IL TEMPO DEI DIRITTI E I DOVERI

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IL TEMPO DEI DIRITTI E I DOVERI COSTITUZIONALI1
Stefano Rossi
Il tempo e il diritto
Senza pretendere di svolgere, qui, una riflessione teorico-generale sul rapporto fra tempo e
diritto, bisogna prendere atto dell’importanza decisiva del fattore tempo nelle scienze sociali
(in primis proprio in quelle giuridiche).
Immaginare una riflessione su un fenomeno o istituto giuridico fuori dallo spazio e dal
tempo è praticamente impossibile, visto che il diritto è una scienza sociale pratica, legata –
dal punto di vista spaziale – all’effettività dei comportamenti sociali (media osservanza) e –
dal punto di vista temporale – al c.d. «tempo storico» (da qui il riferimento agli istituti della
prescrizione, decadenza, usucapione, straordinarietà e urgenza del decreto legge,
eccezionalità/provvisorietà dello stato di guerra, ecc.), non certo quindi al c.d. «tempo
astratto» (vuoto, assoluto, matematico, o senza interessi umani).
Peraltro non è un tempo monologante quello del diritto: spesso in ritardo, altre volte in
anticipo su una promessa normativa che aspetta sempre il suo caso, il diritto regola il tempo
essendone a sua volta regolato (il caso Englaro insegna). Esso non vive mai esclusivamente
di presente, e, al contrario incorpora spesso l’anacronismo, cedendo alla tradizione e alla
dato positivo della legislazione.
Allo stesso modo la cultura costituzionale, che ha fatto proprio il pluralismo democratico, si
rivela essenzialmente nelle dimensioni del tempo e dello spazio. Nel tempo, la costituzione
del pluralismo organizza forme di competizione e di cooperazione tra i gruppi, canalizza il
dissenso e tiene aperte le possibilità di sviluppo storico, anche in termini di discontinuità tra
generazioni diverse di una comunità. Questo sviluppo può portare a un progresso, ma può
anche significare un regresso, non essendo il processo culturale un automatismo semovente
e irreversibile. Nello spazio, la costituzione del pluralismo e il pluralismo delle costituzioni
impongono l’obiettivo di uno “Stato costituzionale cooperativo”, un potere pubblico che
coopera tanto all’interno con le comunità locali e i corpi intermedi quanto all’esterno con i
soggetti pubblici e privati della comunità internazionale.
Tuttavia i fenomeni di ‘globalizzazione’2, per la loro stessa natura, sembrano rimettere in
discussione non solo l’ordinaria dimensione spaziale tipica del diritto moderno (i confini
dello Stato), ma anche la sua tradizionale e ben definita dimensione temporale. In questo
senso appare emblematica una riflessione dello storico francese Braudel che ci (come
occidentali) invitava a pensare a quello che sarebbe accaduto nelle nostre società una volta
che il tempo degli altri avesse penetrato il nostro tempo.
Gli effetti di questo ingresso li possiamo constatare nella nostra vita quotidiana, nelle nostre
città che si popolano di volti, idiomi, colori estranei, diversi. Questo ci conduce a cercare
regole, diritti e doveri validi per tutte le culture, a cui ogni individuo possa appellarsi e che
ognuno debba rispettare. Tuttavia questa prospettiva irenica non può oscurare il dato di fatto
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Testo della relazione esposta nel corso del ciclo di incontri <Cittadini si diventa>, percorso di formazione politica e di
educazione alla cittadinanza, Curno (BG), 21 settembre 2010
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Globalizzazione che può essere definita come una problematica e come descrizione di un processo non
ancora concluso, che determina una "accentuazione della velocità di trasmissione, per cui eventi locali
vengono influenzati da eventi lontani" oppure "l'aumento crescente e l'intensificazione delle relazioni di
traffico, di comunicazione e di scambio oltre i confini nazionali" (Habermas).
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che ci troviamo in una società conflittuale. Questo non deve affatto allarmare: che la società
sia conflittuale non significa che essa sia esposta all’anomia o minacciata dalla
disintegrazione. Il conflitto è una delle condizioni della (nostra) società, comunque venga
definita, e non costituisce per principio un evento patologico, esso rappresenta anzi un
elemento dinamico della società, la quale sussiste non tanto malgrado il conflitto, ma
proprio in forza di esso. E - con riguardo al nostro tema specifico - bisogna tener presente
che il diritto entra in azione proprio a causa del carattere conflittuale della società: esso,
infatti, «sfrutta le prospettive di conflitto» per svolgere la propria funzione d’ordine.
