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L’empirismo
Il termine deriva dal greco empeiria, che significa “esperienza”, con espresso riferimento al
sapere ed alla pratica scientifica (in particolare alla scienza medica). Nella definizione dello
scettico Sesto, detto poi Empirico, emergono i due cardini principali di ogni atteggiamento
empiristico: il criterio che fa dell’esperienza il luogo dell’originaria e genuina evidenza, il
principio metodico che assume come base di ogni sapere i dati sensoriali, sicché si deve
procedere dalla sensazione al concetto e non viceversa.
Locke con il suo lavoro presenta un’analisi dei limiti, delle condizioni e delle possibilità
effettive della conoscenza umana. Tale analisi trae ispirazione dalla tradizione empiristica
della filosofia inglese (Ockham, Bacone ed Hobbes), tradizione in cui Locke innesta alcuni
capisaldi della filosofia cartesiana e soprattutto il principio secondo cui l’unico oggetto del
pensiero umano è l’idea. La tesi più appariscente di tale autore è che le idee derivano
dall’esperienza e che perciò l’esperienza è il limite invalicabile d’ogni conoscenza possibile.
Il termine “idea” ha oggi l’accezione che Cartesio e Locke le hanno dato, ma è noto che il
dibattito su questa parola trova le sue radici in Platone. La scelta cartesiana del termine
“idea”, per indicare un semplice contenuto della mente e del pensiero umano, segna la totale
dimenticanza dell’antica problematica metafisica dell’Idea. L’accordo tra Locke e Cartesio
si ruppe quando questi si schierò a favore delle idee innate, mentre il primo sostenne la tesi
che le idee derivano sempre e solo dall’esperienza, riprendendo l’antica tesi dell’anima
come “tabula rasa”, in cui solo l’esperienza vi scrive i contenuti.
Vita
Locke visse nel periodo della prima rivoluzione inglese e della decapitazione di Carlo I.
Studiò ed insegnò ad Oxford; si occupò di studi naturali, di medicina, d’economia e di
politica. Partecipò attivamente alla vita politica e nonostante la sua prudenza cadde in
sospetto, decidendo per questo di andare in esilio volontario in Olanda. Qui prese parte ai
preparativi della spedizione di Guglielmo d’Orange. Tornato in Inghilterra, al seguito della
moglie di Guglielmo, la sua autorità divenne grandissima, essendo egli considerato come il
rappresentante intellettuale del nuovo regime.
La dottrina lockiana delle idee
ed il suo impianto generale
L’esperienza ci fornisce le idee semplici, chiare, distinte ed indefinibili; esse si impongono
senza che noi abbiamo alcun potere: neppure la mente più potente può inventarne o
distruggerne una, qui è il limite insuperabile dell’intelletto umano.
L’esperienza è di due tipi:
1)
sperimentiamo oggetti sensibili esterni, da cui derivano le idee di sensazione;
2)
sperimentiamo le operazioni interne del nostro spirito ed i moti del nostro animo, da
cui derivano le idee di riflessione.
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Il nostro spirito è passivo nel ricevere le idee semplici; ma, una volta ricevute tali idee, ha il
potere di operare su di esse in vario modo, in particolare può combinarle e così formare le
idee complesse o separarle per formare idee generali.
Locke distingue le “idee complesse” in tre gruppi:
1)
modi: idee che non contengono la supposizione di esistere per sé, ma sono
considerate come dipendenze o affezioni delle sostanze (gratitudine, omicidio,
triangolo);
2)
sostanze: idee, esistenti di per sé, che sono l’insieme di idee semplici solitamente
unite e siamo abituati a supporre sussistano in un sostrato (uomo, piombo, pecora);
3)
relazioni: idee che nascono dal confronto delle idee fra loro e dalla comparazione che
l’intelletto intuisce fra di esse (spazio, giovane, tempo).
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Idee : 1) semplici:
a) di sensazione;
b) di riflessione;
2) complesse :
a) modi;
b) sostanza;
c) relazioni.
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Locke sottolinea con particolare forza il carattere arbitrario di questo sostrato: “L’idea
quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza, non è altro che il segno supposto ma
sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare
sussistano sine re substante...”.
