KANT: 1. rapporto 1) fenomeno-noumeno e 2) categorie-idee 1) Noumeno, dal greco νούμενον (nooúmenon, ciò che viene pensato) è l'"essenza pensabile, ma inconoscibile nella sua natura intellegibile", la "cosa in sé" prima ancora che si manifesti come fenomeno. Poiché noi possiamo conoscere solo la realtà fenomenica, ciò che appare, Kant è convinto che oltre l'apparenza, il fenomeno che muta poiché lo percepiamo attraverso la sensibilità che muta da momento a momento, vi debba essere una base immutabile della realtà fenomenica, la "cosa in sé" ma questa, proprio perché non fenomenica, non potremo mai conoscerla ma solo pensare che ci sia. Il noumeno si identifica nella realtà inconoscibile e non raggiungibile attraverso la conoscenza diretta, ma solo grazie all'intuizione della sua semplice esistenza. Il tentativo di una piena conoscenza del noumeno viene operato dalla metafisica tradizionale che tende a porsi come vera scienza: tentativo destinato a fallire proprio per il carattere non fenomenico del noumeno. 2) Kant parla nella Logica trascendentale e nella sua articolazione chiamata Analitica trascendentaleparla degli elementi formali della conoscenza, applicabili solo agli oggetti dell'esperienza, delle categorie o concetti puri. La funzione dell'Intelletto è quella di giudica ovvero unificare le rappresentazioni empiriche tramite elementi formali, universali e necessari: le categorie o concetti puri. Quindi le categorie o concetti puri precedono l'esperienza e servono ad unificarla, quindi il loro uso è strettamente legato al piano fenomenico. Per applicare le categorie agli oggetti dell'esperienza occorre il passaggio della deduzione trascendentale. Se infatti nella sensibilità il molteplice dell'esperienza viene ordinato secondo le intuizioni di spazio e di tempo, nell'intelletto il molteplice dato dalla sensibilità deve sottomettersi "alle condizioni dell'unità sintetica originaria dell'appercezione": l'Io penso. Il pensiero di un oggetto mediante i concetti dell'intelletto può diventare conoscenza solo se relazionato agli oggetti dei sensi. Questo significa che pensare e conoscere non sono la stessa cosa: un oggetto può essere pensato tramite le categorie, ma tale oggetto pensato può essere conosciuto solo mediante le intuizioni sensibili di spazio e tempo. L'analitica dei princìpi insegna ad applicare i concetti ai fenomeni, e questo implica che sia trovata una mediazione tra sensibilità e intelletto, tra intuizione e concetto. Occorre cioè un terzo termine, omogeneo con il concetto, che è intellettuale, e con il fenomeno, che è sensibile: si tratta dello schema trascendentale, un prodotto dell'immaginazione. L'immaginazione configura nel tempo (che è a priori come le categorie dell'intelletto e intuibile come le forme pure della sensibilità), secondo le varie categorie, il materiale fornito dalla sensibilità. Le idee. Critica della ragion pura: le Idee Nella Dialettica trascendentale Kant si propone di spiegare le illusioni della ragione quando essa tende a superere i fenomeni per mezzo di concetti puri validi solo nell'ambito dell'esperienza. La ragione tende ad unificare i dati interni attraverso l'idea di anima, i dati esterni attraverso l'idea di mondo e a fondare tutto l'esistente nell'idea di Dio. L'errore nasce se la ragione pretende di entificare, di trasformare cioè in enti reali, queste idee di cui non abbiamo alcuna esperienza, pretendendo di farne conoscenza, pretesa della metafisica tradizionale, che è illusoria poiché pretende di andare oltre i limiti dell'esperienza sensibile. Risulta perciò negativa la risposta alla domanda iniziale della C. della ragion pura se sia possibile una metafisica come scienza. La ragione si avvale di tre idee: ANIMA (totalità delle esperienze interne) con la PSICOLOGIA RAZIONALE; MONDO (totalità delle esperienze esterne) con la COSMOLOGIA RAZIONALE e DIO (totalità delle esperienze) con la TEOLOGIA RAZIONALE. Kant dice che per nessuna delle 3 pretese scienze possiamo avere una conoscenza certa. Infatti: La ragione è portata a definire l’anima come sostanza (ciò che esiste di per sé), ma la sostanza è una categoria logica (a priori) che noi applichiamo all’esperienza, quindi l’esistenza dell’anima non è dimostrabile. L’uomo, cercando di comprendere il mondo, è arrivato a 4 antinomie (affermazioni opposte) es. Ha avuto un inizio e avrà una fine - Non ha inizio né fine. In campo teologico sono state formulate 3 prove a favore dell’esistenza di Dio: PROVA ONTOLOGICA (a priori) considera l’esistenza una qualità che si può ricavare direttamente dalla definizione di Dio. PROVA EX CONTINGENTIA (a posteriori) Sostiene che, esistendo il mondo, per forza qualcuno deve averlo creato. PROVA TEOLOGICA O FINALISTICA (a posteriori) Dice che tutto accade in vista di un fine, e questo fine è Dio. Nonostante la metafisica non sia certa, essa è un’esigenza dell’uomo, e le idee non hanno una funzione conoscitiva ma regolativa . Critica della ragion pratica: le Idee I Postulati Ogni morale non può essere limitata nel conseguimento del bene. Non posso propormi di conseguire il bene fino ad un certo punto e non oltre. Il fine dell'azione morale quindi deve essere il " sommo bene" . Ma cosa s'intende per sommo bene? Per alcuni semplicemente il sommo bene, inteso come il "il bene più alto", consiste