In questo quadro di complessità e in un tempo che pone domande più che dare risposte, la
cittadinanza diventa così un’idea unificante e non lo strumento che distingue o divide le
persone. Individua un patrimonio comune che appartiene a ciascun essere umano, un
crocevia di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l’identità politico-giuridica
del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica, l’intero corredo dei suoi diritti e
dei suoi doveri.
Questa idea della cittadinanza, che va oltre la tradizionale distinzione tra etnos e demos, si
presenta come passaporto culturale e ideale, come alfabeto essenziale per la polis
interetnica, affacciandoci, in modo efficacissimo e straniante, sul nostro inevitabile presente.
Siamo, infatti, chiamati, in questa prospettiva, a dimostrare, agli altri e a noi stessi, di essere
capaci di idee adeguate, in senso forte, perché siamo convocati, consapevoli o no, in un
mondo poliprospettico, in cui, da un lato, nessuna prospettiva può aspirare più a essere
centrale e in cui, dall’altro, la nostra stessa prospettiva non tollera di distanziarsi così tanto
da noi stessi da farci perdere identità.
Senza molteplicità non viviamo, senza identità non resistiamo.
E questa non è semplicemente una contraddizione, ma è la “contraddizione” della modernità
che dobbiamo cercare di comporre.
Facciamo parte di un mondo – si dice spesso – che ha perso il centro, tuttavia l’opportunità
di convertire la propria identità personale nella prospettiva dell’altro ci costringe a una
ginnastica mentale continua e ci rende prossimi a una molteplicità di vissuti che ci mettono
sul ciglio della vita nella dura e improvvisa necessità di capire.
In questa situazione, siamo chiamati a una duplice operazione: una di conversione, con cui
riuscire a vederci dal punto di vista dell’altro; e un’altra di pluralismo prospettico, che non
necessariamente conduce a un neorelativismo, nella misura in cui l’affermare una
molteplicità di prospettive a partire da più centri ha lo scopo di preservarne quanto è degno
di rispetto e di riflessione.
Tale duplice operazione si rende indispensabile, nella misura in cui noi possiamo avere
vissuti in comune con altri solo in quanto troviamo un senso comune al nostro vivere gli
altri come parte della nostra stessa comunità.
I diritti, la persona e il nostro tempo
Il tema dei diritti intreccia e si confonde con quello della libertà, come strumento di piena
espressione della persona umana, in questo campo quindi il richiamo alla Costituzione pare
ineludibile.
Se si escludono gli artt. 3 comma 2, 11, 36 e 41 comma 2 Cost. nei quali il vocabolo diritto
è utilizzato in senso generico, e l’art. 48 Cost che configura un diritto-dovere, in tutti gli
altri casi il Costituente allude con tale termine a diritti soggettivi di cui la libertà costituisce
il “contenuto” con riferimento o a comportamenti materiali (libertà di muoversi, di riunirsi e
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associarsi, di manifestare il proprio pensiero ecc.) o anche al compimento di atti giuridici
(libertà di sposarsi, di istituire scuole, di intraprendere iniziative economiche ecc.).
Caratteristico dei diritti è che essi nascono e si sviluppano gradualmente. In questo senso
storicamente «la pressione che i poteri dominanti hanno esercitato sulla libertà di
determinarsi dell’individuo ha contribuito a creare l’idea che uno speciale diritto del
singolo corrispondesse a ciascuna delle direzioni in cui si esercitava l’oppressione. Così
nasceva, oltre alla rivendicazione della libertà religiosa, quella alla libertà di stampa, libertà
di parola, di associazione e riunione, di espatrio, diritto di petizione, libertà dall’arresto…».
Si affermava quindi una libertà “al plurale”, in grado di trasformarsi via via in puntuali
diritti soggettivi spettanti al soggetto privato.
