Johann Wolfgang Goethe da La vocazione teatrale di Wilhelm Meister Amleto secondo l’interpretazione di Wilhelm Meister Johann Wolfgang Goethe (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832) propone attraverso le riflessioni di Wilhelm Meister, protagonista del romanzo omonimo, una lettura dell’Amleto shakespeariano che ebbe molta influenza sulla critica letteraria e sulle rappresentazioni teatrali successive. Specialmente l'Amleto aveva attirato tutta la sua attenzione. Abbiamo già visto nel libro precedente che Guglielmo aveva studiato la parte del principe ed è naturale che avesse incominciato dai passi di maggior effetto, dai monologhi e dalle scene dove hanno libero gioco le energie dell'anima, la nobiltà e la vitalità delle passioni, e dove uno spirito libero e nobile si può manifestare in espressioni piene di sentimento. Aveva tendenza ad assumere su di sé anche il peso della profonda malinconia e a furia di esercizio la parte si era sovrapposta alla sua vita solitaria, a tal punto che infine lui stesso ed Amleto incominciarono ad essere una sola persona. Da ultimo, dopo avere sufficientemente elaborato i singoli passi, si mise a studiare l'intero lavoro tutto di seguito e allora vi furono molte cose che non andavano; ora gli sembrava contraddittorio il carattere, ora l'espressione, e il nostro amico quasi disperava di trovare il tono giusto per recitare l'intera parte, con tutte le sue variazioni e le sue sfumature. Per molto tempo si dibatté inutilmente in questo labirinto, finché da ultimo trovò una strada per la quale sperava d'arrivare alla meta. Allora percorse il lavoro con la sola intenzione di ritrovare le tracce che potessero rivelare qualche cosa del carattere di Amleto nel periodo anteriore alla morte del padre, e credette di averle presto trovate. Nato nobile e mite, il fiore principesco crebbe sotto l'influsso immediato del re. L'idea della giustizia e della dignità regale, il sentimento del bene e del decoro, insieme alla coscienza dei suoi alti natali si svilupparono in lui allo stesso tempo; era un principe, un principe nato e voleva regnare perché i buoni potessero essere incondizionatamente buoni. Piacente di aspetto, costumato per natura, gentile di cuore, senza alcuna passione predominante, era il modello dei giovani e la gioia del mondo; il suo amore per Ofelia era un tacito presentimento di dolci esigenze e la sua passione per gli esercizi cavallereschi trovava stimolo nelle lodi rivolte ad altri; sapeva riconoscere gli uomini onesti ed apprezzare la quiete che un'anima sincera può godere sul petto d'un amico sincero. Fino a un certo punto aveva anche imparato a conoscere e ad apprezzare quanto vi era di buono e di bello nelle arti e nelle scienze. Per le cose di cattivo gusto provava ripugnanza e se nella sua anima delicata poteva nascere l'odio, era solo quel tanto necessario per disprezzare i cortigiani volubili miserabili e falsi, e trattarli con scherno. Sereno per natura, semplice nei modi, né incline all'ozio né troppo avido di attività, un po' viziato dalla pigrizia accademica, allegro più per umore che per temperamento, sempre socievole, conciliante, modesto, premuroso, e più pronto a perdonare un'offesa fatta a lui che non quella fatta alla giustizia, alla bontà e alla morale. Dopo aver raccolto tutti questi elementi ed averli documentati con passi del testo, Guglielmo ebbe le idee molto più chiare ma si rese conto che d'ora in poi avrebbe dovuto recitare gran parte di questi passi in modo diverso da come li aveva recitati finora. Mentre lavorava era calata la sera e senza che egli sapesse come, l'immagine della bella soccorritrice gli aleggiava di nuovo intorno; era tutto preso da queste dolci visioni e un desiderio quale non aveva mai sentito nel suo petto s'impadronì di lui.