Parmenide - Macrobiotica

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1.2 – Parmenide
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1.2 - Parmenide.
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Definendo Eraclito come filosofo del divenire e Parmenide come scopritore dell'immutabilità dell'essere si
determina una contrapposizione nella quale, per la sua rigidità, si perdono completamente intuizioni e
suggestioni filosofiche fondamentali che vedremo riemergere nei secoli successivi, nella storia della filosofia.
Abbiamo già visto che Eraclito, partendo dall'evidenza quotidiana, ci porta a conclusioni provocatorie, per
cui alla realtà, che è un fluire nel quale l'uomo comune si smarrisce, sovrintende un logos che non si
configura come divinità personale; è un logos immanente-trascendente, inafferrabile sul piano logico e
concettuale: il logos, il senso del mondo è nell'eterno capovolgersi delle prospettive, per cui la verità è tutto e
il contrario di tutto. La razionalità del mondo si può recuperare solo su un piano intuitivo, a cui il filosofo ci
conduce passo passo, partendo dall'analisi della realtà di cui è intessuto il piano esistenziale: il fluire del
tempo, il divenire delle cose, il nascere e il morire. Il pensiero eracliteo è impegnativo perchè, partendo da
questa dimensione di evidenza che è sotto gli occhi di tutti, propone un salto che pochi riescono ad operare:
l'uomo comune non riesce a cogliere il logos e, ancora più difficilmente, riesce ad operare in se stesso il salto
evolutivo grazie al quale scoprire l'infinito che ci costituisce, per cui io posso diventare quell'evento e quel
punto singolare nel quale il bene e il male emergono come tali e le cose che l'umanità vive come destino
diventano invece scelta consapevole. Malattia e salute sono soltanto squilibrio o equilibrio, ma questo
equilibrio si costituisce nel fiume del divenire: è, quindi, equilibrio dinamico, mai definitivo, che nessun
dormiente può sperare di conseguire consapevolmente.
Il filosofo, il risvegliato, è l'io che sa dirigere le proprie scelte nella vita e oltre la vita, nel senso che vivendo
consapevolmente sa scegliere tra lo yin e lo yang e ciò non produce solo lo stato di equilibrio che si chiama
salute ma realizza contemporaneamente una vita che, come karma, costituisce la premessa che spiega
razionalmente le condizioni di partenza di una vita futura. Il logos si manifesta, quindi, come il passato che
spiega il presente e che, insieme ad esso, condiziona il futuro: nell'io consapevole l'anima si rivela come
infinito quando nel suo insondabile abisso avviene la scelta per la quale e nella quale bene e male perdono la
loro unilateralità e irriducibilità e, in tale evento, il peso del nostro passato come capacità di condizionare il
futuro si riduce in funzione della consapevolezza via via raggiunta.
Con Parmenide la situazione cambia: l'affermazione "l'essere è", con la quale si è soliti sintetizzare il suo
pensiero, con la banalità dell'evidenza tautologica copre uno spessore problematico che solo la riflessione
filosofica riesce a cogliere: l'apparente banalità della formula nasconde una vertiginosa profondità metafisica.
"L'Essere è" significa "Dio esiste", ma in una accezione che il credente di solito non prende in
considerazione. L'esistenza di Dio come infinito in atto riduce a illusione la molteplicità e il divenire: in altre
parole, annienta il nostro mondo, la nostra realtà. Si parte dalla intuizione dell'essere nella sua dimensione
assoluta nella quale il divenire, la molteplicità, lo stesso capovolgersi di ogni prospettiva cessano di essere
significativi. Vita e morte si costituiscono come realtà nel tempo e, in esso, si oppongono diventando
reciprocamente incomprensibili. La dimensione parmenidea è l'eterno infinito presente nel quale, scomparso
il tempo, le opposizioni spariscono: vita e morte, salute e malattia, io e non-io si rivelano illusioni perché
l'Essere è. Quando Platone, accennando a Parmenide, lo definisce "venerando e terribile" coglie a fondo
l'abisso dell'"Essere è" per cui, se solo si cerca di approfondire con discorsi e con analisi concettuale questa
affermazione si esce dall'assoluto dell'intuizione per ritrovarsi nel finito, nel molteplice, nella temporalità.
Quando si afferma che Parmenide parte dall'intuizione dell'essere, ci si trova di fronte ad una proposta che
richiede un impegnativo sforzo di riflessione: l'uomo comune coglie la molteplicità e il divenire, non l'essere.
Nel “l’Essere è" abbiamo il trascendimento totale di ciò che normalmente si chiama realtà e vita. Il divenire di
Eraclito è sotto gli occhi di tutti, è la vita vissuta. L'Essere è, è un concetto limite, una intuizione che è la
massima astrazione a cui la mente umana possa giungere. Solo chi ne realizza in profondità il significato può
intuire il senso dell'espressione biblica "Io sono colui che è" ma, in realtà, l'espressione parmenidea
costituisce un enunciato molto più impegnativo e, filosoficamente, più corretto dell'espressione biblica, la
quale nasconde una trappola. E' la trappola della personalità di Dio, per cui siamo in presenza di ciò che
Hegel chiamerà il "cattivo infinito": un Dio che è ancora un "io", un "colui che". Di fronte al “l’Essere è", e sono
parole testuali di Parmenide, "...saranno tutte soltanto parole, quanto i mortali hanno stabilito, convinti che
fosse vero: nascere e perire, essere e non essere, cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore."