nell'obbedire agli imperativi categorici. Prendendo come guida gli imperativi categorici ognuno quindi può raggiungere il sommo bene. Ma altri il sommo bene lo intendono come "il bene più completo" da raggiungere tramite una condizione primaria: "la virtù". Ciò porta ad una conseguenza necessaria: "la felicità". Per realizzare il bene più completo, quello cioè che procuri quella felicità, irraggiungibile su questa terra, occorrerà allora credere che la propria esistenza possa proseguire all'infinito e che si raggiunga l'immortalità affinché si arrivi al massimo della virtù, alla santità e che ci sia un Essere divino in grado di assicurare una giusta proporzione tra la virtù raggiunta e la felicità da attribuire. Bisognerà cioè " postulare" per l'azione morale diretta al bene più completo che ci sia: un'anima immortale, che esista Dio e che si possa andare oltre il limite naturale, che l'azione di chi vuole raggiungere la santità sia infinita postulando cioè un'agire senza alcun condizionamento finito, come dire l'assoluta libertà, per chi opera in vista di quel fine. Ecco quindi comparire come " postulati della ragion pratica " quelle che erano le tre idee della Ragione che non trovavano spiegazione nella dialettica trascendentale e che dimostravano l'illusorietà e l'inganno della metafisica quando pretendeva di presentarsi come scienza. Ora quelle stesse idee fallaci sul piano teorico (della conoscenza) acquistano invece valore sul piano pratico, morale, divengono corollari della legge morale. Alla base dei corollari della ragion pratica non vi è un la conoscenza, ma la volontà: "voglio che esista Dio, voglio che la mia esistenza in questo mondo sia anche un'esistenza nel mondo intelligibile, voglio che la mia durata sia senza fine. "Se i postulati non potranno mai assumere il valore di un vero e proprio sapere nello stesso tempo però nessun progresso scientifico potrà mai metterli in dubbio, anzi è proprio la loro insostenibilità razionale che darà valore all'azione morale. Se l'immortalità dell'anima, l'esistenza di Dio fossero verità certe, come tali renderebbero impossibile ogni autentica azione morale libera e autonoma. Se gli uomini praticassero il bene per paura di un castigo o per speranza di un bene e non per un dovere razionale connesso alla nostra stessa natura, la morale diverrebbe "eteronoma" , perdendo ogni significato. 1. relazioni tra le tre critiche I tre postulati della ragion pratica pongono questo problema: la Critica della ragion pura ci mostra un uomo condizionato dalla cosa in sé, che è uno dei tanti anelli della concatenazione degli eventi causali, che non è libero e non si può porre il problema di Dio e dell’anima; la Critica della ragion pratica ci mostra l’uomo, invece, libero di agire moralmente, che trova in se stesso la forza dell’azione morale, che trova una via pratica per arrivare a Dio e all’immortalità dell’anima. Tra le due Critiche c’è una distanza, una contraddizione. È una contraddizione che Kant tenta di sanare con la C. Del Giudizio. Kant aveva edificato due grandi costruzioni teoriche, l’una riguardante la conoscenza, l’altra riguardante l’attività pratica e la morale, in contrasto tra di loro. Alla fine della Critica della ragion pratica emerge con chiarezza una forte opposizione con le conclusioni della Critica della ragion pura. Il tentativo di Kant nella Critica del giudizio è proprio quello di sanare queste contraddizioni. Tale tentativo comporta lo sforzo di creare una nuova terminologia nella Critica del giudizio. Nella Critica della ragion pura si presenta un mondo chiuso a ogni spazio di libertà: la visione del mondo della Critica della ragion pura è meccanicistica. Il meccanicismo, già sostenuto per esempio da Democrito e da Hobbes, è una visione del mondo secondo la quale la natura procede per una concatenazione di cause ed effetti che non è indirizzata a nessuno scopo. Di solito il sostantivo ‘meccanicismo’ si accoppia con l’aggettivo ‘cieco’. Il meccanicismo è cieco: la natura non ha un fine, non ha alcuno scopo, essa è solo un gioco di cause ed effetti senza finalità. Nella Critica della ragion pura la natura era vista in questa chiave; delle dodici categorie kantiane quella decisiva per l’interpretazione fisica della natura è la causalità. I fenomeni sono tutti concatenati da relazioni causali che non hanno alcuno scopo. Nella Critica della ragion pura si ritrovano dunque il dominio della causalità, il meccanicismo, il determinismo: il cieco gioco di cause ed effetti è necessario, non lascia nessuno spazio alla libertà. La visione kantiana della prima Critica è deterministica: non c’è nessuna libertà. Nella prima Critica, inoltre, Kant sosteneva che l’uomo ha un forte limite: può conoscere soltanto il fenomeno, può conoscere solo il mondo come gli appare in quanto filtrato dalle sue stesse strutture conoscitive: spazio, tempo e categorie, ma non può assolutamente raggiungere la realtà quale è in se stessa (il noumeno). La cosa in sé è inconoscibile. Il noumeno è assolutamente al di là delle nostre possibilità di conoscenza. Il mondo è spaccato a metà: il fenomeno, soggetto alla necessità e al determinismo, e il noumeno, che è un continente oscuro e inattingibile. L’uomo è prigioniero della conoscenza fenomenica. Nella Critica della ragion pratica, invece, si approda a