Secondo Abbagnano, dire che la libertà è possibilità di scelta implica politicamente che «un
tipo di governo è libero non già semplicemente se è scelto dai cittadini, ma se consente ai
cittadini in certi limiti una continua possibilità di scelta, nel senso della possibilità di
mantenerlo o modificarlo o eliminarlo». Il concetto di libertà che consegue da questa
definizione descrive il legame tra diritti di libertà e democrazia nel mondo contemporaneo
perché non presuppone certezze ma solo la concreta possibilità di esercizio dei diritti di
libertà da parte di tutti.
Questa accezione ben si attaglia allora allo «Stato costituzionale», e cioè a quella forma di
Stato che si è affermata nelle democrazie liberali del secondo dopoguerra, la quale non solo
deve assicurare, in continuità assiologica con il famoso art. 16 della Déclaration de droits
de l’homme del 1789, la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri, non solo deve
rendere effettivi, e non rinnegare, i principi dello Stato di diritto, e quindi il principio di
legalità, ma deve altresì prevedere, come garanzia della Costituzione - e soprattutto dei
diritti individuali da essa riconosciuti - un’efficace istanza giurisdizionale, terza e
imparziale, che giudichi della conformità a Costituzione di tutti i più importanti atti del
pubblico potere, ivi comprese le leggi.
Altrettanto tipico dello Stato costituzionale è quel fenomeno circolare per cui i singoli
devono rispettare l’ordinamento, ma l’ordinamento, per essere effettivo, ha bisogno del
contributo fattivo dei singoli. Pertanto, come i diritti sociali costituiscono le precondizioni
per un effettivo esercizio delle libertà civili, così le libertà civili costituiscono, a loro volta,
le precondizioni per un efficace esercizio dei diritti politici. In altre parole, le libertà civili
sarebbero le «ancelle» dei diritti politici, come un tempo si diceva che la proprietà era
l’«ancella» delle libertà civili. Anzi, in un’impostazione più complessa ma anche più
realistica dei reciproci rapporti tra diritti, ci si potrebbe spingere addirittura più in là, e si
potrebbe sostenere che i diritti di libertà e i diritti politici si pongono di fatto come
reciprocamente serventi, in una rete di situazioni giuridiche soggettive anche strutturalmente
diverse tra loro, ma tutte di fatto convergenti alla più piena realizzazione di una democrazia
liberale.
A conferma di ciò basta rammentare quali siano le condizioni di possibilità della
democrazia: sono condizioni procedurali e condizioni sostanziali che si traducono in diritti
di partecipazione e in diritti che condizionano, rendendola possibile ed efficace, la
partecipazione politica. Se infatti il diritto di voto non è riconosciuto a tutti, non c’è
democrazia. Ma a sua volta che cosa vale il diritto di voto senza la libertà di opinione
politica, il diritto di fondare movimenti e partiti politici, il diritto di conoscere senza inganni
la realtà delle questioni sulle quali si vota, il diritto di sapere chi sono coloro per i quali si
vota e quali sono gli interessi effettivi che li muovono nella sfera politica? Che cosa vale il
diritto di partecipare alla vita pubblica se non è garantito il diritto a condizioni di giustizia
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che consentano a tutti di disporre di tempo ed energie per dedicarsi, oltre che alle loro
esigenze primarie di esistenza, alle questioni comuni? Che cosa vale la democrazia se i
cittadini non sono nelle condizioni d’istruzione e cultura per comprendere la natura dei
problemi su cui si esprimono e i contenuti delle proposte sottoposte al loro giudizio?
Sono solo alcune delle domande (retoriche) – poste in varie occasioni da Gustavo
Zagrebelsky - che possono farsi sulle condizioni che permettono alla democrazia di essere
qualcosa di serio, qualcosa per cui vale la pena di impegnarsi, di dare qualcosa di sé e della
propria esistenza. Sono solo alcune domande, ma sufficienti a comprendere che la
democrazia non è una formuletta astratta d’organizzazione politica, ma una concezione
impegnativa della vita in comune.
Per tale motivo, la difesa della Costituzione e soprattutto dei suoi valori di fondo sono una
condizione essenziale per assicurare la stabilità democratica. Così, può dirsi, soprattutto, per
la tutela dei diritti fondamentali, intesi quali strumenti di riconoscimento e garanzia delle
istanze basilari di giustizia, il cui eventuale disconoscimento, de iure o de facto, avrebbe
l’effetto di introdurre evidenti tensioni sociali capaci di innescare un processo di
destabilizzazione dell’ordine giuridico-costituzionale.