Strettamente congiunto al problema della sostanza è quello dell’essenza. Per la filosofia
antica essa coincideva con la sostanza ed in effetti anche Locke scrive che l’ “essenza reale”
è la struttura o costituzione delle cose, da cui dipendono le qualità sensibili delle medesime.
Tale “essenza reale” ci rimane però, secondo Locke, sconosciuta. Quella che noi
conosciamo è invece l’ “essenza nominale”, che consiste in quell’insieme di qualità che noi
abbiamo stabilito che una cosa deve avere per essere chiamata con un determinato nome:
per esempio, l’avere un certo colore, peso, fusibilità, ecc. dà diritto ad un certo metallo di
essere chiamato ferro.
Di qui deriva una forte dose di nominalismo alla concezione lockiana della scienza,
particolarmente importante per ciò che concerne la fisica. E’ chiaro per conseguenza che
Locke trovi difficoltà a spiegare l’astrazione. Nel contesto delle metafisiche classiche
l’astrazione consiste in quel processo mediante il quale l’intelletto umano ricava concetti
universali dalla conoscenza di oggetti individuali, prescindendo dalle loro caratteristiche
spazio-temporali. La possibilità che l’astrazione giunga a cogliere essenze universali è stata
criticata radicalmente dall’empirismo moderno, Locke considera l’astrazione come un
tralasciare alcune parti di idee complesse dalle altri parti. Per esempio, ho l’idea di un
particolare persona; elimino da quel complesso di idee quelle non proprie dell’individuo e
mantengo quel complesso di idee che invece lo caratterizzano, che indico col nome uomo e
lo uso per rappresentarmi anche altri uomini. L’astrazione dunque, per Locke, è una
parzializzazione di altre idee più complesse.
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La conoscenza
Le idee sono il materiale della conoscenza, ma non ancora la conoscenza vera e propria: la
conoscenza è infatti la percezione della connessione e dell’accordo, o del disaccordo e del
contrasto, fra le nostre idee.
In generale l’accordo fra idee può essere percepito in due modi differenti: per intuizione e
per dimostrazione. Nel primo caso si ha per evidenza immediata, senza bisogno di altre idee
e “questa specie di conoscenza è la più chiara e certa di cui l’umana fragilità sia capace
[…] da questa intuizione dipende tutta la certezza e l’evidenza di tutta la nostra
conoscenza”. Nel secondo caso invece non c’è una percezione immediata, la dimostrazione
procede mediante passaggi intermedi, ossia mediante l’intervento di altre idee ed è appunto
questo procedimento che si chiama ragionare.
Questo metodo di ragionamento pone dei problemi quando è in causa l’esistenza reale, in
cui non è in questione il semplice accordo fra le idee, ma l’accordo fra le idee e la realtà
esterna. Torna così a riemergere il concetto di verità come adequatio intellectus ad rem,
come accordo fra le idee e le cose. Locke, dovendo risolvere tale difficoltà in relazione alla
conoscenza dell’io, di Dio e delle cose, sostiene che abbiamo conoscenza: 1) della nostra
esistenza mediante l’intuizione, 2) dell’esistenza di Dio per dimostrazione e 3)
dell’esistenza delle altre cose per sensazione.
1)
La conoscenza della nostra esistenza è intuitiva e si rifà direttamente al ragionamento
cartesiano (cogito ergo sum);
2)
La dimostrazione dell’esistenza di Dio si rifà invece all’antico principio metafisico ex
nihilo nihil ed al principio di causalità: il nulla non può produrre nulla, se c’è
qualcosa vuol dire che è stata prodotta da qualcos’altro, più intelligente e potente del
creato stesso. Degno di nota il fatto che l’ “empirista” Locke ritenga che l’esistenza
di Dio sia addirittura più certa di ciò che i sensi ci manifestano.
3)
Dell’esistenza delle cose siamo meno certi, poiché avere un’idea nello spirito non
significa che essa corrisponda ad un oggetto reale, ma possiamo affermare con
certezza che l’oggetto esista fin tanto che la sensazione è attuale. Nel momento in cui
riceviamo una sensazione infatti siamo certi che esiste un qualcosa che la produce in
noi. Locke adduce anche altre prove per confermare il fatto che le sensazioni sono
prodotte da cose esterne: le idee vengono a mancarci quando ci manca l’organo di
senso adeguato; le idee sono prodotte senza che noi possiamo evitarlo; i sensi si
fanno testimonianza reciproca.