(…) Parlarono degli ultimi lavori teatrali, del gusto attuale. Passarono da un argomento all'altro e Guglielmo non perse l'occasione di parlare dell'Amleto, che tanto l'interessava. Serlo assicurò che avrebbe recitato volentieri la parte di Polonio e disse alla sorella: «Tu faresti quella di Ofelia, non è vero?» Il sorriso con cui lo disse dispiacque a Guglielmo, poiché sembrava avere qualcosa di offensivo. Aurelia rispose con distaccata freddezza: «Perché no?» Guglielmo incominciò a spiegare al suo solito, in maniera minuziosa e didattica, in che modo avrebbe voluto che si rappresentasse il suo Amleto. Espose loro le idee che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, aveva già elaborate, e fece di tutto per renderle accettabili, per quanto Serlo volesse metterle in dubbio. «Sta bene», disse questi alla fine, «ammettiamo che Lei abbia ragione in tutto; ma che cosa ne vuole ricavare?» «Molto, direi anzi, tutto!» replicò Guglielmo. «Prenda un principe come gliel'ho descritto, il cui padre muore all'improvviso. Egli non è dominato dall'ambizione e dalla sete del potere; si è soltanto, per così dire, adattato ad essere figlio di un re; ma ora per la prima volta si vede costretto a considerare più attentamente la distanza che divide il monarca dal suddito. Il diritto alla corona non era ereditario e tuttavia, vivendo più a lungo, il padre avrebbe rese più valide le pretese dell'unico figlio e lo avrebbe designato a successore. Ora invece Amleto si sente defraudato dei suoi diritti, dei suoi beni, si sente estraneo al mondo che fin dalla prima giovinezza aveva considerato suo, e a questo punto, per la prima volta, la sua anima si orienta verso la tristezza; sente ormai di essere sullo stesso piano di qualsiasi altro gentiluomo, offre i suoi servigi a tutti, ma non in maniera cortese e con degnazione signorile, tutt'altro: si sente decaduto, ha bisogno degli altri. Guarda alla sua condizione precedente come a un sogno svanito. Inutilmente lo zio cerca di infondergli coraggio, di fargli vedere la sua situazione da un altro punto di vista; la coscienza della sua nullità non lo abbandona mai. Il secondo colpo che lo ferisce penetra più profondamente, lo piega ancor di più; è il matrimonio di sua madre. A lui, figlio tenero e fedele, morto il padre, rimaneva ancora una madre. Se venerava la figura eroica del grande defunto, poteva farlo in compagnia di una madre superstite, di una donna nobile e fedele. Ma ora anche questa gli viene a mancare, ed è peggio che se fosse morta. L'immagine sicura, che un figlio ben nato si fa tanto volentieri dei propri genitori, svanisce. Dal morto nessun aiuto e dalla viva nessun sostegno. Dopo tutto, anche lei è una donna, anche lei è partecipe di una caratteristica comune al suo sesso: la fragilità. Ora solo si sente veramente abbattuto, veramente orfano, e nessuna gioia al mondo gli può ridare quello che ha perduto. Egli non è triste, non è meditabondo per natura; questa malinconia, queste continue meditazioni gli diventano un peso opprimente. Così lo vediamo entrare in scena. Credo di non aver affatto esagerato.» Serlo guardò la sorella e disse: «Ti avevo forse fatto un ritratto falso del nostro amico? Comincia bene, e ci racconterà ancora molte cose, e molte riuscirà ad imporcele.» Guglielmo giurò e spergiurò che non voleva imporre, ma persuadere e li pregò di avere ancora un attimo di pazienza. «S'immagini al vivo questo giovane, questo figlio di re, si immedesimi nella sua situazione e poi lo osservi quando viene a sapere che lo spettro di suo padre fa delle apparizioni; gli stia vicino nella terribile notte in cui il venerabile spirito si presenta ai suoi occhi! Uno sgomento indicibile lo afferra, egli rivolge la parola all'apparizione miracolosa; lo vede fargli cenno, la segue... e si mette in ascolto; e che cosa ode mai? la terribile accusa contro lo zio! L'incitamento alla vendetta e la preghiera ripetuta, incalzante: «Ricordati di me!» E quando lo spirito scompare, chi vediamo davanti a noi? Un giovane eroe che freme dal desiderio di vendetta? Un principe nato che esulta di sentirsi incitato due, tre volte contro l'usurpatore della sua corona? No! Stupore e tristezza lo invadono; giura di non dimenticare lo scomparso. Si scaglia pieno di amarezza contro i malvagi che ridono e conclude con un sospiro significativo: 'il tempo è fuor dai suoi cardini; guai a me che nacqui per rimetterlo in sesto!' In queste parole sta, io penso, la chiave per capire tutto il comportamento di Amleto e a me sembra chiaro che Shakespeare abbia voluto ritrarre appunto questo: una grande azione imposta ad un animo che non è all'altezza di compierla. E questo, lo trovo svolto in maniera stupenda nel dramma. Una quercia vien qui piantata in un vaso prezioso che nel suo grembo avrebbe dovuto accogliere soltanto fiori delicati; le radici si espandono, il vaso si spezza. Un essere bello, puro, nobile, altamente morale, senza la virile forza naturale che fa l'eroe, soccombe sotto un peso che non può né portare né respingere. Ogni dovere gli è sacro; ma questo gli è troppo gravoso. Si esige da lui