Tale effetto di instabilità si profila storicamente all’orizzonte ogni qualvolta si registri la
“rimozione mentale” del necessario e primario rispetto della dignità della persona umana.
Non a caso è proprio tale valore, insieme al pluralismo assiologico, a costituire il perno
intorno al quale ruota la “novità” della Costituzione. A ben vedere, la prima presuppone e
garantisce il secondo, ove si consideri che «ogni valore di una Costituzione personalista
tutela un frammento di dignità», consentendone una necessaria visione d’insieme e, in
definitiva, si apre anche ad un confronto inevitabile sul diverso modo di essere intesa in
concreto. Si tratta dunque di un valore (o super-valore) costituzionale «che permea di sé il
diritto positivo».
Tuttavia lo stesso concetto fondamentale di dignità umana si situa in una sorta di terra di
nessuno, che presuppone una composizione tra visioni diverse, una sorta di consenso per
intersezione.
Vi sono, infatti, due visioni che si affrontano: per la prima la dignità umana è una moneta
spendibile nel foro, funzionale ad integrare l’impianto della difesa di diritti fondamentali
particolari quali ad es. la vita, l’incolumità fisica o le libertà, per fare vincere con il loro
peso i principi relativi nella ponderazione con altri principi confliggenti. Per cui chiunque
rivendica rispetto per la sua dignità deve contestualizzarla e relazionarla con altri diritti.
Per la seconda prospettiva viceversa le situazioni soggettive tutelate come diritto
fondamentale sono da “relativizzare” e debbono subire delle limitazioni in virtù di altri
valori costituzionali a tal fine si deve interrompere il nesso con la dignità umana.
A fronte di tali prospettive, il legislatore è quindi libero di risolvere collisioni tra diritti
fondamentali e ritoccare gli equilibri, ma deve fare i conti con il “peso” della dignità che
può far pendere la bilancia in una direzione o in un’altra.
Sicchè nessun interprete dei diritti può ignorare del tutto l’impostazione dell’altro: chi crede
in valori assoluti, deve riconoscere che assoluto è semmai solo quello della dignità e anche
quello può essere speso solo in un contesto concreto e in combinazione con un diritto
fondamentale specifico. Chi crede nel relativismo dei principi deve invece riconoscere che
almeno quello della dignità è relativamente superiore e viene applicato come una regola.
Il richiamo alla dignità è un argomento che definisce il “contenuto essenziale” del diritto,
anzi si potrebbe sostenere che ogni violazione del contenuto essenziale di un diritto
fondamentale è anche una violazione della dignità dell’uomo; in tal senso Peter Häberle ha
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ricordato che l’essenza della garanzia della dignità umana è quella di garantire nei vari
ambiti dei diritti e doveri, l’essere persona e l’identità personale.
Tuttavia vi è il rischio se l’appetito della giustizia aumenta e se si scopre come ogni
esperienza di ingiustizia tocca in qualche modo il sentimento di dignità, portando ad un uso
inflazionistica della dignità umana e a una sua banalizzazione come “moneta spicciola”
nelle liti quotidiane, che tale concetto sia usato come argomento solo apparente che serve a
bloccare il dialogo e le mediazioni, come maschera per le convinzioni di verità propagate da
una teologia o ideologia particolare.
Ma veniamo alla tematica dei diritti, che è necessariamente intrecciata con quella della
dignità umana, ricordando come i principi elencati nella prima parte della Costituzione
assumono una valenza giuridica di tale “essenzialità”, da poter affermare che la stessa
organizzazione dei poteri pubblici sia prevalentemente funzionale al loro svolgimento ed
alla loro attuazione.
Basti richiamare, a questo proposito, la “pietra angolare” costituita dall’art. 2 Cost. e il
riconoscimento in esso sancito dell’inscindibilità tra tre principi fondamentali, cioè quello
personalista, quello pluralista e quello solidarista. Così facendo, tale disposizione esprime
una visione dei rapporti tra persona e società e tra persona e ordinamento giuridico fondata
sul primato della persona, considerata nella sua dimensione “naturalmente” sociale, e sulla
connessa concezione del “bene comune” o dell’”interesse generale” come risultato
dell’apporto solidaristico di ogni componente della comunità sociale.