(Diels, 22B, 8, 42).
Parmenide scopre la potenza del pensiero umano: esso, come consapevolezza, coglie se stesso e può
spiegare contemporaneamente la materia. Per noi, figli della cultura occidentale, è una filosofia inquietante
perchè nel suo spiegare la materia, recuperandola all'interno di una visione monista, la riduce ad illusione,
anticipando con ciò di molti secoli quello che sarà l'esito dell'idealismo. Se rileggiamo, tra i frammenti
pervenutici, questi due passi:
"E' la stessa cosa pensare e pensare che è, perchè senza l'essere, in ciò che è detto, non troverai il
pensare..."
(Diels, 28B, 8, 38).
"Suvvia, io dirò, tu intanto ascolta e accogli la mia rivelazione, cioè quali sole vie di ricerca siano
logicamente pensabili: e, precisamente, in quale modo una esiste e non è possibile che non esista - è il
cammino della Persuasione (infatti accompagna la Verità) - e che l'altra non esiste e che è logico non esista:
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io ti chiarisco come questo sia un sentiero che non si può scrutare; infatti non potresti conoscere il nonessere, chè ciò non è fattibile, nè esprimerlo." (Diels, 28B, 2)
ebbene, ci rendiamo conto che, se per definizione la materia è qualitativamente diversa dal pensiero, e il
pensiero, come consapevolezza, è momento dell'essere, la materia diventa necessariamente non essere. Si
potrebbe obiettare che è un altro momento dell'essere, contrapposto al pensiero ma, a parte il rischio di
ritrovarci nella filosofia di Eraclito, resta il fatto che, se così fosse, la filosofia avrebbe fallito. Se filosofare è
cercare il senso del mondo, scoprire che esso è costituito di due principi inconciliabili e, quindi,
reciprocamente incomprensibili significa ritrovarci in quella che sarà la problematica conclusione del pensiero
aristotelico: la realtà è costituita di due principi opposti che, nella loro essenza sono dei concetti limite, delle
pure astrazioni.
La conseguenza di tutto ciò sarà la scoperta che il reale è costituito di un indefinibile numero di realtà
impregnate dei due principi: la dicotomia aristotelica non riuscirà a chiarire dove "finisce" la materia e
"comincia" il pensiero negli uomini, negli animali, nei vegetali, nei cristalli. Si cade in una infinita molteplicità
che ci costringe a constatare l'impossibilità di risolvere una ricerca che, nel suo procedere, approda alla
consapevolezza di un moltiplicarsi all'infinito dei problemi. E, ancora, siamo così sicuri di poter distinguere
con precisione il confine tra la dimensione animale e quella vegetale, tra il mondo organico e quello
inorganico? L'attuale stato delle conoscenze a livello subatomico rende insostenibili le certezze cartesiane
che ci hanno accompagnato per tanti secoli. Ma, allora, non potrebbe essere più giusto il discorso
parmenideo sulla unicità dell'essere? Nel momento in cui la fisica afferma che la materia è energia, perchè
non riconoscere che anche il pensiero lo è? L'attuale stato della scienza ammette la possibilità di una ipotesi,
che fino a pochi decenni fa nessuno avrebbe mai pensato proponibile in campo scientifico: l'ipotesi secondo
la quale si può affermare addirittura che, in realtà, il pensiero precede e pone la materia, nel senso che
nell'esperimento di laboratorio lo scienziato vedrà e misurerà ciò che ha pensato, proprio per il fatto di averlo
pensato. Nella storia della filosofia occidentale si è sostenuta più volte questa tesi e Parmenide è il primo ad
averlo fatto. Se pensiamo al discorso berkeleyano ("Trattato sui principi della conoscenza umana" § 5):
"... Vi può essere infatti uno sforzo di astrazione più
elegante di quello che riesce a distinguere
l'esistenza di oggetti sensibili dal fatto che essi sono percepiti, sì da pensare che essi non vengano
percepiti?..."
vediamo recuperata in pieno l'intuizione di Parmenide. Secondo Berkeley, infatti, se percepire un oggetto
è, in ultima analisi, un momento di coscienza, dire che un oggetto esiste anche senza che io lo pensi
diventa un "elegante sforzo di astrazione" che, come tale, resta comunque all'interno della dimensione del
pensiero. Ecco il senso della affermazione secondo cui Parmenide scopre la potenza del pensiero: con il
pensiero posso affermare che la materia non esiste senza che, per questo, il mondo, che è la mia coscienza
del mondo, cambi. La materia, come tale, non potrà mai "sapere" che esiste il pensiero e, quando il
materialista definisce fantasma, puro nulla, il pensiero come contrapposto alla realtà del mondo materiale,
non riuscirà più a spiegare come possa quel puro nulla che è il pensiero cambiare il mondo, come si possa
dalla dimensione mentale del progetto passare alla costruzione del ponte o della diga che cambiano il
mondo. Quando Fichte definirà come dogmatico rinunciatario il materialismo, avrà le sue radici filosofiche nel
pensiero di Parmenide. Ancora, quando alcuni filosofi proporranno la prova ontologica per dimostrare che
Dio esiste, non faranno che cercare di innestare nell'ortodossia cristiana l'intuizione di evidenza assoluta del
“l’Essere è", in realtà, però, perdendo con l'affermazione della personalità divina lo spessore ontologicometafisico della intuizione parmenidea. Consapevoli del rischio insito in tutte le sintesi estreme, potremmo
dire che gli empiristi sceglieranno il punto di partenza del pensiero eracliteo, mentre gli idealisti si
riconosceranno nella intuizione parmenidea. Se, però, il pensiero eracliteo sfocia nell'intuizione del logos che
ripropone se stesso aprendo in tal modo all'intuizione di Parmenide, non così avviene per quest'ultimo:
"l'Essere è" è una sorta di buco nero da cui la realtà spazio-tempo non può più riemergere.