Quando l’oggetto non è più testimoniato dai sensi, la certezza sparisce e si trasforma nella
più estesa conoscenza probabile: nella quale si afferma la veridicità di una proposizione in
base all’esperienza. Naturalmente ci sono diverse forme di probabilità: 1) una si fonda sulla
conformità di qualcosa con le nostre esperienze; 2) un’altra si fonda sulla testimonianza
degli altri uomini ed in questo caso la probabilità maggiore si ha quando vi sia un accordo
fra tutti i testimoni. Di qui la credenza o opinione, la quale, pur essendo una semplice
presunzione di verità, è nondimeno indispensabile per la condotta pratica. Anche la fede
deve essere sottoposta ad un’attenta analisi razionale: sia perché è la ragione a decidere
l’attendibilità di chi riferisce la rivelazione, sia perché proposizioni in contrasto con la
conoscenza certa sono inaccettabili; in fondo la fede è “un assenso fondato sulla ragione più
alta”.
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Morale e politica
Le concezioni su cui si basa Locke nell’elaborare le dottrine morali e politiche sono due:
1)
non esistono leggi o principi pratici innati;
2)
ciò che spinge l’uomo ad agire è la ricerca della felicità, vista come assenza di quei
disagi in cui egli viene continuamente a trovarsi.
Più precisamente Locke considera disagio qualsiasi dolore corporeo o turbamento spirituale;
possiamo chiamare questo disagio, desiderio, che è un disagio dello spirito per il bisogno di
un bene assente, identificando così il sollievo con quel bene assente.
L’etica lockiana, come ogni etica a sfondo empiristico, non può essere se non utilitaristica
ed eudemonistica (dottrina morale che ripone il bene nella felicità): “Il bene ed il male non
sono altro che piacere o dolore, oppure quello che produce o procura a noi piacere o dolore.
Il bene ed il male morali sono solo la conformità o il disaccordo delle nostre azioni
volontarie con qualche legge, mediante la quale il bene o il male è attirato su di noi dalle
volontà e dal potere del legislatore”. Le leggi cui gli uomini riferiscono comunemente le
loro azioni sono di tre tipi diversi:
1)
quelle divine (peccati o doveri);
2)
quelle civili (delittuose o innocenti);
3)
quelle morali (virtù o vizi).
Sulla morale in senso stretto Locke sostie il carattere razionale dell’etica, in quanto ritiene
che non si può proporre alcuna regola morale di cui non si debba dare una ragione. Dei Due
trattati sul governo civile il primo critica l’assolutismo ed il secondo elabora una teoria
liberale dello stato. A fondamento di entrambi c’è il concetto di “legge di natura” (norme
dettate dalla ragione per garantire ad ogni uomo la vita, la libertà e la proprietà, cioè quei
diritti fondamentali la cui violazione va punita). Particolarmente innovativa è la tesi del
carattere naturale del diritto della proprietà, in quanto fondato sul lavoro personale e
legittimo possesso dei suoi frutti.
Prima dell’instaurazione dello stato politico, nel cosiddetto “stato di natura”, è già possibile
una vita sociale, ma quel che ancora manca è un giudice imparziale che risolva i conflitti tra
i singoli. A questa mancanza sopperisce lo stato, che impone la rinuncia ad un solo diritto
naturale, quello di farsi giustizia da sé, e lo delega al potere legislativo (che per Locke
comprende anche la funzione giudiziaria). Questo potere deve: 1) promulgare leggi uguali
per tutti, 2) governare per il bene del popolo e 3) avere il consenso di questo per introdurre
nuove tasse. Per il resto lo stato ha solo il compito di garantire i diritti naturali stessi, senza
alcuna rinuncia da parte degli uomini alle libertà naturali, come invece voleva Hobbes. In
uno stato secondo ragione vanno subordinati a quello legislativo anche i poteri esecutivo e
di pace e di guerra, o “federativo”. Poiché il fondamento naturale dello stato è solo il
consenso dei suoi membri, ogni forma di stato assoluto o arbitrario è contro ragione ed i
cittadini hanno allora il diritto di resistere ad esso e di mutarlo. In tal modo Locke inaugura
la teoria della limitazione dei poteri civili, della distinzione tra essi e del diritto di resistenza
e di rivoluzione, destinati a divenire cardine del successivo liberalismo.