Occorre quindi tener presente che i diritti inviolabili, siano essi esplicitamente previsti o
desunti per implicito dalla Costituzione, rappresentano una vera e propria manifestazione
del principio personalista: tale principio invita ad una considerazione del soggetto non quale
monade isolata e avulsa dal mondo, bensì appunto come persona, tale proprio in quei
rapporti sociali di relazione che soli la sostanziano. E’ solo in tal modo che prende corpo la
realtà della moderna visione della persona umana, che dalla considerazione dell’uomo
generico si volge a riflettere sull’uomo specifico, ovvero nella specificità dei suoi diversi
status, definiti sulla base dei diversi criteri di differenziazione (il sesso, l’età, le condizioni
fisiche e personali). Così si esprime l’aspetto dinamico del principio di eguaglianza,
valorizzando la differenza come espressione dell’essenza di ciascuno.
L’affermarsi della cultura della diversità, il suo diverso relazionarsi, in un continuo processo
di composizione e di scomposizione, produce inevitabilmente una tendenza alla
frammentazione che può essere ricomposta solamente attraverso il richiamo alla categoria
unificante dello status personae che – in una lettura prospettica dei concetti – riassume,
senza negare, le peculiarità della singola condizione soggettiva. Ed è sul piano concreto
delle tecniche di tutela e non già su quello astratto delle categorizzazioni che si gioca la
vera partita circa l’affermazione di un principio di giustizia sostanziale. Lo si evince, a
livello giuridico, dagli artt. 2 e 3 cost.: l’uno poiché, come è noto, pone la “regola aurea” del
riconoscimento delle libertà inviolabili spettanti a ciascun uomo; l’altro, perchè più
concretamente individua i presupposti dell’inverarsi di una condizione di debolezza,
compensata dall’azione dell’eguaglianza.
Nella nostra realtà, la debolezza del singolo non è determinata solamente dalla sua
condizione sociale (ossia la tradizionale povertà materiale), ma dalla disparità di “accesso”
al sapere e ai suoi strumenti, derivante dal problematico rapporto tra avanzamento
tecnologico e il suo uso sociale
Davanti a noi si stagliano mutamenti che toccano l’antropologia stessa delle persone. Siamo
di fronte a slittamenti progressivi. Dalla persona “scrutata” attraverso la videosorveglianza e
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le tecniche biometriche si può passare ad una persona “modificata” dall’inserimento di
dispositivi elettronici, in un contesto che ci individua appunto come “networked persons”,
persone perennemente in rete, configurate in modo da emettere e ricevere impulsi che
consentono di rintracciare e ricostruire movimenti, abitudini, contatti, modificando così
l’autonomia delle persone. Ci avviciniamo così alle frontiere del post-umano, dove persone
e corpi diventano apparati tecnologicamente complessi.
La vita non è più un movimento libero e multiforme, ma una entità da tenere continuamente
sotto controllo per ricondurla implacabilmente sui binari della normalità.
Di fronte all’evoluzione del paradigma antropologico, la nostra Costituzione, nel suo
compiersi dinamico secondo il ‘verso’ pluralista e nell’impatto con l’esperienza, si mostra
generalmente responsiva agli interpreti che la interrogano, ossia in grado di offrire un
supporto ad un ventaglio di soluzioni anche eticamente, oltre che giuridicamente, molto
differenti l’una dall’altra quantunque tutte in qualche modo riconducibili al contesto dei
principi e valori ivi sanciti. In tal modo, la Carta costituzionale figura come sostegno
fondamentale di ipotesi regolative anche molto distanti tra loro, soprattutto nella soluzione
dei problemi connessi ai cd. diritti della vita.
Si conferma quindi che la principale garanzia dello stato costituzionale poggia su un
pluralismo istituzionale che rappresenta anche il riflesso di percezioni culturali che già nella
società si presentano distanti. Politeismo dei valori, pluralismo istituzionale e garanzia del
diritto e dei diritti giungono così a costituire il circolo virtuoso che dovrebbe animare le
dinamiche dello stato costituzionale contemporaneo.