L'intuizione dell'assoluto può essere il traguardo di un lungo percorso filosofico di ricerca ma non può,
come intuizione di partenza, preludere ad un discorso filosofico che, per definizione, è ricerca. L'"Essere è" è
possesso della verità e, come tale, non ha più bisogno di ricerca alcuna: è contemporaneamente inizio e
termine del filosofare. Parmenide può concludere un pensiero come quello eracliteo mentre sarebbe assurdo
pretendere da lui uno sviluppo. La ricerca, con Parmenide, diventa semmai percorso interiore: è il soggetto
che si sente nell'essere e che, quindi, non si propone più come punto di riferimento privilegiato attorno a cui
costruire una spiegazione del mondo: l'io individuale, postosi nell'ottica dell'unità dell'essere, intuisce il senso
profondo dell'affermazione parmenidea della illusorietà della dimensione spaziale e temporale. Chi entra in
profondità nella intuizione di Parmenide esce dalla ricerca filosofica: quando si riesce a mettere a fuoco
l’intuizione del “l'Essere è”, si è dei mistici e non più dei filosofi e la nuova consapevolezza acquista dei
connotati tali da porre il mistico ai margini della civiltà occidentale.
Nei secoli scorsi l'Europa ha prodotto un certo numero di mistici ma questi, quando già non si
autoemarginavano dal contesto sociale, vennero sistematicamente strumentalizzati: preziosi punti di
riferimento e di prestigio in un monastero, dove il carisma del mistico si poneva come nucleo attorno a cui
sedimentare e decantare la pericolosa tensione religiosa dei radicali, sempre scomodi sia per la chiesa che
per lo stato se fuori dalla solitudine e dal silenzio di un monastero. Per il resto il mistico europeo si è sempre
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trovato in difficoltà nel produrre modelli culturali utilizzabili per cambiare la vita e il mondo di coloro che
vivevano al di fuori del monastero. Non stupisce quindi che, non appena il peso politico della chiesa
comincerà a ridursi, la cultura occidentale si definisca progressivamente come rifiuto della metafisica. Può
stupire, invece, che la scienza del ventesimo secolo, e proprio la fisica che in modo inequivocabile aveva
ridotto la realtà scientificamente significativa al divenire e al molteplice, stiano riscoprendo la realtà del
pensiero che può spiegare il mondo e, all'occorrenza, cambiarlo. Coloro che sono giunti a questa svolta
hanno intuito che la retta, nella quale con orientamenti diversi, possiamo vedere da una parte il passato e
dall'altra il futuro, è l'intuizione dell'infinito che diventa in qualche modo accessibile alla coscienza umana nel
suo contradditorio scindersi nel transfinito delle semirette opposte aventi lo stesso punto di origine: punto di
origine che non ha dimensioni spaziali e, per tanti versi, è il corrispettivo di quel momento-punto singolare
che gli astrofici hanno definito Big bang. Quando Cusano affermerà che una retta coincide con una
circonferenza di raggio infinito recupera, anche egli, l'intuizione parmenidea per cui nell'essere come realtà
assoluta le realtà individuate diventano illusorie. Nell'infinito, l'essere si ripropone come uno, che, come dirà
Platone, non è l'unità dei bottegai e dei geometri ma è l'Uno del matematico-filosofo che ha ritrovato se
stesso in Dio. La retta è un concetto limite, è una pura intuizione intraducibile in concetti definiti
esaustivamente sul piano intellettuale; se la si definisce come l'insieme di due semirette adiacenti, si afferma
che la retta è la "somma" di due cose che sono logicamente assurde: la semiretta è un infinito che ha una
origine. A questo punto è la "realtà" della retta che fonda la semiretta e non viceversa. Ecco, la dimensione
impegnativa della filosofia di Parmenide sta proprio in questo suo partire dall'intuizione dell'assoluto. In realtà
lo stesso Parmenide, quando cerca di "uscire" dalla assiomatica intuizione dell'essere nel tentativo di provare
a delineare su un piano concettuale l'intuizione fondamentale, rivela l'impossibilità di trovare immagini ben
definite e non contradditorie:
"...poichè esiste un limite estremo, l'essere è limitato da tutte le direzioni simile alla massa di sfera rotonda,
ugualmente pesante dal centro in ogni parte: infatti è necessario che esso non sia in qualche modo più
grande o in qualche modo più piccolo in questa o in quella parte, poiché non esiste, no, qualche cosa che
possa arrestare il suo adeguarsi all'eguaglianza, nè è possibile che un essere sia dell'essere da una parte
più, dall'altra meno, poichè è tutto inviolabile: perciò da tutte le parti eguale a se stesso, in modo eguale sta
entro i limiti."