una visione opposta rispetto a questa, in quanto al meccanicismo della Critica della ragion pura si contrappone il finalismo della ragion pratica (in tutta la storia della filosofia il contrario di “meccanicismo” è “finalismo”). La Critica della ragion pratica presenta uno spiccato finalismo: tutta la vita morale è tesa alla realizzazione del fine del bene. Nella vita morale l’uomo si pone un fine: la virtù, il bene. Anzi, Kant aveva anche parlato di un “regno dei fini”, cioè un regno ideale di tutti gli uomini che si rispettano vicendevolmente, e, seguendo la seconda formula dell’imperativo, si trattano sempre come fini e mai come mezzi. Il regno dei fini è il regno della morale: se la morale si realizzasse pienamente sarebbe il regno della finalità: ognuno sarebbe considerato dagli altri come un fine in sé. Il finalismo della Critica della ragion pratica è opposto al meccanicismo della Critica della ragion pura. Soprattutto, nella Critica della ragion pratica si presenta la libertà come uno dei tre postulati, cioè uno dei tre requisiti fondamentali senza i quali la vita morale non può aver luogo. Siamo dunque di fronte a questa contraddizione: da una parte Kant concepisce la natura come priva di ogni finalità e come priva di libertà; dall’altra considera l’uomo come capace di porsi fini, e come operante in una dimensione di libertà. Dalla Critica della ragion pratica emerge la visione di un’umanità che vive in una dimensione che non ha niente a che vedere con quella naturale: sembrerebbe che ci sia un’estraneità tra la natura e l’uomo, la natura meccanicista e l’uomo dotato di finalismo. Kant si rende perfettamente conto di questa contraddizione e cerca di sanarla nella Critica del giudizio. 2. Nesso tra la ragion pratica e la critica del giudizio. La Critica del giudizio è un tentativo di rintracciare la finalità nella natura. Se si rintraccia tale finalità l’opposizione si supera: la natura è cieca, l’uomo si dà finalità, sono opposti, ma se ritroviamo la finalità anche nella natura la conciliazione sarà avvenuta. Questo è appunto il tentativo che Kant compie nella Critica del giudizio. Un altro elemento per capire dove si colloca la Critica del giudizio è questo: abbiamo detto nella Critica della ragion pura si conosce solo il fenomeno, il noumeno è inconoscibile di per sé, quindi l’assoluto, l’infinito, Dio, la cosa in sé, sono inconoscibili. Nella Critica della ragion pratica Dio e l’immortalità dell’anima non vengono dimostrati, in quanto non sono oggetto di un discorso conoscitivo, ma sono postulati attraverso i quali l’uomo entra in contatto con il noumeno. Si palesa quindi un altro antagonismo: nella sfera conoscitiva l’uomo è confinato al fenomeno, nella sfera morale, invece, l’uomo attinge il noumeno. Come si può conciliare tutto questo? È possibile una considerazione della natura che ci faccia andare oltre la conoscenza fenomenica? Kant affronta qui un problema enorme della storia della filosofia: esiste un’unica realtà di cui l’uomo è parte, allo stesso titolo di tutti gli altri enti, oppure l’uomo è qualche cosa di qualitativamente diverso dal resto della realtà? Su questo la filosofia, le religioni, sono state in continua polemica, perché, per esempio, la religione cristiana implica che oltre al mondo materiale c’è un mondo spirituale, che ha altre leggi, ha un’altra qualità; il platonismo implica il mondo sensibile e il mondo delle idee; Cartesio divide la realtà tra la res extensa, il mondo materiale, e la res cogitans, con tutti i problemi che derivano poi dal rapporto tra questi due mondi, ecc. Kant quindi, con un linguaggio nuovo, esprime un problema molto antico. Per risolvere questo problema egli compie un grande sforzo teorico che comporta anche un’innovazione linguistica, che è una delle difficoltà di questo testo. La prima innovazione è proprio nel titolo: Critica del giudizio. Bisogna tenere presente che in tedesco il termine tradotto in italiano come “giudizio” è Urteilskraft, una parola composta da Kraft = forza, facoltà, capacità, e Urteil = giudizio. Il titolo andrebbe quindi più esattamente tradotto come Critica della capacità di giudicare. Evidentemente Kant si riferisce a un’altra capacità, a un’altra facoltà dell’uomo, oltre la ragione e la volontà. Infatti sostiene proprio questo: l’uomo non è solo diviso tra teoria e pratica, tra conoscenza e agire morale: nell’uomo c’è anche un’altra sfera che deve essere identificata, regolata, criticata, cioè capita nei suoi limiti, questa sfera è qulla del sentimento, del gusto. Tale sfera egli la vede come una facoltà da definire con un termine nuovo: la facoltà di giudicare. La facoltà di giudicare, una facoltà intermedia che comprende il sentimento e il gusto, emette tipi di giudizi che si chiamano giudizi riflettenti e sono tutta un’altra cosa rispetto ai giudizi conoscitivi trattati nella prima Critica. 