5
Rapporto tra la ragione e la fede
Problema della tolleranza
Contrariamente a quanto sosteneva Hobbes, per Locke lo stato non deve ingerirsi nelle
questioni religiose e, poiché la fede non è una cosa che si possa imporre, bisognerà aver
rispetto e tolleranza per le varie fedi religiose.
Nella Ragionevolezza del Cristianesimo (opera fraintesa e che diede origine a numerose
polemiche), Locke non intende trasformare il discorso del Cristianesimo in un discorso
razionale: fede e ragione restano ambiti distinti. Ciò che a lui preme è di capire la
rivelazione e stabilirne il nucleo essenziale, ossia individuare quali siano le verità cui
bisogna credere per essere cristiani. Il filosofo giunge alla conclusione che tali verità si
riducono ad una fondamentale: nel credere che Gesù sia il Messia, cioè che Egli sia il figlio
di Dio; questa è l’unica verità cui bisogna credere per professarsi cristiani, le altre si
aggiungono o ne seguono. Locke non si propose di difendere il Cristianesimo, ma di
comprenderlo, con i suoi studi più prossimi ad opere di esegesi religiosa; lo scopo del
lavoro di Locke non è di definire una concordanza dei dogmi fondamentali del
cristianesimo con le dottrine etico-religiose dell’umana ragione, bensì quello di ascoltare la
parola di Dio in quegli argomenti in cui la filosofia ha incontrato gli ostacoli più ardui.
Naturalmente le fede in Cristo implica anche l’obbedienza ai suoi precetti. La
giustificazione del Cristianesimo è nella sua utilità: senza di esso solo i filosofi, la parte
razionale del genere umano, avrebbe potuto concepire, attraverso la ragione, l’idea di un
essere superiore, mentre con la rivelazione tale scoperta è potenzialmente aperta a tutti.
La difesa della tolleranza verso le altre fedi parte invece dal presupposto che, per dichiararsi
fedele, necessario e sufficiente è il culto interiore di Dio, tutti gli atti esterni sono necessari
alla religione e subordinati al tempo ed ai costumi delle diverse genti. Lo stato è per Locke
una società costituita per conservare i beni civili, mentre la chiesa è una libera società creata
per onorare Dio. Da ciò deriva che la salvezza dell’anima è fuori dai limiti dello stato ed è
invece affare della chiesa, inoltre proprio perché la fede è uno spontaneo atto dello spirito
essa non può essere forzata o indotta in alcuno. La chiesa non ha in sostanza poteri sullo
stato, né tanto meno con i suoi provvedimenti può diminuire o aumentare i diritti civili di un
uomo.
Conclusioni
F. Copleston: “Locke fu un uomo molto moderato. Empirista, in quanto afferma che tutto il
materiale della nostra conoscenza è fornito dalle percezioni sensibili e dalla riflessione, ma
non estremista, in quanto non pensa che noi conosciamo soltanto le cose percepite attraverso
i sensi. In forma elementare egli è un razionalista, perché è certo del primato del giudizio
razionale su tutte le opinioni e le fedi e perché disapprova la sostituzione di espressioni
emozionali e sentimenti a giudizi fondati sulla ragione. Ma non è un razionalista nel senso
che disprezzi la realtà spirituale o l’ordine soprannaturale o la possibilità di una rivelazione
divina di verità che sono tuttavia al di sopra della ragione e non possono essere scoperte da
essa solamente. Avversò il principio di autorità, sia nel campo intellettuale che politico. Fu
uno degli esponenti del principio di tolleranza; ma, alieno dall’anarchia, riconosceva i limiti
al campo entro il quale voleva applicare tale principio. Fu uno spirito religioso, ma lontano
dal fanatismo o dallo zelo eccessivo. Per concludere, non troviamo in lui espressioni
brillanti o geniali, ma sempre misura e buon senso”.