(Diels, 22B, 8, 48)
nel suo esprimersi "...poichè esiste un limite estremo, l'essere è limitato da tutte le direzioni..." emerge con
evidenza l'impossibilità di pensare e descrivere l'infinito in atto: nessuno può farlo e Parmenide, rivelando con
ciò una caratteristica tipica del pensiero greco antico, piuttosto che rischiare di ritrovarsi nell' "apeiron",
l’infinito-indefinibile di Anassimandro preferisce descrivere l'essere come realtà "finita", cioè perfetta,
conclusa, compiuta. Con lui la cultura greca spinge il pensiero ai limiti delle proprie capacità.
Il percorso filosofico di Eraclito è in un certo senso, come partenza della ricerca, più agevole, perchè si
comincia dal finito: il fatto che poi, proprio da questa dimensione egli possa giungere all'infinito è una ulteriore
sottile conferma dell'intuizione parmenidea dell'unità dell'essere: da qualunque parte si cominci si è sempre
nell'essere e, quando la analisi e la consapevolezza saranno adeguatamente cresciute, ci si ritrova immersi
nell'Uno e, proprio per questo, questa scoperta si definisce come autoconsapevolezza.
Niels Bohr, premio Nobel per la fisica, che riscopre il taoismo e, con esso, il logos eracliteo, che è il modo
di recuperare l'Uno avendo alle spalle una vita di ricerca nata dal presupposto che la realtà è molteplicità, è
espressione esemplare di una evoluzione fino al diciannovesimo secolo impensabile nel mondo scientifico. In
questo senso si possono capire due diverse affermazioni tendenti a mettere in luce in modo dialettico la
filosofia eraclitea e quella parmenidea.
La prima definisce il pensiero eracliteo come un insegnamento preliminare: si entra in una scuola iniziatica
ed Eraclito costituisce il primo livello di apprendimento, con il quale si può giungere ad una maggiore
consapevolezza della vita come viaggio dal passato al futuro. Chi riesce a rimettere in discussione le
certezze dell'uomo comune, certezze che hanno condizionato la sua vita di non iniziato, arriva a scoprire
l'infinito potere dell'io che, nella nuova consapevolezza, giunge a scegliersi con una intensità irraggiungibile in
condizioni normali, tanto da potersi sentire detentore di un potere che dà le vertigini: il potere di calare in
quello che chiamiamo il piano della realtà l'infinito costituente il piano della possibilità. Il dormiente è vissuto
dagli eventi, in lui qualcosa si manifesta ma questo qualcosa è lo spirito oggettivo di Hegel: il dormiente è un
soggetto sul piano anagrafico ma, sostanzialmente, egli è ciò che la sua famiglia, la parentela, la cerchia di
conoscenze, la classe sociale e la società in cui è vissuto hanno plasmato. Nella migliore delle ipotesi è un
momento nel quale si esprimono una ideologia politica e/o religiosa e, nella peggiore, un insieme di tendenze
istintuali divenute stile di vita in un particolare contesto storico e sociale. Il risvegliato si è liberato da questi
condizionamenti ed è, in tutti i sensi, rinato. E' una rinascita, però, da intendersi nella sua accezione più
radicale perchè non si tratta soltanto di una rimessa in discussione di certezze precedenti, cosa già non facile
e, quindi, non di tutti, ma, molto di più, si tratta di realizzare la consapevolezza della relatività e
complementarietà di tutto ciò che per i dormienti è invece ciò per cui merita vivere e, al limite, morire. Qui e
solo qui può inserirsi come ulteriore possibile sviluppo la filosofia di Parmenide che potrebbe essere definita
come l'insegnamento iniziatico di secondo livello. Al dormiente, che teme la morte, si può insegnare che
esiste la reincarnazione e, in essa, il capovolgimento del rapporto tra vita e morte per cui, al limite, la morte
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diventa la madre della vita e non più la sua nullificazione. Ma, quando il dormiente è divenuto un risvegliato,
allora e solo allora si potrà insegnare che credere nella reincarnazione è ancora essere lontani dalla verità
perchè si è ancora radicati in un bisogno di sopravvivenza dell'io che, per definizione, individua l'altro come
problema. Colui che ha capito il senso profondo del messaggio eracliteo è giunto alla intuizione del logos
che, nel divenire, afferma unicamente ed eternamente se stesso. E qui siamo nell'Essere è di Parmenide:
momento culminante di un lungo processo di analisi critica e ingresso in una nuova dimensione, l'intuizione
del mistico che ha perduto se stesso perchè ha trovato Dio o, meglio, ha compreso se stesso come
"momento" dell'eterno infinito Essere che è.
Un secondo modo di rapportare Eraclito e Parmenide potrebbe essere l'affermazione che, con essi, il
pensiero umano ha delineato i due invalicabili limiti all'interno dei quali si sviluppa la ricerca filosofica.