3. Il significato della libertà La scelta è assolutamente libera ed è espressione, come dice Kant, di una volontà pura nel senso che non vi rientra in nessun modo la materialità (che svolgerà il suo ruolo necessitante quando la morale è già apparsa, quando metterò in azione la mia volontà). Ma se la morale è dovere, quindi obbligatorietà come potrà questa conciliarsi con l'assoluta libertà formale della scelta? La risposta è nel concetto di autonomia. La morale dell'essere razionale è cioè tale che egli deve obbedire ad un comando (obbligatorietà) che egli stesso si è liberamente dato (libertà), conformemente alla sua stessa natura razionale. L'uomo che decide in obbedienza al dovere morale di compiere una determinata azione sa che per quanto la sua decisione possa essere spiegata naturalisticamente, magari con motivazioni psicologiche, la vera sostanza della sua morale non risiede in questa concatenazione causale ma in una libertà che coincide con l'essenza razionale del suo essere. L'uomo fa il bene in quanto esercita la sua libertà attraverso il dovere che rappresenta una volontà universale e autonoma. L'uomo quindi è un essere che appartiene a due mondi: in quanto dotato di sensi appartiene a quello naturale, e per questo è sottoposto alle leggi causali; in quanto creatura razionale, però, l'uomo appartiene anche a quello che Kant chiama il mondo "intellegibile" o noumeno, cioè il mondo com'è in sé indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami conoscitivi, e perciò in esso egli è assolutamente libero (autonomo), di una libertà che si manifesta nell'obbedienza alla legge morale, all'"imperativo categorico". 4. La critica del giudizio La C. Del G. Si pone l'obiettivo di risolvere il dualismo tra fenomeno e noumeno, determinismo e libertà. L'uomo infatti nella Ciritica della ragion pratica è soggetto di moralità, partecipa al mondo intellegibile della libertà, invece nella C.r.p. in quanto soggetto di conoscenza è chiuso nel determinsimo del mondo fenomenico. Il soggetto comunque è uno: l'uomo. Quindi il dualismo non può essere assoluto. Compito della critica del giudizio è trovare una connessione tra i due mondi. Tra il mondo dei fenomeni, di cui si dà scienza, e il regno dei fini, sottratto al determinismo e del tutto libero, c'è eterogeneità, eppure il mondo noumenico (cioè "pensato quale deve essere secondo i dettami della legge morale") deve avere qualche riflesso su quello sensibile perché la libertà possa attuarvisi. L'attività del giudizio, argomento della Critica del giudizio, deve proprio scorgere questo riflesso del regno dei fini sul mondo fenomenico e lo può fare in due modi: quale giudizio determinante o quale giudizio riflettente. Il caso del giudizio determinante è quello del giudizio gnoseologico e morale, in cui è già data una norma universale che permette all'intelletto e alla volontà di determinare il particolare, ossia il dato della scienza o l'azione della morale, sussumendolo sotto le categorie dell'intelletto o sotto la legge morale (per esempio: la combustione del legno è dovuta al fuoco; questa azione è giusta). L'esigenza del giudizio riflettente consiste nel fatto che, dato il molteplice empirico, è necessario trovare il suo principio unitario, la finalità della natura, formulato dalla facoltà di giudizio riflettendo su se medesima e sulla propria esigenza di unità. Il giudizio riflettente può essere di tipo estetico, riguardante cioè la bellezza, e di tipo teleologico, o finalistico, riguardante cioè gli scopi della natura: entrambi si fondano sulla finalità, vale a dire su un rapporto di armonia e di accordo reciproco fra parti, e non hanno valore conoscitivo. 5. Il rapporto tra bello e sublime Kant nella Critica del giudizio analizza il bello dandone quattro definizioni, che delineano altrettante caratteristiche: il disinteresse: secondo la qualità un oggetto è bello solo se è tale disinteressatamente quindi non per il suo possesso o per interessi di ordine morale, utilitaristico ma solo per la sua rappresentazione; l'universalità: secondo la quantità il bello è ciò che piace universalmente, condiviso da tutti, senza che sia sottomesso a qualche concetto o ragionamento, ma vissuto spontaneamente come bello; la finalità senza scopo: secondo la relazione un oggetto è bello non perché fosse il suo scopo esserlo, ma poichè ne cogliamo la sua compiutezza anche se in realtà non vi è alcun fine; la necessità: secondo la modalità è bello qualcosa su cui tutti devono essere d'accordo necessariamente ma non perché può essere spiegato intellettualmente; anzi, Kant pensa che il bello sia qualcosa che si percepisce intuitivamente: non ci sono quindi "principi razionali" del gusto, tanto che l'educazione alla bellezza non può essere espressa in un manuale, ma solo attraverso la contemplazione stessa di ciò che è bello. Ovviamente Kant cerca di far luce su quella che è l'universalità del bello facendo la distinzione tra il piacevole legato ai sensi e quindi dato da giudizi estetici empirici privi di universalità e il piacere estetico puro che invece non subisce condizionamenti di alcun tipo (quindi universale); tra bellezza aderente riferita ad un determinato modello come un edificio o un abito e bellezza libera appresa senza alcun concetto come la musica senza testo (ovviamente solo quest'ultima è universale). Il sublime è comprensione emotiva irrazionale del terribile, dell'infinito, che tende a colmare l'animo di orrore, mentre il bello esprime il sentimento armonioso del bello, dell'amore disinteressato dell'oggetto. Abbiamo il sublime matematico (infinitamente grande e incommensurabile) ed il sublime dinamico (infinitamente potente), provocato dallo spettacolo delle catastrofi che riportano l'uomo al senso di fragilità e finitezza. Il