) che non consentono il soddisfacimento di bisogni materiali secondo lo standard medio del contesto in cui si vive29. Non pochi giovani si percepiscono in situazione di disagio 29 “La transizione verso la società post-industriale ha lasciato indietro un certo numero di bisogni primari/materiali insoddisfatti, almeno per una certa parte della popolazione giovanile. […Si può ipotizzare che] “il passaggio verso la società postindustriale cumula insoddisfazione di certi bisogni materiali (in una parte della popolazione giovanile) con l’insoddisfazione generalizzata dei nuovi bisogni (in tutta la popolazione giovanile)” (Milanesi, 1986, 133). E che “le diverse radici delle nuove povertà giovanili spesso si intersecano e si sovrappongono dando origine a situazioni in cui povertà oggettiva e soggettiva, marginalità e dipendenza, diversità e alienazione si trovano variamente combinate e formano tipologie inedite e perciò quasi inesplorate” (Milanesi, 1986, 133). 28 perché si ritengono insoddisfatti rispetto a bisogni che essi valutano come fondamentali ed essenziali ad una “sopravvivenza adeguata” (deprivazione relativa30). Se consideriamo la condizione di marginalità come esclusione dalla società produttiva e confinamento in quella riproduttiva, dobbiamo ritenere che questa condizione ha caratteri di relativa permanenza solo per gruppi ben identificabili di giovani, mentre per la generalità è da considerarsi solo un rischio diffuso ma transitorio che coincide con la dipendenza forzata e prolungata. Basta ricordare la marginalità (e la correlativa povertà economica e/o culturale morale e psicologica) che viene dalla disoccupazione, dall’emigrazione, dalla devianza, dalla ‘diversità’ socialmente inaccettabile, dalle diverse forme di analfabetismo elettronico, informatico, massmediale, ecc. In questa società troverebbero posto, accanto alle povertà tradizionali, diversi gruppi, ceti, strati in nuova povertà (proletariato marginale, lavoratori dipendenti non qualificati, strati in via di mobilità discendente, handicappati fisici e psichici, ecc.). Il nuovo povero è in realtà l’escluso dalla capacità di esercitare il controllo (cioè di conoscere ed utilizzare) sulle nuove conoscenze tecnicoscientifiche. In questo senso la nuova povertà si identifica quasi totalmente con la marginalità economica e sociale e si esprime non solo in termini economici ma anche culturali e psicologici. L’avvento dello stato sociale ha contribuito notevolmente a migliorare le condizioni sociali della popolazione povera nei paesi europei, ma ne ha anche ampliato le aspettative. Pertanto il Wefare State è diventato paradossalmente un fattore di produzione e di strutturazione di povertà da una parte, elevando la soglia dei bisogni la cui soddisfazione definisce la qualità della vita, contribuisce ad allargare l'area dei poveri, cioè di coloro che non sono in grado di soddisfare autonomamente tali bisogni; dall'altra, esaltando il principio dell'assistenzialismo favorisce il permanere dei poveri nella loro condizione di sostanziale dipendenza. Si costituisce così una categoria i nuovi poveri che viene definita in base alla frustrazione di bisogni socialmente indotti (Caliman, 1997). Molti oggi si attendono dallo stato la soddisfazione dei propri bisogni percepiti come inderogabili, divenuti quindi dei diritti. La moltiplicazione delle situazioni, la polisemia dei significati, l’aumento delle aspettative ha prodotto “nuove povertà” che si riferiscono a situazioni e bisogni molto diversi. Così le vecchie povertà, possono corrispondere alla mancata soddisfazione di bisogni primari, come l’alimentazione, l’abitazione, la salute, la sicurezza, o a problemi sociali ad essi connessi come la disoccupazione, l’emigrazione, la delinquenza, l’alcoolismo, la violenza, ecc. Mentre invece con il termine nuove povertà si intende la frustrazione di bisogni di tipo secondario, bisogni emergenti o meta-bisogni, in cui entrano elementi che hanno a che fare con la cultura, la psiche, lo spirito, ecc. Di qui la nascita di un disagio diffuso dai contorni assai incerti. In particolare sembra rilevante, entro queste forme di marginalità/povertà giovanile, il fenomeno non infrequente della interiorizzazione della cultura della marginalità, cioè dell’accettazione più o meno consapevole della marginalità e della povertà come destino insuperabile e come condanna sociale. Facilitata da ideologie varie di segno nichilista, tale interiorizzazione preoccupa per le gravi conseguenze che essa può produrre a livello di identità individuale e collettiva, anche se il fenomeno non può dirsi di massa. 2.4.2. Gli effetti del sistema sociale complesso Dagli anni ‘70 è diventata sempre più frequente da parte dei sociologi l’applicazione della categoria della complessità31 nell’analisi della società. Con questo termine si sottolinea la forte 30 “La sensazione di povertà relativa, […] ha una componente soggettiva e può comportare, più della povertà economica, insoddisfazione, senso di disagio e rischio di devianza” (Caliman, 1997, 114). Il concetto è stato elaborato per primo da Runciman. 31 - "Nella tradizione sociologica (da Durkheim a Simmel a Parsons) quando si parla di complessità del sistema sociale in riferimento alle moderne società industriali si istituiscono fondamentalmente due tipi di correlazioni. La prima riguarda il numero e 29 differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle relazioni tra loro32. Pertanto la complessità non è una caratteristica delle cose o delle persone, piuttosto una modalità di descrizione di situazioni o problemi caratterizzati da numerose interdipendenze relazionali. Di questa configurazione della società c'è poi chi sottolinea di più la moltiplicazione delle possibilità, la crescita di opportunità, dell'organizzazione, ma non manca chi fa notare la progressiva ingovernabilità dei sistemi, la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili33. Si registra, infatti, la frammentazione della realtà sociale ed la pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato, con conseguenti effetti disgregatori sul tessuto sociale. Questo comporta per gli individui un aumento di opportunità ed una diminuzione del controllo sociale. Mentre ciò accresce le possibilità per il singolo, aumenta anche il carico di responsabilità personale e la probabilità che non riesca a far fronte alle richieste della società 34. Perciò tale assetto della società pone notevoli problemi di integrazione e quindi di adattamento e di identità35. Quest'ultimo inconveniente tocca in maniera particolare i giovani, che non hanno ancora raggiunto un'identità stabile. 2.4.2.1. Complessità e frammentazione dei sistemi normativi e valoriali Il tema degli effetti della complessità sulle persone e sul sistema culturale è stato varie volte preso in considerazione dagli autori che abbiamo analizzato; si è parlato di “crisi di valori” 36 connesso con l’esperienza della complessità. Si è constatato che i valori “si stavano progressivamente limitando all’interno di segmenti circoscritti della vita quotidiana, mentre prevaleva il pragmatismo che, dalla sfera economico-produttiva, tendeva ad invadere progressivamente tutti gli altri settori della vita sociale” (Calvaruzo – Abbruzzese, 1985). Che la la varietà degli elementi del sistema, la seconda il numero delle relazioni di interdipendenza tra questi stessi elementi. [...] E' quest'ultima - la densità dinamica e morale della società - la caratteristica saliente in senso sociologico che si sviluppa solo con la differenziazione e con l'affermarsi della logica della divisione del lavoro" (Sciolla 1983, 45). Bisogna però riconoscere che sovente tale situazione viene percepita per le difficoltà che comporta. in effetti, il concetto di "società complessa" ha cominciato a diffondersi con la crisi socio-economica degli inizi degli anni '80, nel momento in cui "l'attenzione non va più alla dinamica di sviluppo delle nostre società, ma all'arresto di questa dinamica, agli imprevisti effetti disgregatori: ingovernabilità, instabilità, differenziazione e disarticolazione dei processi produttivi, dilatazione dei settori distributivi e dell'amministrazione, espansione dell'interventismo statale, disgregazione e moltiplicazione dei gruppi sociali, circolarità tra aspettative e frustrazioni collettive" (Montesperelli 1984, 25). 32 - Secondo Pier Paolo Donati (1985) quattro sarebbero le accezioni relative al termine "complessità" applicato alla società: 1) Complicazione, cioè "crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni in un sistema sociale dato" (p. 6). 2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, "derivante dall'operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o, incommensurabili" (p. 6). 3) Variety pool, cioè "una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sempre maggiore di possibilità alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)" (p. 7). 4) Entropia, "ordine (sociale) probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla variabilità (differenza)" (p. 7). 33 - "Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità" (Garelli 1991, 540). 34 - "A livello dei soggetti la complessità assume il carattere di differenziazione sociale. Nel tempo presente gli individui e i gruppi sociali hanno a disposizione possibilità, occasioni, opportunità di scelta e di orientamento, di un livello e di una quantità inimmaginabili nel recente passato" (Garelli 1991, 540). 35 - "Il principio di differenziazione e di complessificazione dei rapporti sociali così inteso definisce anche il quadro sociale entro cui si opera una radicale trasformazione del rapporto individuo/società. Il principio di individuazione, la possibilità stessa da parte dell'individuo di costruirsi un'immagine di sé ricca di contenuto e fortemente individualizzata, di non essere più assorbito dal gruppo, identificato in esso, sorge solo in un contesto sociale in cui molte e diversificate siano le forze in gioco" (Sciolla 1983, 45). 36 “La crisi dei sistemi di valori finisce con l’essere il correlato dall’evoluzione dei sistemi di organizzazione, produzione e comunicazione. Il mutamento dei valori, il declino della loro omogeneità interna, si pone così come il risultato di un duplice processo. Da un lato è infatti definibile un processo di differenziazione sociale direttamente conseguente alla velocità dei mutamenti tecnologici e delle organizzazioni produttive: diverse formazioni sociali finiscono con il coesistere l’una accanto all’altra, all’interno della stessa società, creando reti di valori tra loro eterogenei, non riducibili ad una cultura unitaria. Dall’altro lato è invece possibile individuare un processo che possiamo definire di impermeabilità istituzionale: le istituzioni economiche, politiche, amministrative sono, o sembrano, sempre di più indifferenti e impenetrabili rispetto a qualsiasi sistema di valori in quanto sempre più dominate dal processo di razionalizzazione, cioè dal primato della razionalità rispetto ai fini come unico valore ammissibile (Calvaruso Abbruzzese, 1985, 3). 30 frantumazione sociale comportava anche una ridefinizione dei valori e soprattutto dei criteri di riferimento, connessi con le istituzioni che vi presiedevano. Più che i valori, si è affermato, erano entrati in crisi i criteri che ne permettevano la gerarchizzazione, in quanto le istituzioni preposte a tale compito erano costrette a complessificare la propria logica interna e quindi a rendere di fatto meno intensa la loro funzione di riproduzione e diffusione dei criteri di priorità. Di conseguenza, il bisogno di senso diventa il bisogno percepito con maggior urgenza in un momento di transizione difficile, dove l’integrazione dei bisogni e la coerenza dei valori diventa problematica. 2.4.2.2. Fattori di disagio da complessità La frammentazione, come esito della differenziazione funzionale della società, comporta a livello complessivo una società a-centrica, con crisi delle istituzioni e soprattutto delle agenzie tradizionali di socializzazione; a livello particolare “la soggettivizzazione individualistica del comportamento” (Malizia – Frisanco, 1991, 30), con non irrilevanti problemi di ricomposizione di un tessuto sociale unitario. Gli stessi elementi positivi della società complessa (eccedenza di opportunità, pluralismo, multiculturalità, flessibilità, maggiori possibilità di realizzazione autonoma) possono trasformarsi per alcuni soggetti in altrettanti problemi ed essere fonte di disorientamento e angoscia37. Ecco una lista di elementi tipici della società complessa che possono costituire un fattore di disagio, soprattutto in persone non sostenute da un filtro di valutazione autonomo e da una personalità equilibrata: 1. provvisorietà; 2. reversibilità; 3. eccesso di attese; 4. presentismo, quotidianità; 5. mancanza di progettualità; 6. pragmatismo; 7. bisogni centrati sul corpo; 8. a-centricità, mancanza di un centro, di un punto di riferimento; 9. mancanza di senso (vita , scelte); 10. stanchezza; 11. incertezza. Si presenta così una società che, oltre all’elevato numero di opportunità e di percorsi, conserva al suo interno una serie di antinomie, che possono risolversi in altrettante situazioni di disagio. Soprattutto la cultura di massa, per il fatto di rivolgersi ad una grande pubblico, si caratterizza per la sua scarsa qualificazione, funzionale più al consumo che alla formazione: La cultura di massa della società complessa si qualifica sul piano oggettivo per le seguenti antinomie: moltiplicazione delle opportunità di informazione e di formazione e parcellizzazione che ostacola ogni tentativo di sintesi; potenzialmente personalizzante e al tempo stesso generatrice di consumo passivo da parte soprattutto degli strati più deboli della popolazione; di massa e creatrice di nuove forme di analfabetismo e di nuove marginalità (Malizia – Frisanco, 1991, 1617). 37 Il passaggio dalla società tradizionale, alla industriale e alla post-industriale è caratterizzato da una crescita imponente delle possibilità di scelta e di decisione. Le opportunità di azione individuale e collettiva sarebbero definite da due elementi ambedue essenziali: le occasioni, le alternative di scelta, le possibilità di decisione che si offrono al singolo e che sono espressione della libertà della persona; le relazioni, i punti di riferimento che forniscono significato alle opzioni degli individui, che costituiscono il loro orizzonte di senso e fungono da guida alla discrezionalità dell'agire umano. Gli orientamenti senza le opportunità si traducono in imposizioni e le opportunità senza orientamenti perdono di significato. Nella società flessibile esiste il rischio che le scelte manchino di senso perché spesso vengono effettuate nel vuoto sociale, in assenza di punti di riferimento generalmente condivisi che rendano possibile un vera decisione libera (Malizia – Frisanco, 1991, 18). 31 Tutto ciò fa sì che accanto alle vecchie povertà, ne nascano di nuove, che colpiscono soprattutto la popolazione giovanile. Questi esiti si verificano soprattutto là dove le nuove povertà si cumulano alle vecchie, con effetti dirompenti sui percorsi di realizzazione personale o di gruppo. I giovani infatti sembrano da una parte di poter godere di maggiori vantaggi e risorse da questo mutato quadro sociale, d’altra si trovano di fronte a nuovi ostacoli che contrastano una loro crescita armonica ed equilibrata. Il venir meno di un progetto sociale unitario, comporta “l’abbandono cosciente tra i giovani di ogni progettualità” (Malizia – Frisanco, 1991, 30). Questo determina in via tendenziale caduta della solidarietà collettiva e riflusso nella privatizzazione radicale o nella esasperata ricerca del successo ed autorealizzazione personale. Nella componente giovanile della società il frantumarsi del vissuto individuale provoca altresì disorientamento nella costruzione della identità, mentre la assenza di progettualità e di contenuti tende ad essere surrogata dal consumismo. In tale scenario il valore della soggettività, che pur caratterizza positivamente l'epoca attuale, viene contraddetto dalla omologazione culturale di massa dei consumi o dalle chiusure protettive in gruppi ristretti che sembrano avere il compito di semplificare la realtà o di ridurre la complessità (vedi i fenomeni delle bande, dei gruppi ultrà del tifo sportivo, certe appartenenze associative, la stessa chiusura che talvolta si verifica nella coppia) (Malizia – Frisanco, 1991, 30-31). 2.4.3. Gli effetti del cambiamento del sistema culturale A questo quadro, fornito dalla sempre maggior complessificazione della società, vanno ad aggiungersi i cambiamenti avvenuti sul piano culturale: la crisi delle “grandi narrazioni”, l’emergenza di un pensiero nichilista, il pluralismo ideologico che si sono tradotti, in pratica, in una specie di “neutralità morale”. Questi fenomeni vengono genericamente ricondotti al quadro della società postmoderna. 2.4.3.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno La relativizzazione del pensiero classico occidentale e lo scetticismo sui suoi atteggiamenti mentali ha comportato degli innegabili vantaggi: una maggior flessibilità e differenziazione nella società; il declino delle ideologie totalizzanti; la diminuzione di individui dalla personalità autoritaria e l'accresciuta tolleranza ed accettazione delle "diversità" etniche, sociali e religiose; la tendenza alla parità tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro; l'accresciuta sensibilità verso i diritti di tutti i cittadini, e in particolare delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di handicap); l'indebolimento del formalismo sociale e della deferenza verso l'autorità politica e sociale. Però esso ha rappresentato anche la distruzione di tutto ciò che era collegato al passato più che la effettiva costruzione di una nuova razionalità. Ciò ha voluto dire crisi delle agenzie di socializzazione tradizionali38; egemonia ideologica dell’ "individualismo radicale" e svuotamento di valore del lavoro, dell'amore e del matrimonio, della comunità democratica39. Crisi dei valori e delle concezioni base su cui aveva costruito finora il consenso e le motivazioni all’azione. 38 "Famiglia e scuola hanno perduto la capacità di trasmettere immagini del mondo , modelli di azione e un senso profondo del legame con gli altri, fattori questi che danno significato, intensità ed autenticità all'esistenza" (Vaccarini, 1990, 121). 39 "R. Bellah chiarisce che la modernità è stata promossa da una concezione, rispettivamente, del lavoro, dell'amore e del matrimonio e della comunità democratica, che è contrassegnata dall'interdipendenza e dalla sintesi tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività. [...] Il risultato di questa integrazione tra sfera privata e sfera sociale è la prospettiva di formare delle personalità dotate di carattere e di capacità autonome e responsabili delle proprie azioni. Ora, l'«io» ribalta la suddetta concezione propria della modernità postulando la dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività, e valorizzando in modo esclusivo la sfera individuale e privata a scapito della sfera sociale e pubblica. Secondo questa ideologia individualistica l'«io» è completamente libero da vincoli, e peculiarmente da vincoli dettati da un fine morale e stabile. La base teorica di questa libertà è l'assunto che non esiste alcun criterio oggettivo di discernimento del vero dal falso, del bene dal male; pertanto sono soltanto i nostri 32 Insieme ne è venuta quella "cultura del narcisismo", ispirata alla rigida dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica; perdita di potere e di funzione sociale dell'intellettuale; perdita di credibilità intellettuale della nozione stessa di soggetto umano, e quindi della possibilità di definire una identità qualsiasi. Crisi di senso e di orientamento generale. La condizione dell’uomo moderno è quella della “homeless mind”, di una “mente senza fissa dimora”, cioè di trovarsi sradicato in patria, errabondo, inquieto, senza un punto fisso, un punto di riferimento sicuro. Questa cultura è il segno della profonda crisi che sta attraversando la società attuale. Per questo il sociologo De Rita ha stimgatizzato questi come: “anni di soggettività senza interiorità”, in cui l’ “esaltazione della persona singola [...] si è trasformata nella soggettività più becera, nel consumo culturale più orrendo, nel trattenimento di peggior qualità” (cit. da Cotroneo 1989, 85). 2.4.3.2. La ripercussione dell’incertezza valoriale sui processi di socializzazione “Chi è posto in una fase di mutamento biografico e contestuale, ha altrettanto bisogno di priorità tra i valori e di sentire le proprie scelte rafforzate dalle convinzioni collettive di una comunità. Per nessuno, come per chi è costretto a interrogarsi sul senso e lo scopo della vita, il silenzio etico delle istituzioni fa altrettanto paura” (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 203). Il venir meno da parte della società di capacità di orientamento, di offrire punti di riferimento sicuri rende più difficile all’adolescente una soluzione efficace dei suoi problemi. In un momento in cui ha estremamente bisogno di aiuto da parte della società, perché in preda a nuove pulsioni e in allontanamento dalla famiglia, la latitanza “normativa” della società provoca in lui disorientamento. È probabile che, in questo stato, assuma direzioni di sviluppo non funzionali alla sua piena realizzazione, o comunque che la sua crescita segua “un’incerta traiettoria”. Da più parti infatti si parla di una sindrome di caduta di senso, fenomeno che sembra colpire molti giovani, con sintomi di perdita dell’autostima, sentimenti di inutilità, venir meno del protagonismo, interiorizzazione dell’emarginazione come modello totalizzante di comportamento, con esiti di autoemarginazione in subculture separate. Ci si trova probabilmente di nuovo davanti ad una situazione anomica come quella indicata da Durkheim, allorché registrava il passaggio da una società rurale e tradizionale ad una urbana e moderna. E’ stata soprattutto la ricerca di Donati e Colozzi (1997) a mettere il dito su questa piaga. I risultati della ricerca […] dicono che le odierne generazioni giovanili debbono crescere come generazione - in risposta a difficoltà peculiari, decisamente diverse da quelle delle altre generazioni passate e compresenti, che assumono una valenza etica di mondo vitale diversa dal passato (Donati – Colozzi, 1997, 24-25). La novità consiste nel dover “fare delle scelte etiche in una vita quotidiana che non ha più paletti da nessuna parte” (Donati – Colozzi, 1997, 25). E ciò perché la società “viene percepita come sempre più anomica (priva di regole), a-morale (in-differente alle scelte etiche), quando non immorale (cioè corrotta). Con un termine di Zigmunt Bauman [1993, trad. it. 1996], una società adiaforica, che riduce le scelte etiche a questioni tecniche, ossia è indifferente al problema del bene e del male” (Donati – Colozzi, 1997, 25). Pertanto questi giovani devono affrontare la “difficoltà di vivere in una società eticamente neutra, che, cioè, non fa scelte etiche, non le indica, ma dice a ciascuno: la scelta d'azione è personale, tu devi fare la tua, dato che non c'è regola sociale comune, e le opzioni non sono più confrontabili, anzi non fanno più differenza” (Donati – Colozzi, 1997, 25). Così si crea il paradosso: ognuno può seguire la propria regola, come se la regola potesse essere un fatto soggettivo, quando invece è sorta per “regolare” i rapporti intersoggettivi. sentimenti a poter fungere da guida morale delle nostre azioni. L'«io» si trova dunque atomizzato, e indotto a scavarsi una nicchia in cui cercare l'auto-espressione e adottare un proprio stile di vita. All'interno di questa nicchia l'«io» è illimitatamente libero; per contro, tutto ciò che è all'esterno di questa nicchia gli è fondamentalmente indifferente. Ma, a ben vedere, l'indifferenza permea l'«io» anche nella sua nicchia privata: infatti la nozione di un «io» assolutamente libero conduce all'esperienza di un «io» assolutamente vuoto. Cioè ad una identità destrutturata e frammentata" (Vaccarini, 1990, 122-123). 33 “Vivere in una società così fatta può essere esaltante, ma non è certo facile. Essa non aiuta a prendere decisioni. Decide di non decidere, cioè decide di non avere norme morali in comune, ma invia un messaggio paradossale: segui la regola che ti sei dato. Come se ciascuno potesse seguire la sua regola privata. Una siffatta cultura può risultare comoda e può ridurre i conflitti, ma non serve per crescere” (Donati – Colozzi, 1997, 25). I giovani devono da soli, senza esperienza e senza indicazioni, decidere quale via seguire, cosa è importante o no, cosa porta alla vita e cosa alla morte. Addirittura devono scegliere quando invece la società non sceglie. Questa sarebbe, secondo gli autori, la causa vera della profonda sofferenza giovanile. “Il giovane percepisce, con un senso più acuto di quanto non avvenga negli adulti e negli anziani, che sta a lui/lei scegliere, e che dalla sua scelta - non da altri - dipende il fatto di vivere o di morire. In questo sentimento della vitalità della decisione etica sta il fatto nuovo di essere o non essere generazione” (Donati – Colozzi, 1997, 25). In conclusione, il messaggio che si ricava dalla ricerca è questo: crescere in una società eticamente neutra significa non avere punti di riferimento per le proprie scelte, se non nel privato della famiglia e del proprio «io», finché reggono. Crescere in una società che sceglie di essere eticamente indifferente rende le cose più difficili, non certo più facili, per i giovani, e tremendamente più rischiose per essi, cosicché rimane tutta da dimostrare la tesi oggi dominante secondo cui la vita dei giovani è tanto migliore quanto più ampie sono le loro possibilità di scegliere fra questo e quello, laddove nessuna di tali scelte possa essere intesa come avente un valore ultimo, non negoziabile. Potrebbe essere vero esattamente il contrario. Come dimostra il fatto che il senso generazionale dei giovani, con l'annessa capacità di costruire il futuro, aumenta laddove vengono fatte precise scelte etiche, che rinunciano a qualcosa, in quanto selezionano certe possibilità a scapito di altre, mentre il senso della generazionalità crolla laddove si sceglie di vivere secondo compromessi, negoziazioni e opportunismi che conseguono al pensare le scelte come sempre reversibili (Donati – Colozzi, 1997, 33-34). In effetti, le cose sono facilitate lì dove ci sono dei punti di riferimento, che aiutano ed indirizzano verso scelte con un preciso codice etico. I giovani mostrano un miglior senso di “generazionalità”, sentono maggior fiducia nel futuro e dimostrano una certa progettualità quando aderiscono ad un credo religioso e/o hanno ricevono hanno ricevuto una trasmissione sapiente da parte della famiglia. Se mancano tali sostegni, il peso e l’aleatorietà delle scelte lasciate al singolo diventa talmente opprimente che il giovane non ne regge il peso e la sua capacità generazionale (e quindi anche la sua identità e capacità progettuale) si dissolve. Alcuni indicatori […] dicono che gruppi consistenti di giovani hanno già attraversato il confine oltre il quale vi è la perdita radicale di senso generazionale, e si stanno dissolvendo come soggetti del loro futuro (Donati – Colozzi, 1997, 31). 