L'eterno divenire o l'eterna immobilità dell'essere, quando non vengono intuite come coincidenti,
rappresentano le uniche due alternative possibili. L'affermazione che il mondo sia nato in un punto e in un
istante "singolari" che la scienza ha chiamato Big bang se, come teoria, esclude che ciò rientri in un ciclico
eterno pulsare dell'essere, è la negazione di qualunque significato del mondo: è affermare l'assurdità della
filosofia come ricerca, dal momento che l'esserci del mondo sarebbe frutto del puro caso. E, comunque, se
un eterno pulsare tra Big bang e Big crash ci riporta al pensiero eracliteo la affermazione che il mondo è nato
per caso potrebbe essere vista come la versione laica della teologia negativa, per cui nessun discorso
razionale può essere fatto su Dio: in ultima analisi, se è vero che il caso si prospetterebbe come il nulla che
toglie qualunque possibile significato all'esserci del mondo, fino a qual punto non coinciderebbe con il Caso,
un Dio imperscrutabile e inaccessibile alla mente umana? Ma questo è Parmenide, nel senso che è la sua
stessa intuizione vista da una angolazione negativa. Se vogliamo fare filosofia questa è l'unica scelta
possibile: o il caso è il Caso oppure è meglio riimmergerci nell'innocenza animale. Non si vede infatti che
cosa di buono ci possa derivare da una ricerca che si conclude nella heideggeriana lucida follia per cui l'unica
certezza è la realtà della morte, intesa come nullificazione totale e definitiva.
Ecco allora il pensiero di Eraclito e di Parmenide porsi come momento nel quale il pensiero occidentale ha
individuato il campo e i confini di ciò che significa fare filosofia: nessuno riuscirà a dilatare ulteriormente
questi confini. I grandi filosofi saranno quelli che, in un contesto storico e culturale diverso, scaveranno più a
fondo lo stesso terreno, saranno cioè capaci di riesprimere le intuizioni dei due filosofi rendendole accessibili
a strati sempre più ampi di umanità, a rendere più facilmente assimilabili profondità di riflessione che, nei
frammenti pervenutici delle opere dei due filosofi greci, sono difficilmente proponibili. I grandissimi filosofi
saranno invece quelli, e nella storia della filosofia occidentale sono più numerosi di quanto non appaia a
prima vista, che invece riescono a intuire la sostanziale convergenza dei limiti delineati dal divenire eracliteo
e dall'eterna immobilità parmenidea e cercheranno di spingere la mente umana oltre i limiti che la logica
coglie come insanabili contraddizioni. Questi filosofi cercheranno di farci intuire che il divenire dell'essere
nasce dal nostro modo di essere coscienti; il tempo non esiste fuori di noi ma è la condizione senza la quale
non sapremmo di esserci: l'orizzonte di ricerca filosofica, che in un primo tempo sembra estendersi su una
dimensione di opposizione lineare con le due estremità dell'eterno divenire e dell'eterno infinito presente, si
richiude e si unifica nella scoperta del logos che si esprime nel divenire e che, nel suo significato filosofico
più profondo, coincide con il vertiginoso abisso dell'identità di Dio che, come assoluto, non può che riproporre
eternamente se stesso.
Le intuizioni di Parmenide sono affascinanti perché ci invitano, pur essendo nel tempo, a proiettarci fuori di
esso, a proiettarci nel “l’Essere è”, a proiettarci nell’eternità di Dio per arrivare a cogliere l’Infinito che è la
nostra radice e che in noi si esprime. Sono attimi di intuizione che, appena percepiti, immediatamente
sfuggono perchè in realtà noi ci siamo già in Dio, ci siamo da sempre.
Se vogliamo fare un esempio diciamo che all’interno di Dio siamo come una persona che non ha mai
ascoltato una certa sinfonia di Beethoven, una persona che pure apprezza la musica classica, ma non ha
mai sentito quella particolare composizione; se le facciamo ascoltare la sinfonia, all’interno di essa si perde,
perché le è completamente nuova: non è capace, mentre la ascolta, di conoscere l’evoluzione dei suoni, non
è capace di cogliere con sicurezza il filo conduttore che tutto collega in una composizione unitaria, perché è
travolto dalla dimensione musicale geniale, eccelsa di Beethoven. Ci vorrà del tempo, dello studio, una lunga
serie di ascolti per riuscire a sentire un accordo e immediatamente ricordare cosa c’era prima e già sapere
cosa arriverà dopo, così come ci vorrà ancora più tempo per riuscire mentalmente ad intuire tutta la sinfonia
di Beethoven perché ce l’hai dentro di te ormai. Ci vuole fatica.
Noi in Dio stiamo facendo questa specie di apprendistato.
Eravamo animali, capaci solo di cogliere la realtà dell’attimo e, diventando esseri umani, ci stiamo
allenando ad estendere la nostra consapevolezza nel tempo. L’animale è incapace di proiettarsi nel passato
e nel futuro: noi vediamo la gazzella che pascola tranquillamente a poche centinaia di metri dal leone,
semplicemente perché il leone è sazio, e la gazzella non è capace di pensare alla potenziale pericolosità
dell’inquilino accanto, perchè vive l’attimo. Gli animali più evoluti, in realtà, non vivono l’attimo nella sua
dimensione più totale, perchè sono già capaci di modificare il loro comportamento in base ai risultati a cui
tendono però in loro l’istinto prevale nettamente rispetto alle scelte coscienti.