l'impossibile, non l'umanamente impossibile, ma ciò che è impossibile a lui, Amleto. Ed egli si dibatte, si tortura, si angustia, fa un passo avanti e uno indietro; tutto gli ricorda il suo dovere ed egli sempre se lo ricorda; finché da ultimo perde quasi di vista il vero scopo, senza tuttavia poter mai ritrovare la propria serenità.» traduzione di Marta Bignami, ed Garzanti Northrop Frye da, Shakespeare. Nove lezioni. ed. it. Einaudi 1990 Tragedia senza catarsi I critici freudiani non hanno mancato di notare che Amleto si trova nella classica situazione edipica, suggerendo che la sua paralisi ad agire contro Claudio sia da ascrivere al fatto che questi avrebbe realizzato i suoi stessi desideri inconsci uccidendo il padre e sposando la madre. Ignorare l'elemento edipico nella messa in scena non avrebbe alcun senso, ma, come sempre accade con Shakespeare, i fattori coinvolti sono più di uno. (...) Ogni dramma della vendetta ha bisogno di tre personaggi (talvolta accoppiati o in gruppo): qualcuno da uccidere, qualcuno che uccida e un vendicatore che uccida l'uccisore. Il pubblico accoglie di solito la vendetta come un atto positivo che riporta le norme morali della società al loro originario equilibrio e tende pertanto a simpatizzare con il vendicatore. Poiché nella Bibbia Dio si presenta dicendo «Mia è la vendetta», la figura del vendicatore è sovente considerata, nelle tragedie di questo periodo, come quella di un agente divino, qualunque ne sia il personale livello morale. È soprattutto nella tragedia che vediamo con quale tenacia l'uomo crei la divinità a propria immagine e somiglianza e non trovi perciò affatto strano che una feroce vendetta umana sia definita attuazione stessa della volontà di Dio. Shakespeare scrisse due drammi della vendetta oltre Amleto: Giulio Cesare e Macbeth. Giulio Cesare e Duncan vengono assassinati; Bruto (con altri) e Macbeth rappresentano gli uccisori, i vendicatori sono Marcantonio con Cesare Ottaviano, e Malcom e Macduff. Nell'Amleto tuttavia esistono tre cerchi concentrici che si sviluppano intorno al dramma della vendetta. Al centro troviamo Polonio assassinato da Amleto e vendicato da Laerte. Intorno c'è l'azione primaria del dramma: Amleto padre assassinato da Claudio e vendicato. E intorno ancora, a fare da sfondo, la storia di Fortebraccio padre, ucciso da Amleto padre in duello il giorno in cui nacque Amleto figlio. All'inizio del dramma il giovane Fortebraccio sta organizzando la propria vendetta in Danimarca, Claudio riesce a sottrarsi dall'attuazione della minaccia, ma Fortebraccio ritorna alla fine e ottiene precisamente il pieno successo di ogni grande vendicatore: la corona. Il risultato finale di tutto il tumulto scatenato dallo Spettro di Amleto padre è che il successore di Claudio sul trono di Danimarca è il figlio dell'uomo ucciso da lui molto prima che l'intero dramma abbia inizio. Come è naturale, la coesistenza di questi tre tempi della vendetta produce un testo straordinariamente complesso, soprattutto se si considera che Amleto ha tanto il ruolo dell'assassino nella tragedia di Polonio, quanto quello di vendicatore nel dramma primario. L'effetto ultimo che ne deriva è la neutralizzazione del senso di ritrovato equilibrio morale di norma prodotto dalla vendetta. Qui la vendetta non risolve nulla, mette semplicemente in moto un secondo disegno identico che le si oppone. Di Fortebraccio sul quale si concentrano le speranze e le aspettative dei pochi sopravvissuti, sappiamo che è pronto a combattere per qualunque cosa. Il tipico effetto che la tragedia dovrebbe avere sul pubblico secondo la tradizione è la catarsi, parola che ha qualcosa a che fare con la purificazione, sebbene significhi certamente anche altro. L'Amleto mi sembra una tragedia senza catarsi, una tragedia dentro la quale tutto ciò che è nobile ed eroico finisce soffocato da feroci codici di vendetta, inganni, delazioni e dalle conseguenze di deboli azioni condotte da volontà malate. Il complesso di Edipo è un fenomeno fondamentale dell'evoluzione psicologica degli individui, legato allo sviluppo della sessualità, teorizzato e studiato dal fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud, nei primi anni del '900. Esso è un insieme strutturato di affetti di amore e di ostilità che il bambino nutre verso i genitori: egli desidera inconsciamente prendere il posto del genitore del proprio sesso, e cioè, per il bambino maschio, "uccidere" il padre e "sposare" la madre. Il complesso di Edipo, definito «il complesso nucleare delle nevrosi», si sviluppa tra i tre e i cinque anni; raggiunge l'acme durante la fase fallica e declina con l'inizio della latenza, cioè tra il quinto-sesto anno e l'inizio della pubertà, quando l'evoluzione sessuale segna una pausa e si sviluppano invece i sentimenti estetici ed etici e si consolida il senso del pudore. Il complesso di Edipo si riattiva e viene superato nella pubertà; in caso contrario rimarrà il fattore patogeno per eccellenza in tutte le tappe successive della vita. Inizialmente Freud ritenne che il complesso di Edipo presentasse le stesse caratteristiche nel maschio e nella femmina; successivamente affermò la specificità dell'Edipo femminile, senza però approfondirne gli aspetti. Il nome di "complesso di Edipo" deriva dal mito greco raccontato nella tragedia di Sofocle Edipo re. In essa si racconta che Giocasta, regina di Tebe, sogna che il bambino che ha in seno è destinato a uccidere il proprio padre. Il re, Laio, conosciuta la nefasta premonizione, dà ordine di far morire il figlio alla sua nascita. Ma il bambino, abbandonato da un servo su un monte, viene allevato da dei pastori. Divenuto adulto, mentre si sta recando a Tebe, ha una lite con uomo lungo la strada e lo uccide. Tebe, intanto è oppressa dalla Sfinge, un mostro che può essere vinto solo risolvendo il suo difficile enigma. Edipo scioglie l'indovinello, libera Tebe e viene proclamato re, al posto di Laio, ucciso poco tempo prima, senza che se ne conosca l'assassino. Come è usanza del tempo, il nuovo re sposa la regina vedova. Ma una pestilenza si abbatte sulla città. Perché il flagello sia allontanato, l'oracolo di Delfo consiglia di scoprire l'assassino del re Laio. Edipo svolge l'inchiesta e scopre la propria identità: l'uomo sconosciuto che egli uccise per strada era il re Laio, il suo vero padre, e la regina che ha sposato è sua madre. Giocasta, nell'apprendere di essere la madre dell'uomo che ha sposato, inorridita si impicca; Edipo si acceca per non vedere più il sole, testimone del suo duplice delitto, e abbandona la città. Il concetto di catarsi tragica compare nella Poetica di Aristotele. In virtù dell'ordine razionale in cui presenta le azioni umane, facendo emergere tale ordine anche dove tutto sembra casuale e inspiegabile (si pensi proprio alla vicenda di Edipo), la tragedia può produrre negli spettatori la catarsi, cioè la purificazione delle passioni. Northrop Frye è nato nel 1912 nel Quebec (Canada). Ha studiato a Toronto e a Oxford. Nel 1936 è stato ordinato pastore della Chiesa Unitariana del Canada. E' autore di molti saggi di critica letteraria, che ne fanno uno degli studiosi della letteratura più originali e rilevanti del Novecento. Si è occupato di William Blake, T.S. Eliot, Milton. Il suo testo teorico fondamentale è Anatomia della critica, nel quale vuole offrire una visione complessiva dello scopo, delle teorie, delle tecniche della critica letteraria, supportata da una sterminata conoscenza delle letterature mondiali. L'ultimo suo lavoro è Il grande codice. La Bibbia e la letteratura. Paola Bravo da Le voci della follia, ed. Atheneum, 1990 Amleto come dramma edipico Le parole aspre che Amleto rivolge a sua madre durante la scena della rappresentazione, quando va a sedersi vicino ad Ofelia evitando l'invito di sua madre ad avvicinarsi a lei, e che i presenti ritengono dovute alla sua follia, rivelano che la causa del suo conflitto interiore è di natura sessuale. Amleto non può accettare la sessualità della madre che è divenuta palese con il matrimonio dello zio; se da bambino aveva alla fine accettato il ruolo di suo padre nella sfera affettiva della madre, ora ricompare il desiderio infantile di sostituire il padre e non può accettare che un altro uomo realizzi questo suo desiderio. Quindi nello zio egli vede realizzati due desideri infantili: l'assassino del padre e il possesso della madre. sembra anche che, più o meno inconsciamente, egli sospetti ciò che è accaduto a suo padre; infatti dopo le rivelazioni del fantasma, esclama «Oh my prophetic soul». Quindi la verità che gli trasmette lo spettro era già stata intuita dal suo inconscio e le parole dello spettro la trasmettono alla coscienza. La prima manifestazione del fatto che si è ridestato il complesso di Edipo è evidente nella sua reazione contro Ofelia, quando costei rifiuta il suo amore, obbedendo agli ordini del padre. Questa