Quelli che Bobbio ebbe a definire “diritti di terza generazione” dovrebbero quindi
caratterizzarsi come formule aperte, a geometria variabile, fondate sull’essere il risultato di
una procedura dialogica, di contrapposizione anche accesa ma sempre intellettualmente
onesta fra più componenti della società, della politica, della fede, della scienza, del diritto,
della cultura Un dialogo in cui nessuno vince sulla base dei rapporti di forza, ma con-vince
caso per caso chi dispone delle migliori argomentazioni. In questa prospettiva, si potrebbe
giungere alla formazione di un diritto mite che si legittima prevalentemente attraverso il
carattere plurale del procedimento di formazione: non veritas nec auctoritas sed pluritas
facit legem.
I doveri ovvero il senso della Repubblica
La persona, nel suo patrimonio identificativo ed irretrattabile, costituisce nella nostra
Costituzione il soggetto attorno al quale si incentrano diritti e doveri.
Parlare dei doveri è profondamente diverso che parlare dei diritti e richiede una
impostazione in grado di abbracciare più rapporti insieme: il punto di partenza, infatti, non è
la separazione tra Stato e società, o la salvaguardia della libertà nei confronti dell’autorità,
ma la ricostruzione della “comunità” e lo sviluppo, nelle relazioni intersoggettive, del
principio di solidarietà o – se si pensa ai principi della rivoluzione francese – a quello della
fraternità.
Questa concezione dei doveri è necessariamente connessa all’idea di comunità, come sede
del reciproco aiuto e sostegno, in cui gli individui si rendono consapevoli che la sorte di
ciascuno è legata a quella di tutti.
Tale componente giustamente è stata definita quale“emozionale e simbolica” rinviando alla
“molteplicità dei legami che tengono insieme una collettività, agli impegni assunti
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reciprocamente dai suoi componenti prima ed oltre di quelli nei confronti di un’autorità
superiore, agli impegni assunti non in cambio di, ma in quanto parti di qualcosa”.
Si deve quindi dedicare attenzione al significato e funzione dei doveri nella costruzione
delle relazioni civiche all’interno di una collettività, in quanto i doveri, molto più dei diritti,
hanno storicamente rappresentato gli elementi essenziali di quel «rapporto di esclusione»
che costituisce uno dei principali elementi caratterizzanti della cittadinanza nazionale.
Paradossalmente, i doveri contribuiscono a definire lo status del «cittadino nazionale» assai
più dei diritti.
E’ infatti difficilmente negabile che i doveri siano stati utilizzati molto più dei diritti, nelle
diverse stagioni costituenti, allo specifico scopo di costruire identità civiche, e che anzi
proprio l’individuazione puntuale di specifici doveri costituzionali abbia rappresentato un
tentativo di compattare la comunità dei cittadini attorno alla forma istituzionale che il potere
sovrano pretendeva di introdurre. Come è stato osservato, le Costituzioni hanno spesso
puntato sui doveri per «riscrivere i canoni dell’appartenenza alla comunità sulla base
dell’impegno civico e dell’adesione al sistema instaurato» (Bascherini).
Nello stesso tempo la teoria dei doveri ha consentito, come affermato da Pietro Costa, lo
sviluppo di un «processo di più o meno consapevole estensione del campo semantico del
termine cittadinanza» volto a ridefinire alcuni parametri tradizionali che gli aspetti
multiculturali delle nostre società stanno mettendo in crisi.
In questo senso, la «comunità di diritti e di doveri» (richiamata dalla Corte costituzionale
nella sentenza n. 172/1999 sul dovere del servizio militare per gli apolidi) sembra quasi
sostituire la “Costituzione” alla “nazione” come idea unificante, si tratta di una comunità
aperta che si fonda sull’idea della necessità di “retribuire” la fortuna di poter beneficiare di
diritti fondamentali concretamente garantiti, attraverso l’adempimento di doveri di
solidarietà, primo tra i quali il dovere di difendere quei principi che la Costituzione
proclama e rende effettivi. Il patriottismo (ovvero il dovere di difendere la patria) evocato
dall’articolo 52 si funzionalizza alla Costituzione, divenendo patriottismo costituzionale e
sganciandosi inevitabilmente dalle categorie tradizionali della cittadinanza nazionale.