sublime non nasce dal piacere disinteressato o dall'armonia, ma da un senso di nullità e smarrimento, da una sproporzione al di là di ogni comparazione. Dei giudizi. Il giudizio sintetico a priori, illustrato nella Critica della ragion pura, è dunque determinante in quanto delimita, determina: determina la categoria e insieme i fenomeni cui essa si applica. Il giudizio determinante è un giudizio conoscitivo. Il giudizio riflettente, proprio della Urteilskraft, cioè della facoltà di giudicare, invece non è un giudizio conoscitivo. La conoscenza è stata già analizzata in maniera esaustiva nella prima Critica; bisogna tenere presente che col giudizio riflettente ci muoviamo in un’altra sfera. Il giudizio riflettente è un giudizio di tipo particolare e si chiama “riflettente” perché, mentre nel giudizio determinante la categoria da applicare è già nota, nel giudizio riflettente bisogna riflettere sull’oggetto per trovare la categoria, quindi la categoria non è già data, ma deve essere rintracciata attraverso una riflessione. La categoria, che consiste qui in una specifica finalità dell’oggetto, deve essere rintracciata attraverso la riflessione. Ma c’è anche un altro motivo, per cui il giudizio è detto riflettente: in un oggetto della natura, o in un’opera creata dall’uomo, esso ci permette di cogliere riflessa la finalità che ci portiamo dentro di noi. Abbiamo scoperto nella Critica della ragion pratica che siamo esseri che si danno fini, si danno il fine morale del bene; ora, nel giudizio riflettente vediamo riflesso questo nostro finalismo all’interno di certi tipi di oggetti della realtà. Questi tipi di oggetti sono gli oggetti belli da una parte, e gli organismi viventi dall’altra. Il giudizio riflettente mi porterà a vedere riflessa la mia esigenza di finalismo negli oggetti belli e negli organismi viventi, esso si dividerà in due sottotipi: il giudizio estetico e il giudizio teleologico. Il giudizio estetico permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioé verso l’osservatore, il soggetto. Per questo Kant dice che i giudizi estetici sono giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto; i giudizi teleologici, invece, sono giudizi che si riferiscono alla considerazione degli organismi viventi. Questi ultimi sembrano essere fatti in modo che le parti siano finalizzate al tutto: un organo di un organismo vivente, sia esso una pianta, un animale o un essere umano, non ha senso se non in vista del fine della vita dell’organismo nella sua interezza: il braccio, la mano, il fegato, le radici, le foglie, non hanno senso di per se stessi, ma solo in quanto servono al fine di mantenere in vita un determinato organismo vivente. In questo caso il finalismo è rivolto all’oggetto, all’organismo, per cui Kant dice che i giudizi teleologici, cioè i giudizi finalistici, sono giudizi riflettenti di finalità oggettiva, cioè interna all’oggetto stesso. 6. Il male radicale (La religione entro i limiti della sola ragione, cap. I, Parte III) Kant rifiuta di considerare il male una caratteristica “naturale” dell’uomo: essa, infatti, non può essere dedotta dal concetto di uomo; mentre è naturale la libertà di cui l’uomo gode: dunque la responsabilità del male operato dagli uomini può essere attribuita agli uomini soltanto. Bene è dunque quell’agire umano che ha come principio la libera volontà-decisione umana di obbedirerealizzare la legge morale, definita dall’imperativo categorico (ovvero del volere liberamente il dovere per il dovere). Bene è l’uomo che si determina in quanto persona, essere razionale obbediente alla legge morale. Accanto ad una triplice disposizione al bene c’è nell’uomo una Triplice tendenza al male: fragilità (si vuole il bene ma non lo si realizza) impurità (si fa il bene, ma non per dovere, bensì per altri scopi) malvagità (si sceglie il male, cioè si disobbedisce consapevolmente alla legge morale ) Esiste il male morale; gli esempi sono di fronte a noi. Tutti gli uomini commettono il male. Se però fossero malvagi per natura, cioè per una causa attribuibile alla loro natura e non alla loro libertà, non si potrebbe parlare di male morale. Se fossero malvagi per un principio interno di malvagità, ciò sarebbe in contraddizione con l’esistenza della legge morale e della libertà della ragione pratica, costitutiva dell’essere umano razionale. o Il male deriva dalla libera scelta dell’uomo, che pone una massima che non obbediscenon rispetta la legge morale; deriva da un principio umano, da un atto razionale, libero e per questo solo a lui imputabile. o Il fondamento del male radicale non sta nella natura, nella sensibilità dell’uomo; nemmeno può essere dovuto alla corruzione radicale della sua razionalità (impossibile: l’uomo sarebbe un essere diabolico). Esso consiste nella subordinazione della legge morale ad altri moventi, primo tra tutti l’amore di sé. HEGEL: 1. 2. 3. 4. dialettica hegeliana assoluto in fichte, schelling ed hegel. dialettica padrone-schiavo stato etico Egli aderisce al progetto monistico (ricondurre insieme pensiero e pensato, soggetto e oggetto, Spirito e Natura ad un unico principio) e idealistico di Fichte, ma non condivide che venga esaltata solo la polarità soggettiva, considerando la polarità oggettiva come un ostacolo, una sorta di impiccio al progetto fichtiano. Il pensato infatti (cioè l’oggetto, il non-io, ecc.), non può essere un puro processo del pensare (del soggetto, dell’io, della coscienza, ecc.), perché tutti e due (pensiero e pensato), dice Schelling, sono dati nello stesso istante. Schelling ritiene pertanto che il momento del pensare, siccome viene dato insieme al pensato, non può avere su di esso alcun tipo di priorità. 