reazione è condizionata dalla sua incapacità di accettare il secondo matrimonio di sua madre. Il nuovo matrimonio lo porta a considerare l'aspetto della sessualità della madre, aspetto che egli non aveva mai voluto considerare, e la sua gelosia verso l'uomo che ella ha sposato, privandolo così del suo desiderato amore esclusivo. Questa scoperta della sessualità della madre porta Amleto ad una violenta repulsione sessuale e ad una misoginia che diventa più marcata in seguito al comportamento distaccato di Ofelia, vedendo in questo la stessa situazione del rifiuto dell'amore di sua madre. Inveisce quindi aspramente contro Ofelia e le donne in genere, ma nel suo intimo il risentimento è rivolto contro la madre: Dio vi ha dato un volto, ma voi ve ne inventate un altro. Va', dunque, io non dirò altro, ciò mi ha fatto diventare pazzo. Io dico che non ci saranno più matrimoni, coloro che sono già sposati, tutti meno uno, vivranno, gli altri resteranno come sono. Va' in convento, va'! (atto III, scena I) Amleto ha un atteggiamento completamente diverso nei confronti di Ofelia durante la sua sepoltura, quando si scaglia contro Laerte, che ha osato pretendere che il suo sentimento verso di lei potesse eguagliare quello suo. L'ostilità verso Ofelia nasce, comunque, dal fatto che egli si accorge che è mandata per lusingarlo e poi tradirlo, come sua madre, a vantaggio di un altro uomo. L'intensità del disprezzo di Amleto per le donne, in particolare per Ofelia, dimostra quanto fosse potente la rimozione sessuale1 nei confronti della madre. Egli, trovandosi dopo il matrimonio della madre 1 Rimozione sessuale: si allude alla rimozione del complesso edipico. Nello sviluppo psicologico e sessuale normale, il complesso di Edipo viene superato con la rinuncia ad avere la madre tutta per sé e con l'identificazione con il padre. Talora questo conflitto non viene risolto, ma "rimosso", resta cioè latente nell'inconscio, pronto a riesplodere di fronte a eventi scatenanti, come, nel caso di Amleto, l'assassinio del padre e il nuovo matrimonio della madre. nell'impossibilità di esaudire il suo desiderio infantile, risorto dopo la morte del padre, tenta di ottenere l'amore di Ofelia, ma riceve da lei un rifiuto: si sente quindi respinto dalle due donne che amava e dalle quali voleva essere amato. In seguito a questi due fatti, il principe sprofonda in un grave turbamento, che si manifesta nell'irritazione verso Rosencrantz e Guildenstern, nel sarcasmo verso Polonio, nei rimproveri verso la madre, nell'odio verso Claudio. Verso lo zio-padre Claudio Amleto nutre un'avversione derivata dall'invidia, in quanto egli inconsciamente vede nel re colui che realizzato i suoi desideri infantili: uccidere il padre e sposare la madre: Claudio, quindi, incarna la parte più profonda e segreta dell'animo di Amleto, cosicché non può ucciderlo senza uccidere se stesso. Agostino Lombardo Amleto, archetipo dell'uomo moderno Non è facile introdurre in breve un'opera così problematica e così complessa, così grande e così misteriosa e fin sfuggente, così shakespeariana e insieme così moderna. E tanto più poi in quanto il dramma, e ancor più il personaggio, ci giungono carichi delle luci e delle ombre, delle sfumature e ambiguità ad essi attribuiti non solo da Shakespeare ma dagli artisti e dai critici successivi. Nessuna opera e nessun personaggio, infatti, hanno esercitato tanta suggestione sulla cultura moderna - non c'è scrittore o poeta, in qualsiasi lingua, che non abbia in qualche modo usato Amleto come simbolo, come metafora. Amleto invero non è più un personaggio drammatico ma è un mito, il maggior mito moderno, forse, - un mito inoltre polivalente, polimorfico, proteico. Amleto è sempre diverso: e se Coleridge e Schlegel, così, vedevano nel suo dramma una tragedia della volontà, per Goethe Amleto era un uomo costretto ad affrontare una realtà eroica senza avere la stoffa dell'eroe; per molti romantici, il pallido principe di Danimarca era un simbolo del loro universale dolore e della loro aspirazione all'infinito; per i decadenti e i simbolisti, l'immagine della loro noia, e spleen, e male di vivere; per gli uomini moderni e gli artisti del Novecento, l'emblema della moderna nevrosi e alienazione. Chiavi di lettura, tutte, alle quali vanno aggiunte quelle offerte dagli attori e dai registi che l'Amleto hanno messo e mettono in scena. In questa situazione quasi senza scampo, conviene allora aggrapparsi a un