2.5. La crisi dei modelli di socializzazione e delle agenzie educative Gli effetti dei sistemi sociali sugli adolescenti vanno ad incidere particolarmente sui processi di socializzazione, cui essi sono sottoposti a quell’età. La socializzazione “è il processo attraverso cui la società trasmette la sua cultura da una generazione all’altra e adatta l’individuo ai modelli accettati e approvati di vita sociale organizzata. La funzione della socializzazione è di sviluppare le attitudini e le discipline di cui l’individuo ha bisogno, di comunicare le aspirazioni, i sistemi di valori, gli ideali di vita in corso in una società particolare e specialmente di insegnare i ruoli sociali che un individuo deve giocare” (Fichter, 1963, 35). La socializzazione è quindi fondamentale per la costruzione della personalità di un adolescente, 34 in quanto fornisce gli elementi per la sua maturazione e lo spazio di inserimento sociale. La soluzione dei compiti di sviluppo è intrinsecamente connessa a tale processo. I grandi quadri sociali appena descritti mettono profondamente in crisi alcuni dei processi di socializzazione così come si erano andati a delineare nella prima società moderna ed industriale. La messa in crisi di tali processi crea situazioni oggettive e soggettive di disagio, in quanto non fornisce gli elementi e le condizioni per risolvere i compiti di sviluppo dell’età. La reazione può consistere in un adattamento sommesso, che maschera la sofferenza, oppure in reazioni violente e distruttive. 2.5.1. La socializzazione secondo lo struttural-funzionalismo I costrutti teorici di molti degli psicologi che abbiamo analizzato, come Maslow ed Erikson, aveva senso in una società centrata ed integrata, com’era la società fino agli anni ’50-60 e com’era stata descritta dallo struttural-funzionalismo ed in particolare da Talcott Parsons. Parsons aveva elaborato una teoria che faceva riferimento ad un paradigma “tutto/parte”, nel senso che l'individuo era considerato parte del tutto società; ciò significava che le caratteristiche fondamentali della personalità individuale erano delineabili a partire dall’appartenenza sociale. Tale rapporto era possibile laddove, in un determinato sistema sociale, si registrava una relazione "organica" tra tre elementi fondamentali: l'individuo, la cultura (i valori) e il sistema sociale. Società “organica”, come la intendeva anche Durkheim, voleva dire una società integrata in se stessa, che, attraverso funzioni diverse, specificate in “ruoli” e “status”, riusciva ad integrare i suoi membri in maniera da consentire sia la felicità privata che il bene pubblico. Perciò i processi di socializzazione erano orientati ad inserire “funzionalmente” il soggetto nella società. Le varie parti della società condividevano tutti la stessa finalità, per cui si dava un unico “sistema di fini” (telic system) che presiedeva tutta la società e che tutti, attraverso la socializzazione, avevano la possibilità di interiorizzare. In accordo con il neo-freudismo americano (Erikson, Fromm), da cui Parsons derivava il suo concetto di personalità, egli sosteneva che il processo di formazione dell'identità avveniva attraverso 1'interazione sociale non soltanto a livello di socializzazione primaria, ma soprattutto nelle fasi di socializzazione successive, quando l'individuo veniva a contatto con dimensioni sociali e culturali di maggiore portata. L'identità matura e normale era per Parsons una struttura stabile che poteva subire solo lievi modifiche nel corso della vita dell'individuo. In base a questa complementarietà tra produzione e riproduzione sociale non ci si sarebbero state discrepanze tra gli obiettivi e i valori della società e quelli dell’individuo (la devianza non era contemplata nel modello parsonsiano). Attraverso le aspettative e l’agire di ruolo si realizzava, nel modello parsonsiano, l’integrazione tra sistema della personalità e sistema sociale e tale integrazione era costitutiva del sistema della personalità (“co-costituzione”). L’identità era ciò che permetteva la conservazione di tale struttura psichica nel tempo e garantiva la coerenza tra azioni, valori e fini. 2.5.1.1. La complessità secondo il modello luhmanniano Oggi non esiste più quella società centrata, organica con una socializzazione che permetta di interiorizzare ruoli e valori della società e di strutturare l’identità, come descritto da Erikson. Già solo le difficoltà occupazionali non consentono al ragazzo di oggi di trovare quel posto e ruolo che una volta erano assegnati in base al lavoro. La complessità sociale, la difficoltà di rapporti umani rende particolarmente difficile sentirsi parte di questa società, capirla, trovarvi il proprio posto, come pensava Parsons. Infatti, se da una parte essa aumenta la possibilità di costruirsi un’identità personale meno legata alle determinazioni 35 sociali, dall’altra la stessa moltiplicazione dei riferimenti sociali rende più arduo il compito di definizione dell’identità. Nel recente dibattito sociologico i rapporti co-costitutivi tra sistema di personalità e sistema sociale sono assunti come problematici. Ed in effetti, il più prestigioso continuatore dello strutturalfunzionalismo, Luhmann, mette radicalmente in questione il modello integrativo e co-costitutivo di Parsons. Stando alla teoria sistemica luhmanniana le attuali società, diversamente dal passato, hanno raggiunto un maggior livello di complessità in quanto sono differenziate funzionalmente. La nozione di differenziazione funzionale permette di evidenziare che, nelle attuali società, tendenzialmente si attenua il peso dei presupposti socio-culturali del modello di personalità parsonsiano. Differenziazione funzionale significa, infatti, che i sistemi della società sono sempre più autonomi, specifici e che i loro rapporti non sono più pre-definiti sulla base di un sistema di valori. Differenziazione funzionale vuol dire che i sistemi della società (la politica, l’educazione, l'economia) non condividono più regole unitarie di funzionamento, non sono sottoposti a nessun ordinamento normativo, morale, culturale ma funzionano in maniera operativamente chiusa attraverso uno specifico codice binario di comunicazione. Quindi, differenziazione funzionale significa che il sistema della società esiste indipendentemente da un sistema di valori comuni di riferimento. L'elevato grado di complessità delle società attuali è possibile, per il sociologo tedesco, solo se i sistemi possono funzionare indipendentemente da criteri di valore sovraordinati. Se i sistemi funzionano sempre più indipendentemente da orientamenti normativi comuni, ciò significa, secondo Luhmann, che viene a mancare quella struttura mediativa tra individuo e società che nel modello parsonsiano era costituita dal sistema culturale (dei valori) . In questo senso Luhmann con il concetto di inclusione vuole sottolineare che le società attuali sono sempre meno in grado di riconoscere quelle appartenenze forti che, nella teoria di Parsons, erano espresse nella centralità del concetto di ruolo. La tendenziale "inclusione di tutti in tutti i sistemi di funzione" è infatti sempre più un'inclusione operativa che avviene attraverso i codici specifici di ciascun sistema. L'inclusione non fornisce più criteri d’identificazione forte e non definisce più un'appartenenza che era, al tempo stesso, sociale e culturale. L'appartenenza sociale, pertanto, non è più definibile, in questo quadro, in termini di ruolo, né di complementarietà di ruoli. Conseguentemente l’individuo è sempre meno spiegabile attraverso la sua progressiva appartenenza sociale. In un sociale ormai "orbitale" l’individuo, secondo Luhmann, è un sistema sempre più autonomo, specifico, che funziona attraverso una sua propria logica “autopoietica”. In questo senso l'individuo (sistema psichico) e la società (sistema sociale) sono due realtà divergenti, non c'è più “co-costituzione” tra i due sistemi. II sistema sociale infatti, per Luhmann, non è fatto da individui, ma da comunicazione, l’individuo non è più parte della società. Esso è rilevante per la società solo in quanto partecipa alla comunicazione (Luhmann, 1990; Luhmann - De Giorgi, 1992). Pensare l'individuo come ambiente del sistema sociale permette, tuttavia, secondo Luhmann, di accedere ad un maggiore complessità dell'uomo nel momento in cui si assume che l’ambiente, in questo caso l’individuo, risulta più "complesso e più indipendente" rispetto ad una ipotesi che riduce l'uomo a parte della società . 2.5.1.2. La socializzazione secondo il modello luhmanniano L'approccio luhmanniano in tema di rapporto individuo/società ha inevitabilmente ripercussioni sul processo di socializzazione. Infatti, la socializzazione comprende, secondo Luhmann, “sia il comportamento conforme sia quello deviante, il comportamento patologico (ad esempio nevrotico) come quello sano. Una teoria che incentrasse il concetto di socializzazione sulla produzione di comportamenti conformi, corrispondenti alle aspettative, non riuscirebbe a spiegare il sorgere di schemi di comportamento divergenti e sarebbe inoltre incapace di affrontare ad esempio il fatto evidente che proprio (adattamento conformistico può assumere un carattere nevrotico e che esistono nessi incrementali fra adattamento e nevrosi" (Luhmann, 1990, 386). 36 La socializzazione, quindi viene svincolata dal riferimento ad un sistema di valori, ad una cultura. La socializzazione è possibile quindi partendo dalla possibilità dell'accoppiamento strutturale tra sistema psichico e sistema sociale ed in questo senso è sempre autosocializzazione. Non si realizza con la trasmissione di uno schema di senso da un sistema ad altri sistemi; il suo processo di fondo è invece la riproduzione autoreferenziale del sistema che attua e recepisce la socializzazione rispetto a se stesso (Luhmann, 1984, 87). Nella socializzazione non c'è alcuna istruzione, alcuna informazione che passa dal sistema sociale al sistema psichico, le due realtà rimangono autopoietiche. La socializzazione vuol dire quindi partecipazione alla comunicazione e sviluppo, per il sistema psichico, di orientamenti cognitivi astratti che permettono alla comunicazione di avere successo. Infatti, secondo Luhmann “è, in primo luogo, il processo comunicativo stesso a socializzare - non già, beninteso, sanzionando il comportamento giusto o errato, ma semplicemente con il suo successo in quanto comunicazione” (Luhmann, 1990, 389). Gli esiti socializzativi sono quindi valutabili solo in termini di insuccesso o di successo della comunicazione; l'individuo, in questo senso, è rilevante per la teoria dei sistemi sociali in quanto partecipa alla comunicazione: come attore della comunicazione, come fonte di informazione, o come destinatario della comunicazione. Anche la famiglia, secondo Luhmann, è un sistema sociale in quanto è fondato sulla comunicazione ed ha una sua specificità legata al fatto che in famiglia il riferimento della comunicazione è la persona. La persona è però sempre una realtà comunicativa: è il dicibile (comunicativo) dell’indicibile (sistema psichico). 2.5.2. La socializzazione secondo la fenomenologia sociale Secondo la scuola fenomenologica, l'identità è un concetto centrale per la comprensione del processo attraverso cui la realtà “oggettiva” diventa “soggettiva”, entra cioè a far parte della coscienza degli individui. Il contributo della fenomenologia sociale alla specifica tematica dell'identità del soggetto è il frutto di un'integrazione dell'analisi schutziana della costituzione intersoggettiva del Sé, centrata sul concetto di mondo della vita quotidiana, con la teoria meadiana della genesi del Sé. Riconoscendo l'importanza per la formazione dell'identità dell'interazione faccia a faccia e dell'interiorizzazione del ruolo dell'altro, Berger e Luckmann (1966) sostengono che l'assunzione del ruolo dell'altro comporti l'interiorizzazione del suo mondo. Attraverso il processo di socializzazione, definito come “l'insediamento completo e coerente di un individuo nel mondo oggettivo di una società o di un suo settore” (Berger – Luckmann, 1966, 181), l'individuo giunge ad una comprensione non solo dei processi soggettivi dell'altro, ma del mondo in cui vive e quel mondo diventa il suo. C'è una continua identificazione reciproca per cui, non solo si vive nello stesso mondo, ma si partecipa l'uno dell'esistenza dell'altro. Attraverso la socializzazione primaria questo mondo di conoscenze “oggettive” viene interiorizzato dall'individuo, diventando elemento costitutivo della sua identità. Nella socializzazione primaria viene costruito il primo mondo dell'individuo, da lui interiorizzato, non come uno dei mondi possibili ma come "il mondo", una realtà data per scontata, che diviene un elemento costitutivo della sua identità. L'elevato grado di identificazione emotiva e l'inevitabilità delle relazioni del bambino con le persone per lui significative nel corso della socializzazione primaria, spiegherebbero in buona parte la stabilità dell'identità del soggetto che si forma in questa prima fase. Nel corso della socializzazione secondaria, definita dagli autori come un processo continuo e mai compiuto, avviene l'interiorizzazione dei sottomondi istituzionali, che possono generare problemi di coerenza rispetto al mondo-base acquisito nella prima fase della socializzazione. Nei processi di socializzazione secondaria, caratterizzati da un grado relativamente basso 37 d’identificazione emotiva e di inevitabilità soggettiva, l'individuo tende ad interiorizzare i diversi sottomondi, come realtà parziali, come mondi possibili, legati a specifici ruoli. L'identità dell'individuo tratteggiata ne “La realtà come costruzione sociale”, elemento chiave della realtà soggettiva, nasce quindi dalla dialettica tra individuo e società: essa è il prodotto di processi sociali e “una volta cristallizzata, viene mantenuta, modificata o anche rimodellata” dall'interazione dell'individuo con gli altri; d'altra parte, l'identità si ripercuote a sua volta sulla struttura sociale, “conservandola, modificandola o anche rimodellandola completamente” (Berger – Luckmann, 1966, 235). E' soprattutto nella socializzazione secondaria che emerge l'aspetto dinamico della società come continua produzione umana, e dove intervengono i processi di modificazione e trasformazione delle strutture. Una "socializzazione riuscita" comporta, per gli autori, un elevato grado di simmetria tra realtà oggettiva e identità del soggetto, viceversa ad una socializzazione non riuscita viene attribuito l'insorgere di asimmetrie tra i due piani della realtà. Nella società tradizionale era molto più facile che all’identità sociale corrispondesse l’identità individuale, con un senso di riuscita della socializzazione. Al contrario, nell'evoluzione della società industriale, caratterizzata da un'elevata divisione del lavoro ed una complessa distribuzione della conoscenza, diviene incombente il rischio di una socializzazione sbagliata, cui gli Autori associano conseguenze patologiche o disgreganti sull'identità dell'individuo. La società contemporanea è interessata, secondo Berger e Luckmann, da un aumento della consapevolezza generale da parte dell'individuo della relatività dei molteplici mondi divergenti, incluso il proprio, che viene soggettivamente percepito come "un mondo" piuttosto che come "il mondo". Con l'elaborazione del concetto di "pluralizzazione dei mondi della vita", P. L. Berger, B. Berger e H. Kellner (1973) hanno ulteriormente sviluppato il problema connesso alla molteplicità dei mondi di significato, mettendo a fuoco il rapporto tra identità e differenziazione simbolica. Nelle società tradizionali, secondo gli autori, era la religione che forniva una visione unificante dell'esistenza, cosi che l'universo simbolico con cui entrava in contatto l'individuo era coerente ed integrato. I simboli, i significati, facevano si che lavoro, famiglia, partecipazione alla vita pubblica e politica venissero percepite dagli individui come esperienze tra loro coerenti, che le logiche e i valori di queste diverse sfere di esperienza fossero congruenti. Nella società moderna, invece, si è verificata la perdita di questo universo simbolico e, con esso è venuta meno quella visione unitaria e coerente che caratterizzava l'esistenza dell'individuo premoderno. La secolarizzazione ha comportato una delegittimazione della spiegazione religiosa del mondo come fondamento comune e dato scontato. Così sfera pubblica e sfera privata vengono ora vissute dall'individuo come ordini di esperienze nettamente separati: la partecipazione alla sfera pubblica dell'esistenza è, infatti, vissuta come un'esperienza alienante, generatrice di un sentimento di estraneità al quale l'individuo cerca di sfuggire rifugiandosi nella sfera privata, cercando in essa un "mondo famigliare", un ambito di significati ordinati e rassicuranti, un "punto fermo" in base al quale dare un senso alla propria vita ed alle esperienze vissute a contatto con le istituzioni della sfera pubblica. Ma il tratto caratteristico della società moderna è costituito, in questa prospettiva, dalla pluralizzazione, dalla frammentazione dell'universo simbolico, anche a livello della sfera privata: lo stesso rapporto con i famigliari obbliga spesso l'individuo ad entrare in relazione con numerosi e diversi mondi di significato, rendendo necessario giungere a trattative, compromessi, tra valori, modelli di comportamento tra loro discrepanti. Questa nuova condizione può generare una profonda insoddisfazione per la propria vita privata, non più vissuta come un mondo famigliare in cui trovare conferme ai propri significati, alla propria concezione della vita. La pluralizzazione, sia della sfera privata che si quella pubblica, è un fenomeno correlato dagli autori a due processi peculiari della società moderna: l'urbanizzazione e lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione di massa. Ciò che viene essenzialmente sottolineato di questi processi sono soprattutto le conseguenze sull'esperienza dell'individuo, sul suo modo di esperire la 38 realtà e di organizzare la conoscenza del mondo sociale e, quindi, sulla sua identità. Assistiamo ad una progressiva “urbanizzazione della coscienza”, vale a dire ad una diffusione di un modo di sentire, di vivere la realtà e i rapporti con gli altri, tipico della vita urbana. Diffusione accelerata dai mass-media. In questo contesto, l'individuo fa esperienza di una molteplicità di codici e modelli culturali, con un conseguente indebolimento dell'integrità e della plausibilità del suo "mondo familiare". La pluralizzazione si sta radicalizzando al punto da coinvolgere non solo i processi di socializzazione secondaria, ma anche quelli di socializzazione primaria, incrementando il numero di individui che non hanno “mai posseduto un ‘mondo familiare’ integrato e incontestato” (Berger – Berger – Kellner, 1973, 117), con forti ripercussioni sul processo di formazione dell'identità dei soggetto. La pluralizzazione, permettendo all'individuo di entrare in relazione con molteplici contesti sociali e "visioni del mondo", gli consente di immaginarsi protagonista di differenti biografie, di avere innanzi a sé numerose carriere alternative. Su tali presupposti, il passaggio dalla società tradizionale a quella moderna, che Weber aveva definito come passaggio dal mondo del destino al mondo della scelta, se da un lato ha dato all'individuo un senso di libertà e autonomia, dall'altro lato ha comportato un suo profondo disagio, leggibile nel moltiplicarsi delle sue esperienze di sradicamento e di anomia. Il soggetto moderno gode di una maggiore autonomia, in quanto può decidere della propria vita e della propria identità senza essere sottoposto a forti vincoli da parte dell'ambiente sociale; d'altra parte, questa stessa situazione lo espone maggiormente al rischio della frustrazione, dovuta al mancato raggiungimento degli obiettivi che si era posto, e ad una costante sensazione di incertezza circa gli esiti della propria azione. La moltiplicazione stessa delle possibilità d'azione, di realizzazione personale tendono, dunque, a generare ansietà nell'individuo, in quanto è sempre possibile sbagliare, optare per un corso d'azione troppo o poco ambizioso rispetto alle proprie capacità. L'identità del soggetto contemporaneo è aperta, nel senso che egli ha una notevole capacità di trasformarla nelle diverse fasi della sua storia di vita e, cosa più importante, ne è piacevolmente consapevole, arrivando quasi a vantarsene. La biografia individuale viene infatti vissuta dal soggetto sia come una «migrazione attraverso diversi mondi sociali, sia come la successiva realizzazione di un certo numero di possibili identità» (Berger – Berger – Kellner, 1973, 179). Essa è differenziata, in quanto l'esperienza della pluralizzazione dei mondi della vita porta ad una relativizzazione della stabilità ed attendibilità degli ambiti istituzionalizzati del vivere associato. La sicurezza e il senso della realtà non vengono più cercati in questi ambiti, ma nella sfera soggettiva, così che l'esperienza personale diventa il più importante punto prospettico da cui definire la realtà. Di conseguenza, si verifica un ampliamento tale della dimensione soggettiva mai sperimentato nel passato. Inoltre, l'identità contemporanea è peculiarmente riflessiva, in quanto vivere in un ambiente sociale che sottopone l'individuo ad un continuo mutamento di esperienze e significati lo porta ad un costante sforzo di riflessione e di definizione di sé; la propria identità viene sottoposta in tal modo ad una continua auto-osservazione. Infine, l'identità contemporanea è peculiarmente individuata, in quanto in essa vengono enfatizzati la libertà e l'autonomia del soggetto nel progettare e modellare la propria esistenza. Questa enfasi sulla libertà e l'autonomia progettuale del soggetto non impedisce agli autori di evidenziare, nel contempo, gli aspetti negativi di questa situazione. La mancanza di un universo simbolico unitario e sovraordinante, origine di una condizione di sempre più profonda "mancanza di casa" (homeless), viene, infatti, associato dagli autori ad un permanente stato di crisi d’identità del soggetto, generatore d’ansietà e incertezza. Il carattere "homeless" del soggetto moderno consiste precisamente nella sua dolorosa incapacità di dare alcunché per scontato, nella sua rinuncia ad ogni appoggio incondizionato in una tradizione. Dal concetto di pluralizzazione dei mondi vitali emerge quindi una definizione dell'identità come qualcosa di mai raggiunto, mai definito in modo stabile e, quindi, un problema sempre aperto per il soggetto, un processo che lo accompagna lungo la sua intera esistenza: “L'identità cessa di 39 essere un fatto acquisito sia soggettivamente sia oggettivamente e diventa l'obiettivo di una ricerca spesso tormentata e difficile. L'uomo moderno sembra essere destinato inevitabilmente alla ricerca di se stesso” (Berger – Berger – Kellner, 1973, 87). 2.5.3. Autoformazione e soluzioni identitarie nella società postmoderna e complessa L'ambiente di vita in cui crescono oggi i ragazzi e le ragazze è assai meno strutturante, sia perché è venuta meno un’omogeneità culturale e quindi i messaggi e le proposte di senso nella vita sono spesso contraddittorie, sia perché l'accelerazione della storia e le continue modifiche della realtà sociale e dello stesso costume, rendono assai difficile l’orientamento allo stesso adulto. Infatti, è di fronte ad una continua crescita della complessità sistemica, alla crescente pluralizzazione di coinvolgimenti di ruolo, al dilatarsi delle possibilità di scelta per 1'individuo che si pone il problema dell’identità per l'attore sociale (sia esso individuale o collettivo). Le ambiguità culturali non offrono un quadro di riferimento abbastanza sicuro da permettere all’adolescente di dare un senso alla realtà, di assumere un'ideologia (nel senso eriksoniano). Così, oltre che dal punto di vista strutturale, esso si trova disorientato anche dal punto di vista culturale, con l’onere di trovare da solo un senso alla vita, un percorso di formazione e di selezione tra i vari e innumerevoli stimoli che gli vengono dalla temperie culturale del momento. Mentre in passato, nella società moderna, l'individuo si muoveva in un sistema sociale in cui lo stesso insieme di simboli e di valori permeava profondamente i diversi ambiti della sua vita quotidiana, la situazione nella società postmoderna appare profondamente mutata e l'individuo, nei diversi ambiti della vita quotidiana, entra in rapporto con diversi “mondi di significato”, esperienze diverse e talvolta discrepanti tra loro. La differenza tra il modello parsonsiano e quello luhmanniano mette chiaramente in evidenza il cambiamento avvenuto nella società: la realtà dei sistemi psichici è “ambiente” per i sistemi sociali e non può essere spiegata in base alla relazione sociale. La relazione sociale, cioè la comunicazione, spiega autopoieticamente solo se stessa. L’identità non è più ciò che consente di regolare i rapporti tra società e soggetto, ma solamente la capacità del soggetto di cogliere tutte le opportunità che la società gli offre per la propria autoformazione. Di ciò che egli sceglie non deve rendere conto che a se stesso. Il criterio con cui si valuta è quello del “successo/insuccesso”. L’adattamento diviene la categoria di riferimento più importante. Fenomeni come la ripresa di attenzione per l'individuo, la relativa assenza di scelte ideologiche precise, o la stessa natura endemica che la crisi d’identità tende ad assumere fra i giovani, si capiscono se riferiti al carattere policentrico dei processi di formazione dell'identità: la condizione dell'individuo moderno è sempre di più la mancanza di basi, la perdita di riferimenti unitari o, per usare ancora un'espressione di Berger, la sua «homelessness». Di fronte ad una società sempre più complessa, mobile, cangiante, l’identità diventa un tema di ricerca per le nuove generazioni, a volte sofferta, altre volte scanzonata e ludica. Rimane comunque vero che, se la società complessa aumenta la possibilità di costruirsi un'identità personale meno legata alle coordinate sociali, dall'altra, la stessa moltiplicazione dei riferimenti sociali, ne rende più arduo il compito di definizione. Valenze positive e valenze negative s’intrecciano nella società di oggi e chi si affaccia alla vita deve costruire la sua identità tra molte inevitabili difficoltà. 