3. Non ha quindi senso, per Schelling, parlare di un’originarietà del soggetto (come avviene in Fichte) nei confronti dell’oggetto dato che, come si è già detto, è vero che il soggetto si manifesta solo nel momento di cogliere l’oggetto. 4. Schelling ritiene che nel pensiero Occidentale si è a lungo confuso l’approccio all’Assoluto, privilegiando a seconda dei momenti o l’aspetto della Natura (l’oggetto, il non-io, ecc.) o lo Spirito (il soggetto, l’io, la coscienza, ecc.), senza comprendere invece il loro legame intrinseco e la loro comune origine. 5. Alla luce di tutto questo, l’Idealismo in Schelling si configura come un Assoluto che è costituito dall’unità indifferenziata di Spirito e Natura, Soggetto e Oggetto, Libertà e Necessità. Hegel e i filosofi precedenti Critica agli Illuministi Hegel accusa gli illuministi di rimanere su di un livello di pensiero astratto, perché continuano a dividere, prediligendo il momento analitico a quello sintetico, senza cogliere il nesso razionale e necessario che lega i singoli aspetti della realtà. Facendo dell’intelletto il giudice della storia, gli illuministi si perdono nell’opposizione essere-dover essere (hanno infatti la pretesa di dire come dovrebbe andare il mondo), e non comprendono l’intrinseca e necessaria razionalità del reale. Per questi motivi la loro ragione è sempre finita e parziale senza cogliere il senso della realtà. Critica ai Romantici: 1. Sebbene Hegel abbia in comune con i Romantici l’attenzione per l’infinito, la grande differenza è che i Romantici ritengono di poter cogliere l’infinito in modo immediato, attraverso un’intuizione (non quindi in modo razionale), che può essere di tipo artistico o sentimentale (come per i poeti romantici, ma anche la filosofia di Schelling pensa che l’uomo possa cogliere l’infinito solo attraverso l’Arte), oppure tramite la fede (come in Jacobi). 2. Al contrario, Hegel obietta che, per giungere alla comprensione dell’infinito, bisogna studiare le sue diverse manifestazioni nell’ambito del finito. Hegel quindi ritiene che all’infinito non si possa giungere per vie immediate, ma soltanto per vie speculative, mediate e razionali (non l’Arte quindi, e nemmeno la Fede, ma solo la Ragione è in grado ci condurre l’uomo verso l’Infinito). Critica a Fichte 1. Hegel accusa il suo sistema di essere troppo sproporzionato sul piano della soggettività, finendo per ridurre l’oggetto (che Fichte definiva come non-io) a semplice ostacolo esterno dell’Io e rischiando in questo modo di ricadere in un nuovo dualismo tra soggetto-oggetto, libertà-necessità, spirito-natura. 2. L’altra accusa è quella di aver ridotto l’infinito a semplice meta ideale del finito (non essendo quindi in grado di risolvere realmente il finito nell’infinito). In questo modo il progresso verso l’infinito non riesce mai a raggiungere il suo termine. Quello di Fichte è dunque, dice Hegel, “un cattivo infinito” o un “infinito negativo”, esprimendo soltanto l’esigenza astratta e ideale del superamento del finito. Critica a Schelling 1. Hegel critica Schelling perché la sua concezione dell’Assoluto non è dialettica, essendo soltanto un’unità indifferenziata e statica (quindi nemmeno dinamica) da cui non si capisce come si deriva e come viene spiegato il molteplice. Insomma, l’Assoluto di Schelling è un’unità astratta che, essendo priva di vita e di concretezza interiore, risulta incapace di dare ragione della molteplicità delle cose (come dice Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, l’Assoluto di Schelling, “è come la notte in cui tutte le vacche sono nere”). Hegel e la dialettica La Concezione della Dialettica in Platone, Kant ed Hegel. Con Dialettica si intende il procedimento essenziale del pensiero, l’arte del ragionare, il momento discorsivo, quello del dialogare. La dialettica, con Platone, diventa discorso interiore dell’anima, il pensiero acquista la forma del reale, assume una valenza metodologica, in quanto il pensiero ripercorre la struttura del reale (le idee) che è in sé dialettico e induce il pensiero ad assumere la sua stessa struttura. Il pensiero in Platone si modella quindi sulla struttura delle idee, il corretto pensare è dialettico perché la struttura del reale è dialettica. Le idee si rapportano tra di loro secondo l’identità e la disuguaglianza (dicotomia). Con Kant la dialettica diventa inerente al pensiero stesso. Ma il risultato non è felice perché egli presuppone sempre un quid (il noumeno) che trascende il pensiero stesso e che questo non riesce a raggiungere. Permane dunque una sorta di dualismo e di impossibilità tra pensiero e razionalità, tra essere e dover-essere. Alla luce di questa opposizione inconciliabile, la dialettica assume in Kant una valore negativo (cfr. Dialettica Trascendentale). Secondo Hegel, la Dialettica Platonica è inadeguata ad esprimere coerentemente la realtà, non ha risolto la dicotomia tra mondo reale e mondo sensibile; per Hegel, infatti, l’oggetto in