qualche dato oggettivo. E il più solido è costituito dalla collocazione dell'Amleto nella situazione storica e culturale in cui esso nasce. Quest'opera universale, questo grande e autonomo universo poetico, questo "mito", è pur sempre il frutto di un artista che vive e opera in un tempo e una società precisi. E Amleto è, a mio parere, la prima tragedia moderna proprio perché la sua universalità è sostanziata da uno stretto rapporto con la situazione contemporanea. Scritta tra il 1600 e il 1601, la tragedia si colloca, anzitutto, in un momento cruciale della storia politica inglese; quando l'approssimarsi della fine del regno di Elisabetta (che morirà senza eredi nel 1603) comporta inquietudine, lotta per il potere, intrighi, congiure. Ma l'opera è legata a una crisi più vasta, che è quella del passaggio, in Inghilterra, dal Medioevo all'Età Moderna - una crisi che è il travaglio da cui l'uomo moderno è nato. È appunto di tale travaglio che l'Amleto e tutta l'opera di Shakespeare sono veicolo e specchio, interpreti ma anche produttori. È il periodo, questo, in cui la visione copernicana dell'universo si sostituisce a quella tolemaica, si scoprono nuovi mondi, avanza la nuova scienza, e in cui d'altro canto l'ordine feudale e aristocratico va crollando dietro la spinta di quegli "uomini nuovi" che si affermano di là a pochi decenni con la rivoluzione puritana. Di questa grande trasformazione del mondo, di questa crisi, ci sono già i segni nelle opere cinquecentesche di Shakespeare (in alcuni dei drammi storici, nel Mercante di Venezia, in Come vi piace); di essa troviamo piena consapevolezza nel Giulio Cesare, immediatamente precedente l'Amleto, in cui nel personaggio di Bruto di fronte al problema dell'uccisione di Cesare già si scorge l'uomo copernicano, l'uomo della Riforma, l'uomo di Montaigne; finché essa esplode, appunto, con l'Amleto, dove il dubbio di Bruto si espande e il personaggio che quel dubbio incarna, Amleto, viene collocato al centro del dramma. Nessun personaggio shakespeariano domina a tal punto la scena, nemmeno Re Lear, dove l'intreccio secondario dirige l'attenzione verso una vicenda affine ma comunque diversa. Nell'Amleto non c'è intreccio secondario, l'attenzione dello spettatore è tutta rivolta su di lui anche quando non compare. Da quando comincia a parlare, poi, con quel suo linguaggio che ha la durezza della verità contrapposta alla finzione, tutto diventa sempre di più a lui subordinato: ogni gesto, ogni movimento, ogni parola. Il personaggio, d'altra parte, è perfettamente attrezzato per una parte così importante. Shakespeare gli dà quella che Henry James chiama una "prodigiosa consapevolezza", e ad Amleto non sfugge nulla di quanto accade intorno a lui. Se tutto è in sua funzione, di tutto egli si rende conto; se gli altri personaggi vedono, della vita, soltanto una parte, la visione di Amleto copre tutta la vita. Affidata ad Amleto, la domanda che nel Giulio Cesare si poneva Bruto, se fosse giusto agire e quale fosse il comportamento morale da assumere, si amplia straordinariamente: non solo qual è il bene e qual è il male, ma, ancora di più, che cos'è la vita, quali sono le sue ragioni, che cos'è Dio. Tutto l'Amleto è in verità una grande domanda e forse la sola definizione che possa suggerirne, se non abbracciarne, il significato è quella che vede l'opera come immagine dell'uomo moderno che si pone di fronte al mistero della realtà e, senza potersi appoggiare sopra le strutture del Medioevo, continuamente si chiede il significato delle cose e di tutto ciò che lo circonda. Del resto, tutti, non solo Amleto, si fanno domande: nessuno ha certezze, per tutti c'è un mistero nella realtà, e anzitutto in Amleto che della domanda è soggetto e oggetto. In effetti, il principio strutturale dell'opera è proprio questo: l'interrogarsi su di sé e sugli altri e sul mondo che fa Amleto, che fa ogni personaggio e che fa a sua volta il pubblico, parte integrante, come è proprio del teatro, del discorso drammatico. Non meraviglia allora che con una domanda l'opera si apra e che la domanda risuoni, ossessivamente, per l'intera prima scena, con lo spettro che diventa il concreto simbolo del mistero che tutti, per suo tramite, interrogano. Il "dubbio" di Amleto, del quale tanto si è parlato, non è un dubbio particolare, contingente, o umorale, ma nasce dalla mancanza di certezze esistenziali e metafisiche del personaggio; questa è la nota che profondamente risuona