2.5.3.1. Soggettivizzazione dell’identità e del senso Già alla fine degli anni ’70 veniva evidenziato la soggettività della ricerca identitaria: “l’identità viene così ricercata attraverso un tentativo, da parte del soggetto, di riappropriarsi di se stesso, di definirsi all’interno di una vita che per lui abbia senso. […] Il senso dell’esistere deve essere cercato dall’individuo in se stesso, come autoriconoscimento e autodefinizione” (Faccioli, 1983, 155). Il senso non si trova nell’ambiente sociale, ma è qualcosa che uno si dà da sé. 40 La stessa contestazione è diventata obsoleta di fronte alla pluralizzazione e relativizzazione dei mondi simbolici, come riconoscono Ricolfi e Sciolla nella loro ricerca sui giovani del ’78. “Oggi la critica dell'autorità, dell'universo di valori dei padri, non può più assumere quei significati simbolici ed ideologici che aveva in passato proprio perché non c'è nessuna continuità da interrompere o identificazione da negare e, spesso, non c'è neppure un'eredità culturale con cui fare i conti. La definizione di sé diventa dunque, innanzitutto, affermazione dell'irriducibilità dei propri bisogni e interessi: non più negazione all'interno di una continuità, ma affermazione di una diversità” (Ricolfi – Sciolla, 1980, 13-14). La moltiplicazione dei riferimenti rende sempre più insicuro il soggetto singolo, il quale tenderà a scegliere senza criteri stabili ma semplicemente seguendo l’impulso del momento. L’assenza di sicuri criteri di riferimento, l’unico criterio diventa quello utilitaristico, del calcolo dei costi e dei benefici40. La tendenza sarà quella di non scegliere per non limitare le possibilità in futuro, ma col rischio di perdere la memoria storica. “Di qui la necessità di trovare nuovi modelli di identificazione, di ridare un senso alle proprie azioni, di riappropriarsi di qualcosa, senza sapere esattamente di che cosa. […] I tentativi di risolvere il problema dell’identità sembrano privilegiare la scelta individuale, soggettiva, la rivalutazione di se stessi, la ricerca dei propri bisogni e l’agire finalizzato alla loro soddisfazione” (Faccioli, 1983, 158). 2.5.3.2. Massimizzazione delle opportunità e frammentazione dell’identità Di fronte alla “differenziazione simbolica”, all’ “eccedenza culturale”, alla “dilatazione dei possibili”, alla “paura del futuro”, “l’identità diventa una combinatoria, i cui elementi vengono accostati per successivi tentativi e in cui il senso è più il risultato provvisori di un’attività sperimentale che un disegno chiaramente definito in partenza” (Faccioli, 1983, 156). Il soggetto, che si trova a vivere in ambiti di vita assai diversi ed esperisce ruoli diversi e talora contrastanti, sarà restio a confinare la sua esperienza entro un solo ambito o a considerarne qualcuno come esclusivo o prevalente. Preferirà il pendolarismo tra diversi ruoli, condizioni e formazioni sociali, per non precludersi nessuna delle possibilità che il sistema gli offre. Cercherà di totalizzare il massimo di opportunità evitando di rinchiudersi in appartenenze stabili, definitive, totalizzanti. Preferirà rimanere disponibile per occasioni migliori, prediligendo appartenenze parziali, identificazioni momentanee, riferimenti occasionali. Questo soggetto riuscirà a capitalizzare al massimo le offerte della società odierna. Una società che rispetto al passato offre innumerevoli vantaggi: “la riduzione dei forti condizionamenti espressi da un costume fatto spesso solo da pregiudizi; una maggiore spontaneità nei comportamenti non irreggimentati da autoritarismi familiari e sociali; una migliore conoscenza della vita e del suoi problemi; la possibilità, nella dialettica del dialogo culturale, di meglio comprendere il senso della cose e della vita; la maggiore comprensione dei propri diritti personali e di cittadinanza e la ferma convinzione che essi debbano essere effettivamente goduti e non solo declamati; i maggiori stimoli e la più diffuse occasioni di partecipazione alla vita sociale e a forme organizzate di solidarietà e reciprocità costruttiva (si pensi solo al fenomeno del volontariato sociale in cui sono attivamente impegnati tanti giovani)” (Presidenza del Consiglio, 1997, 15). In ognuno degli ambiti che il giovane frequenta potrà vivere un'esistenza che ha un senso autonomo, un modello di realizzazione che non richiederà di essere messo in relazione con quanto 40 Montesperelli ritiene che il problema dell’identità costituisca per i giovani un «oggetto di attenzione deliberata e, a volte, di interrogazione angosciata. Non potendo rispondere immediatamente alla domanda preliminare “chi sono io?”, il soggetto può ripiegare verso un interrogativo successivo: “in questa società complessa, ricca di possibilità offertemi a cui la mia identità si apre, quali scelte devo compiere? Quale criterio di discernimento posso utilizzare?”. Ma anche qui il soggetto si ritrova disperso in una giungla di problemi. Una risposta ovvia, a prima vista, potrebbe essere questa: perso ogni criterio assoluto di veridicità, impossibilitato a identificarmi in pieno con qualche frammento, smarrito il riferimento fondativo alla persona come centro di un’identità, l’unica soluzione é il calcolo fra costi e benefici per scegliere un’opzione o un’altra, cioè la massimizzazione delle proprie opportunità di vita secondo un modello utilitaristico» (Montesperelli, 1984, 47-48). 41 si esperisce in altri ambienti. Le sue scelte risulteranno assai parziali, i criteri di valore non avranno pretese assolute, bensì verranno riconosciuti validi per il momento e solo per sé. Ma questo agitarsi per cogliere le migliori opportunità, per essere sempre “in”, per non farsi sfuggire nulla di importante, impone pesanti costi: quello di non scegliere mai definitivamente, di sceglier un’identità provvisoria, di indossare una maschera, come già affermava Goffman. Il risultato sarà un'identità frammentata, fatta di pluriappartenenze, di maschere via via cangianti a seconda dell'ambiente che si frequenta. Migratore tra “diverse formazioni sociali” e diverse “strutture di plausibilità” l’uomo contemporaneo non sa più chi è, perché l’immagine di sé che la società gli rimanda muta continuamente. “Così il soggetto si disperde in tanti frammenti quanti sono gli incontri cui partecipa” (Montesperelli, 1984, 42). “La sua condizione diventa simile a quella dell’attore che sul palcoscenico della vita indossa delle maschere che mutano con il mutare della scena. L’identità non è unica ma molteplice, tante quante sono le maschere che l’individuo adotta” (Montesperelli, 1984, 43) Di conseguenza egli conseguirà una realizzazione a "mosaico", a "puzzle". In tale condizione si avrà un soggetto debole, poco unitario e coerente, privo di stabilità. In compenso questo soggetto si rivelerà più flessibile, aperto, convertibile continuamente. 2.5.3.3. Tentativi di riduzione della complessità e soluzioni integriste Come contrapposizione a questa minaccia alla propria integrità, alcuni soggetti mettono in atto delle strategie nel tentativo di ridurre la complessità o comunque di difendersi di fronte all’eccedenza di opportunità e di informazioni che non riescono a gestire. Una modalità pratica a cui ci si affida per superare questa tensione, per affrontare questo conflitto - evitando così il rischio della dissociazione - può essere rappresentata dalla tendenza dei soggetti a ridurre intenzionalmente la complessità dei problemi. [...] E' possibile ritrovare un equilibrio personale, una soluzione alle tensioni, riducendo di fatto la portata dei problemi, considerando le varie questioni soltanto attraverso una prospettiva personale, un'ottica soggettiva Al punto estremo, questo tipo di difesa può dar luogo ad identità di tipo integrista: di fronte al pericolo di dissociazione l’individuo cede ad un gruppo o ad un'ideologia la gestione della propria libertà. Invece di cercare faticosamente la propria identità, preferisce identificarsi con qualcosa di esterno che può essere sia una persona, sia un gruppo o ideologia. Ma questa non è l’unica soluzione di fronte ai problemi suscitati dalla complessità sociale: “l’integrismo non è l’unico effetto possibile della frammentazione e del bisogno reattivo di totalizzazione: è, caso mai, l’esito di una ricerca equivoca di totalizzazione, che ragiona ancora in termini particolaristici, secondo la logica, appunto, della frammentazione, esasperata e condotta alle ultime conseguenze anche nel momento in cui se ne tenta inutilmente il superamento” (Milanesi, 1986, 143). Anche l’assunzione di condotte a rischio costituisce una risposta al disagio provocato dalla complessità. Ma anche questa non appare la risposta migliore. 2.5.3.4. Presentismo e rinuncia alla progettualità Un altro esito possibile della complessità è la rinuncia alla memoria storica e alla progettualità. Ne consegue un’enfatizzazione della dimensione del presente ed un marcato soggettivismo nell’uso e nella concezione del tempo. L’importante non é ciò che si fa [...] ma come interiormente ci si sente, come si vive il tempo: in altre parole, se il rapporto con se stessi é positivo, anche quello con il tempo necessariamente lo sarà (Leccardi, 1985, 506). Questo fenomeno sarebbe la conseguenza di varie concause, più o meno riconducibili ad un quadro sociale assai complesso ed in rapida trasformazione che allontana sempre più dal rapporto con il passato e con le radici storiche del proprio gruppo sociale. La perdita della memoria storica sarebbe causata dalle accelerazioni continue al cambiamento, dai meccanismi della storia sempre 42 meno intelligibili, dalla lontananza della politica, dall’avvento della società di massa, dall’influenza dei mass-media con effetti di “semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione” (Cavalli, 1985). Ma anche dalla obsolescenza della filosofie della storia e particolarmente dalla crisi del mito del progresso e della concezione del tempo della società moderna Infine la scarsa prevedibilità del futuro, più incerto, minaccioso, senza prospettive contribuirebbe alla perdita della capacità progettuale. Sarebbero gli stessi meccanismi sociali caratterizzati da poca chiarezza e scarsa prevedibilità ad alimentare in maniera determinante tale fenomeno. Così il presente diventava l’unica dimensione sperimentabile. In questa condizione non si può più comprendere il mondo, la realtà che ci circonda. La mancanza di progettualità rende tutto privo di senso. Mancando una direzione, un fine, tutto diventa relativo, occasionale. L’unico criterio di valore diventa l’attualità. Questo consente un maggior spazio di libertà ed autonomia, la possibilità di soggettivizzazione dei percorsi di realizzazione, la continua ridefinizione delle scelte e dei valori. Tuttavia, senza un progetto, l’esistenza rischia di ridursi ad una serie di eventi senza collegamento e senza senso. Ne consegue frammentazione del tempo psichico, segmentazione del vissuto individuale, disturbi alla percezione del tempo, difficoltà per la soluzione della crisi di identità. L’incapacità di strutturare il tempo e di stabilire dei nessi causali tra le proprie azioni mette in discussione lo stesso concetto di identità e di responsabilità, così come tradizionalmente inteso. Il tipo di identità che si va affermando sembra meno forte, meno determinato di quello del passato. Ama definirsi più in base a quello che è (o appare) che per quello che fa. Concentra la sua realizzazione nella soddisfazione dei bisogni immediati. Pensa più a godere la vita senza preoccuparsi troppo del futuro, delle conseguenze delle scelte attuali. Come effetto di questa incapacità di strutturazione temporale viene segnalato in più ricerche l’aumento del livello di noia tra i giovani, soprattutto nell’uso del tempo libero. 2.5.3.5. Identificazione nel consumo e nel tempo libero Un’altra strategia sovente impiegata dagli adolescenti e giovani per definire la propria identità è quella dell’identificazione negli stili di consumo e di impiego del tempo libero. Ciò appare come una strategia compensatoria rispetto al passato. Infatti, mentre nella società moderna ed industriale era il lavoro il tempo forte e la professione il luogo dell’identificazione di ruolo e status (come anche appare in Erikson), nella società postmoderna e postindustriale il lavoro cessa di avere un ruolo fondamentale e strutturante, diventa precario, incerto, suscettibile di continue modifiche. Nella società industriale e moderna il tempo era l’ambito dove l’uomo esercitava la sua potestà di sottomettere la natura alla sua volontà, di modificare la storia, di affermarsi nel mondo. Il tempo per eccellenza era il futuro, su cui si concentravano le aspettative di riuscita, di successo. Il presente acquistava significato in rapporto al futuro. Questa concezione della storia e della vita dava luogo ad identità forti, che trovavano la loro realizzazione nella trasformazione del mondo, attraverso il lavoro, l'attività professionale. Per ottenere questa trasformazione del mondo era necessario concentrare tutte le proprie energie su quest'obiettivo e perciò reprimere gli istinti, rinunciare ai piaceri, differire la gratificazione. Invece con l'avvento della società postmoderna e postindustriale diminuisce il valore del tempo occupato ed aumenta quello del tempo libero. Prevalgono criteri soggettivi nell'organizzazione del tempo, mentre perdono di rilevanza quelli collettivi. Il soggetto, attraverso l’uso discrezionale del tempo, ridefinisce e rinegozia il suo rapporto con le istituzioni, cui appartiene: non ne dipende più in maniera quasi totale, esclusiva (Colucci 1984). La sua identità viene definita più dal tempo libero che da quello occupato, perché l'individuo tende ad investire più attenzione sul primo ed attendersi da esso la sua realizzazione. Così le attività di consumo diventano funzionali alla costruzione dell’identità. Soprattutto per l’adolescente, il cui inserimento sociale attraverso la professione diventa sempre più incerto e 43 precario, mentre quello del consumo diventa il più alettante e sovente l’unico modo per inserirsi nella società e ricoprirvi un ruolo. Così il tempo libero ed il consumo diventano “sede della identificazione individuale e sociale dell'individuo” (Ancona, 1988, 18) Tuttavia questo tipo di identità risulterà molto più fragile, più passiva e dipendente: i valori della produzione sono rimpiazzati da quelli del consumo. Mentre nella società industriale gli obiettivi venivano determinati dall'organizzazione sociale (dominata dal sistema produttivo), nella società postindustriale e complessa gli obiettivi vengono determinati dal singolo, attraverso le sue scelte quotidiane. Queste scelte non saranno più tese alla realizzazione di un grande progetto collettivo (il progresso) cui tutti gli sforzi individuali erano subordinati, bensì alle realizzazione individuali che obbediscono piuttosto a criteri di gratificazione immediata, di soddisfacimento dei bisogni contingenti, di affermazione autonoma di sé. Alla progettazione a lungo termine succede la concentrazione sul presente e su quello che da esso si può ricavare per la propria felicità. Vengono così a cadere i valori di tipo prometeico, acquisitivo-strumentale41 tipici della società industriale e si affermano valori di tipo espressivo42, relazionale, estetico, dionisiaco Un consumo che non si fa progetto, che “non rinvia al domani, né al ieri, ma all’oggi; [… ] non è dunque tradizione né innovazione, non è bisogno primario, ma neppure post-materialismo […]. È comunicazione visiva, […] è esteticità, attenzione a se stessi, preminenza delle proprie idee e dei propri desideri. Esporsi, vedere, essere visti, aprirsi al mondo attraverso la musica […]. Essi ci indicano una forma della coscienza giovanile sempre più forma” (Cipolla, 1989, 58). Esso diventa “opzione di valore, di senso, cioè indicatore forte e non occasionale di identità personale” (Cipolla, 1989, 36). Un consumo “ben diverso da quello storico di mera sussistenza, di pura soddisfazione dei bisogni primari o di necessario complemento alla produzione” (Cipolla, 1989, 35). In esso “il giovane tenderebbe ad esprimere fino in fondo le proprie vocazioni, a manifestare la propria carica ideale, a mostrare la direzione delle proprie fedi, a suggerire strategie o tattiche di innovazione sociale” (Cipolla, 1989, 57). Ciò ne spiega il forte investimento economicoculturale. 2.5.4. La crisi delle istituzioni tradizionali e nuove agenzie di socializzazione Negli anni ’70, anni di profondo mutamento sociale, le istituzioni tradizionali (stato, famiglia, scuola, chiesa) entrarono in crisi: crisi di funzione. In genere non riuscirono a cogliere le nuove domande emergenti dalla collettività e dai giovani in particolare, e ad elaborare delle risposte all’altezza della situazione. Esse, infatti, erano state pensate e strutturate in un periodo storico precedente, e non dimostrarono la capacità di recepire, nelle tendenze al mutamento, i nuovi bisogni che andavano emergendo. Dagli anni ’80 in poi c’è stato un recupero di alcune istituzioni. La famiglia gode della massima fiducia da parte dei giovani. Anche la Chiesa, che sembrava destinata ad essere spazzata via come un residuo medioevale, ha sorprendentemente recuperato posizioni. La stessa scuola, pur con la sua endemica incapacità di stare al passo con i tempi, riscuote una notevole credito di fiducia da parte dei giovani, anche perché è l’unica istituzione pubblica che sentono vicina. Lo stato è 41 L'acquisività, come dimensione dell'agire sociale, è caratterizzata da “un bisogno di manifestare le proprie capacità affrontando sempre nuovi problemi... in vista di uno scopo percepito come strumentale; in situazioni che presentino un certo grado di rischio (di fallimento)..., secondo un modello di azione che comporta un qualche grado di eccellenza, originalità, autonomia; onde ricavarne un certo grado di soddisfazione personale, primariamente intrinseca all'attività stessa, ma poi anche socialmente differenziata sulla base delle risorse accessibili...; in relazione a un contesto di altri percepiti come concorrenti...; adottando un comportamento metodico e calcolato, che anticipi razionalmente la situazione finale, padroneggiando quella presente, e che sia capace di differire le gratificazioni espressive immediate in vista del raggiungimento dello scopo di lungo termine” (Donati, 1987, 19) 42 - I comportamenti "espressivi" (secondo l'interpretazione di Maslow) sono chiamati così perché esprimono lo stato dell'organismo, sono spontanei, non volontari, non critici, passivi. Essi sono attività o reazioni inutili, non dettate dal bisogno di ottenere dei risultati pratici. Sono esperienze "fine" e non mezzo. Esprimono uno stato di abbandono in cui deve cessare l'inibizione, l'autocoscienza, la volontà, il controllo, l'acculturazione, la dignità, lo sforzo (Maslow,1973, 225). Hanno un andamento dall'interno all'esterno, sono motivati dalla crescita, dal bisogno di sviluppo ed espressione dell'organismo 44 l’unica realtà che non ha recuperato. Ma questo fa parte di una situazione endemica della popolazione italiana, più tendente verso il particolarismo che verso la lealtà nazionale. In ogni caso, nel caso dello stato bisogna distinguere tra istituzione e istituzione. Se si parla di governo, di burocrazia, di politici, di partiti (e analogamente di sindacati, anche se non sono organizzazioni statali) la fiducia è ai livelli minimi; se invece si parla di giustizia, di forze dell’ordine o di militari il livello di fiducia è tra i più alti. Segno forse del bisogno di sicurezza e delle garanzie che tali istituzioni offrono. Così pure c’è fiducia nei rappresentanti del sistema economico (banche, industriali) e dell’informazione (scienza e comunicazione sociale). Tuttavia questi recuperi di fiducia non debbono trarre in inganno. In parte risentono della ricompattazione attorno ad alcune certezze dopo la critica radicale degli anni ’70. Ma ciò non significa un ritorno al quadro sociale precedente. Già negli anni ’80, a fronte dell’inversione di tendenza dimostrata dai giovani, i ricercatori avvertivano che «le istituzioni non riscuotono molta fiducia, ad eccezione di alcune. […] Il consenso resta così privo di referenti determinati, il sistema è riconosciuto come legittimo, ma tra le istituzioni che ne rappresentano i centri funzionali vitali, ben poche meritano fiducia allo stato attuale» (Calvaruso – Abbruzzese, 1985, ). Ed aggiungevano che, se la rivolta generazionale e la critica radicale erano scomparse, non per questo si poteva pensare ad un recupero del consenso precedente: la cessazione della conflittualità non significava «una delega in bianco per nessuna istituzione, la quale in ogni caso deve riconquistarsi la propria legittimità» (Calvaruso – Abbruzzese, 1985, ). La vicenda delle istituzioni è stata seguita nelle successive indagini “EVS” da Abbruzzese, il quale ha rilevato l’equivoco di fondo presente nel presunto recupero di credibilità delle istituzioni, quando permane il soggettivismo. Afferma che «dopo la perdita di fiducia nelle istituzioni (già avvertibile nell’indagine del 1981) viene meno anche quella sui benefici sociali e di status derivanti dall’impegno professionale. Valgono di meno il lavoro – nelle sue ricadute sociali e nelle sue potenzialità realizzative – e la politica attiva, intesa come militanza disinteressata e generosa per il partito e il sindacato. Al loro posto si affermano l’attenzione alla qualità della propria vita ed al proprio universo di relazioni» (Abbruzzese, 1995, 189). Il tentativo di ricostruire un tessuto sociale senza rinunciare all’individualismo è visto dall’autore con notevole sospetto, che lo ritiene destinato all’insuccesso. La convergenza su alcuni valori e su alcune forme di socialità rappresenta più una sommatoria di attenzioni individuali che un consenso comune. Quindi il tessuto sociale non viene ricostituito, la norma non nasce dal riconoscimento di principi comunque validi, ogni cosa è sempre soggetto al principio della gratificazione individuale, e quindi fluida. Le istituzioni recuperano valore e fiducia solo nella misura in cui rispondono a bisogni specifici, valutati con criteri soggettivi. Sovente è la qualità della relazione che conferisce valore alle istituzioni. Ma tale strada è pericolosa: «il personalismo è la forma di devianza più rischiosa per chiunque ricopra una funzione all’interno di un’istituzione. La dimensione relazionale, per tale strada, se da un lato riscuote consensi, dall’altro non ricuce necessariamente il rapporto tra individuo ed istituzione ma anzi rischia di far conflagrare il personalismo all’interno di quest’ultima» (Abbruzzese, 1995, 198). Le conseguenze potrebbero essere di «defezione di responsabilità verso terzi, di un abbandono crescente delle funzioni educative[…], [e di] dimissioni dalle funzioni fondative» (Abbruzzese, 1995, 196) da parte delle istituzioni. Condizionare il valore di ogni istituzione alla qualità della relazione e, in definitiva, ad un principio di gratificazione implica un aumento di compiti per la persona ed una fragilità complessiva del sistema. L’effetto perverso potrebbe essere un sovrainvestimento individuale, con il rischio che diventi soggettivamente insostenibile per il soggetto. Così l’individualismo rimane l’unica via percorribile, ma con effetti disintegratori sul sistema sociale. La crisi delle istituzioni dunque come crisi di mediazione dei bisogni, che rimangono privi di canalizzazioni socialmente accettabili, ma anche come crisi di regolazione generale del comportamento sociale e quindi come frustrazione della domanda di cambiamento, partecipazione e responsabilità. Ciò implica la mancanza di strutture capaci di mediare tra sociale e individuale, cioè 45 di assicurare quel processo di socializzazione integrativo che è necessario al ragazzo nel suo processo di maturazione e accesso all’età adulta. Il quadro della crisi richiama alla mente il modello durkheimiano: lo sfondo è quello dell’anomia, oggettivamente definita come scollamento tra sistema normativo e sistema strutturale per effetto di diverse velocità di cambio e per fatti traumatici storicamente ben accertabili; soggettivamente equiparata a stati d’animo variabili tra il disagio, l’angoscia, la sfiducia nei riguardi di un sistema normativo che non è più in grado di governare il rapporto tra individuo e società, perché obsoleto, delegittimato, contraddittorio. A questo punto il discorso dovrebbe farsi analitico e riferirsi più specificamente alle diverse istituzioni, da quelle politiche, alle altre quali la chiesa, la scuola, l’esercito, ecc. Si tratta in genere di canali di comunicazione verticale che restano ancora ostruiti e che perciò rendono precari la continuità culturale, il senso della tradizione e, in ultima analisi, la progettazione del futuro. Però, ai fini della nostra trattazione, è sufficiente analizzare quelle istituzioni che più direttamente entrano nel processo di socializzazione adolescenziale. 