Platone resta esterno al pensare. In Kant la dialettica viene invece riportata all’interno del pensiero, che nella sua massima tensione diventa dialettico, come il filosofo ha mostrato nella Critica della Ragion Pura. Kant non risolve la residuale dogmatica e vede nella dialettica il risultato di un’illusione. Hegel dice che la dialettica è nel pensare ed è la legge stessa del pensiero, la legge del processo unitario e dinamico dell’Assoluto. Kant invece non ha ricondotto tutto l’essere al suo essere pensato. Gli idealisti sono i primi a ricondurre soggetto e oggetto della conoscenza ad un’unità, anche se ricostruita in termini non ancora perfetti. Fichte, infatti, dice Hegel, ha posto l’accento troppo sulla polarità soggettiva, per cui il suo pensiero dà luogo ad un cattivo infinito che deve continuamente riconoscersi attraverso il non-io. Schelling invece parla di un’unità indifferenziata, di opposizioni che però sono indifferenti l’uno all’altra, per cui risulta incapace di spiegare il molteplice dell’esperienza. Il procedimento dialettico in Hegel interessa ogni elemento della realtà, che presenta una struttura triadica dinamica. Ogni proposizione in tanto è tale in quanto implica una negazione. Nel suo attivarsi il pensiero genera sempre insiema a e non-a. La consapevolezza che A e non-A sono conseguenza del processo fluidificante dà luogo al momento della Sintesi, il momento in cui la nostra riflessione coglie la natura e la logica necessaria, dinamica e unitaria dell’opposizione e del suo superamento. La sintesi a sua volta costituisce un tesi che a sua volta implica ancora un’opposizione. N.B. Il momento della Sintesi è il momento della realtà, che ha una priorità logica e ontologica; non si tratta quindi di un prima e di un poi cronologico, il momento della verità è sempre il momento della Sintesi. Il momento della Sintesi ha la priorità logica. E’ il momento dello Spirito, in cui si giunge all’autocoscienza di tutti i momenti precedenti. Il momento della tesi è solo un cominciamento, mentre il vero inizio è sempre e soltanto la sintesi, che è il momento della verità e dell’identità tra reale e razionale. Per questo, dato che ogni finito e ogni tesi può essere spiegata solo all’interno della sintesi, ciò spiega come il finito si risolva sempre nell’infinito. Comprendere un fenomeno significa mettere in luce le relazioni con il contesto. Il finito in sé è inessenziale, mentre essenziale è comprendere le leggi che generano i finiti. Tre momenti della dialettica 1.Momento Astratto e Intellettuale. È il momento in cui si concepisce l’esistente sotto forma di una molteplicità di determinazioni statiche e separate, in esso il pensiero si ferma alle determinazioni rigide della realtà, considerandole unicamente in base al principio di identità (per cui ogni cosa è identica a se stessa) e di non-contraddizione (per cui non è possibile che un oggetto goda e nello stesso tempo non goda di una certa proprietà). 2. Momento Negativo-razionale. È il momento propriamente dinamico, in cui si comprende che per cogliere una particolare determinazione è necessario legarla a quella contraria: risulta così indispensabile procedere oltre il principio di identità e mettere in rapporto le varie determinazioni con le determinazioni opposte. 3. Momento Speculativo o positivo-razionale. È il momento in cui si scopre che queste determinazioni sono aspetti unilaterali di una realtà più alta che li ricompone entrambi e li sintetizza. Hegel esprime questo aspetto della Sintesi con il termine tedesco di Aufhebung, che esprime allo stesso tempo l’idea di togliere (cioè eliminare l’opposizione tra tesi e antitesi) e di conservare (cioè mantenere la verità di tesi e antitesi e della loro lotta). 5. Dialettica padrone-schiavo Le tappe o figure fondamentali dello sviluppo sono: a) coscienza; b) autocoscienza;c) ragione. Nella prima figura (a) la coscienza si manifesta come certezza della propria diversità dal mondo. In (b) l'autocoscienza è la coscienza di sé nel mondo, per cui l'oggetto diventa esso stesso una coscienza, un soggetto che aspora alla propria libertà individuale che trova un limite nelle altre autocoscienze. È fondamentale il rapporto con le altre autocoscienze, cioè il reciproco riconoscimento, che passa attraverso il desiderio di possesso e di uso quindi per il conflitto. Le autocoscienze si scontrano per dominarsi, ma il supremo dominio l'autocoscienza lo esercita sul desiderio di conservarsi, sfidando la morte e conquistando così la libertà. La figura è signore-servo, laddove signore è colui il quale non ha avuto paure della morte e servo chi l'ha avuta. Il servo però con il lavoro trasforma la natura umanizzandola rendendola sua shiava, mentre il signore consuma e dipende dal suo schiavo diventando meno libero. Espressione massima della libertà come coerenza e dignità è lo stoicismo che cerca di estraniarsi dalla realtà, tuttavia non resiste alla incoerenza e alla varietà del mondo risolvendosi in scetticismo, dubbio sistematico sulla verità e abbandono al molteplice Lo scetticismo produce però nostalgia dell'eterno e di ciò che non cambia, ovvero la fede di una coscienza religiosa, ma infelice, perchè aspira ad un Dio trascendente, lontano e inarrivabile. La nostra coscienza mossa dal desiderio di assoluto risulta così divisa e si