nell'"essere o non essere" e che continua fino alla conclusione della tragedia. Ecco dunque perché Amleto doveva stare così imperiosamente al centro del dramma, doveva essere così intelligente e insieme onnipresente. Amleto è l'uomo moderno che dubita perché si pone delle domande; l'uomo che non dà nulla per scontato, nulla accetta dall'esterno, ma tutto vuol personalmente saggiare, sondare, capire, sperimentare (ed è qui che Shakespeare condivide l'esperienza di Bacone). C'è una strenua ricerca intellettuale, in Amleto, di cui è prova esemplare il suo linguaggio. Le nebbie da cui Amleto è stato spesso avvolto, e soffocato, hanno impedito di scorgere quanto concreto sia il suo linguaggio, quanto sia sostanziato di realtà. «Parole, parole, parole» egli dirà a Polonio: e infatti il mondo è nettamente diviso, per lui, tra parole che sono soltanto vacui suoni e parole che sono cose; parole che sono apparenza, inganno, corruzione, e parole che sono la verità. Si legga il monologo famoso e si noterà che ogni concetto astratto s'invera in oggetti concreti (i «colpi e le frecce», il «mare dei guai»). E sempre, dal principio alla fine, il linguaggio di Amleto è così. Sempre egli stabilisce con la realtà un rapporto totale, quasi partecipasse o tentasse di partecipare all'essenza delle cose. La sua stessa finta pazzia è uno strumento per giungere alla verità, superando le illusioni che il linguaggio convenzionale può creare. Ed è anche questo linguaggio, poi, che dà ad Amleto quella concretezza e corposità che un personaggio di questo genere, un personaggio che è una mente, rischierebbe di perdere. Ma la grandezza dell'opera trova un'altra delle sue ragioni nell'aver creato, Shakespeare, la forma più adeguata per l'azione del suo eroe. Una forma che è l'archetipo della tragedia moderna perché è una forma varia, aperta, mai conclusa, tanto problematica quanto il dramma stesso dell'uomo moderno. La vicenda che Shakespeare doveva mettere in scena era, senza mezzi termini, il rapporto di una mente umana con la vita, e il problema del drammaturgo, allora, era quello di far muovere Amleto su un terreno adeguato al personaggio e alla sua ricerca. Se tutta la vita doveva essere messa in discussione, sottoposta all'analisi, al dubbio di Amleto, tutta la vita doveva riversarsi sulla scena. E Shakespeare non fa nulla di meno. Crea una struttura supremamente elastica e comprensiva, capace di abbracciare pianto e riso, ragione e follia, dolore e gioia, amore e odio; di passare da un interno domestico a un paesaggio sconfinato, da un salone di corte a un campo di battaglia, da una fortezza a un cimitero. Se ben guardiamo l'Amleto, vediamo come ogni esperienza umana vi venga rappresentata, e come non vi sia tipo sociale che non vi trovi qui un suo luogo: il re ed il principe, la regina e la fanciulla, lo statista e il cortigiano, l'intellettuale e il guerriero, l'attore e il drammaturgo, l'elegantone e il condottiero, gli ambasciatori e i becchini, i vivi e i morti. Tutto c'è, nell'Amleto: vi sono vicende personali e vicende dello stato, c'è una famiglia, c'è la Danimarca, c'è il mondo; vi sono amicizie, affetti, struggimenti e delitti, introspezioni sottili e vigorosi affreschi. Tutta la vita, veramente. E ancor più della vita, possiamo dire: la vita, cioè, vista anche come immagine di se medesima, come teatro. Qui è il vero significato delle molte scene dedicate al teatro e ai teatranti. Esse hanno varie funzioni, come sempre in Shakespeare: da quella di sollievo comico a quella spettacolare a quella documentaria. Ma al di là di tutto questo la comparsa in scena d'una compagnia di guitti e il successivo "teatro nel teatro" hanno lo scopo di ampliare l'immagine che ci viene offerta, e cioè mostrare la vita nella sua dimensione teatrale, così allargando si vorrebbe dire, i confini della vita stessa, così spezzando lo spazio e il tempo in cui la vita è racchiusa per consentire ad Amleto, e a noi, di abbracciarla nella sua totalità assoluta. Se guardiamo alla scena del "teatro nel teatro", vediamo che agli occhi di Amleto si presenta un'immagine "totale " della vita. Sul palcoscenico ci sono tutti i protagonisti della vicenda, c'è la vita nel suo presente. Ma c'è anche la vita nel suo passato: c'è la regina di oggi e la regina di ieri, il re di oggi e quello di ieri; e c'è, vivo sulla scena, il re ucciso. Un espediente tante volte usato si trasforma, nelle mani di Shakespeare, in una prodigiosa