Questo respiro internazionale si coglie nella Costituzione della Repubblica ove si dichiara,
all’art. 2, di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e di richiedere “l'adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”.
La maggiore accentuazione dei diritti inviolabili tuttavia non ha impedito al Costituente di
sottolineare il rilievo che viene attribuito ai doveri, la cui qualificazione come
"irrinunciabili" sta a significare che l’individuo non può sottrarsi al compito di dare ad essi
soddisfazione e lo Stato stesso non può cancellare, con le sue leggi, i doveri, esonerando
l’uomo dal loro adempimento.
I diritti inviolabili e i doveri inderogabili, nel loro nucleo, sono sottratti, quindi, alle
decisioni del legislatore ordinario e sono destinati a coesistere nell’ordinamento in un
rapporto di reciproco bilanciamento, influenza e limitazione.
Anche se appare innegabile che i diritti e i doveri siano in un rapporto di reciproco
bilanciamento, il termine correlato all’individuo, al cittadino, non è, come nel tradizionale
rapporto tra libertà e autorità, lo Stato, bensì l’individuo stesso, partecipe della collettività.
Infatti l’art. 2 Cost. giustifica la richiesta di adempimento dei doveri sulla base del principio
di solidarietà, che impone la soddisfazione di esigenze, che fanno capo agli stessi membri
della collettività che sono titolari dei diritti. Diritti e doveri si bilanciano e si limitano,
quindi, non perché gli uni appartengono all’individuo e gli altri facciano capo allo Stato, ma
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perché la Repubblica ha scelto di elevare a suo principio caratterizzante la solidarietà tra i
componenti della società, per cui ognuno deve farsi carico di una parte dei bisogni degli
altri, accettando una limitazione della propria sfera dei diritti anche fondamentali 3.
Attraverso il richiamo alle forme della solidarietà, la Costituzione non ha ovviamente
l’obbiettivo di realizzare la completa omogeneità sociale, ma al contrario, quella
integrazione minima necessaria a evitare la disgregazione all’interno di una società che
mantiene il suo carattere accentuatamente pluralistico. Il pluralismo sociale viene mediato
attraverso la funzione normativa della solidarietà, che grazie all’adempimento dei doveri
opera per scongiurare la disgregazione postulando «attorno ai principi istituzionali
dell’ordinamento» un minimo di consenso.
Il richiamo costituzionale alla solidarietà, "valore fondamentale" dell’ordinamento giuridico
italiano, apre agevolmente la strada per spingere più oltre il discorso sui doveri, offrendo un
sicuro fondamento all’espansione di tale categoria. E’ necessario riflettere su tale tema, sia
con riguardo alla dimensione temporale (la solidarietà intergenerazionale); sia con riguardo
ai mutamenti della comunità nazionale (uno per tutti l’integrazione degli stranieri), sia con
riguardo alla dimensione spaziale. In particolare, la possibile attuazione del federalismo
fiscale, in tanto in quanto si baserà sul criterio della territorialità (ogni territorio trattiene
tendenzialmente ciò che impone) porrà problemi di redistribuzione e di perequazione che
non potranno che chiamare in causa i doveri di solidarietà.
Tuttavia la difficoltà di individuare doveri nuovi rispetto a quelli già previsti dalle singole
norme costituzionali sta nella circostanza per cui l’assolvimento del dovere di prestazioni
patrimoniali e personali e di concorso alle spese pubbliche appare lo strumento più idoneo
per essere solidali con i bisogni altrui.
Pare interessante concludere accennando ad un dovere implicito, di cui si è molto discusso,
ossia il dovere, posto a carico dell’imprenditore, di svolgere la libera iniziativa economica
privata (art. 41) in maniera conforme all’utilità sociale ed il dovere ancor più rilevante di
non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
L’art. 41 Cost., come del resto gli altri articoli del Titolo III, è stato formulato in un contesto
storico, politico e culturale nel quale era dominante una visione fortemente interventista
dello Stato in economia. La domanda che ci si pone spesso oggi è se che la Costituzione sul
punto sia obsoleta e possa essere resa più specifica per quanto riguarda gli aspetti economici
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La Parte I si compone di IV Titoli, dedicati rispettivamente ai rapporti civili, ai rapporti sociali, ai rapporti
economici e, infine, ai rapporti politici.