realizza solo nello spirito assoluto ovvero nella cosienza di un popolo che si comprende nei suoi valori tramite le forme dell'arte, della religione e della filosofia. Fichte, Schelling e Hegel. Definizioni. ARTE In Schelling è "il solo organo vero ed eterno e al tempo stesso il solo documento della filosofia che costituisca una testimonianza permanente di ciò che la filosofia non può esprimere se non in modo esteriore"; l’arte la forma più elevata di conoscenza perché in essa attività inconscia e attività consapevole coincidono; questa coincidenza viene colta intuitivamente dal genio "dall’intelligenza creativa" che produce l’opera d’arte. ASSOLUTO Ciò che esiste di per sé; è quindi incondizionato e infinito. Nell’idealismo l’Assoluto è l’oggetto della filosofia, perché ad essa spetta il compito di trovare il principio che fonda la verità di ogni scienza: solo l’Assoluto può garantire la sistematicità del sapere. Per Fichte questo principio è la coscienza, lo assoluto, che l’uomo percepisce immediatamente attraverso l’intuizione intellettuale cogliendone la struttura dialettica. L’Io assoluto si rivela perciò come processo, come azione; è la ragion pratica pertanto a fondare la ragion teoretica. Essendo principio primo è anche incondizionato, l’essenza dell’assoluto è la libertà. Per Schelling è il principio infinito da cui deriva la realtà che non può essere ridotto né al soggetto, al pensiero, né all’oggetto, la natura: deve necessariamente essere pensato come unità e identità di entrambi i termini perché è l’unico fondamento possibile della realtà e del sapere; la filosofia, avendo per oggetto l’Assoluto, è insieme "filosofia della natura" e "filosofia trascendentale". DIALETTICA Il significato classico di "ricerca della verità" (Platone) o di "ragionamento opinabile" (Aristotele) che hanno come riferimento il significato etimologico di "discussione" è stato modificato da Kant che nella dialettica trascendentale confuta i ragionamenti coi quali la ragione pretende di conoscere l’incondizionato: in questa confutazione, in particolare nella cosmologia razionale, Kant mette in evidenza la contraddizione che la ragione incontra (antinomie). Questa contraddizione viene poi sviluppata dall’idealismo: l’intuizione dell’Assoluto che è identità e opposizione a un tempo, non può essere espressa dalla ragione analitica; solo la ragione dialettica, la ragione "sintetica", permette di cogliere l’identità nell’opposizione: il metodo dialettico quindi è lo spartiacque fra le filosofie dogmatiche e le filosofie autenticamente trascendentali, le filosofie della libertà. LIBERTÀ E’ l’essenza dell’Assoluto e pertanto è il principio di ogni filosofia autenticamente trascendentale. Se l’Assoluto è libertà il suo farsi, e quindi l’uomo, la società, lo stato sono caratterizzati da una sempre maggiore libertà; la storia universale è la registrazione del processo verso la libertà, che è la perfezione a cui l’uomo tende. Per questo Fichte può scrivere "il mio sistema è il primo sistema della libertà: come quella nazione [la Francia] liberà l’uomo dalle catene esterne, così il mio sistema lo libera dai ceppi della cosa in sé, dell’influenza esterna, e lo istituisce come fondamento primo nel suo essere indipendente" (Lettera a Baggesen, 1795); e Schelling definisce la libertà come "l’alfa e l’omega di tutta la filosofia" (Lettera a Hegel, 1795). Schelling nelle ultime opere, in quelle della filosofia positiva, vede in questa evoluzione della storia il segno dell’intervento della Provvidenza divina. MORALE. Secondo Fichte la ragione teoretica non può superare la contrapposizione finito-infinito, che viene invece risolta dalla ragion pratica: l’Io infatti è essenzialmente un processo dialettico, un farsi che tende a realizzare la propria natura incondizionata; fine dell’agire dell’Io è la libertà che, di conseguenza, è anche il fine dell’agire morale. L’imperativo categorico è quindi "Io devo agire liberamente per diventare libero". Agire per la libertà significa riconoscere a tutti gli altri io lo stesso diritto e dal momento che nulla può avvenire fuori dell’Io, ogni azione individuale si riflette sugli altri, agire per la libertà richiede quindi la coscienza della responsabilità; l’azione morale comporta l’agire secondo coscienza. Anche secondo Schelling l’Assoluto è attività e l’azione richiede un atto di volontà libero che ha come riferimento necessario gli altri: "il problema di ogni etica è questo: mantenere la libertà dell’individuo mediante la libertà generale" (Lettere filosofiche). NATURA Per Fichte è la negazione dialettica dell’Io, è Non-io. Per Schelling, pensare la natura come negazione, limite dell’Io significa negare all’Assoluto le caratteristiche che lo definiscono. La natura quindi deve essere pensata piuttosto come Io Oggettivato. La filosofia deve pertanto esaminare la natura secondo il concetto di Assoluto, come totalità che diviene, come natura naturans, anziché come oggetto divenuto natura naturata; quest’ultimo è compito delle scienze empiriche, poiché la filosofia ha come oggetto l’Assoluto e come fine la verità dovrà darsi la forma di scienza in senso stretto: la filosofia della natura sarà pertanto fisica speculativa considerazione della natura come aspetto dell’Assoluto e non come dato in sé. arte in kant, schelling e hegel