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La Bibbia dice che noi siamo stati cacciati fuori dal paradiso terrestre. La leggenda del paradiso terreste
riletta in senso esoterico è ben diversa da quella che l’ortodossia cristiana ci ha tramandato.
Secondo quest’ultima, Adamo ed Eva sono stati cacciati dal paradiso terrestre in conseguenza di una loro
disubbidienza nei confronti di Dio, facendo in tal modo perdere a tutti noi, come loro discendenti, quella
condizione di felicità.
In realtà non sono mai esistiti un Adamo e una Eva storicamente reali.
La leggenda biblica, meglio sarebbe dire la parabola biblica, simbolicamente esprime il passaggio
evolutivo che continuamente avviene tra lo stato animale e lo stato umano.
In questo senso il cane, che è già capace di dominare il proprio istinto quando sente il “no” del padrone
che lo blocca nell’atto di uscire dal cancello di casa per rincorrere il gatto del vicino, sta uscendo dal paradiso
terrestre: il suo immobilizzarsi tutto fremente in conseguenza del no è dovuto al fatto che associa a questo
ordine possibili premi e/o punizioni che ha già sperimentato e quindi il ricordo del passato gli permette di
dominare l’istinto che, in quell’attimo, lo spingerebbe a dare la caccia al gatto. Allo stesso modo quando si
accuccia vicino al cancello vedendoci uscire a piedi o in bicicletta e lì accucciato aspetta il nostro ritorno,
cosa che non fa quando ci vede uscire con l’auto, è l’esempio vivente di ciò che il racconto biblico ha
sintetizzato: il nostro cane sta evolvendo da uno stato puramente animale di percezione del solo attimo
presente per cominciare a vivere su una dimensione più ampia, in cui passato e futuro già sono una realtà
con cui si trova ad interagire e non sono più quel puro nulla che invece caratterizza gli animali inferiori.
Non per nulla nel racconto biblico non si dice che Adamo ed Eva fossero immortali. Essi, semplicemente,
“non conoscevano la morte” perchè erano incapaci di pensare ad essa come evento futuro: essi hanno
mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, che possono essere percepiti come
possibili scelte solo nella dimensione temporale in cui, alla decisione dell’attimo presente, seguiranno le
conseguenze della scelta che si è voluto realizzare. Ecco la loro “colpa” ed è in questo senso che,
provocatoriamente, si può recuperare a livello esoterico la figura femminile di Eva non più come responsabile
della condizione umana decaduta ma, piuttosto, come colei che ha avuto il coraggio di una scelta che ci ha
fatto uscire dalla incoscienza animale per misurarci sul piano della consapevolezza umana che, a differenza
dallo stato animale puro, deve cominciare a fare i conti con gli effetti delle proprie scelte. A livello esoterico
questo discorso è sempre stato presente e l’affermazione della realtà della legge di causa-effetto o legge del
karma come caratteristica degli esseri dotati di una coscienza superiore a quella animale risale ad epoche
antichissime, ben oltre il periodo in cui le nostre attuali conoscenze storiche situano l’inizio della scuola
pitagorica.
Coloro che hanno dimestichezza e amore nei confronti degli animali domestici, con i quali riescono a
stabilire un rapporto di affetto e di intese, si ribellano alla rozza definizione cartesiana degli animali come puri
automi, assolutamente incapaci di consapevolezza e di emozioni e sono già vicini alla dimensione pitagorica
per cui tutta la realtà vivente costituisce un fiume di vita che evolve sul piano della coscienza.
Chi è stato in Cina e ha visitato il mercato di una qualunque città è certamente stato testimone di un evento
che in Europa e in America non si verificherebbe. I cinesi mangiano il cane, così come gli occidentali
mangiamo il coniglio e altri mangiano il gatto; nel mercato cinese è possibile vedere un venditore che offre
dei cuccioloni chiusi in una gabbia; quando arriva un acquirente e sceglie l’animale lì, seduta stante, il
venditore prende il cucciolone per le zampe posteriori e con un bastone lo colpisce in testa, esattamente
come si fa con i conigli. In quel momento si può notare che gli altri cani, nella gabbia, sono rintanati in un
angolo e visibilmente tremanti, cosa che non succede ai conigli.
Il cane, proprio per il tipo di evoluzione che ha già subito, è capace di percepire l’orrore di una fine che lo
aspetta e il cane che trema è, come Adamo ed Eva cacciati dal paradiso terrestre, un essere vivente che
esce dall’innocenza animale, che entra in un superiore livello di consapevolezza e così percepisce il bene e il
male al di là dell’attimo presente. Entra nella dimensione del tempo, caratteristica dell’essere umano che,
attraverso il tempo, è destinato a evolvere su un piano divino scoprendo l’eternità.
Non per niente nell’uomo l’eternità è recuperabile in qualunque momento se solo abbiamo la capacità di
entrare in noi stessi.
Con il suo “l’Essere è” Parmenide ci dà la prova che l’uomo può intuire Dio nella sua dimensione totale:
sono soltanto attimi di intuizione ma, se si è credenti, in quegli attimi qualunque cosa ti stia succedendo
perde la sua dimensione paurosa o galvanizzante: non ti lasci più né entusiasmare né deprimere, perchè si è
in Dio. Vincere alla lotteria o perdere tutto nell’incendio della casa nell’attimo dell’intuizione del “l’Essere è”
cessano di essere significativi; sono attimi, perché in realtà nessuno è capace di vivere su questa
dimensione di intuizione perché dopo un po’ di ore, supposto che siamo capaci di vivere ore di rapimento
estatico, il corpo comincia a imporre le sue esigenze, per cui si sente fame, sete, sonno, la postura del corpo
da cambiare, cioè il corpo ti richiama alla dimensione spazio-tempo e perdi quello stato di grazia.