2.5.4.1. La famiglia La famiglia, nella sua forma moderna, garantisce alle persone il soddisfacimento di alcuni bisogni primari: il bisogno psicologico di sicurezza, di affetto, di stare insieme, di soddisfare le esigenze del sesso, di procreare. Ma oltre ad essere il luogo della risposta ai bisogni psicologici e biologici tipicamente umani, la famiglia è anche l’area della riproduzione del sistema sociale sia a livello della conservazione che della cultura sociale, intesa come insieme dei codici e delle tecniche del vivere. Infatti è all’interno della famiglia che si realizza il primo e più rilevante stadio dei processi di socializzazione e di inculturazione, attraverso i quali avviene l’interiorizzazione dei valori sociali e degli stili di vita che sono tipici di un certo sistema sociale. Ciò significa che all’interno della famiglia si gioca gran parte della possibilità del nuovo individuo di adattarsi al sistema sociale e di elaborare un progetto di vita evolutivo o regressivo. Ora, nell’attuale società caratterizzata da una alto livello di complessità e differenziazione, nonché dalla carenza di un sistema di fini che coordini le attività delle istituzioni e dei sistemi sociali con quelle dei soggetti, ricade nella famiglia la maggior parte del compito di socializzazione e di integrazione. Infatti, anche per Luhmann il sistema famiglia è l’unico dove il sistema psichico individuale può essere persona. Tuttavia tale compito diventa soverchiante rispetto alle possibilità della famiglia, perché essa stessa è inserita in questa realtà sociale ed importa complessità, che vuol dire flessibilità ma anche insicurezza e disorientamento. Tali caratteristiche ridimensionano la capacità educativa e strutturante la personalità e riducono il peso dell’autorità familiare sul processo di socializzazione. Pertanto, pur rilevando dalle statistiche un recupero della centralità della famiglia ciò non indica che la famiglia stia bene. Dalle analisi sociali emerge un’intrinseca debolezza della famiglia nucleare per quanto attiene le capacità educative, in quanto, potendo contare solo su uno o due ruoli educativi adulti al proprio interno, quando va in crisi uno di essi, o addirittura entrambi, gli effetti all’interno del processo formativo diventano immediatamente rilevanti. Questo viene evidenziato dalle situazioni più gravi di disagio di alcune situazioni familiari: 1. svantaggio economico; 2. basso livello di istruzione dei genitori; 3. disoccupazione o occupazione precaria dei genitori; 4. isolamento relazionale nel contesto urbano della famiglia; 5. coppia genitoriale separata o conflittuale; 6. assenza o carenza del ruolo educativo e normativo da parte dei genitori; 7. comunicazione violenta di uno o di entrambi i genitori nei riguardi dei figli. Per esempio, i giovani che compiono atti di violenza, come le “baby gangs”, provengono generalmente da famiglie «che hanno alle spalle almeno una separazione o comunque una 46 situazione di disagio; sono molti i genitori che non sospettavano neanche che i propri figli potessero essere coinvolti in comportamenti trasgressivi o che non controllano ciò che i loro figli portano a casa o portano via da casa» (Dipartimento di giustizia minorile 2001, 41). A questo quadro tradizionale della povertà dell’ambiente familiare, si aggiungono forme nuove di abbandono e incapacità di assolvere i compiti familiari, che colpiscono famiglie benestanti e cosiddette “normali” Gli studi relativi al clima familiare hanno evidenziato l'incidenza negativa sia di uno stile educativo permissivo e tollerante, sia di quello coercitivo. In entrambi i casi è probabile l'assunzione da parte del bambino di condotte aggressive, nel primo caso per l'incapacità a porre adeguati limiti al proprio comportamento, nel secondo per la tendenza a legittimare l'uso delle stesse modalità comportamentali esperite nella relazione parentale. A detta degli esperti sono normali «anche le famiglie nelle quali il dialogo tra genitori e figli è sbrigativamente basato sulla soddisfazione dei bisogni e dei desideri, piuttosto che sulla lenta e faticosa negoziazione ed elaborazione di quest'ultimi, che costringe a motivare i no e i sì e ad essere coerenti con le prescrizioni date, oggi normalmente non esistente. Normali, inoltre, sono anche le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, stanno fuori casa tutto il giorno e confessano di cominciare ad avere problemi nel tenere i figli, non tanto e non solo come custodia, ma soprattutto come stile relazionale ed educativo, fin da quando hanno 3 anni» (Dipartimento di giustizia minorile, 2001, 40). La mancanza di un vero dialogo tra genitori e figli rende impossibile la crescita di questi ultimi. Questa mancanza di autentico dialogo sarebbe dimostrata anche dalla mancanza di conflitto interno alla famiglia. Tale mancanza può sembrare, a prima vista, positivo. Ma il fatto che il conflitto diventi latente non aiuta a crescere, non fa maturare la personalità e, soprattutto, non risolve il conflitto. Così questo conflitto è a sua volta causa di malessere e disagio, come rileva il rapporto Censis del 2001: «oggi […] il conflitto sembra definitivamente derubricato. […] Ma alla omologazione delle opinioni fa da contraltare l’autopercezione della distanza rispetto alle generazioni adulte e anziane […], soprattutto nei linguaggi espressivi e nei luoghi di socializzazione. Ci si trova così di fronte ad una realtà in cui l’aderenza sostanziale a modelli valoriali convenzionali convive con la spinta potenziale alla alterità generazionale […]. Per i genitori l’adesione giovanile a valori ed orientamenti convenzionali ha una funzione tranquillizzante, così come per i figli l’accettazione di comportamenti codificati è altrettanto rassicurante e tende ad evitare qualsiasi forma di conflitto, a mimetizzare ciò che si è per far emergere solo ciò che si ritiene giusto mostrare. […] Un dissenso silente, fatto di continue dissociazioni tra ciò che è giusto essere e ciò che si è intimamente e che può diventare potenzialmente dirompente proprio per la complessità della gestione di questo fragile equilibrio» (Censis, 2001, 27-29). Pertanto la crisi della famiglia si avverte nella sua incapacità di “filtrare” o rendere dialettici al suo interno (in modo da garantire una arricchente convivenza) i modelli culturali presenti a livello sociale. I modelli culturali, le problematiche, le tensioni esterne, sovrastano molte volte la famiglia, impedendole quella funzione di “mediazione” tra personalità e società che dovrebbe qualificare la socializzazione primaria, di cui gli adolescenti hanno particolare necessità. E ciò soprattutto in un contesto di elevato pluralismo ideologico e culturale. Per Donati tale situazione testimonia che non c’è più nulla da comunicare, che non esiste differenza a livello di valori tra le generazioni, perché, vivendo in una società eticamente neutra, non c’è più nulla da trasmettere: «Il conflitto fra genitori e figli è scomparso, perché entrambi vivono alla giornata. Non litigano più solo perché parlano di cose banali. Il clima familiare non è problematico solo perché si rinuncia a fare delle scelte che costano sacrifici. I genitori educano senza assumere, né chiedere ai figli che si assumano, precise responsabilità etiche. Vivono nelle ansie e nei timori, ma senza decidere nulla eticamente. Il conflitto, perciò, diventa latente, e si sposta su un altro terreno, quello di convinzioni intime che non sono oggetto di comunicazione» (Donati – Colozzi, 1997, 29). 47 Così prevale una funzione di “parcheggio” della famiglia, una struttura in funzione dei bisogni individuali di cui il giovane approfitta opportunisticamente, ma incapace di costituire per i propri membri uno spazio di costruttivo e arricchente confronto alla luce delle istanze e problematiche emergenti dalla società. 2.5.4.2. La scuola Il ruolo socializzante della scuola durante l’età giovanile è in discussione: alcuni studiosi pensano che la scuola sia decisamente il fattore più importante di trasmissione di contenuti culturali in questa età, altri invece ritengono che il ruolo della scuola sia di fatto solo istruttivo-informativo riducendosi all’insegnamento di nozioni e di abilità che facilitano meramente l’adattamento professionale alla società. In realtà si può dire che: 1. Generalmente la scuola assolve, almeno in modo indiretto, alla funzione di trasmissione di contenuti culturali, ma di solito tali contenuti sono un riflesso speculare delle caratteristiche strutturali e culturali della società stessa. 2. L’influsso della scuola, a parte la qualità dei contenuti trasmessi, è comunque notevole in quest’età anche perché catalizza le possibilità di formazione di una ideologia, soprattutto attraverso alcune discipline particolarmente formative. 3. L’influenza è legata poi anche alla personalità degli insegnanti, al carattere anticipatore dei suoi contenuti, al grado di conflittualità rispetto ad altri fattori socializzanti. Su questo ultimo punto si potrà notare che, rispetto a tutte le altre fonti di “inculturazione”, la scuola gode del vantaggio di un più lungo contatto, di un influsso graduale, di una vera esperienza di gruppo; ciò sembra ricompensare le carenze di profondità e di strutturazione dei valori trasmessi. 4. In particolare riferimento al problema dei valori, occorre sottolineare che è attraverso la scuola che i giovani vengono a contatto con gli aspetti più riflessi della cultura, soprattutto quelli connessi con le moderne scienze antropologiche e quelle più ancora radicate nelle scienze storiche, filosofiche e letterarie. A fronte di queste funzioni della scuola, si rileva la costante incapacità della scuola italiana a rispondere a quelle domande sia di cultura sensata, di preparazione alla vita che si traduce in inserimento sociale e preparazione professionale che proviene dalla società e dal mondo giovanile. I giovani italiani pur avendo avuto una buona scolarizzazione, sono stati per decenni in ritardo rispetto alle altre nazioni europee. Ultimamente il gap si è ridotto ma ci sono dubbi sulla qualità della scuola italiana. I recenti tentativi, di Berlinguer prima e della Moratti oggi, di modernizzare la scuola italiana hanno dimostrato, dalle resistenze che hanno suscitato, quanto il problema sia vasto e complesso. I nodi ancora irrisolti riguardano: il ritardo nei riguardi dell’Europa; il basso grado di efficienza ed efficacia del sistema scolastico; le disparità territoriali, di genere e di classe sociale; la domanda di personale qualificato (Besozzi, 1998, 23-26). In merito alle disfunzioni della scuola, la dispersione scolastica ne è l’indicatore più significativo. “La relazione sull’infanzia e l’adolescenza 2000” riconosce che «il 5% della popolazione italiana non riesce a completare il corso di scuola media» e che «permane una percentuale ancora piuttosto alta di uscite dal sistema scolastico dopo il primo anno di scuola secondaria superiore» (Presidenza del Consiglio, 2001, 51) La ricerca Labos (1994) ha chiarito l’esistenza del nesso, anche se in modo non deterministico, tra la dispersione scolastica e le varie forme di disagio o di devianza in cui sfociano alcuni percorsi esistenziali giovanili. Sovente proprio i giovani che avrebbero un maggior bisogno dell’attività formativa della scuola, vuoi per gli svantaggi sociali e familiari di cui sono portatori, vuoi per motivi personali, sono quelli che spesso sono precocemente espulsi da essa o marginalizzati. Molte situazioni di disagio o carriere devianti hanno alle spalle un’esperienza scolastica negativa. La dispersione 48 scolastica è, infatti, un fenomeno sociale fortemente correlato con i percorsi del disagio e della devianza giovanile. Non è perciò un caso che nelle storie dei giovani, vittime del disagio, si riscontri una serie frequente di vicende scolastiche negative. Questo è stato evidenziato anche da altre ricerche. In particolare una ricerca del CEIS di Roma, condotta da Pollo, ha messo in luce l’intreccio che si stabilisce tra disagio scolastico e tossicodipendenza. In particolare il metodo delle storie di vita ha permesso di ricostruire la catena causale innescata da incidenti relazionali con insegnanti: «problema relazionale con uno o più insegnanti, perdita di fiducia in sé e/o negli insegnanti perdita di interesse per lo studio e abulia» (Pollo, 1999, 226). 2.5.4.3. La Chiesa La crisi della Chiesa è intimamente connessa al progetto moderno-illuminista, e va sotto il nome di “secolarizzazione”. Con tale termine si vuole esprimere la «rimozione del dominio religioso, istituzionale e simbolico, dai settori della società e della cultura» (Dani - Roggero, 1987, 1821). Tale operazione viene da Weber giustificata come “disincantamento del mondo”, cioè un processo di “razionalizzazione”, tipico della modernità, che, nel rapporto tra mezzi e scopi, esclude pregiudiziali di valore (sovente di tipo religioso). E’ dagli anni ‘70 che la religione in Italia sta subendo un graduale processo di erosione numerica e di emarginazione sociale, riducendosi progressivamente ad un fatto meramente privato. «Le immagini più evocate sono quelle di una costante curva discendente, di in continuo processo di riduzione , che vanno sotto il nome di caduta della pratica religiosa, di diminuzione di fanciulli catechizzati, di crisi o di crollo delle vocazioni, di obsolescenza di strutture, di perdita di senso religioso, di disaffezione dalle chiese, ecc.» (Garelli, 1991, 9). Nonostante una ripresa della domanda religiosa agli inizi degli anni ’80, tale andamento non si è arrestato. Tuttavia in Italia «la religione cattolica sembra ancora manifestare un’insospettata vitalità, una forte capacità di tenuta, grazie alla quale essa assolve ad una importante funzione di equilibrio nella dinamiche sociali. La stessa cultura postmoderna in Italia sembra connotarsi come un equilibrio tra tradizione e modernità, ed in questo ambiguo “cocktail” la religione di chiesa sembra godere di una certa ripresa: per esempio la celebrazione religiosa dei principali momenti di passaggio nella vita (nascita, matrimonio, morte) […] sembra configurare un’inversione di tendenza rispetto all’allontanamento dalla religiosità tradizionale, della quale una componente rilevante è anche quella istituzionale. Ciò ovviamente non significa che la maggioranza degli italiani sia osservante delle prescrizioni ecclesiastiche» (Gubert, 2000, 480). Per cui si osserva da una parte un processo di soggettivizzazione dell’etica e dell’esperienza religiosa, dall’altra la tenuta dei riferimenti religiosi. Di conseguenza anche la funzione socializzatrice della Chiesa cattolica subisce il condizionamento di tale ambiguità sociale. Da una parte si ricorre ancora massicciamente ai sacramenti e ci si assoggetta alle richieste della Chiesa per prepararvisi, dall’altra la pratica religiosa e l’osservanza etica risponde a criteri soggettivi. Il fatto più sorprendente è il forte impegno nella preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, cresima, eucaristia), controbilanciato dall’esodo massiccio dalla Chiesa una volta completato questo iter formativo43. Con il sospetto che ciò che è stato appreso non sia stato adeguatamente interiorizzato e, quindi, non si traduca in atteggiamenti e comportamenti corrispondenti alla fede dichiarata. Questo fenomeno è stato anche statisticamente documentato44. 43 Il fatto è stato riconosciuto dallo stesso Presidente della CEI, card. Camillo Ruini, che nella prolusione al V Forum del progetto culturale ha affermato: “La trasmissione della fede alle nuove generazioni è un impegno tradizionale e fondamentale della Chiesa, che via concentra gran parte delle proprie energie. Negli ultimi quattro decenni questa trasmissione ha messo in luce crescenti difficoltà. […] I risultati del rinnovamento sono stati comunque scarsi, almeno sul piano quantitativo, dato che è continuato a diminuire il numero dei ragazzi che riescono a stabilire con la fede e con la Chiesa un rapporto duraturo e profondo” (Ruini, 2003, 407-408). 44 “In Italia ci sono circa 300.000 catechisti su grossomodo 25.000 parrocchie, significa una media di 10-12 catechisti per parrocchia, tenendo conto che molte parrocchie comprendono meno di 1000 abitanti e c'è una grossa fetta di oltre 10.000-15.000 49 Sono pertanto assai pochi, tra i ragazzi che hanno partecipato ai corsi di catechismo in vista dell’iniziazione cristiana, coloro che ne hanno effettivamente interiorizzato il messaggio. Questo avviene molto più probabilmente con coloro che, volontariamente, si aggregano in associazioni, gruppi o movimenti cattolici. Questo variegato modo di rapportarsi alla Chiesa appare anche dai dati dell’ultima indagine IARD, dove l’80% dei giovani si dichiara di fede cattolica, tre quarti dei quali considerano importante la fede nella loro vita, ma solo il 35% le assegna moltissima importanza. Il 41%, frequenta le funzioni religiose, ma solo il 27% lo fa con frequenza. Il 18% partecipa a gruppi o associazioni religiose (cfr. Buzzi – Cavalli - De Lillo, 2002, 367-373). L’associazionismo religioso è secondo in Italia solo a quello sportivo, ma c’è una forte caduta di partecipazione man mano che gli anni avanzano. Questi dati confermano tendenze già evidenziate in passato: cioè una forma a “scalare” dell’impegno e pratica religiosa, «la religiosità si presenta come un fenomeno non solo a molte dimensioni, ma anche a molte intensità» (Buzzi-Cavalli-De Lillo, 2002, 375). Per quanto la religione in Italia tenga, è evidente la caduta di partecipazione che data dagli anni ’70. Gli effetti della scarsa incidenza della socializzazione religiosa sono constatabili anche dal comportamento dei giovani credenti, dove valori che riguardano la vita e la sessualità (aborto, divorzio, rapporti sessuali, bioetica, ecc.) non godono delle stesse valutazioni della gerarchia (cfr. Buzzi-Cavalli-De Lillo, 2002, 380). Ma nemmeno tutti i contenuti dottrinali della fede sono accettati tranquillamente dai credenti. Soprattutto sull’aldilà, sono molti i dubbi, le perplessità o i rifiuti della dottrina tradizionale. Lo stesso dicasi dei miracoli e del peccato (cfr. Mion, 1991, 198199). In compenso, se si confronta la posizione dei giovani religiosi cattolici su temi sociali e civili come la giustizia, l’uguaglianza, la pace, la solidarietà, la Patria (oltre che sui temi dell’etica familiare e sessuale) essi dimostrano punteggi più alti dei non religiosi (cfr. Buzzi-Cavalli-De Lillo, 2002, 380-381). Pertanto l’appartenenza religiosa, anche se non riesce a contrastare efficacemente le tendenze secolarizzatrici della società, riesce comunque a fornire motivazioni sufficienti per un impegno civile più pronunciato, talmente che Cartocci (2002), in seguito ad una recente indagine sul senso civico dei giovani, ha constatato che «in generale gli studenti cattolici praticanti manifestano una maggior apertura verso gli altri, più fiducia nelle istituzioni; risultano anche quelli più severi verso le trasgressioni e più critici verso l’arte di arrangiarsi»(Cartocci, 2002, 228). Fino ad arrivare ad affermare che “la rete della parrocchie e degli oratori appare oggi una delle poche palestre di civismo” ”(Cartocci, 2002, 228) presenti nel paese. Egli individua il motivo di questa caratteristica nell’esperienza positiva in seno alla famiglia, nei gruppi, nelle associazioni, nei rapporti interpersonali. Le buone ragioni della convivenza (convivenza fondata su valori comuni che hanno alla base la fede) alimentano progetti e ideali che permettono una presenza sociale costruttiva, senza farsi condizionare dalla cattiva pedagogia delle istituzioni e dal clima di lamento sulla situazione nazionale veicolato dai mass media e dall’opinione pubblica. Trova che «la pratica religiosa introduce elementi di arricchimento dei punti di vista sul mondo, in buona misura dissonanti sia rispetto ai messaggi dei media, sia anche rispetto alle materie scolastiche» (Cartocci, abitanti. Di questi catechisti il 60% sono addetti ai fanciulli, il 31% sono addetti ai pre-adolescenti, il 3,9% sono addetti agli adolescenti, il 4% sono addetti al mondo giovanile (ma la maggior parte sono nei gruppi e nelle associazioni ecclesiali) e infine c'è un altro 4% per tutti gli adulti. […] Secondo le statistiche che ho desunto anche da certe domande implicite, incrociando alcuni dati, oltre l'80-85% dei fanciulli passa per la catechesi parrocchiale, quasi 65-70% dei preadolescenti partecipa alla catechesi in vista del sacramento della cresima. Poi con la cresima si fa la festa dell'addio ed ecco il senso di questo distacco e disaffezione della maggior parte degli adolescenti. Fanno eccezione quei pochi che hanno trovato catechisti capaci di accompagnare il loro cammino di fede, che hanno capito, andando anche contro la mentalità del parroco, il modo di uscire un po' dagli schemi tradizionali della catechesi finalizzata ai sacramenti. […] Questi adolescenti non hanno avuto la possibilità di interiorizzare le motivazioni della fede in sintonia con le nuove scoperte dell'identità, per cui la socializzazione religiosa precedente è rimasta tradizionale e un po' legata a motivazioni esteriori e, chiaramente, quando un principio non viene interiorizzato, sia per quanto riguarda la dimensione morale che quella religiosa, le cose apprese e vissute nell'età precedente vengono o rifiutate o rigettate, non trasformate” (Morante, 1997, ). 50 2002, 229). Arriva persino a ritenere la pratica religiosa una forma di “mobilitazione cognitiva”, invertendo con ciò il significato che l’adesione alla fede aveva in Inglehart. Ciò conferma quanto già osservato da Mion negli anni ’90, che cioè «la religiosità sta acquistando oggi più di ieri un valore fondamentale anche nella formazione dell'identità giovanile. [Essa] diventa un tratto centrale, molto importante, attorno a cui unificare le altre dimensioni umane per la costruzione della propria personalità. […] Una tessera importante e tra le più valide con cui dare senso al mosaico della propria vita nel segno dell'autorealizzazione» (Mion, 1995, 46).. Pertanto l’adesione e la pratica religiosa sembra rappresentare un elemento di contrasto al disagio e alle forme di confusione valoriale e disimpegno civile, ma la sua scarsa incidenza numerica ne riduce sensibilmente l’apporto. 2.5.4.4. Il gruppo dei pari "Nella nostra società urbana-(post)industriale, il gruppo dei coetanei assume durante l'adolescenza un'importanza che non aveva prima e non conserverà in seguito" (Lutte, 1987, 223). L’importanza del gruppo va cercata nel bisogno di affiliazione o di appartenenza, nel bisogno di indipendenza dagli adulti e nel bisogno di organizzarsi autonomamente in un contesto di società che emargina di fatto l'adolescente e frustra le sue aspirazioni. Il gruppo può considerarsi "l'habitat privilegiato degli adolescenti non solo per il fatto che essi vi investono gran parte del loro tempo, ma soprattutto perché esso rappresenta un'interfaccia significativa tra il soggetto e la società circostante nel processo di formazione delle opinioni e delle forme di rappresentazione di sé e degli altri" (Salvini, 1994, 53). Il gruppo, quindi, è funzionale al momento di transizione dell'adolescente dallo status infantile a quello adulto. Nel gruppo l'adolescente può trovare uno spazio in cui può esprimersi con maggiore libertà ed autonomia e la necessaria sicurezza per superare i compiti di sviluppo connessi a tale fase evolutiva. Il gruppo dei pari, infatti, diviene luogo dove condividere la propria "immaturità". Qui l'immaturità e l'incompiutezza possono, in un confronto paritario, generare quei processi creativi che aiutano l'adolescente nella sua crescita (Baldascini 1993, 149162). Le attività comuni nel gruppo sono la possibilità per sperimentare e conoscere i propri limiti e risorse, i limiti delle proprie prestazioni fisiche e le possibilità che derivano dalle recenti trasformazioni del corpo, i limiti delle nuove acquisizioni psichiche e la sperimentazione delle proprie capacità di ragionare, teorizzare, verbalizzare. Il gruppo costituisce l'ambito in cui gli adolescenti elaborano, nell'interazione reciproca tra di loro, il proprio modo di inserirsi tra gli adulti. Il gruppo è ponte tra (individuo e la società, perché è spazio in cui il giovane può guadagnare la propria affermazione. Nel gruppo l'adolescente negozia con i pari un proprio spazio d'iniziativa, assumendo proprie responsabilità e rinunciando in parte al proprio narcisismo. Il gruppo consente di soddisfare il "bisogno di autonomia, di protagonismo, di sperimentazione, la voglia di fare e rischiare in proprio" (Altieri 1987, 57). Questo bisogno di protagonismo, autonomia e sperimentazione porta l’adolescente a contrapporsi alla società degli adulti, a costruire un sistema di valori e norme alternativo al sistema sociale vigente. In questo processo il gruppo fornisce un sostegno emotivo e culturale, aiutandolo a superare le angosce di separazione connesse con questo strappo. Il gruppo, infatti elabora un sistema di regole, di valori, ma anche di codici comunicativi come il linguaggio, il vestito, i luoghi di ritrovo, gli interessi, i gusti musicali, gli atteggiamenti e comportamenti che costituiscono la cultura del gruppo e servono come elemento di differenziazione dagli altri gruppi e soprattutto dagli adulti. Il gruppo diventa un "luogo di elaborazione di senso" e "mondo vitale" (Colozzi cit. da Baraldi 1989, 302) per molti adolescenti. Il gruppo diventa dunque un riferimento anche dal punto di vista normativo tanto che i comportamenti e gli atteggiamenti vengono generalmente uniformati a quelli dei coetanei (Maggiolini, Riva, 1999). Il gruppo adolescenziale richiede autentiche dimostrazioni di fedeltà; spesso sottopone a "prove di iniziazione" i nuovi arrivati per valutarne la forza e il coraggio - ed eventualmente assegnare loro un ruolo - e rappresenta anche lo spazio che accoglie l'emergenza dell'agire deviante (Bandini - Gatti, 1987; De Leo - Patrizi, 1999). Baldascini 51 (1995) sostiene la sostanziale importanza del gruppo per fare l’esperienza della “devianza” in adolescenza. Il forte senso di lealtà che si sviluppa verso le norme, i codici, le figure di riferimento del gruppo, può portare al "conformismo". Questo legame di dipendenza impedisce a volte al singolo di sottrarsi alle proposte del gruppo e di mantenere il proprio punto di vista, con il rischio dell'esclusione con l'accusa di essere codardo o traditore. Ciò diventa preoccupante nel caso di forme di devianza particolarmente gravi. Se la trasgressione fa parte dell’esperienza “normale” dell’adolescente, appare necessario tracciare confini concettuali fra le azioni di trasgressione che assumono una funzione di crescita per i soggetti e le azioni delinquenziali. Il comportamento deviante si manifesta soprattutto in gruppi che fanno della violenza, della trasgressione, dell’antisocialità il loro codice di comportamento. È noto, infatti, che le azioni devianti, per lo più, non sono vissute in solitudine, ma la maggior parte dei reati sono commessi in “coimputazione”: ciò vale in misura maggiore per i comportamenti devianti dei minorenni tra i quali sono spesso rilevabili comportamenti violenti connotati in termini espressivi (vandalismo o atti di aggressività). Potremmo aggiungere l'opportunità di distinguere fra i significati espressivi dell'agire deviante e le sue dimensioni più tipicamente strumentali (De Leo, 1998). Queste ultime, prevalenti nella classica banda dedita abitualmente ad atti delinquenziali con la finalità di trarre profitto, appaiono più sfumate nei gruppi di giovani presenti nella realtà italiana. In ogni caso, nonostante le apparenze, la cultura dei gruppi adolescenziali è molto meno differenziata da quella dominante di quanto appaia. La cultura e le attività del gruppo sono di carattere consumistico (Baraldi 1989, 301). Essa si nutre degli stimoli che provengono dal mondo adulto, particolarmente dai mass-media, anche se viene poi rielaborata autonomamente dal gruppo. Si dice addirittura che, pur avendo un forte orientamento anti-adulto, il gruppo riveli una specie invidia dello stato adulto e che il disprezzo che gli adolescenti manifestano verso gli adulti mascheri una specie di "complesso dell'uva acerba" (Lutte 1963, 614). Le attività dei gruppi adolescenziali possono essere considerate come “attività adulte simboliche” (Bloch – Niederhoffer, 1958). 