invenzione, in una scena emblematica della tragedia tutta e che sta alla base del teatro moderno. La tragedia, il suo significato, è proprio qui: in questo Amleto lucido, consapevole, intelligente pur se finge la follia, che afferra la vita in tutti i suoi rapporti, la coglie nel presente, la vede nel passato, ne prepara il futuro - e di presente, passato e futuro si domanda la ragione. Alla domanda non c'è risposta, e il mondo rimane «fuor di sesto». Ma è nell'aver posto l'interrogazione, il dubbio, come condizione permanente, non contingente, della vita che sta la modernità, e la dolorosa poesia, dell'Amleto. commento anonimo Il tema della follia a teatro Il tema della follia circola con insistenza nel teatro inglese tra '500 e '600 e trova in Shakespeare l'autore che ne esplora maggiormente le potenzialità psicologiche e teatrali. Nella predilezione a questa tematica confluiscono varie ragioni. Anzitutto la razionalità aristotelica era messa in discussione dalla fine delle vecchie sicurezze filosofiche e cosmologiche. Inoltre il gioco della simulazione esercita una forte attrazione su tutta l'arte del tempo anche per altri motivi di ordine sociale e culturale. C'è una crescente attenzione medica per i fenomeni di alterazione psichica, che cominciano ad essere spiegati in termini naturalistici. Inoltre, malinconia ed eccentricità sono connotazioni tipiche con cui vengono rappresentati sia il principe che l'intellettuale, gravati entrambi del peso della solitudine: nell'esercizio del potere l'uno, nella ricerca della conoscenza l'altro. L'attenzione alla problematica della follia segnala infine un mutamento importante nell'atteggiamento del drammaturgo verso la natura umana. Shakespeare tende a esplorare il carattere esistenziale del male che minaccia l'uomo: «Io stesso sono abbastanza onesto, e tuttavia potrei accusarmi di tali cose che sarebbe meglio mia madre non mi avesse mai generato (...) Siamo canaglie matricolate tutti quanti» (atto III,1). Di questa irrimediabile debolezza la pazzia costituisce la metafora più significativa. La follia, in Amleto, non è rappresentata alla maniera classica, come punizione di una sfrenata superbia o come momentaneo oscuramento della ragione provocato da eventi esterni, ma come una malattia latente che si annida nel fondo oscuro dell'irrazionalità comune a tutti gli uomini. Il principale fascino della figura di Amleto sta proprio nell'ambiguità della sua follia. Essa dà origine a molteplici maschere: è un modo per nascondersi, per difendersi, uno strumento di libertà, un mezzo per scoprire la verità. I vari personaggi che ruotano attorno ad Amleto sono divisi sull'interpretazione e sulle cause dello strano comportamento del giovane principe. Amleto si definisce ammalato di malinconia e ne attribuisce la causa al precoce matrimonio della madre. Ma già nel primo monologo (II,2) e ancor più nel celebre monologo dell'atto III egli manifesta un malessere esistenziale profondo, che investe interamente il suo rapporto col mondo. Tutte le cose hanno perso valore ai suoi occhi. Questo male è complicato dal fatto che, dopo l'apparizione dello spettro del padre, Amleto dice di doversi fingere pazzo. Ciò comporta un'alternanza di atteggiamenti, caratterizzati ora da un linguaggio pieno di giochi di parole, che ricorrono alla logica paradossale e alle catene analogiche tipiche del pazzo, ora da una lucida penetrazione; una libertà di parola arguta, provocatoria o sarcastica si mescola a una disperata e furiosa aggressività (ad es. verso Ofelia). I diversi atteggiamenti si susseguono in modo sconcertante, tanto che nessuno riesce a decifrare il comportamento di Amleto. La sua follia sembra procedere da una simulazione machiavellica, come mezzo per porre in atto una vendetta. E in effetti essa diventa strumento di inchiesta, un mezzo per mettere a nudo le verità più nascoste: i personaggi, attraverso Amleto, sono posti davanti a uno specchio, costretti a guardarsi nel fondo dell'anima: sia Gertrude che Claudio non possono sottrarsi alla presa di coscienza della colpa e del proprio autoinganno. Ma se sul piano della conoscenza, la follia è uno strumento di rivelazione della verità, sul piano concreto non aiuta affatto il principe a mettere in atto la vendetta. L'obiettivo dichiarato (compiere la vendetta), per cui la pazzia è simulata, viene continuamente eluso e sarà raggiunto per caso, in uno scatto d'ira, solo alla fine. Follia vera, allora?