La semplice lettura delle varie disposizioni, di cui si compone ogni Titolo, consente un'immediata conclusione:
quantunque tutti e quattro i Titoli siano dedicati ai Diritti e ai Doveri, la previsione dei diritti e della loro tutela è, a
dir poco, esorbitante rispetto alla previsione di doveri.
Nel Titoli I, dedicato ai rapporti civili, non si rinviene mai l'esplicita affermazione dell'esistenza di un dovere; nel
Titolo II, che riguarda i rapporti etico-sociali, la tendenza all'accentuazione dei diritti dei cittadini si attenua e si
stempera in proposizioni normative rivolte, più che ad assicurare garanzie, a porre le regole di base del
funzionamento di istituti importantissimi quali la famiglia e la scuola. Resta, comunque, il fatto che una sola volta,
all'art. 30, è esplicitamente sancito un dovere, quello dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli.
Nel Titolo III, dedicato ai rapporti economici, quantunque prevalga una disciplina d'indirizzo dei poteri dello Stato
e dei modi di godimento dei diritti ivi previsti, non si rinviene l'imposizione di alcun dovere.
Il Titolo IV, che riguarda i rapporti politici, è quello dove si trova più volte l'esplicita affermazione di doveri dei
cittadini: l'art. 48 definisce l'esercizio del voto come un "dovere civico"; l'art. 52 considera la difesa della Patria
"sacro dovere" del cittadino e del pari doveroso (obbligatorio) il servizio militare; l'art. 53 considera un dovere
quello di concorrere alle spese pubbliche mentre il successivo art. 54 impone il dovere di fedeltà alla Repubblica e
di osservanza della Costituzione e delle leggi. L’art. 54 si chiude con la menzione del dovere dei cittadini, cui
sono affidate funzioni pubbliche, di adempierle con disciplina e onore.
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toccati nell’art. 41, in modo da rispondere ai nuovi termini nei quali si pone il rapporto tra
intervento pubblico e mercato.
Secondo i sostenitori della riforma dell’art. 41 «i problemi economici che oggi abbiamo di
fronte (alto debito pubblico, scarsa competitività, apparati pubblici pletorici ed inefficienti,
iperegolazione delle attività economico-produttive, burocratizzazione della vita sociale) si
sono determinati con il concorso delle previsioni costituzionali»
In realtà la proposta di modifica in discussione rappresenta – come la definisce il prof.
Onida – una «trovata», ovvero un semplice diversivo, che avrebbe in realtà altri scopi,
poiché sarebbe «grave se si volesse davvero smantellare ogni baluardo costituzionale a
difesa dell’interesse collettivo».
E’ bene ricordare infatti che i principî enunciati dall’art. 41 si riferiscono ai limiti e ai criteri
su cui è plasmata la legislazione ordinaria, intorno ai quali l’attività economica deve essere
improntata: l’«utilità sociale», in contrasto con la quale non può svolgersi l’iniziativa
economica privata, nonché il divieto per la stessa di «recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana»; i «fini sociali», ai quali l’attività economica pubblica e privata
deve essere indirizzata e coordinata.
Si tratta di principî «difficilmente contestabili», perché nessuno oserebbe predicarne il
contrario, «o vogliamo affermare solennemente che l’iniziativa economica può svolgersi
anche “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”?». O «che
le imprese d’ora in poi saranno inutili o dannose? Che gli industriali devono esser liberi di
brevettare giocattoli pericolosi, auto inquinanti, ecomostri, farmaci nocivi? Che possono
trasformare le loro fabbriche in altrettanti lager?».
I doveri implicitamente affermati nell’art. 41 – in quanto prescrittivi di contenuti sostanziali
elaborati nella cultura solidaristica dei Padri costituenti, per quanto oggi culturalmente
recessivi – servono proprio per controllare, nel merito, la legittimità di future discipline di
deregolamentazione in materia di attività economiche.
Da qui la necessità di salvaguardare la Costituzione nel suo intreccio inscindibile di diritti e
di doveri, volti a tutelare la persona nel suo libero svolgersi come singolo e nella comunità
sociale.
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