2.5.4.5. I mass media Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale, insieme alla differenziazione funzionale, è stato l’elemento fondamentale della modernizzazione (Ungaro, 2001, 10). Abbiamo assistito in questi ultimi decenni ad uno sviluppo impressionante di tali mezzi e potenzialità, che di fatto hanno cambiato le nostre vite più di ogni altro fenomeno. In particolare, essi hanno avuto un influsso notevole sui processi di socializzazione ed acculturazione. Il centro di acculturazione non è più la famiglia o la scuola45. La TV, i fumetti, i giornalini, la musica, Internet diventano i nuovi agenti di socializzazione e acculturazione, attraverso i quali i ragazzi imparano nuovi modelli culturali e di comportamento e attraverso cui assumono nuovi valori. Il loro influsso viene amplificato dalla socializzazione nel gruppo dei pari, che subiscono lo stesso tipo di condizionamento e perciò impongono ai coetanei i modelli recepiti dalla TV e dagli altri mezzi di comunicazione sociale. Il fatto che la trasmissione della cultura e delle norme non avvenga più solo da generazione in generazione, bensì per via orizzontale, cambia notevolmente sia il tipo delle strutture di apprendimento che i valori di riferimento. Sembra, per esempio, che stia cambiando il modo stesso di ragionare: viene favorito lo sviluppo della parte destra del cervello, quella deputata alla costruzione delle immagini, del discorso analogico, simbolico, artistico. Questo comporta un modo diverso di accostarsi alla realtà, schemi mentali diversi. Se da una parte consentono una maggior 45 - Gli agenti tradizionali della socializzazione "risultano spesso perdenti nei confronti dei media, in particolare con la televisione... La televisione e gli altri media, presentando pagine di sogno e facendo agire figure e personaggi sul piano del desiderato e del proibito, utilizzando a fondo le dinamiche dell'identificazione e della proiezione" (Scaglioso, 1986, 33-34), risultano molto più avvincenti delle figure tradizionali. 52 rapidità di riflessi, dall'altra non favoriscono la sua "ritenzione". Ne risulta danneggiata la capacità di riflettere, elaborare gli stimoli in base a principi razionali46. Altri effetti della forte esposizione ai mass-media consistono nella sensibilizzazione, presentificazione, superficializzazione e relativizzazione. La presenza istantanea a tutti gli avvenimenti del pianeta allarga il nostro universo cognitivo e ci permette di sintonizzarsi con i problemi di tutto il mondo. Tuttavia l'essere costretti a partecipare emotivamente a tutte queste evenienze crea degli esseri schizofrenici, sensibilissimi e crudelissimi o cinici nello stesso tempo, in quanto uno non può soffrire o gioire adeguatamente per più di un avvenimento per volta. E' facile che si instaurino dei meccanismi mentali e psichici come la rimozione, la negazione, la relativizzazione, la razionalizzazione il cui uso prolungato e indistinto può essere nocivo per la salute della psiche individuale e collettiva. Questa sensibilizzazione da mass-media può dar luogo a "strutture giovanili deboli che - lasciate a se stesse - rischiano di incrementare paurosamente gli ambiti dell'emarginazione, della patologia sociale, dell'infelicità umana" (Burgalassi, 1989, 70). Cambiando perciò le strutture cognitive ed emotive, si definiscono nuovi scenari valoriali. Questo "godere l'intensità e le sensazioni della superficie delle immagini" (Burgalassi, 1989, 70) senza attingere ad una maggior profondità sembra delineare un nuovo tipo di cultura. La realtà è ciò che appare e non ciò che accade. Prevale la civiltà dell'immagine. L'apparenza è più importante della sostanza. Prevale la percezione sulla riflessione, la novità sulla solidità, lo spettacolo sul lavoro. Lo stesso consumismo, indotto dalla pubblicità attraverso i mass-media, sembra sfruttare questa logica dell'apparire, che diventa "ostentazione". La cultura delle nuove generazioni risulta essere molto superficiale ed è accusata di contribuire alla creazione di atteggiamenti superficiali. Questo ottunderebbe la capacità critica dei soggetti e favorirebbe atteggiamenti conformisti, gregari nei confronti dei poteri economici o politici (cfr. Fromm 1989)47. Ricerche condotte in America sulle conseguenze di una prolungata esposizione dei ragazzi (età prescolare e di prima scolarità) ai programmi televisivi rilevano la formazione di modelli e schemi mentali violenti, di disturbi allo sviluppo psicomotorio, di irrequietezza, impazienza, aspettative di divertimento da ogni attività o di perdita di interesse se non corrispondono a tali aspettative... (Singer & Singer, 1986). E' stato denunciato la condizione di dipendenza e passività che può indurre il rimanere ore ed ore davanti al televisore48. E con la passività e la dipendenza viene meno anche la creatività49. 46 - Il Rapporto Faure, all'inizio degli anni '70 aveva messo in guardia dalle fondamentali "modificazioni" apportate dalla televisione sui ragazzi: 1) Un accrescimento della sensibilità visiva e audiovisiva, una regressione della sensibilità uditiva pura. 2) Una maggior rapidità nell'affrontare segni e simboli, a interpretarli. 3) Una notevole difficoltà a concentrarsi piu' di due minuti di seguito sullo stesso soggetto... 4) Una grande difficoltà ad imparare a memoria e a ritenere testi di relativa lunghezza. 5) L'allenamento alla rapidità del riflesso intellettuale sembra corrispondere a una correlativa incapacità di fissare il riflesso stesso, a ritenerlo, condizione prima, invece, della riflessione; la maturazione del giudizio non è nè favorita nè incoraggiata dall'ininterrotto bombardamento di dati sempre nuovi a cui l'ambiente informativo del mondo circostante sottopone l'adulto, l'adolescente, il bambino... (Bertaux, Una nuova immagine dell'uomo, in AA.VV., "I documenti del Rapporto Faure, Educazione in divenire", Armando, Roma 1976, 22-24; cit. da Milan, 1988, 166). 47 Quest'influenza appare più evidente quando interviene il "fascino dello spot": Le fulminanti fiabe moderne, costruite utilizzando immagini in rapido movimento, frequenti mutamenti di quadro, colori vivaci, orecchiabili musichette di fondo, piacciono ai bambini, ne catturano l'attenzione, sottoponendoli però attraverso le modalità della "persuasione occulta", al bersagliante invito a comprare (Milan, 1988, 160). 48 Imputato speciale di tale situazione diventa il telecomando. "Il piccolo si vede attribuito il potere magico di far scorrere le immagini sul video a suo piacimento; egli sperimenta perciò un senso di autonomia e di più ampie possibilità ludiche, che, proprio perché illusorio, accentua lo stato di dipendenza e di passività..." (Milan, 1988, 158). 49 "Grande è, per esempio, come ha rilevato M.B. Rothenberg, l'influenza della televisione sull'atteggiamento del bambino nei confronti dei ruoli dell'uomo e della donna, dei rapporti sessuali, delle discriminazioni razziali, del comportamento morale in genere..." (Milan, 1988, 160). Strettamente connesso al discorso sulla passività e sulla fruizione acritica è il problema dell'inibizione della creatività. "... i figli della televisione sono indotti a non comportarsi in modo divergente rispetto agli esempi osservati: pensano generalmente in modo filmicotelevisivo, subiscono gli schematismi di un modo di agire, di fare, di parlare, che essi facilmente 'registrano' e facilmente 'ripetono'... La stessa M. Winn ripete piu' volte che la continuata e prolungata esposizione ad un trattenimento così passivo danneggia la capacità di utilizzare le risorse dell'immaginazione e della creatività" (Milan, 1988, 160-161). 53 La comunicazione faccia a faccia viene sostituita da quella attraverso il medium. Vengono accentuati fenomeni di passività, sottomissione, abulia con scarsa propensione ad affrontare le difficoltà della vita e soprattutto ad interagire profondamente con le persone. Esisterebbe addirittura, secondo Braudillard (1976), una correlazione tra frammentazione dell'identità e immagine frammentata del mondo e dell'uomo confezionata dai mass-media contemporanei. Lo spettatore si limita a godere dell'intensità delle sensazioni provocate in lui dallo medium senza approfondire il nesso tra gli eventi e le cause e senza rendersi conto dei meccanismi che si attivano in lui50. Contro il principio della riflessione e della interiorizzazione delle norme, che costituiva il principio classico della personalizzazione ed autonomizzazione, prevale ora il principio del possesso, della quantità di stimoli, della rapidità delle risposte, sostituzioni, della "ostentazione". "Tutto si cerca al di fuori di sé, nulla che nasca dall'interno dell'uomo se non il desiderio" (Mion, 1991, 78). Tuttavia tali e altri effetti negativi dei mas-media non sembrano agire automaticamente con effetti uguali per tutti. Le ricerche hanno dimostrato che i vari effetti cambiano a seconda del tipo di personalità, di cultura, di ambiente in cui si sviluppano. In genere sono correlati negativamente con il livello culturale, i rapporti familiari, l'atteggiamento della famiglia nei riguardi dei prodotti trasmessi, il tipo di educazione51. 3. Bisogno di integrazione e di senso L’analisi fin qui condotta indica che i modelli di personalità e le gerarchie dei bisogni finora prodotte (databili alla metà del secolo scorso), pur conservando una loro validità normativa, non sono più in grado di fornire spiegazioni adeguate del disagio giovanile cui stiamo assistendo. Si richiedono nuovi modelli interpretativi, che tengano conto delle trasformazioni intervenute nella società e più critici verso il modello di sviluppo finora praticato. 50 “[I mass-media] trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare, che configura il tempo come una successione di momenti non correlati tra loro, una serie di momenti isolati e privi della profondità che é associata alla percezione del passato e del futuro. Per lo spettatore dei media tutto si riduce a godere l'intensità e le sensazioni della superficie delle immagini, senza poter attivare in modo consistente meccanismi di identificazione e di proiezione nei confronti di personaggi e caratteri” (Vaccarini, 1990, 131). 51 Da ricerche fatte in America appare evidentissimo che c'è una correlazione molto forte tra certi atteggiamenti dei genitori e predisposizione a comportamenti corrispondenti, rafforzati dalla vista dei programmi televisivi. Da una ricerca condotta a New-York risulta che: 1 - Ragazzi di classi sociali sfavorite sono i più assidui di fronte alla televisione 2 - Esiste un rapporto negativo tra quoziente intellettuale e assiduità davanti alla TV 3 - I ragazzi con famiglie assistite son i piu' appassionati di programmi violenti 4 - Esiste un rapporto diretto tra aggressività dei ragazzi e gusto per programmi violenti 5 - L'atteggiamento della famiglia nei riguardi della violenza ha una notevole influenza sul comportamento del ragazzo 6 - La finzione dello spettacolo non sostituisce affatto l'azione, ma la prepara (Ferrero, 1985, 16). Inoltre da altre ricerche è dimostrato che la formazione di modelli e schemi mentali violenti dipende da una errata impostazione dell'educazione. Bambini che non son stati abituati a superare diversamente la frustrazione (attraverso la verbalizzazione o altre forme diversive), che hanno subito violenza o hanno visto usare la violenza come forma abituale di comportamento e di soluzione dei conflitti, a cui abitualmente si danno comandi impositivi invece che spiegazioni e motivazioni, tenderanno a preferire programmi televisivi violenti e ad aumentare i loro comportamenti violenti in caso di aggressione o disturbo (Singer & Singer, 1986, 108-110). I genitori di questi ragazzi sono già loro dei grandi consumatori di programmi televisivi, confondono la fantasia con la realtà, mancano di altri interessi, hanno basso livello socio-culturale, non pongono regole nell'uso della TV, sovente hanno problemi relazionali e di coppia, non seguono molto il figlio, sono violenti e non sogliono commentare con lui i programmi televisivi (Singer & Singer, 1986, 120-122). 54 3.1. Effetti “disintegratori” della socializzazione attuale Una prima osservazione riguarda l’incapacità dell’adolescente di assolvere ai suoi compiti di sviluppo per l’effetto dei vari meccanismi sociali cui è soggetto. Sembra che, più aumentano le risposte ai bisogni, più diventi difficile rispondere ai bisogni più profondi dell’essere, o che la soglia della gratificazione si sposti in maniera proporzionalmente allo sviluppo tecnologico e scientifico. Il giovane e l’uomo contemporaneo, nuovi Tantalo, si trovano ad avere tante possibilità di soddisfazione ma se ne ritraggono sempre più insoddisfatti. In particolare arduo appare il compito di definizione dell'identità in un quadro sociale poco coerente ed integrato. Mancando un’idea sufficientemente chiara di quali possano essere gli esiti del proprio impegno attuale, l’aumento di complessità e di differenziazione sociale, le pressanti e contraddittorie richieste del mondo produttivo, il vuoto valoriale ed il disorientamento della società sono percepite come ostacoli al processo di identificazione. Castrignano, un collaboratore nella ricerca di Guidicini e Pieretti (1995), dopo un ampio confronto tra il modello di società di Parsons e quello di Luhmann, giungeva alla conclusione che fosse impossibile uno sviluppo armonico ed integrato come lo era nel passato52. Vengono così messi in discussione le classiche tappe di evoluzione dell’adolescente, da quelle elaborate da Erikson, come anche il concetto di Bloss, dell’adolescenza come età di passaggio (Pieretti, 1996, 26ss.). D’altra parte risale a più di vent’anni fa il famoso articolo di Cavalli (1980), in cui si parlava del passaggio della gioventù da processo a condizione. E nemmeno più il concetto di condizione sembra adeguato, quanto quello di “condizioni giovanili”, volendo con questo termine evidenziare la pluralizzazione dei percorsi di accesso all’età adulta o di adattamento alle condizioni attuali. 3.1.1. Eccedenza di opportunità e capacità di adattamento Non che la società di oggi non offra ai suoi membri possibilità di sviluppo in tutti i campi. Anzi, le opportunità crescono con lo sviluppo del sistema globale. Ciò che manca è il senso, la direzione di tutto ciò. Con la complessificazione della società, la forte differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle relazioni tra loro, crescono le opportunità, anche di crescita, dell’individuo, ma ne consegue l’ingovernabilità dei sistemi, la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili. L’esito è una certa frammentazione della realtà sociale e pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato, con conseguenti effetti disgregatori sul tessuto sociale. In questa situazione cade la tensione morale collettiva, perché ogni sistema procede per logiche proprie, con propri criteri di valore, verificabili solo al suo interno (autoreferenzialità). In un contesto di aumento di chances, di opportunità di azione (la tendenziale inclusione di tutti i tutti i sistemi di funzione) aumentano le possibilità di vita ma al tempo stesso tali chances non costituiscono più ambiti forti di identificazione e di appartenenza. Ricade sul singolo il compito di riportare ad unità gli aspetti contrastanti della realtà e scegliere tra i diversi stimoli quali utilizzare per i propri scopi. Compito non facile perché l'ampliamento delle possibilità richiede all'individuo notevoli capacità di valutazione e di scelta. La struttura psichica di ogni soggetto viene caricata di troppi compiti ed incombenze. Se non si ha una personalità altamente flessibile e coerente è probabile che, mancando un quadro di riferimento 52 “Nelle attuali società è difficile pensare ad uno sviluppo a tappe della personalità, tale per cui tra i tempi esterni (tempi sociali) e i tempi interni (tempi psichici) si registri una corrispondenza relativamente precisa. La personalità si sviluppava, in questo senso, solo con l'interiorizzazione dei valori sottesi ai ruoli sociali che l’individuo progressivamente si trovava ad occupare” (Castrignano, 1995, 114). 55 stabile e condiviso, le scelte siano fatte in base a criteri utilitaristici53, dipendenti da percezioni momentanee, ma che possono compromettere bisogni più profondi e meno avvertibili . L’adattamento diventa la categoria principale attraverso cui spiegare il comportamento giovanile. Sembrerebbe quasi che, per effetto delle difficoltà di un inserimento sociale attivo e per i vantaggi connessi con la sua situazione, l'adolescente tenda a prolungare all'infinito il suo stato di precarietà, fino a farla diventare essa stessa identità della sua condizione. Di questa condizione i giovani sanno cogliere tutti i vantaggi e minimizzare gli svantaggi, vivendo tranquillamente il loro ruolo di consumatori e praticando la deresponsabilizzazione, che permette di difendersi dai tentativi di omologazione. Vivendo con spensieratezza, non si pongono il problema del domani o della preparazione al futuro. 3.1.2. Il prolungamento artificiale dell’adolescenza D’altra parte il processo di socializzazione non sembra avere mutato di molto le su esigenze. Le tappe stesse, attraverso le quali si raggiungeva socialmente l’età adulta, sono rimaste sostanzialmente le stesse: la fine del corso formale degli studi, l’acquisizione di un lavoro potenzialmente stabile, l’abbandono della casa dei genitori per “metter su” una propria dimora, il matrimonio, la maternità/paternità. Solo che queste tappe non hanno più un riconoscimento sociale così cogente come nel passato, l’identità non trova da questi indicatori sociali la sua giustificazione Così la moratoria psicosociale prevista da Erikson sta diventando una vera condizione di vita che tende a prolungarsi all’infinito (almeno fino a 30-35 anni, secondo l’ultima indagine IARD). La stessa soluzione dell’identità diventa sempre più precaria ed incerta. L’assunzione dei ruoli connessi all’identità adulta tende a spostarsi sempre più in là, sia per effetto dei mutamenti sociali, ma anche della tendenza alla deresponsabilizzazione e alla adolescentizzazione della vita. Così ci si trova sempre più di fronte ad “identità incompiute”, ad “adolescenti che ‘esplorano’ a lungo il campo delle scelte e delle molteplici e diversificate opportunità offerte dalla società, ma che continuano a rimanere in questa fase di esplorazione senza riuscire a passare a quella dell’impegno nella direzione della scelta definitiva e stabile. Dunque lo stato di ‘moratoria’, che oggi tende a prolungarsi sempre più, non consente agli adolescenti di giungere ad una ‘identità compiuta’. Si tratta pur sempre, e ci domandiamo sino a quando, di una identità ancora in via di elaborazione, nella speranza che non sia una identità che non giunge mai a maturazione” (Cospes, 1995, 332). La capacità progettuale viene a scomparire di fronte all’alto grado di flessibilità che la società richiede. “Il fatto del prolungamento artificiale della giovinezza sembra assorbire in se stesso i problemi cosiddetti ‘psicologici’ dell’età; essi infatti sarebbero la conseguenza del disadattamento provocato da fattori sociali più che la conseguenza del disadattamento provocato da fattori endogeni (bio-psico-fisiologici)” (Milanesi, 1991, 14). Appare così sempre più evidente che l’adolescenza sia una categoria più culturale e sociale che biologica (Lutte, 1987), dove l’aspetto biologico si è venuto a restringere nel tempo, visibile nel passaggio puberale proprio della preadolescenza (Cospes, 1990, 15), mentre quello sociale non si esaurisce nell’adolescenza ma si prolunga nella giovinezza. 53 “L'individuo giovane non sa più che pesci pigliare, e questo è uno dei motivi per cui è indotto ad adottare il «sistema inespresso del calcolo dei costi» (J. Schumpeter) come guida generale per la condotta. L'azione sociale non ha più una bussola, in questo quadro, e le scelte vengono operate entro sistemi differenziati, con criteri differenziati. Non vi è più un collante valoriale che orienti l'azione. II giovane spesso finisce con l'assumere, allora, le logiche vigenti nel sistema vincente, cioè il sistema economico, estendendole a tutti gli altri ambiti della vita” (Pieretti, 1996, 12). 56 3.1.3. La frammentazione dell’identità Un altro effetto del processo di adattamento cui si affidano soventi gli adolescenti per risolvere i loro problemi evolutivi consiste nell’accettazione acritica della complessità, assumendo una identità adattabile, cangiante, camaleontica o “a puzzle”. Il soggetto, che si trova a vivere in ambiti di vita assai diversi ed esperisce ruoli diversi e talora contrastanti, sarà restio a confinare la sua esperienza entro un solo ambito o a considerarne qualcuno come esclusivo o prevalente. Preferirà il pendolarismo tra diversi ruoli, condizioni e formazioni sociali, per non precludersi nessuna delle possibilità che il sistema gli offre. Cercherà di totalizzare il massimo di opportunità, evitando di rinchiudersi in appartenenze stabili, definitive, totalizzanti. Preferirà rimanere disponibile per occasioni migliori, prediligendo appartenenze parziali, identificazioni momentanee, riferimenti occasionali. In ognuno degli ambiti che il giovane frequenta potrà vivere un'esistenza che ha un senso autonomo, un modello di realizzazione che non richiederà di essere messo in relazione con quanto si esperisce in altri ambienti. Le sue scelte risulteranno assai parziali, i criteri di valore non avranno pretese assolute, bensì verranno riconosciuti validi per il momento e solo per sé. “Sul piano pratico ciò implica per i giovani, l’assumere, volta per volta, orientamenti diversi in famiglia, a scuola, sul lavoro, con gli amici, nello sport, nelle vacanze, nel tempo libero, nelle relazioni sessuali, nei rapporti di coppia. Ognuno di questi ambiti richiede logiche proprie, peculiari, strategie d’azione divergenti” (Pieretti, 1996, 11). Ma questo agitarsi per cogliere le migliori opportunità, per essere sempre “in”, per non farsi sfuggire nulla di importante, impone pesanti costi: quello di non scegliere mai definitivamente, di sceglier un’identità provvisoria, di indossare una maschera. Il risultato sarà un'identità frammentata, fatta di pluriappartenenze, di maschere via via cangianti a seconda dell'ambiente che si frequenta. Di qui il disorientamento, la frammentazione psichica, le condotte illogiche, talvolta assurde e aberranti, ma indicatrici di una sofferenza interna, psichica, esistenziale che solo a volte si traduce anche in condotte socialmente pericolose. 3.1.4. Identità e disagio L’impossibilità di definire l'identità può dar luogo a situazioni veramente patologiche, o comunque di malessere diffuso e senso di disagio. Nelle attuali società complesse l’individuogiovane è costretto a crescere sempre più "da solo", senza il supporto dei filtri simbolico-culturali del sociale. Per qualcuno si tratta solo di un po’ di sofferenza in più, facilmente sopportabile, per altri invece si tratta di un carico eccessivo, esorbitante le loro possibilità, di fronte a cui non hanno strumenti o risorse per difendersi. Ecco allora il “break-down”, il crollo che si traduce nella cronicizzazione di una patologia adolescenziale, che sarebbe stata superata se avesse trovato un contesto sociale più favorevole. Tra questi possiamo accennare alla dispersione della prospettiva temporale, perdita di senso e di progettualità, anomia, caduta della speranza fino alla disperazione e depressione, superficialità e ripiegamenti adattivi di breve respiro, spesso di tipo consumistico, privatistico, intimistico. In tale ambito il disagio appare sempre più diffuso rendendo difficile la sua individuazione. In un'ottica "socializzativa-integrativa" il disagio era legato ad una “deviazione” nel processo di socializzazione o ad una mancata o parziale interiorizzazione dei valori dominanti della collettività. Il disagio era ricondotto ad una fase precisa dello sviluppo della personalità (l’adolescenza) e teminava con il passaggio all’età adulta. Cioè, il disagio aveva un inizio e una fine, proprio perché era possibile pensare ad uno sviluppo a tappe della personalità, tale per cui c’era corrispondenza tra tempi interni (psichici) e tempi esterni (sociali). Il disagio, in quanto devianza, era sempre un disagio socialmente sintomatico, riconducibile a definiti comportamenti sociali o a veri e propri stili 57 di vita. In questo senso il disagio aveva "cause" sociali e "rimedi" sociali. Si trattava cioè di correggere le deviazioni nel processo di socializzazione o, laddove questo non fosse possibile, di "assistere socialmente" l’individuo in condizioni di disagio, tentando di ricostruire le motivazioni al comportamento di ruolo attraverso l'offerta di opportunità (formative e lavorative) che si supponeva potessero funzionare come contesti di identificazione e favorire un corso "normale" di sviluppo della personalità. Seguendo invece il filone di analisi luhmanniana, che tende ad evidenziare la crescente distonia tra "tempi sociali" e "tempi psichici", tale approccio al disagio sembra entrare in crisi nelle attuali società complesse. La complessità sociale significa che i sistemi sociali non sono più in grado di fornire una gerarchia di valori, sufficientemente forti, che possano "istruire" la psiche dell'individuo. Le società complesse implicano, infatti, una frammentazione dei percorsi di senso, una relativizzazione delle appartenenze che sono sempre meno costitutive dell'identità del giovane. Pertanto si può sostenere che il sociale complesso è sempre meno in grado di supportare significativamente i bisogni di identificazione individuale. Non che manchi la socializzazione, ma essa procede per segmenti, ogni agenzia fornisce la “sua” socializzazione, ma non c’è un sistema unitario e convergente di socializzazione. “I sistemi parziali di azione hanno perso progressivamente la loro capacità di fornire un senso complessivo all’azione individuale e difficilmente ora, riescono ad essere costitutivi dell’identità” (Pieretti, 1996, 20). 