Con Parmenide la ricerca filosofica raggiunge il suo limite estremo e ci viene proposta l’intuizione del
mistico, abbiamo l’immersione nella coscienza dell’Essere eterno e onnipervadente di Dio, per cui la morte,
da annullamento dell’essere, diventa un momento del divenire conseguente alla nostra ancora inadeguata
percezione della realtà.
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Riprendiamo la citazione già vista:
“Saranno tutte soltanto parole quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero nascere e perire,
essere e non essere, cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore.” (Diels, 22B, 8, 42)
Sono tutte soltanto parole, perché in Dio nulla, in quanto passato o ancora da venire, è perso. Qui si
intuiscono gli spazi che Leibniz ci aprirà, perché se Parmenide ci proietta dal tempo all’eternità il filosofo e
matematico tedesco ci proietterà in una dimensione divina nella quale la compresenza degli infiniti universi
possibili in Dio, risolve metalogicamente il problema della coesistenza della libertà come reale possibilità per
l’uomo, nella necessità assoluta del “l’Essere è”.
Per meglio intuire le proposte di Parmenide e Leibniz proviamo a pensare alla nostra vita rispettivamente
come a un segmento, una semiretta e a una retta.
La nostra vita può essere paragonata a un segmento se siamo dei materialisti e non abbiamo quindi
alcuna prospettiva oltre la data della morte che, per quanto non ancora definita, non è per questo meno
reale: è l’esistenza simbolizzata da un segmento che, più o meno lungo, ha pur sempre un inizio e una fine.
Se siamo dei cristiani che non si pongono il problema della coerenza filosofica della dottrina che viene loro
proposta come ortodossia, possiamo pensare alla nostra vita come a una semiretta che ha un inizio,
coincidente con il momento nel quale Dio ha creato la nostra anima e che poi, essendo immortale, prosegue
all’infinito come una semiretta.
Il pensiero di Parmenide ci permette di intuire che quelle che chiamiamo semiretta o segmento sono, in
realtà, momenti di una retta che, in quanto infinita, si richiude su se stessa in una circonferenza di raggio
infinito. Parmenide tuttavia utilizza, come esempio migliore per intuire l’Essere, l’immagine di una sfera di
raggio infinito e per arrivare a questa sfera partendo dalla linea retta, che può ben sintetizzare la nostra
esistenza in quanto inserita nell’Essere, è interessante soffermarci un momento sulla proposta che verrà
avanzata da Leibniz.
Durante la nostra vita si susseguono infiniti attimi, in ciascuno dei quali noi prendiamo o possiamo
comunque prendere decisioni che modificano il corso della nostra esistenza: in tal modo ciascuno di noi ha la
possibilità di vedere nel proprio passato delle scelte che, in modo più o meno marcato, hanno determinato un
cambiamento in quello che, sulla base della esperienza precedente, poteva essere il nostro prevedibile
futuro. Tuttavia pensiamo alla nostra vita non in termini di una linea spezzata in cui le “svolte” determinano
una rottura con il vissuto precedente perchè, comunque, vediamo queste svolte come logici effetti di cause
precedenti, per cui non abbiamo alcuna difficoltà a immaginare e parlare della nostra vita come di un
percorso rettilineo. Leibniz, invece, ci fa osservare che in ogni attimo della nostra vita facciamo delle scelte o
delle non scelte che ci proiettano in quel possibile futuro che, a cose fatte, diventa per noi che ragioniamo in
termini normali l’unico futuro che ci ritroveremo come destino segnato e che invece egli ci descrive come uno
degli infiniti e tutti ugualmente veri universi che potevamo scegliere: in tal modo Leibniz ci fa osservare che,
in Dio, tutte le possibilità coesistono come infinita realtà in atto mentre per noi, che siamo una coscienza che
continuamente accresce se stessa, quella che chiamiamo vita è un percorso che ci costruiamo in
quell’infinito ipertesto che è Dio.
Se moltiplichiamo questo processo per tutti gli esseri viventi che hanno delle capacità di scelta abbiamo
una dimensione vertiginosa, che ci ingoia nell’abisso delle sue infinite interazioni: queste intersezioni
determinano la infinita rete di percorsi esistenziali che ci proiettano nello sfero o, meglio ancora, nell’ipersfero
di Parmenide.
Ecco un nuovo modo di intuire Dio, un nuovo modo di pensare l’Infinito, che non è più solo l’eternità del
tempo come linea retta, ma eternità di rette che si intersecano continuamente; in altre parole usciamo dalla
circonferenza che è costruita su un piano bidimensionale ed entriamo nella ipersfera ultradimensionale,
perché bastano tre rette che si intersecano per creare la realtà dello spazio tridimensionale: ecco perché
Parmenide ci parla di Dio, del “l’Essere è” come dello Sfero, che non ha centro né alcun limite esterno,
perché la sfera è l’immagine geometrica che meglio ci dà l’idea della equivalenza di qualunque punto la
costituisca: lo Sfero di Parmenide non ha centro, per cui non esiste alcun punto di riferimento e quindi
qualunque punto dell’essere è equivalente agli altri, non è più pregiato o meno, non è più buono o meno
buono.