3.2. Bisogno di integrazione e di senso A questo punto dell’analisi appare sempre più evidente che un bisogno che emerge sempre più dall’analisi sociale è quello di integrazione e di senso. Tale bisogno non era stato previsto da Maslow, non perché non lo considerasse importante, ma solo perché nel suo tempo tale bisogno non emergeva, in quanto assicurato dalla struttura sociale. Infatti, sia Maslow che altri psicologi umanisti avevano una concezione olistica, unitaria ed organica della persona umana54. I bisogni, secondo loro, dovevano integrarsi in un complesso unitario55. L’autorealizzazione aveva una funzione catalizzatrice delle varie istanze (bisogni, comportamenti, conoscenze, ecc.). Allport supponeva addirittura che la personalità fosse organizzata in modo da ricondurre ad unità tutti gli aspetti della vita che la riguardavano. Chiamava tale capacità appunto col nome di “proprium”56. Anche Erikson presupponeva qualcosa di simile. Egli parlava di bisogno di "integrità" o di "totalità", cioè di sentirsi un tutt’uno con se stessi, di saper comporre insieme tutte le parti proprie ed integrarle con le proprie funzioni, di percepire la realtà in modo ordinato e coerente, di sapere integrare i dati che si ricevevano con quelli precedenti, di superare il senso dell'effimero e del transitorio. Queste funzioni erano attribuite alla capacità sintetizzante dell’io57. Tutto ciò contribuiva a dare coerenza alle proprie azioni, ai propri pensieri ed ai propri impulsi, contribuendo alla formazione della personalità matura e alla sua identità. La tensione all’unificazione dei motivi comportava anche coerenza nei valori guida di una persona. Pertanto il quadro valoriale di una personalità integrata avrebbe dovuto essere altrettanto coerente e integrato. “La nostra prima proposizione stabilisce che l’individuo è un tutto integrato, organizzato” (Maslow, 1973, 61). “L’individuo è motivato nella sua interezza e non soltanto in una parte di sé” (Maslow, 1973, 61). 56 “Esso comprende tutti gli aspetti della personalità che contribuiscono alla sua unità interiore” (Allport, 1963, 58). 57 L’io è visto come “un ‘agente’ interiore che salvaguarda la nostra esistenza coerente vagliando e sintetizzando, in qualsiasi successione di momenti, tutte le impressioni, emozioni, memorie e tutti gli impulsi che tentano di penetrare il nostro pensiero e richiedono un’azione da parte nostra, e che ci dilanierebbero se non fossero suddivisi e organizzati da un vaglio sistematico, sviluppato a poco a poco, vigile e attendibile” (Erikson, 1974, 259). “E’ la funzione sintetizzante dell’ego di integrare gli aspetti psicosessuali e psicosociali ad un dato livello di sviluppo ed al tempo stesso disintegrare il rapporto di nuovi elementi di identità con altri già esistenti, in altre parole di superare le inevitabili discontinuità tra i diversi gradi di sviluppo della personalità (Erikson, 1974, 191). 54 55 58 Un sistema di riferimento integrato conferiva a sua volta capacità orientamento o di senso alla vita. Tale concetto di identità trovava corrispondenza a livello sociale nel modello “cocostitutivo” di Parsons. Ora, in una situazione disintegrata come l’attuale, ipotizzare l’esistenza di un nuovo bisogno, quello di “senso”, potrebbe fornire una spiegazione a certe forme di disagio presenti tra i giovani, come pure una base a quella capacità di integrazione che la struttura sociale attuale non fornisce più. Infatti, il “bisogno di significato” costituirebbe una “tensione verso l'integrazione ottimale del sistema (di personalità o di cultura o di società)” (Milanesi, 1981, 22). 3.2.1. Il bisogno di significato in una società policentrica e complessa Di fronte alla frammentazione, pluralizzazione dei sistemi di riferimento e simbolici, alla perdita di centro, emerge dunque sempre di più il bisogno di senso. Questo bisogno viene evidenziato anche a livello di ricerca sociale. Gia negli anni ’70, nel momento in cu si rilevava la rottura della conformità culturale e la messa in questione dei fondamenti stessi della società, veniva evidenziato il disagio che ne derivava. Grasso parlava della mancanza “di una struttura psicologica unitaria o di un tratto globale che integri con qualche coerenza i diversi atteggiamenti” (Grasso, 1974, 176). Cosicché, anche i valori espressi dai giovani “non sembravano emanare da una concezione unitaria della persona, bensì dalla loro appetibilità e fruibilità privata o dalla desiderabilità sociale” (Grasso, 1974, 176). Ne conseguiva una situazione di disagio. Anche i promotori della prima ricerca EVSSG (Stoetzel, 1980) erano preoccupati del venire meno di un sistema coerente di valori nella cultura europea. Le risposte a quell’inchiesta avevano evidenziato che emergeva dal mondo giovanile una domanda di senso. Alla medesima conclusione arrivavano anche altre ricerche, da quella sulla religiosità giovanile in Italia (Milanesi, 1981) ad altre successive, per cui molti autori interpretavano certe manifestazioni giovanile, dalla ricerca di felicità privata alle manifestazioni di disagio, un’implicita domanda di senso. Si riconosceva che alla crisi del modello di sviluppo occidentale e con la caduta delle visioni del mondo che lo presiedevano (crisi delle "grandi narrazioni"), veniva a mancare alla nostra società la capacità di dare un senso unitario a ciò che si faceva. Mancando delle "strutture di plausibilità" (Rusconi), che rendessero comprensibile il proprio mondo ed evidenti i motivi per cui impegnarsi in esso, ne nascevano movimenti tendenti a supplire tale mancanza. Ecco allora la frantumazione delle esperienze e dei sistemi di significato. Di qui la "sindrome privatistica" (Ardigò 1980, 74): mancando un progetto collettivo ci si ritirava nella sfera individuale, privata. Si pensava solo a salvare se stessi, avendo perso ogni prospettiva e speranza di salvare gli altri. Non percependo le mete della società come proprie, si preferiva ripiegarsi su se stessi, sulla sfera privata, rinchiusa nell'orizzonte della quotidianità. Venendo meno le evidenze comuni e condivise, si cercavano sistemi di significato che aiutassero a superare il senso di vuoto, che dessero senso al proprio agire contingente, senza pretese di validità universale. Queste evidenze venivano cercate nel mondo vitale, "regno di evidenze originarie" (Husserl). Ma tra esso ed il sistema sociale non c’era più connessione58. Di conseguenza veniva meno il consenso verso le istituzioni e diventava assai più difficile l'integrazione sociale. Il mondo vitale diventava l'unico produttore di senso ed in esso ci si rifugiava di fronte alla complessità della vita ed alla sua incomprensibilità. Così si cercava "un nuovo senso comune attraverso la festa, la poesia, la musica, anche attraverso aggregazioni informi di masse di spettatori, soggettività ormai emarginate o autoemarginate" (Ardigò, 1980, 57). -12) Ciò che prima era tendenzialmente omogeneità tra mondi vitali singoli e mondo sociale, diviene ora un delicato problema di transazione" (Ardigò 1980, 23). 59 Pertanto questo bisogno appariva più dalle carenze o dalle risposte errate, che da una precisa coscienza giovanile. E’ proprio dalla frammentazione della vita e dell’universo culturale successivo agli anni ’70 che si manifestò sempre più questo bisogno: Un primo dato emergente sulla situazione giovanile sembra essere, pertanto, la frammentarietà, sia a livello esperienziale che psicologico. In prevalenza la vita dei giovani appare dispersa in mille atti slegati; manca spesso la capacità di dare un significato personale unitario alle molte esperienze che si vivono. La vita appare come il susseguirsi di momenti separati, atomizzati, di istanti isolati, senza la possibilità o la capacità di riferirli ad un centro unificante e datore di senso (Tomasi, 1986, 165). L’adattamento, adottato dai giovani come criterio base per una soluzione ai problemi e ai bisogni secondo una logica individuale o di piccolo gruppo, non poteva arrivare “a livelli ottimali”, ma doveva limitarsi “al realizzabile e al praticabile” (Tomasi, 1986, 165). Tuttavia questa soluzione lasciava intatto il bisogno sottostante, come riconobbe Loredana Sciolla: “l'uomo non può vivere nell'incertezza, ma vi è in lui la tendenza a mettere ordine, l'elementare bisogno di interpretare la semiordinata confusione del flusso degli eventi e del mondo esperibile introducendovi il massimo d'ordine, connessione e regolarità” (Sciolla, 1983a, 62). Tale bisogno appare come una caratteristica tipicamente umana, intimamente collegato alle capacità intellettuali o cognitive dell’uomo, che gli permette di connettere le varie esperienze e attività e di riferirle ad un unico centro. Questa facoltà viene indicata con nomi diversi: “attività sintetica dell’Io” in Erikson, “rappresentazione di sé” nell’interazionismo simbolico, “coscienza” in Frankl; in ogni caso questa funzione è da molte correnti riconosciuta e ritenuta fondamentale 59. Il risultato sarà l’integrazione di tutti e vari sé, o esperienze, attività, funzioni che danno origina ad una persona completa con “una vita psichica unificata, in cui coscienza ed inconscio sono entrambi integrati e, quindi, una persona ricca e creativa. Una personalità, cioè, che possiede una coscienza di sé, che conosce la propria relatività e che è perciò in grado di essere autocritica e di tendere alla verità e alla oggettività. Una personalità che ha il proprio centro nel sé, come insieme di Io cosciente ed inconscio della psiche, e che sa utilizzare tutta l'energia creativa, tutti i valori ed i messaggi che le provengono dall'inconscio senza per questo rinunciare alla propria libertà cosciente” (Pollo, 1985, 51). 3.3. La volontà di significato di Frankl Sono vari gli autori che affermano l’importanza di un quadro di riferimento unitario in grado di soddisfare al bisogno di senso (o significato). Ma l’autore che più ha lavorato sul bisogno di significato è stato Victor Frankl, uno psichiatra austriaco che, dalla sua esperienza nei campi di concentramento nazisti ha tratto gli elementi per superare il suo freudismo iniziale. Egli arriva ad affermare che il vuoto esistenziale è il problema principale della nostra epoca 60 e che molte nevrosi trovano la loro spiegazione nella mancanza di senso che affligge la vita di molti contemporanei. Egli ha elaborato un “nuovo modello teorico motivazionale” (Frankl, 1975,739), introducendo la “volontà di significato” come bisogno specifico dell’uomo. 59 Per esempio Polmonari afferma che “l’attività organizzativa del soggetto […] collega le varie esperienze di sé, (o almeno le più cruciali) in modo da mantenere un sentimento di unità e continuità riferito al sé” (Polmonari, 1979, 218). 60 “Ogni epoca ha la sua nevrosi ed ogni epoca necessità di una psicoterapia. In realtà oggi non siamo più confrontati , come ai tempi di Freud, con la frustrazione sessuale, quanto piuttosto con al frustrazione esistenziale. Il paziente tipico dei nostri giorni non soffre tanto di un complesso di inferiorità, come all’epoca di Adler, ma di un abissale sentimento di insignificanza, intimamente connesso ad un senso di vuoto esistenziale” (Frankl, 1982, 9) 60 3.3.1. Antropologia frankliana Questo nuovo bisogno è stato possibile riconoscerlo grazie all’antropologia adottata da Frankl, secondo il quale esiste una dimensione finora non considerata dalla psicologia: quella spirituale o “noetica". Tale dimensione si pone accanto ed oltre le dimensioni solitamente considerate: quella materiale e quella psichica. Solo la dimensione spirituale costituisce l’elemento che caratterizza l’essere umano e lo apre alla trascendenza, facendone un sistema aperto. “E’ solo a partire dallo spirito che ci possono cogliere tutti i fenomeni specificatamente umani come l’amore, la coscienza, la libertà, la capacità di attingere significati e valori. E’ la forza dello spirito che rende l’uomo capace di resistere alle forze dell’istinto e dell’ambiente, permettendogli di innalzarsi al di sopra di ogni condizionamento” (Gambini, 1998, 45). Egli infatti concepisce l’uomo come essere libero, seppur limitato da innumerevoli condizionamenti. Mentre la dimensione fisica e psichica rispondono alle leggi naturali di causa ed effetto, grazie a quella noetica l’uomo è libero di scegliere nelle molteplici situazioni quale atteggiamento assumere. Ed è soprattutto di fronte alla sofferenza e alla frustrazione che questa dimensione rivela tutta la sua potenzialità, potendo attribuire un significato non scontato agli avvenimenti che toccano la persona. La radicale libertà dell’uomo consiste proprio nella “possibilità costante di poter assumere un atteggiamento di fronte al destino” (Frankl, 1974a, 207). Per Frankl la libertà implica il passaggio da una libertà a carattere negativo ad una a carattere positivo. Più precisamente parla di una “libertà da” e di una “libertà per”, di una libertà dai propri condizionamenti (interni ed esterni) per il perseguimento di uno scopo, per essere responsabile. L’altra condizione essenziale per l’uomo, secondo Frankl, è la responsabilità, senza cui la libertà diventa arbitrarietà. La responsabilità è innanzitutto nei riguardi della vita e dell’appello che essa pone ad ognuno61. La vita affida ad ogni uomo un compito da realizzare, un senso da scoprire, un significato o dei valori verso cui camminare. Da questi l’uomo è attratto senza esservi determinato. Può rispondervi liberamente oppure distogliersi da essi. Ma rinunciarvi comporta lo smarrimento del senso della vita, il vuoto esistenziale. La vita, attraverso i suoi appelli, pone sempre di fronte a delle scelte, sia a nel quotidiano che nei momenti cruciali dell’esistenza. Scelte che chiedono di esercitare la propria responsabilità; scelte rese più cogenti dalla irreversibilità e transitorietà dell’esistenza. La coscienza è l’organo di significato della persona62. Il significato dev’essere trovato e non può essere dato più o meno arbitrariamente. La coscienza è l’organo preposto a tale ricerca, all’analisi nel raffronto tra singolarità dell’individuo e quella della situazione per coglierne gli elementi di senso. La coscienza “aiuta a schiudere all’essere umano l’unum necessarium, l’unicum assolutamente individuale, quell’unica e sola possibilità che una concreta persona ha in una data situazione” (Gambini, 1998, 50). Tale attività è assolutamente intuitiva e irrazionale, e si manifesta nella coscienza morale. Proprio perché riguarda il dover-essere, non ancora realizzato, essa ha carattere intuitivo. Le radici di questa coscienza stanno nell’inconscio. Un inconscio non costituito soltanto da pulsioni primordiali, come l’Es di Freud, bensì un “inconscio spirituale”, dove sta il vero essere di ogni persona, inafferrabile dalla riflessione umana e solo vagamente intuibile. 61 “E’ la vita stessa a porre la domanda. L’uomo non ha nulla da chiedere, è piuttosto lui stesso l’interrogato, colui che deve rispondere alla vita, di cui è responsabile” (Frankl, 1972a, 98). 62 “La coscienza si può definire come la capacità intuitiva di scoprire il significato unico e singolare nascosto in ogni situazione. […] La capacità specificamente umana di scoprire i significati non solo in ciò che è reale, ma anche in ciò che è possibile” (Frankl, 1974b, 120). 61 3.3.2. Volontà di significato e critica ai principi classici della psicologia La dimensione noetica conferisce all’uomo la capacità di autotrascendimento, cioè di superare se stesso, di tendere ad un fine, di andare verso qualcosa che sta al di là di se stesso: un significato da realizzare, un’altra esistenza da incontrare. “L’uomo è realmente tale quando si dona pienamente ad un compito, quando supera e dimentica se stesso, nel servire una causa o nell’amare una persona” (Gambini, 1998, 53). Collegata a questa capacità dell’uomo di autotrascendersi, è la necessità di essere in tensione al di là di se stesso verso un compito o scopo da realizzare. In campo antropologico ciò corrisponde a quella che Frankl definisce “volontà di significato”, mentre in ambito psicologico corrisponde al “bisogno di significato”. Interrogarsi sul senso della vita, per Frankl, non costituisce una patologia, come asseriva Freud, o una passione inutile, bensì l’operazione umana più alta, che lo contraddistingue da qualsiasi altro essere vivente, come la vasta produzione del pensiero umano testimonia. E’ evitare tale interrogativo che porta alla nevrosi e non l’incontrario. Da quest’asserzione ne deriva la critica di tutta l’impostazione classica della psicologia precedente, dal “principio del piacere” di Freud, a quello “omeostatico” di tanta psicologia americana, a quello della “volontà di potenza” di Adler. Ognuna di queste impostazioni commette l’errore di adottare spiegazioni di tipo fisico del comportamento umano. L’uomo viene visto in preda a pulsioni o meccanismi regolativi di tipo meccanico, cui non si può sottrarre, privandolo della possibilità di autodeterminarsi. Ma anche il principio dell’autorealizzazione di Maslow viene criticato da Frankl. Anche se questo principio aveva superato la concezione meccanicistica dei precedenti, non usciva da una concezione dell’uomo come sistema chiuso. L’uomo concepito da Maslow era un essere sostanzialmente teso alla propria soddisfazione, che si attendeva che tutto fosse posto al servizio dello sviluppo delle proprie potenzialità, sia l’ambiente che le persone. Anche nel concetto di autorealizzazione di Maslow viene negata la capacità di autotrascendenza dell’uomo. “Un’eccessiva spinta verso l’autorealizzazione può costituire la strada verso la frustrazione della volontà di significato” (Frankl, 1994, 54). La stessa tensione, che pure era presente nelle intenzioni di Maslow, rischia di risolversi in forme di autocompimento e autosoddisfazione. 3.3.3. La volontà di significato Il modello motivazionale che Frankl presenta non esclude i principi precedenti che egli aveva criticato, bensì cerca di integrarli, superando la loro limitatezza intrinseca. “La sua concezione motivazionale così sembra far da ponte tra la concezione ‘meccanicistica’, basata sull’omeostasi, e la concezione ‘umanistica’ basata sull’autorealizzazione, integrandole in una visione ‘olistica’ che, pur tenendo conto del naturale bisogno del piacere, del potere e del desiderio di autorealizzazione, si rivela maggiormente comprensiva della complessità della motivazione ‘umana’caratterizzata soprattutto dall’essere dinamicamente verso un significato” (Del Core, 1990, 26). Ciò che è importante per l’uomo è orientare la propria intenzionalità verso i valori da realizzare ed i significati da trovare. Per Frankl la volontà di significato non rappresenta un “impulso” che spinge l’individuo alla realizzazione di un compito nella vita, né è un “volontarismo”. Il compito della vita non è dato, ma dev’essere scoperto. “Il significato risplende da se stesso” (Frankl 1969, 52). Una volta scoperto, esso attrae irresistibilmente. Così la volontà di significato è “la tensione radicale dell’uomo a trovare e realizzare un significato e uno scopo” (Frankl 1969, 45). La sua realtà diviene evidente quando viene disattesa o frustrata, quando cioè l’uomo piomba in un sentimento di vuoto e di mancanza di significato. Questa tensione radicale non è data come in Freud dalla mancanza di un oggetto o un’azione, o come in Maslow dalla tendenza all’autorealizzazione. Essa è piuttosto “una condizione a priori dell’esperienza come tale, è un 62 presentimento che accompagna tutta la vita dell’uomo. L’uomo, consciamente o inconsciamente, crede in un significato” (Bazzi – Fizzotti, 1986, 70). Tale volontà di significato non sta al vertice della gerarchia dei bisogni come l’autorealizzazione in Maslow, né dipende dalla soddisfazione di bisogni precedenti. È una “motivazione sui generis non riducibile ad altri bisogni, né da essa derivabile” (Frankl, 1977c, 16). Proprio l’insoddisfazione dei bisogni più bassi può rendere più urgente la soddisfazione di tale bisogno: “sia il soddisfacimento come la frustrazione dei bisogni più bassi può provocare nell’uomo la ricerca di un significato, ne consegue che il bisogno di significato è indipendente dagli altri bisogni. Da ciò si deduce che esso non può né essere ridotto ad essi né ricavato da essi” (Frankl, 1994, 34-35) 3.3.4. Significato della vita e valori Il significato della vita è qualcosa di unico e personalissimo: ogni situazione contiene in sé un significato unico, che spetta all’individuo scoprire. Se è unico, non per questo è soggettivo. Il significato è qualcosa che si dà, pur essendo da ricercare, ma non lo si inventa. I significati fan parte del “regno dell’oggettività”. Però, non essendo ancor scoperti, i significati fan parte anche del dover-essere, come tali sono dei valori. Per il fatto che sono oggettivi si dispongono in forma gerarchica. L’uomo, in quanto interrogato dalla vita, deve dirigersi verso un significato, che non è dentro di sé ma fuori, che non si inventa ma è dato. Solo in un giusto atteggiamento verso la vita è possibile scoprire il vero significato. Chi nella vita cerca la propria felicità, il potere o la propria autorealizzazione, oscura la verità. Mutuando un’espressione tipica di Fromm, si potrebbe dire che per cogliere il senso della vita ci si deve porre nella prospettiva dell’essere piuttosto che in quella dell’avere. Dirigersi verso l’essere “significa rinnovarsi, crescere, espandersi, amare, trascendere il carattere del proprio io isolato, essere interessato, prestare attenzione, dare, […], rinunciare al proprio egocentrismo ed egoismo” (Fromm, 1983, 120). Se il significato della vita è unico ed irripetibile, esistono però situazioni comuni a molti uomini e ci sono significati che sono stati vissuti da più uomini: tali significati sono i “valori”. Frankl definisce i valori come “quei significati universali che cristallizzano delle situazioni tipiche che la società o l’umanità intera devono affrontare” (1994, 69). Tali riferimenti aiutano l’uomo nelle sue scelte, anche se in maniera non del tutto scontata. In effetti possono darsi dei conflitti di valore, ma ciò avviene solo perché manca una gerarchia. Quando i valori sono adeguatamente gerarchizzati, tali conflitti diventano impossibili. 3.4. Il modello motivazionale di Frankl e possibilità di applicazione nell’analisi sociale Il modello motivazionale di Frankl sembra prestarsi a vari tipi di spiegazioni delle problematiche giovanili odierne: 1) Innanzitutto può dare spiegazione della persistenza (o aggravamento) del disagio pur nelle situazioni umane più esaurienti dal punto della soddisfazione dei bisogni (disagio da benessere). Molte forme di nevrosi contemplate dallo stesso Frankl, corrispondono alle forme di disagio più diffuse tra gli adolescenti delle società più evolute: alcolismo e tossicodipendenza, aggressività e criminalità, depressione e suicidio, noia ed apatia. Tali forme di disagio traggono la loro origine, secondo Frankl, dalla frustrazione esistenziale, dal senso di vuoto e dall’assenza di significato. Tale spiegazione viene confermata anche a livello di analisi sociale. Non sono pochi 63 2) 3) 4) 5) i sociologi che scorgono in questi comportamenti giovanili una reazione contro il “benessere” materiale, che li ha privati delle dimensioni più profonde della vita63. In secondo luogo tale modello, che non rifiuta gli altri tipi di spiegazione dei fenomeni, ma ne denuncia solo l’inadeguatezza, offre anche a livello teorico una possibilità di integrazione. Le spiegazione fornite da Maslow (e le conseguenti analisi sociologiche basate sul suo modello gerarchico) non vanno buttate, semplicemente integrate con un tipo di spiegazione che arrivi fin dove esse non giungono. Soprattutto va superato il modello di uomo che emerge dal modello maslowiano: un essere concentrato essenzialmente su se stesso, sui propri bisogni, sulla propria realizzazione, senza pensare agli altri, ai loro bisogni; molto individualista, quindi. I limiti di questa impostazione sono evidenti nella crisi del sentimento di solidarietà che colpisce le popolazioni più benestanti. In terzo luogo il modello frankliano può dare ragione di esperienze recenti (a livello scientifico) come quello di “resilienza”64, cioè della capacità del soggetto di reagire a situazioni svantaggiose e di riuscire nella vita nonostante le peggiori condizioni di partenza. Le capacità di autotrascendimento possono essere impiegate per superare eventuali gap o situazioni frustranti per la non soddisfazione di bisogni fondamentali, e quindi per assumere una tensione proattiva nella vita. Tale concetto può quindi essere impiegato nelle tecniche di empowerment, per far reagire la persona di fronte a situazioni svantaggiose. Inoltre, la volontà di significato permette la conservazione della tensione verso l’obiettivo pur in presenza di elementi frustranti. Se l’autorealizzazione non viene più vista come una soddisfazione per se stessi, ma in uno scopo che sta oltre se stessi, allora la tensione può permanere nonostante i fallimenti e gli insuccessi. Anzi, la volontà di significato si intensifica di fronte alle prove e delusioni della vita. Ed il mantenimento della tensione è fondamentale per dare coerenza e coesione a comportamenti e atteggiamenti. Infine, il fatto che il significato della vita, pur essendo personalissimo ed unico, non sia soggettivo e tenda a gerarchizzare i valori, può fare uscire dall’esasperato soggettivismo che colpisce la gioventù dei paesi più industrializzati. E con questo anche dal senso di anomia e disorientamento frutto della complessa situazione sociale. D’altra parte, essendo la ricerca del significato personalissima, può essere praticata anche in assenza di un quadro valoriale condiviso. 63 “Emerge con la società post-industriale il concetto di bisogno di significato. L'uomo è dotato da una ‘volontà di significato’ che motiva la sua ricerca di senso per l'esistenza e che costituisce un vero e proprio bisogno. La presenza, nell'uomo, della volontà di significato è evidente nei casi in cui essa gli viene negata. La frustrazione del bisogno di senso della vita porta al ‘vuoto esistenziale’ che, in un crescendo di gravità, accompagna manifestazioni quali le crisi adolescenziali, gli stadi depressivi, le condotte suicidarie, e la risposta a tale vuoto consiste nella ricerca di compensazioni, di ricerca della felicità nei mezzi anziché nei fini. Tale frustrazione si evidenzia nel potenziamento dei mezzi (il denaro, l'altro, la moda, l'apparenza, il corpo) come fini per il raggiungimento della felicità, e in casi più intensi con l'autodistruzione (il suicidio), ma anche nel desiderio di evasione che si manifesta nella ricerca della droga, dell'alcol, della vita allo sballo, della velocità. Trascinato dal bisogno di significato come motivazione ultima il soggetto riesce a dare senso ad altri valori che, messi in una gerarchia costituiscono il riferimento in base al quale la persona orienta le proprie decisioni. Quando vengono meno questi riferimenti di valore, altri motivi, generati dalla situazione presente, o dai bisogni più urgenti, orientano il processo decisionale del soggetto. I riferimenti di valore costituiscono i sistemi di significato, dimensioni che toccano gli atteggiamenti fondamentali del modo di porsi del soggetto di fronte alla realtà. Possono funzionare come centro e riferimento che orientano il soggetto nei confronti delle proprie scelte e decisioni. La mancanza di un sistema di significato può indurre a prese di posizioni, atteggiamenti e scelte guidate dalla sfera degli impulsi, che tendono a motivare le soluzioni indirizzate al momento, e ad appagare i bisogni in base a criteri senza riferimenti più precisi” (Caliman – Pieroni, 1998, 10). 64 La nozione di resilienza, ha conosciuto il passaggio da una concettualizzazione in termini di caratteristiche individuali, assimilabili quasi a tratti o disposizioni personologiche a una teorizzazione del “processo di negoziazione delle situazioni di rischio”. Variamente la resilienza può essere definita come “ la capacità di comportarsi bene, in modo socialmente appropriato, nonostante alcune forme di stress o di avversità che normalmente implicano l’alto rischio di un esito negativo”, oppure come: "capacità, o processo, mediante la quale si superano con un adattamento di successo circostanze di sfida o minacciose” (Masten, Best, Gamezy, 1990, 425-444). 64 3.5. Modello frankliano e soluzione dei compiti di sviluppo Anche per la soluzione dei compiti di sviluppo dell’adolescenza il modello frankliano può fornire utili indicazioni65. “Identità e senso della vita si richiamano vicendevolmente: La volontà di significato potrebbe essere vista proprio come uno dei dinamismi essenziali nella costruzione dell’identità” (Gambini, 1998, 68). “La funzione dinamica e unificatrice della motivazione a ricercare un significato della vita, la sua attitudine ‘orientatrice’ e, soprattutto, la sua capacità di indirizzare verso il futuro costituiscono, tra i dinamismi che presiedono la formazione dell’identità, uno degli elementi fondanti” (Del Core, 1993, 65-66). E’ possibile far emergere molte convergenze tra il comportamento di un giovane in stato di confusione di identità e quello di frustrazione esistenziale: in entrambi i casi prevale la sfiducia, la passività, il lasciarsi vivere, il senso di noia e di apatia. Secondo Frankl, è la volontà di significato stessa ad unire ed orientare le altre forze. L’Io esistenziale, punto d’incontro tra la dimensione noetica e quella psicologica, è in grado di dirigere istinti e pulsioni verso la medesima direzione, quella del significato. E’ questa naturale tensione dell’uomo verso i valori a rappresentare uno dei meccanismi principali capace di strutturare la personalistà dell’individuo in maniera unitaria ed armonica. Ciò corrisponde alle stesse funzioni del proprium di Allport, il quale asseriva che “il centro che tiene unita una vita è la ‘direzione’ che ha preso o la meta che si è prefissa. Per essere normale un adolescente, e specialmente un adulto, hanno bisogno di un obiettivo definito, di una promessa: non è necessario che i fini siano esattamente definiti, ma solo che ognuno abbia uno scopo per cui lottare” (1977, 109). Pertanto la funzione sintetizzante dell’Io di Erikson, può essere equiparata sia al proprium di Allport, sia alla coscienza di Frankl, che tende intuitivamente al significato della vita. Quindi il bisogno di significato sembra stare in cima sia ai bisogni umani fondamentali (bisogno esistenziale), sia ai bisogni specifici dell’adolescente (bisogni formativi). Così il bisogno di significato diventa il bisogno ultimo, rispetto alla nostra epoca, potendo accogliere e dare forma sia al bisogno di identità che di autorealizzazione. 3.5.1. Pensiero formale e significato della vita Per trovare il significato della vita l’adolescente ha a disposizione molte potenzialità. Tra queste, quella più ricca sviluppi è la capacità di passare dalle operazioni concrete a quelle formali o "astratte". Tale tipo di pensiero “ipotetico-deduttivo”, permette all’adolescente di ipotizzare situazioni o mondi diversi da quelli in cui sta crescendo, di proiettarsi fuori di sé delle situazioni concrete in cui la sua vita è stata confinata fino a quel momento66. E' questa nuova possibilità ad orientare la persona verso la risoluzione di nuovi compiti di sviluppo. Gambini, in particolare, evidenzia le potenzialità del pensiero formale dell’adolescente come “elemento di raccordo e scambio tra l’identità e senso della vita”. Nella fase del pensiero formale l’adolescente sente il bisogno di ordinare i valori “secondo una gerarchia ispirata ad un senso globale della vita” (Gambini, 1998, 70). Al termine di un periodo di vaglio critico delle idee e dei valori, l’adolescente giungerà alla scelta di alcune concezioni universali, che gli forniranno dei “criteri generali astratti validi per ogni tempo, impersonali ed indipendenti da chi compie l’azione” (Gambini, 1998, 71). In questo modo – come scrive Erikson – “l’adolescente impara ad inserirsi nel flusso del tempo, ad anticipare il futuro in modo coerente, a cogliere le idee ed a dividere gli ideali, 65 Ci avvaliamo per queste osservazioni dello studio fatto appositamente su questo tema da Gambini (1998). "L'adolescente come essere intelligente, per il suo sviluppo cognitivo, è capace di ristrutturare ogni volta più organicamente e personalmente la realtà grazie alla possibilità di andare al di là del mondo concreto ed alla capacità di pensare in termini astratti" (Arto, 1990, 312). 66 65 ad assumere, in breve, una posizione ideologica” (1972, 221-222). Una posizione tale che lo aiuti ad integrare se stesso e le sue idee a quelle che appartengono alla tradizione e alla società in genere. Tale operazione consente all’adolescente di maturare in una posizione autonoma senza perdere il rapporto con il passato e senza camminare privo di orientamento. "Porre in primo piano la funzione di sintesi operata dall'io attraverso il processo di apprendimento, dei dati interni dell'ereditarietà e di quelli esterni dell'ambiente, risolve definitivamente l'incongruenza delle risposte che si reggono sulla netta contrapposizione di interno-esterno, ciascuno concepito come un tutto condizionante in maniera completa l'altro. Tale forma di dualismo, tradizionalmente presente nelle varie espressioni del pensiero occidentale, ponendo in termini irriducibili il rapporto soggetto-oggetto, cade necessariamente nel vicolo cieco di elevare ad unico assoluto o l'uno o l'altro termine e si fa quindi o razionalismo o empirismo, trascurando il presupposto fondamentale che non si dà soggetto senza oggetto e oggetto senza soggetto, che non esiste l'individuo senza il gruppo e viceversa; l'io non é l'idealizazione dell'individuale né la radicalizzazione dell'ambiente, ma la sintesi che unifica nell'uomo, storicamente determinato, l'interno e l'esterno: detto in termini psicologici, la forza presente in ciascun uomo, in modo latente o esplicito, in grado di mediare i fattori innati ed ambientali risolvendoli in un'unica realtà psicologica che si chiama personalità" (Orefice 1976, 19). Al termine, l’adolescente potrà arrivare ad “una morale astratta ed universale, fondata sulla tradizione ma elaborata in modo personale; ad una scelta di valori più matura perché più autonoma, divenendo così capace di progettare la propria vita” (Gambini, 1998, 71). “Se la ricerca di valori o significati non giunge a risultati validi si pongono le basi sia per la frustrazione esistenziale che per la confusione d’identità” (Gambini, 1998, 72). 4. Verso un nuovo modello di spiegazione del bisogno e del disagio Accogliendo le numerose indicazioni emerse finora, è forse possibile avanzare un modello di spiegazione dei bisogni e del disagio-rischio. Abbiamo visto e fatta nostra la definizione di Gasparini, “il bisogno risulta definito come tensione di un organismo o di un individuo o di un gruppo, orientato a individuare una concreta soluzione (oggetto, modello culturale, ecc.) che ricostituisca un equilibrio compromesso da una carenza” (Gasparini, 1987, 268). 4.1. Il modello di Maslow: conferme e limiti A questa definizione abbiamo aggiunto gli apporti della corrente di psicologi umanisti e di Maslow in particolare, la quale ha una concezione del bisogno che media tra aspetti naturali e aspetti culturali. In particolare accogliamo l’osservazione che, mentre la ricostituzione di un equilibrio compromesso da una carenza (omeostasi) va bene per i bisogni primari, non è sufficiente per spiegare la dinamica dei bisogni secondari: la tensione in questo caso non va ridotta ma mantenuta viva da un obiettivo da raggiungere. Condividiamo perciò le caratteristiche del bisogno, descritte da Maslow: a) La soggettività: cioè trova la sua sorgente nel soggetto. b) La tensione: il bisogno tende verso l’oggetto che lo può soddisfare. Questa tensione può essere di tipo omeostatico per i bisogni di base (motivo da deficit), di tipo valoriale o teleologico per i bisogni secondari o postmaterialisti (motivo di crescita). c) La proattività: la spinta alla realizzazione dell’uomo nella sua totalità (autorealizzazione). d) La plasticità: ossia la capacità di adattamento a situazioni molto diverse, sia ambientali che personali (= molteplicità di risposte e soluzioni ai bisogni umani). 66 e) La progressività: il bisogno è animato da un principio progressivo e gerarchico. Di particolare interesse abbiamo trovato il principio gerarchico applicato da Maslow ai bisogni. Tale gerarchia prevede che i bisogni si succedano secondo un ordine naturale: una volta soddisfatto un bisogno, se ne fa avanti un altro, che richiede soddisfazione. Egli aveva stillato la seguente gerarchia, distinguendo i bisogni primari dai secondari: A) bisogni primari, fisiologici (o materialisti): 1. bisogno di sostentamento, 2. bisogno di sicurezza; B) bisogni secondari, sociali e di autorealizzazione (post-materialisti): 3. bisogno di appartenenza e amore, 4. bisogno di stima, 5. bisogno di autorealizzazione (o bisogni intellettuali ed estetici, secondo Inglehart). 4.1.1. Conferme e critiche alla gerarchia di Maslow Dalle applicazioni fatte in campo sociologico di questa gerarchia, soprattutto da Inglehart, è arrivata una sostanziale conferma della teoria gerarchica di Maslow, conferendo ad essa una valenza universale. Tuttavia, da osservazioni fatte in Italia ed in Europa sul mutamento dei valori e sull’emergenza dei bisogni, sono nate anche delle riserve sugli automatismi di tale gerarchia. A) Controllando le risposte dei giovani sono emerse queste nuove caratteristiche: 1) La concentrazione dei giovani sui bisogni di gratificazione immediata e di libertà personale, rinunciando a progetti più ampi di solidarietà universale e d’impegno sociopolitico; 2) L’emergenza dei bisogni misti, cioè, il ritorno a bisogni e valori materialisti pur in un contesto di benessere: i beni materiali diventano simbolo d’appartenenza e status sociale (status symbol). B) Ciò ha fatto risaltare alcuni limiti della teoria di Maslow: 1) La componente fortemente individualistica della gerarchia dei bisogni e della tensione all’autorealizzazione. 2) L’eccessiva fiducia sui meccanismi naturali ed istintivi di regolazione dei bisogni, senza tener conto del potere condizionante della società e della cultura, nel modificare o disorientare l’istinto nell’individuazione dei bisogni. 3) La difficoltà di stabilire una gerarchia dei bisogni una volta superata la soglia dei bisogni primari, regolati dall’organismo secondo criteri di necessità. 4.1.2. Il contributo dell’analisi del disagio Ai limiti già osservati sulla teoria di Maslow, altri ne sono emersi dall’analisi del disagio e rischio giovanile. Infatti questi possono essere prodotti da: 1. Bisogni materiali: povertà materiale, emarginazione, ecc., anche se residuali in Italia. 2. Bisogni di sicurezza (economica, sociale, personale): la più grave riguarda la mancanza di lavoro che minaccia potenzialmente tutti i giovani in Italia, anche se col tempo la maggioranza trova una soluzione; in ogni caso il sistema di sostegni familiari e statali consente di non cadere nell’indigenza. Altro problema molto sentito è la sicurezza 67 sociale, minacciata soprattutto dalla delinquenza, dagli immigrati, ma anche dalle condotte a rischio degli stessi giovani. 3. Bisogni affettivi, da soddisfare sia nella famiglia, che nel gruppo o nelle relazioni diadiche. 4. Bisogni sociali, di relazione ed appartenenza, di inserimento ed accoglienza in un gruppo e nella società, di autonomia dalla famiglia, di adattamento alla società e di contribuire al suo sviluppo. 5. Bisogni formativi, connessi con i compiti di sviluppo dell’età: comprendono sia i bisogni di istruzione e formazione professionale, come anche quelli di relazione interpersonale, di autonomia, di identità, di maturazione psichica, sociale e culturale, di equilibrio emotivo e mentale. 6. Bisogni di autorealizzazione, di occupazione e di stima sociale (e autostima per il proprio valore, misurato sovente in base a quello che si sa fare o all’apprezzamento sociale). 7. Bisogni espressivi, che si realizzano prevalentemente nel tempo libero, nei divertimenti e nei consumi, negli affetti, nella soddisfazione estetica, nella produzione artistica o negli hobbies. 8. Bisogno di percepire chiaramente la situazione e il suo significato (cioè le conseguenze delle proprie reazioni ad essa); di disporre dei mezzi necessari per controllare la situazione e soddisfare i bisogni fondamentali; di avere un concetto positivo della propria adeguatezza e competenza 9. Bisogni di valori e di significati, di senso. 10. Bisogni di integrazione dei motivi, di possedersi nella totalità della personalità, di un quadro di valori organizzato e di un visione del mondo chiara che dia coerenza ed unità alle esperienze, ai vissuti e alle idee che si va formando. Questi bisogni, emergenti dall’analisi del disagio giovanile, indicano che la società non è ancora riuscita a soddisfarli tutti, nonostante il suo enorme sviluppo ed il livello di benessere raggiunto. Il fatto che rimangano bisogni di tipo materiale mette in questione l’equa distribuzione delle ricchezze e dei beni nella società. Così pure la mancanza di sicurezza sociale, di occupazione e di inserimento dell’adolescente pone problemi sulle politiche economiche e sociali. Ma è soprattutto quando il disagio emerge non da situazioni economiche o sociali svantaggiate, bensì da situazione di benessere (disagio da benessere) che viene radicalmente messa in questione la società ed i meccanismi di socializzazione. In questo caso non è la mancanza di beni che preoccupa, bensì l’organizzazione della società. Molti dei bisogni che appaiono frustrati e quindi causa di disagio, appartengono sia alla sfera dei bisogni postmaterialisti, come anche a quella dei bisogni formativi. La società, pur così ben organizzata dal punto di vista economico e delle comunicazioni, non lo è dal punto di vista formativo e culturale. Anzi appare carente dal punto di vista della trasmissione del “sapere” alle giovani generazioni e del far loro posto in società. Non perché i “beni” di cui si ha bisogno manchino, ma perché non è organizzato il loro accesso. In questo contesto la gerarchia dei bisogni e la “bussola interna” della tensione autorealizzativa prevista da Maslow non funzionano più. Non che la tensione all’autorealizzazione (e alla maturazione dell’identità che ne rappresenta il suo equivalente per l’età) non ci sia più, ma essa non trova il modo di giungere alla meta, trovando sovente sbarrate le porte della sua evoluzione naturale (o almeno di quella che valeva cinquant’anni fa) e cambiati i cartelli indicatori. Cosicché l’adolescente, nel suo percorso già tumultuoso e precario, viene ulteriormente confuso e scambia i mezzi per i fini, entrando in una specie di circolo vizioso. Egli introietta la disorganizzazione sociale e risponde in maniera irrazionale agli stimoli dell’organismo. Cosicché il disagio si tramuta in “rischio”, cioè in condotte antisociali, violente, dannose alla salute, auto o eterodistruttive, si perde nei fumi del consumismo, dell’apparenza. 68 4.2. La proposta del modello motivazionale di Frankl Ricadendo a questo punto sull’individuo il compito di trovare la strada della sua realizzazione (sia quella definitiva della vita, che quella parziale ma inderogabile della sua età) è necessario proporre un modello di motivazione che permetta di superare i limiti del modello maslowiano, pur conservando quanto vi è ancora di attuale. Ci è sembrato che il “modello motivazionale” di Frankl consenta il superamento dei limiti del modello maslowiano, senza rinnegare quanto di buono esso ha espresso. Inoltre, esso consente anche di incorporare le indicazioni che provengono dalla scuola di Erikson sui compiti di sviluppo e di integrare il tutto in un modello unitario. Pertanto le spiegazione meccanicistiche (ricerca dell’equilibrio omeostatico) ben si adattano ai bisogni primari; quelle di tipo autorealizzative rimangono iscritte nella componente psichica dell’uomo e possono spiegare una grande mole di comportamenti e valori umani, ma non sono sufficienti a spiegare il disagio che emerge quando sono soddisfatti i bisogni materiali e c’è la possibilità di soddisfare anche gli altri. Di fronte al fallimento di questo tipo di spiegazione e all’aumento di disagi e rischi nella società, è necessario riconoscere che esiste un tipo di bisogno non ancora scoperto. Tale bisogno l’abbiamo riconosciuto nella “volontà di significato” di Frankl, che non si pone come un bisogno che si aggiunge agli altri, bensì come un meta-bisogno, un bisogno di natura diversa, che risiede nelle facoltà superiori (spirituali o noetiche) dell’uomo, che lo qualifica e distingue da tutti gli altri esseri. Tale modello motivazionale, permette di conservare tutti i tipi di spiegazione precedenti, ma, senza fermarsi ad esse, ha la capacità di andare oltre. Tale tipo di bisogno può spiegare sia perché permanga il disagio, pur essendo soddisfatti tutti i bisogni finora conosciuti, sia di trovare una via d’uscita anche quando altre strade di realizzazione fossero precluse. Inoltre, in una situazione di incertezza sociale esso permette di avere un obiettivo da raggiungere che ognuno trova dentro di sé e di strutturarsi un quadro valoriale anche in un’epoca di marcato soggettivismo e relativismo morale. Tale quadro permette anche di dare risposte al bisogno di identità degli adolescenti e a tener desta la tensione che permette di integrare e strutturare i bisogni ed i valori. Quello di ricondurre all’unità o di integrare vari aspetti è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo e si contrappone a quello, altrettanto fondamentale, dell’evoluzione che è la “differenziazione”. Differenziazione ed integrazione sono due movimenti opposti ma complementari dell’evoluzione umana67. Arrivare ad una perfetta integrazione rappresenta “uno stadio finale ideale, mai realmente raggiunto” (Allport, 1963, XVIII). Tuttavia è il “tendere verso” ciò che rende possibile l’unità personale. Il bisogno di significato è ciò che può tener desta tale tensione. 4.3. Bisogno di un “cultura del significato” Se è possibile che l’adolescente trovi un senso per la vita, anche in assenza di un quadro valoriale comune, grazie al suo impegno personale, non è detto che la società non debba porsi con responsabilità di fronte a questo compito. 67 Condividiamo a questo punto la posizione di alcuni psicologi come l’Allport, Kurt Lewin, ecc. “L'Allport identifica due processi fondamentali nello sviluppo della personalità: quello di differenziazione, consistente nel passaggio da forme di reazione agli stimoli diffuse e indistinte, alla capacità di compiere atti localizzati, specifici, più efficaci, e quello di integrazione, consistente nella progressiva connessione di disposizioni e di risposte, mediante la quale si costituiscono forme di responsività piú stabili e piú generalizzate nei confronti di stimoli funzionalmente equivalenti, e sistemi unitari ampiamente comprensivi di motivazione della condotta. «Le specializzazioni (risultanti dal processo di differenziazione), una volta che siano state conseguite, sembrano, influenzarsi reciprocamente e congiungersi in un'organizzazione strettamente connessa e in espansione» (Personality, pag. 131)” (Tassinari in Allport, 1963, XII). 69 Si ricorda in quest’ambito l’importanza fondamentale dell’identificazione e dell’introiezione di valori e di una visione della vita per la formazione dell’identità: La ricerca di significati come la stessa costruzione dell’identità, è particolarmente influenzata da modelli, cioè da persone che possiedono un’identità ed uno scopo ben preciso nella vita: l’incontro di valori avviene, anzitutto, non in forma teorica, ma attraverso l’identificazione con persone significative, attraverso cioè, l’incontro con valori incarnati (Gambini, 1998, 73). L’identificazione avviene in un primo momento con figure familiari, ma l’adolescente se ne separa alla ricerca di altre figure di riferimento: sarà l’eroe o il personaggio famoso, sarà un amico, oppure il gruppo. Ma l’adolescente cerca anche la persona-guida, il maestro di vita, che lo introduca nei misteri della vita. Attraverso l’identificazione con tale persona, egli entra in contatto con i valori, con una tradizione, una cultura, cioè con quella che Erikson chiamava ideologia. Questa ha un ruolo insostituibile nel processo di maturazione dell’identità “L’ideologia favorisce la canalizzazione di tutte le energie verso un unico compito o una sola modalità di vita. […] La mancanza di una polarizzazione ideologica renderebbe impossibile sia la scoperta e la realizzazione del senso della vita che la costruzione della propria identità” (Gambini, 1998, 71-72). Pertanto il contatto con una cultura “sapiente”, “umanista”, ricca di valori e capace di indicare un senso per la vita (attraverso il contatto con persone significative, che la mediano) sembra presentarsi con i connotati di un bisogno, intimamente correlato ai bisogni di significato e di identità68. Il bisogno, abbiamo visto, è sempre composto di due parti: il bisogno-stato ed il bisognooggetto. Lo stesso procedimento va applicato al bisogno di significato. Possiamo ipotizzare che il bisogno di significato, anche se a livello potenziale è presente in tutti, necessiti, per essere riconosciuto e accolto, anche di una risposta a livello sociale. Pur essendo personalissimo ed unico, tale bisogno difficilmente sarà percepito e soddisfatto per iniziativa solo personale. Come per tutti gli altri bisogni, anche per questo l’adolescente deve trovare nella struttura sociale un aiuto ed un sostegno. Pertanto, si postula l’esigenza di una società capace di offrire una “cultura del significato” e delle strutture sociali capaci di mediare tale realtà con quella dell’adolescente. 4.3.1. La cultura del significato Secondo Frankl, la cultura è l’insieme dei significati che sono stati elaborati dagli uomini nel tempo. Come la “volontà di significato” ha il potere di sintetizzare i vari motivi e riflessioni attorno a quell’obiettivo, così la “cultura del significato” deve assumersi il compito di riportare ad unità e ridare senso alle elaborazioni culturali di questo tempo. Non si può permettere che prevalga solo la cultura della frammentazione, della iperspecializzazione, dell’autoreferenzialità, che significa non comunicare, procedere solo per logiche proprie senza curarsi del significato globale. Non che la ricerca specialistica non debba esistere, ma come momento del pensare. Poi deve trovare anche il momento della sintesi, del collegamento tra i vari saperi, del loro significato globale. Che sarà anche momentaneo, rivedibile, continuamente scomponibile, ma anche continuamente ricomponibile. Che adotta un metodo diverso, rispetto a quello delle scienze positive. Mentre quelle usano il linguaggio numerico o digitale, questa deve usare quello analogico, 68 Tale bisogno, secondo Erikson, dovrebbe essere assolto dalla società. Ma, essendo scomparsa la società co-costitutiva, come prevista nel modello funzionalista di T. Parsons, ne consegue che a questo bisogno devono rispondere delle realtà a ciò deputate. Ne conseguirebbe pertanto l’emergenza di un “bisogno di educazione”, che rientrerebbe tra i più generali bisogni formativi. L’educazione dovrebbe contribuire soprattutto a dare il “senso ultimo del reale” (Cfr. Nanni, 1990). 70 affidarsi all’intuizione. Deve lavorare più col simbolo che con la logica numerica, come ha sostenuto Brunner, parlando della “cultura dell’educazione” (2002). Ed è proprio l’educazione che impone questa scelta. Infatti di questo tipo di cultura ne hanno bisogno soprattutto le generazioni più giovani. Siccome però ci troviamo di fronte ad un tipo di cultura che ha smarrito il senso, che predica la rinuncia ad ogni verità fondativa, o che si disperde nei frammenti delle singole discipline, rinunciando ad ogni pretesa di composizione unitaria, per ora è nella cultura tradizionale che vanno cercate più probabilmente indicazioni di percorso. O meglio, è nella mediazione tra tradizione e innovazione che vanno cercate le vie di senso69. La cultura rappresenta il condensato delle esperienze dei valori e delle soluzioni adottate nei secoli dall’umanità. Come tale tende a fornire un orientamento, un senso alla vita, proprio perché è il risultato della ricerca di tanti uomini, il frutto delle loro riflessioni sulla vita, dei significati che vi hanno riconosciuto. Pertanto mettere l’adolescente in contatto con tali valori e forme di saggezza antica è di importanza vitale per la sua riuscita. Pertanto l’adolescente, nel suo itinerario di crescita, potrà avvalersi dell’aiuto di riferimenti culturali, che non rappresentano tanto la risposta ai suoi “perché”, quanto dei “modelli di risposte”, dei materiali da utilizzare nel suo tentativo di trovare un senso alla vita. La “cultura del significato” deve assumere il ruolo di sintesi del sapere, di “universo simbolico” coerente ed integrato, cui socializzare le nuove generazioni. 