E’ sufficiente avere intravisto questo livello di sapere esoterico per rendersi conto della necessità di una
prudente e graduale comunicazione del messaggio di verità, come praticato da Gesù Cristo e raccomandato
dai Padri della Chiesa.
In Dio, inteso come infinito ed eterno presente del “l’Essere è”, non cambia nulla ritrovarsi come Lucifero o
come Gabriele; è fondamentale invece, per noi che siamo ancora immersi nella illusione dello spazio tempo,
scegliere da che parte stare perchè solo in questo modo possiamo sviluppare la nostra consapevolezza; il
bene e il male che avremo deciso di visionare, con gli effetti conseguenti, determineranno quello che molti
chiamano destino e che l’esoterista definisce karma. In Dio l’angelo della luce e l’angelo delle tenebre sono
entrambi necessari, entrambi svolgono una loro funzione che solo quando si raggiunge una consapevolezza
di livello superiore si scopre essere affascinante e meravigliosa.
Questa è la dimensione di Parmenide, una dimensione nella quale la filosofia cessa di esistere come
ricerca e quindi con Parmenide abbiamo la morte della filosofia.
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1.2 – Parmenide
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In questo senso possiamo dire che con Eraclito e Parmenide abbiamo individuato i due estremi all’interno
dei quali si può fare filosofia: da una parte un Eraclito che, sottolineando la realtà del divenire come inizio
della ricerca filosofica, delimita il campo di quella che sarà la futura filosofia materialista e di quella ricerca
scientifica che, dopo aver ridotto alla dimensione del misurabile la realtà dell’essere degna di considerazione,
finirà venticinque secoli dopo per trovare ingenuo e semplicistico lo studio degli esseri concreti individuati
nello spazio tridimensionale, che per tanto tempo era stato il suo punto di forza.
Nel ventesimo secolo dopo Cristo si arriverà ad affermare che le tre dimensioni dello spazio insieme con il
tempo determinano quella che viene chiamata curvatura spazio-tempo, per cui potrà essere proposta la
paradossale ipotesi per cui, se avessimo un cannocchiale di potenza infinita e provassimo a guardare
attraverso di esso noi vedremmo la nostra nuca, perchè la luce, seguendo la curvatura spaziotemporale,
ritorna al punto di origine. E questa provocazione ci riporta allo Sfero di Parmenide.
Se siamo credenti recuperiamo la parmenidea unità dell’Essere, se siamo non credenti l’eterno divenire di
Eraclito ci travolge e siamo nel materialismo ateo per il quale l’unica realtà è costituita dalle cose concrete,
ma, immerso in questa realtà, non riesci a venire a capo di essa: ci provi, analizzi, studi, inventi il
microscopio, inventi il telescopio, ma quanto più potente è il telescopio che costruisci tanto più lontano
apparirà l’orizzonte della possibile ricerca, perchè l’orizzonte precedente viene dilatato dalla tua nuova
tecnologia. Quanto più a fondo studi e analizzi nella sua dimensione intima la materia fino alle particelle
subatomiche così, di altrettanto, si allontana la comprensione finale a livello scientifico e, se sei uno
scienziato che ha dimestichezza con la filosofia, ti rendi conto che quando, nel secolo diciannovesimo, si era
arrivati a riconoscere che nel continuo trasformarsi della realtà nulla si crea e nulla si distrugge lo sviluppo
scientifico nella cultura occidentale era giunto a riscoprire Dio e, contemporaneamente, a ricalcare il
percorso di ricerca di Aristotele.
Per concludere, sintetizzando, con Eraclito abbiamo l’inizio della possibile ricerca, che può partire da quello
che in nostri sensi ci testimoniano, da una ricerca di tipo materialistico, che è la forma più ovvia di ricerca.
Con Parmenide arriviamo alla fine della filosofia, alla filosofia che ha raggiunto il massimo della sua potenza
intuitiva e con “l’Essere è” si entra nella dimensione religiosa, per cui si lascia la filosofia e ci si abbandona in
Dio.
Ovviamente sia nel Logos di Eraclito come nel “l’Essere è” di Parmenide non possiamo pretendere di
trovare Dio come ci viene descritto dall’ortodossia cristiana perchè, in realtà, c’è molto di più.
Infatti, Eraclito che afferma che il mondo ha un senso e Parmenide, che ci pone di fronte all’infinita e
vertiginosa realtà di Dio come l’Essere che è, ci aiutano a cogliere i limiti a cui può giungere la teologia che,
diventando presuntuosa, finisce per prendere le misure a Dio e costruire un’ortodossia che poi impedisce ad
un religione come quella cristiana cattolica di riuscire a riconciliarsi con le altre religioni. Questo perché i
teologi hanno definito tutta una serie di dogmi che non possono più rimangiarsi, mentre se avessero il
coraggio di recuperare una dimensione religiosa più genuina, più “primitiva”, scoprirebbero che l’ecumenismo
cesserebbe di essere una parola per diventare pratica vissuta.
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