4.3.2. Istituzioni e cultura Un aiuto ad una cultura “sapiente”, orientata al significato della vita, può venire dalle istituzioni. Nel ‘68 le istituzioni erano state messe profondamente in crisi, nel tentativo di liquidarle definitivamente, come superate e contrarie al progresso. Lo stesso Maslow era diffidente delle istituzioni e proclamava una capacità di orientamento istintivo da parte dell’individuo, che aveva più da temere che da guadagnare dalla “civiltà”70. Inglehart raccoglie sia la fiducia nell’istinto naturale di Maslow che la critica anti-istituzionale sessantottina. Dal nostro canto non condividiamo tali impostazioni. Siamo del parere, con Gehlen (1960), che le istituzioni siano un prodotto della cultura, che tende a conservare e preservare aspetti fondamentali di se stessa. Secondo tale autore, le istituzioni svolgono una funzione sostanziale di mediazione, di rassicurazione e di razionalizzazione. La cultura, infatti, di cui le istituzioni sono parte integrante e centrale, è stata creata e sviluppata dall’uomo come seconda natura, cioè come difesa e garanzia contro la precarietà e al debolezza della natura umana. E’ dunque compito delle istituzioni quello di ‘scaricare’ l’uomo, cioè di liberarlo dai rischi di un comportamento privo di orientamento e di senso, dall’improvvisazione e dalla pressione dei problemi urgenti, dalla ingovernabilità delle situazioni complesse. L’istituzione secondo Gehlen non è da considerarsi come gabbia costrittiva che umilia la libertà dell’uomo, ma cone uno strumento positivo che facilita la soddisfazione dei bisogni, mediando tra le esigenze spesso contrastanti di tutti (Milanesi, 1993, 76-77). Pertanto le istituzioni risultano fondamentali per l’elaborazione e la trasmissione della cultura, per aiutare le nuove generazioni nel loro processo di socializzazione e quindi ritrovare il senso della vita. Ovviamente questo non vuol dire un’accettazione acritica nelle strutture in cui le istituzioni s’incarnano. Queste, come prodotto dell’uomo, risentono del momento storico in cui sono state 69 “La vita in una cultura […] è un’interazione tra le versioni del mondo che le persone si vanno formando sotto l’influsso del clima istituzionale dominante e le versioni che sono il prodotto delle loro storie particolari” (Brunner, 2002, 28). 70 “Gli istinti hanno più da temere dalla civiltà e la civiltà dagli istinti” (Maslow, 1978, 169). 71 create e dei valori per cui esse sono state pensate. Con l’avanzamento del progresso, con l’emergenza dei nuovi bisogni e quadri valoriali s’impone una revisione delle strutture istituzionali. Esse devono passare attraverso le fasi fisiologiche della nascita, maturità, invecchiamento e morte, per poi riprendere questo ciclo. Negli anni settanta si è predicata la morte delle istituzioni. Il risultato è una società più disorientata ed infelice di quella precedente, pur essendo tecnologicamente molto più avanzata. Probabilmente va ripreso un discorso di rifondazione delle istituzioni, su basi nuove, rinnovandole con strutture più rispondenti alle esigenze e ai valori del tempo. In ogni caso si può dimostrare che chi ha avuto un rapporto significativo con le istituzioni, soprattutto educative, ha interiorizzato un patrimonio culturale che lo ha aiutato a dare più facilmente un senso alla vita e a ridurre il disagio esistenziale. 4.3.3. Il contributo della fede religiosa Tra le istituzioni più criticate e ritenute obsolete e contrarie alla modernità ci sono quelle di tipo religioso. Non sempre è stato così. La religione è stata ritenuta da molti sociologi, a partire da Durkheim, come un elemento di legittimazione della norma, di integrazione e regolazione sociale e, quindi, di prevenzione della devianza. Per anni il contributo della religione alla costruzione della società è stato contestato o misconosciuto. Tuttavia dagli anni ’80 è in atto una certa rivalutazione del ruolo della religione, soprattutto per contrastare gli effetti del disagio e della devianza. Secondo, per esempio una teoria, detta “ecologica”, ad un maggiore attaccamento alla religione corrisponderebbe una minor incidenza di atti delinquenziali e, inversamente, ad un minore attaccamento alla religione corrisponde un aumento della delinquenza (Stark – Kent – Doyle, 1982). Secondo Stark e Bainbridge (1996) le principali religioni avrebbero un ruolo fondamentale nel sostegno dell’ordine morale. Anche altri autori, come Jessor & Jessor (1977; 1998), considerano la religiosità, insieme con altre variabili, tra le migliori risorse protettive contro la devianza. Da ricerche condotte da Caliman (1997) in Brasile risulta esserci una correlazione negativa tra fede pratica religiosa e devianza. Anche dalle inchieste condotte in Italia appare che la pratica religiosa motiva una maggior coscienza civile e morale (Cartocci 2002), una maggior capacità critica e di resistenza verso i modelli consumistici prevalenti tra i coetanei (Buzzi – Cavalli – de Lillo, 2002) e, quindi, una maggior capacità di difendersi da disagi e rischi di devianza (Donati – Colozzi, 1997). La tendenza di alcuni sociologi è quella di limitarsi ad apprezzare la funzione integratrice della religione nella società, altri invece insistono sul suo valore “sostantivo”. Secondo tali autori la religione costituirebbe il “centro unificatore” dei valori e della cultura di un popolo, la volta sacra (sacred canopy) del sapere (Berger, 1967). Essa rappresenterebbe una “visione globale di tutta l’esperienza umana, un ‘sistema di significato’ che ha la caratteristica e la pretesa di essere ‘totalizzante’, cioè capace di coestendersi a tutte le aree della condotta e di dare a tutte un senso” (Milanesi, 1973, 42). Secondo tale prospettiva la religione costituirebbe la risposta al bisogno di ordine, di significato e di senso ultimo dell’uomo. Come tale essa istituirebbe un ordine significativo, un “nomos […] imposto alle esperienze e ai significati isolati degli individui” (Berger, 1967, 4). Il nomos si contrappone al caos, al disordine, all’insensatezza, all’anomia. Tale “nomos è imposto nel processo di oggettivazione soprattutto con il linguaggio e, attraverso di esso, con ogni forma di conoscenza sia cognitiva che normativa, sia preteorietica che quella formata da un ‘corpus’ di conoscenze via via più complesse, di visioni del mondo o definizione della realtà sempre più organizzate, fino agli universi simbolici. L’ordine sociale è possibile infatti solo attraverso una 72 partecipazione collettiva a una crescente e sovra-ordinata organizzazione dei simboli che offre un mondo significativo in cui vivere” (Denicolò, in Berger, 1987, 11). Quest’ordine, accettato collettivamente come oggettivo e necessario, diventa “sacro”, cioè intoccabile, universale, cosmos: “La religione è l’impresa umana attraverso cui viene stabilito un cosmos sacro” (Berger, 1967, 25). Tale pretesa è oggi profondamente in crisi, perché in contrasto con il progetto moderno che affida alla scienza la compito di fornire la conoscenza del mondo e rifiuta una visione unitaria e soprattutto totalizzante della vita e del mondo71. Tuttavia è proprio a causa di tale perdita del “centro”, di un “cosmo sacro”, che deriva, secondo alcuni, l’attuale stato di anomia e di disagio sociale (Pollo, 1999). Si potrà certo discutere sulla capacità delle istituzioni religiose tradizionali a rispondere al bisogno di senso che emerge dall’uomo moderno. Questo è elemento di dibattito molto vivace a livello teorico e la tendenza alla soggettivizzazione della ricerca di senso tra le popolazioni dei paesi industrializzati la dice lunga sia sulla persistenza di tale bisogno sia sull’inadeguatezza dei progetti finora perseguiti di mediazione tra scienza e fede (Inglehart 1998). Tuttavia le osservazioni empiriche riportano dati significativi in cui appare che chi aderisce ad un fede religiosa ha maggiori probabilità di ridurre il disagio e corre meno rischi di devianza. Questo probabilmente perché il “nomos”, imposto dalla religione, acquista la capacità, nel corso della socializzazione, di ordinare significativamente l’esistenza dell’individuo che l’accetta in una “biografia” sensata. Pertanto si riconosce che la religione ha “un valore fondamentale nella formazione dell’identità giovanile. [Essa] diventa un tratto centrale, molto importante, attorno a cui unificare le altre dimensioni umane per la costruzione della propria personalità” (Mion, 1995, 46). 4.3.4. L’appartenenza ad una “comunità di carattere educativo” Un altro mezzo che può aiutare l’adolescente a trovare una propria via di realizzazione sensata è l’appartenenza ad una “comunità di carattere educativo”. Con tale termine non si intende una nuova istituzione educativa, ma un modo diverso di affrontare l’educazione. Infatti, le comunità educative possono essere costituite sia all’interno di scuole, che di centri giovanili, di convitti, o di iniziative di riabilitazione e/o rieducazione. Esse rappresentano un modello organizzativo, che contrasta la tendenza all’individualismo e alla settoralità tipici di un certo tipo di educazione 72. Esso vuole fare della “comunità di persone” il fattore primo dell’educazione, con l’impegno di costruire un ambiente educativo dove il ragazzo possa trovare gli elementi fondamentali per una crescita equilibrata ed armonica. Il termine “comunità” richiama intuitivamente il concetto delle Gemeinschaft, studiate da Toennies, in contrasto con le Geselschsaft, caratterizzate da rapporti più formali e burocratici. Per “comunità” si intenderebbe così “una aggregazione naturale di persone che condividono significativamente il loro vissuto quotidiano e che sono legate da vincoli di solidarietà”, oppure come “un piccolo gruppo caratterizzato al suo interno da intense relazioni solidali e totalizzate rispetto ai fini” (Labos, 1994a, 28). Tale definizione di comunità rappresenta solo un aspetto delle comunità educative, poste in realtà tra Gemeinschaft e Geselschsaft: “La componente comunitaria esprime l’esigenza della personalizzazione dell’istituzione nelle relazioni interne e nei rapporti con l’esterno, mentre quella societaria sottolinea maggiormente i fini istituzionali che sono di natura essenzialmente ‘produttiva’ 71 “La mia tesi è che la modernità ha gettato la religione in una crisi molto specifica, caratterizzata, certo, dalla secolarità ma, in modo ancor più decisivo, dal pluralismo. In una situazione pluralistica, per ragioni evidenti agli occhi dello storico e del sociologo, l’autorità di tutte le tradizioni religiose tende ad essere screditata” (Berger, 1987, 38) 72 “La comunità si definisce sul rifiuto dell’alienazione, dell’anomia, dello sradicamento, dell’isolamento, della spersonalizzazione, come si manifestano nelle istituzioni massificate, caratterizzate dalla tendenza verso una razionalità formale di tipo tecnocratico e della prevalenza di preoccupazioni organizzative e burocratiche” (Tonelli, 1982, 6). 73 ” (Tonelli, 1982, 6). Attraverso questo la comunità vuole rendere possibile l’equilibrio tra bisogni funzionali e bisogni espressivi, tra efficienza e soddisfazione, tra svolgimento di compiti e arricchimento personale. Tali comunità si caratterizzano per la “riconsiderazione del ruolo del soggetto nel processo educativo e, di conseguenza, del suo rapporto con gli educatori, i contenuti e l’istituzione educativa” (Vecchi, 1997, 211). Ciò presume il coinvolgimento attivo di tutti gli interessati al programma, la condivisione degli obiettivi, dei valori fondamentali ed anche dei metodi. Per ottenere questo è necessario che gli obiettivi e le proposte siano discusse e accettate collettivamente, in spirito di collaborazione e corresponsabilità, che ci sia una comunicazione corretta ed efficace, che questa non si fermi al fatto burocratico ma diventi il più possibile interpersonale. Ma soprattutto che nella trasmissione di contenuti e valori si faccia leva sul dinamismo dei “processi formativi”, rispettando le autentiche esigenze di crescita del ragazzo e rispondendo con quegli elementi di cui ha concretamente bisogno, senza mortificarne il protagonismo. “Attraverso i processi formativi, la comunità sollecita ciascuno ad acquisire quelle conoscenze e quegli atteggiamenti che determinano una matura e seria ‘competenza professionale’, presupposto indispensabile per ogni capacità critica. Così la comunità educativa diventa concretamente luogo di ‘socializzazione’ matura, perché aiuta ad acquisire le norme e i comportamenti socialmente rilevanti, favorendo una progressiva e critica partecipazione” (Tonelli, 1984, 403). Tra i processi formativi abbondante rilievo viene dato a quello di “identificazione”, attraverso cui l’adolescente giunge a far proprie qualità, caratteristiche, valori, percepiti in un’altra persona riconosciuta come autorevole ed importante. Perché ciò possa verificarsi è indispensabile curare che tutto l’ambiente sia educativo. Ciò vuol dire “predisporre condizioni convergenti di habitat, presenze, relazioni, proposte, attività e strutture che favoriscano i processi di crescita” (Vecchi, 1997, 211). Un ambiente intriso di valori organicamente strutturati diventa esso stesso proposta formativa e aiuto alla crescita e identità del ragazzo. Esso è in grado di fungere da riferimento valoriale e normativo, in modo non soltanto da contrastare l’influenza negativa della società, ma anche da aiutare l’adolescente a costruirsi un progetto di vita. Se poi questi valori sono organizzati gerarchicamente in ordine al senso della vita, come avviene per esempio in comunità religiosamente ispirate, esse offrono una risposta non solo al bisogno di identità, ma anche a quello di senso. “La comunità diventa così il luogo privilegiato per sperimentare in concreto i valori: quelli irrinunciabili, presenti nella memoria sociale della collettività, attraverso la mediazione dell’adulto […]; e quelli innovativi, facendo della comunità il crogiuolo di questi valori, mediante il confronto critico con modelli e con la partecipazione di esperienze significative” (Tonelli, 1984, 405). Così facendo si attiva “la capacità di produrre nuovi simboli, sul piano religioso, politico-culturale, delle relazioni interpersonali e dei processi sociali, lasciando campo libero alla fantasia, alla creatività, alla capacità inventiva” (Tonelli, 1984, 405). Alla comunità educativa così composta e strutturata sono affidati vari compiti, in ragione anche dei suoi obiettivi statutari. Uno è quello di elaborare, applicare e verificare il progetto educativo. Esso dovrebbe esprimere “i valori che la comunità vuole realizzare e trasmettere le esperienze intende proporre ed i metodi che privilegia” (Vecchi, 1997, 212). Tale progetto ed i valori che esso veicola dovrebbero aiutare l’adolescente nell’elaborare il proprio progetto personale. Il fatto che molte comunità di accoglienza e/o terapeutiche per i tossicodipendenti ricorrano a tale modello, è quanto mai eloquente sulla capacità di tali comunità di contrastare i guasti prodotti dalla società attuale (cfr. Guidicini-Pieretti, 1996). Infatti, in un contesto pluralista, la comunità educativa diventa luogo privilegiato di revisione critica dei simboli esistenti e di elaborazione di nuovi. Tale modo di porsi funziona come antidoto di fronte alla pluralizzazione delle visioni del mondo, indifferenza valoriale, confusione biografica, frammentazione delle appartenenze, tipiche della società postmoderna e complessa. A questo modello educativo s’ispirano molti gruppi e associazioni giovanili. Gli stessi oratori di Don Bosco possono essere ascritti a tale tipo di comunità (cfr. Tonelli, 1984). 74 Questo tipo di comunità può esser assimilato a quello che in ambiente anglosassone viene chiamato “moral community”, cioè un ambiente in grado di fungere da riferimento valoriale e normativo (cfr. Stark - Bainbridge, 1996). 4.4. Conclusione: verso un modello di realizzazione per l’adolescente. Giunti a questo punto sembra possibile delineare in via del tutto ipotetica (e forse anche utopica) quale potrebbe essere il tipo di adolescente per questa società. Da una parte abbiamo l’immagine di un individuo a molte dimensioni, che non vuol rinunciare a nessuna delle possibilità di realizzazione che la società gli offre, che non è disposto a penalizzare una dimensione di sé a scapito di altre, di rinchiudere in un solo ambito la propria realizzazione. Che vuole rimanere aperto a tutte la possibilità che la vita e la società gli offre, che vuole cogliere tutte le opportunità che gli si presenteranno, che vuole approfittare di tutte le potenzialità della sua persona. D’altra parte c’è il rischio, alquanto elevato, che non riesca a realizzarsi, non perché manchino i mezzi, ma semplicemente perché ne ha troppi e non sa quali scegliere. Rischia di lasciarsi guidare da criteri di gratificazione immediata ed istintiva, che molto probabilmente non gli garantiranno quella riuscita, che è nelle sue aspettative e nei suo diritti. Di qui l’alto rischio di fallimento, di disperdere la sua esistenza nei mille rivoli delle occasioni momentanee, nelle vite parallele che gli si offriranno continuamente senza scegliere, senza realizzare nulla di concreto. La sua vita rischia di disperdersi in tanti micro obiettivi, in tante piccole realizzazioni che possono dare il senso di compiutezza, ma lasciano vuoti e inconcludenti. Uno stile di vita alla “Pulp fiction”, cioè “una modalità metabolica di affrontare la vita, di ingoiarla e vomitala come se essa non avesse, e non fosse, un valore in sé, […] un frenetico e spasmodico dannarsi in progetti a breve il cui senso intimo è fare, agire a qualsiasi costo (rapinare, drogarsi, arraffare denaro, fare sesso) nell’ottica del consumo sfrenato di beni e situazioni […] nella totale e aleatoria immanenza di ogni gesto, del tutto fine a se stesso” (Pieretti, 1996, 14). Di qui il disorientamento, la frammentazione psichica, le condotte illogiche, talvolta assurde e aberranti, ma rivelatrici di una sofferenza interna, psichica, esistenziale che solo a volte si traduce anche in condotte socialmente pericolose. Ciò sembra sostanzialmente imputabile a: 1) ipertrofia dei bisogni primari, concentrazione su risposte di tipo materiale, confusione del “ben-essere” con la prosperità; 2) perdita del senso, della direzione dello sviluppo della società, e di conseguenza anche personale (anomia, crisi dei processi di socializzazione). Entrambi le difficoltà sono riconducibili ad un solo problema: aver scambiato “il mezzo col fine” (Folgheraiter, 1998, 92). 4.4.1. Il bisogno di senso Di fronte a questo rischio di fallimento, l’unica via percorribile sembra quella di concentrarsi su un obiettivo per cui valga la pena spendere la vita. Donde la necessità di scoprire che senso ha la vita, porsi quegli interrogativi, che hanno fatto la grandezza dell’uomo e l’inizio della cultura riflessa: perché esistiamo, chi è l’uomo, dove sta andando, che senso ha quello che sta facendo, ecc... Ciò esige disponibilità a mettersi in ricerca. Questo non è possibile, secondo Frankl, se non si è animati dalla “volontà di significato”, se non si riconosce che il “significato della vita” è l’obiettivo più importante per ogni persona, il “bisogno 75 dei bisogni”, quello che tutti li trascende ed è in grado di verificarne la validità. Potremmo affermare che è un “meta-bisogno”, che non appare giustificato dalle strutture della vita biologica o psichica, e che pure è più essenziale più di ogni altro. Un bisogno che nasce dalla struttura spirituale o “noetica” dell’uomo, e che si rivela alla coscienza. Un bisogno che non si percepisce quando si è tutti presi nella soddisfazione di altri bisogni, alla ricerca della felicità a tutti i costi, del piacere, del successo o dell’affermazione di sé. Un bisogno che viene avvertito soprattutto quando non è possibile soddisfare bisogni ritenuti essenziali, quando vengono a mancare le condizioni per una vita soddisfacente, quanto si percepisce il senso di vuoto per una vita fallita o che non ha senso. Un bisogno che è appello personale, unico e inderogabile, della vita alla coscienza di ogni persona, un bisogno che richiede un impegno personalissimo, che non può essere suffragato o demandato a nessun altro. Un bisogno che, pur essendo personalissimo e unico, non è un optional, né manipolabile. Un bisogno che ha una sua oggettività ed urgenza che non possono essere eluse. 4.4.2. L’unificazione della persona attorno ad un centro esistenziale L’impegno a cercare il senso della vita può costituire la “tensione” morale che permette la progressiva "scoperta" di nuovi valori, cioè la "valorizzazione" di tutto quello che consente di arrivare all'obiettivo perseguito. L'assunzione di una costellazione di valori – o, se vogliamo, di una scala di valori, di un sistema di significato - funge da riferimento e sulla sua base la persona si orienta per le proprie decisioni. I riferimenti di valore costituiscono i sistemi di significato, dimensioni che toccano gli atteggiamenti fondamentali del modo di porsi dell’uomo di fronte alla realtà. Possono funzionare come centro gravitazionale e orientare le scelte e le decisioni di un soggetto. La mancanza di una costellazione di valori consistente (un sistema di significato) può indurre a prese di posizioni, atteggiamenti e scelte guidate dalla sfera degli impulsi, che tendono a motivare soluzioni immediate ai bisogni, senza alcun riferimento a criteri in grado di sorreggere il cammino formativo del periodo adolescenziale. Se invece il senso della vita (o la sua ricerca) diventa il criterio di valore primo, esso organizza tutti gli altri valori e/o bisogni e li ordina secondo una gerarchia. Questo senza consegnarsi ad un’ideologia, ma anche senza rimanere del limbo delle non scelte, del qualunquismo, del cinismo. Tra integrismo (consegnarsi ad una visione del mondo precostituita) e dispersione, esiste una via mediana, fatta di ricerca faticosa, lenta, incerta, piena di dubbi, flessibile, capace di ricredersi e ritornare sui propri passi, ma non per questo rinunciataria o rassegnata. E’ una via certamente difficile, per cui non ci sono scorciatoie o sostituti. Ma è una via che porta alla vera realizzazione umana, nel senso pieno e personalissimo che ha questo termine. E’ un ricerca che diventa essa stessa obiettivo, e con ciò mezzo di integrazione della personalità attorno ad un centro unitario, capace di dare senso e coerenza a tutto il resto. Non si tratta di pretendere un progetto chiaro, in tempi di alta contingenza, come oggi, bensì di avere una tensione, un obiettivo, anche se ancora incerto e confuso, verso cui proiettarsi. Un obiettivo per cui valga la pena vivere, che riesca a motivare, al di là del contingente, che meriti lo sforzo di tutta una vita. 76 4.4.3. Il concorso dell’adulto e delle istituzioni educative Se teoricamente è possibile che l’adolescente trovi da solo la strada del significato della vita e riesca ad organizzare i suoi bisogni e valori attorno a questo centro esistenziale, e quindi dare coerenza e organicità alle sue scelte, prevediamo assai difficile che questo si realizzi in concreto e su larga scala. La pressione esercitata dalle strutture sociali è così forte di fronte alla debolezza della struttura di personalità dell’adolescente che è facilmente prevedibile la sua confusione, il disorientamento, la perdita di riferimento rispetto ai valori essenziali ed agli obiettivi della vita. Di fatto le analisi sociologiche ci consegnano uno stato di disagio diffuso, pur non mancando i beni necessari alla vita dell’adolescente. Ciò che manca è invece un quadro di valori condiviso, una società strutturata in modo da accogliere e aiutare l’adolescente ad integrarsi e dare una risposta adeguata ai suoi bisogni formativi ed esistenziali. Pertanto prevediamo, con il supporto di molti studiosi (di psicologia, di sociologia e di pedagogia) che sia necessario un accompagnamento ed un aiuto da parte degli adulti 73. In attesa che tutta la società assuma una prospettiva educativa, più attenta, cioè, alle esigenze dei suoi membri più giovani, postuliamo che tale compito sia assunto provvisoriamente da alcune persone ed istituzioni. Tali realtà dovrebbero mettere l’adolescente in grado di soddisfare i suoi bisogni fondamentali e trovare una risposta ai suoi perché. Infatti, uno stato di tensione pro-attiva verso i bisogni più alti può esistere in qualsiasi situazione, anche quelle di povertà più estrema. Tuttavia risulta difficile a chi vive in una situazione di carenza totale costruirsi un progetto di vita se continua ad essere esposto a rischi e privazioni e a vivere in condizioni di abbandono totale. Il livello di soddisfazione dei bisogni al di sotto di una soglia “minima” determinerà molto probabilmente uno stato di "preoccupazione" per l’incapacità di soddisfare i bisogni primari (fisiologici). Se, invece, esisterà una relativa disponibilità di risorse (materiali e non), probabilmente il livello di preoccupazione si ridurrà ed il soggetto passerà da un comportamento di preoccupazione ad un comportamento d'interesse libero permettendo alle aspirazioni un cambio di livello e di natura. In questo caso la preoccupazione del soggetto non sarà centrata sui bisogni fondamentali, ma su quelli più alti che favoriscono la costruzione graduale di un progetto di vita. Tale tensione permetterà anche la scoperta di nuovi valori e di aprirsi agli interrogativi sul significato della vita. In situazioni di relativo benessere i bisogni insoddisfatti riguardano in genere quelli più alti nella scala (quelli esistenziali, di significato). In tal caso c’è da provocare non tanto una reazione ad un equilibrio perduto ma una tensione positiva di ordine pro-attiva, nella quale il soggetto non è spinto a ricuperare uno stato di tranquillità (omeostasi) ma si sente in una situazione di inquietudine ottimale, a volte desiderata, che persiste finché l'obiettivo perseguito non è raggiunto. In termini educativi si tratta, da una parte, di sostenere i soggetti svantaggiati nella soddisfazione dei bisogni fondamentali e, dall’altra, provocare la domanda dei bisogni “più alti” come quelli di ordine esistenziale, di realizzazione dell’essere persona, di senso. 73 Questa è, tra l’altro, la tesi fondamentale del “costruttivismo esogeno” (Pellerey, in Prellezo - Nanni - Malizia, 1997, 248) 77 SOMMARIO DEL CAPITOLO QUADRO CONCETTUALE 1 1. 1 VERSO UNA PRECISAZIONE DEL CONCETTO DI BISOGNO 1.1. La difficoltà di definire il bisogno 1 1.2. I bisogni umani fondamentali 2 1.3. I bisogni formativi 6 1.4. I bisogni giovanili attuali 10 2. 15 IL DISAGIO E IL RISCHIO IN RAPPORTO AI BISOGNI 2.1. Disagio e bisogni 16 2.2. Rischio, disagio e bisogni 18 2.3. Bisogni frustrati nelle situazioni di disagio e di rischio 22 2.4. Fattori macrosociali del disagio e del rischio 25 2.5. La crisi dei modelli di socializzazione e delle agenzie educative 34 3. BISOGNO DI INTEGRAZIONE E DI SENSO 54 3.1. Effetti “disintegratori” della socializzazione attuale 55 3.2. Bisogno di integrazione e di senso 58 3.3. La volontà di significato di Frankl 60 3.4. Il modello motivazionale di Frankl e possibilità di applicazione nell’analisi sociale 63 3.5. Modello frankliano e soluzione dei compiti di sviluppo 65 4. VERSO UN NUOVO MODELLO DI SPIEGAZIONE DEL BISOGNO E DEL DISAGIO 66 4.1. Il modello di Maslow: conferme e limiti 66 4.2. La proposta del modello motivazionale di Frankl 69 4.3. Bisogno di un “cultura del significato” 69 4.4. Conclusione: verso un modello di realizzazione per l’adolescente. 75 78