Il Giardino dei Pensieri - Studi di storia della Filosofia

Il Giardino dei Pensieri - Studi di storia della Filosofia
Marzo 2000
Alberto Barli
La dialettica da Kant a Freud
Brani antologici allegati
[Vedi anche Dialettica, Kant, Hegel, Nietzsche, Freud]
Kant
Tra i sofisti e Aristotele - scrive Livio Sichirollo (1) - la dialettica si manifesta in tutte le sue
potenzialità: è una tecnica del dialogo, visione dell'intelligibile e cammino che ad esso conduce,
propedeutica alla filosofia, strumento che consente di pervenire ai principi della scienza. E’
dialettica oggettiva, in quanto discorso che esprime le contraddizioni della realtà; ed è dialettica
soggettiva, ossia astratta, in quanto articola un mondo di opinioni nè vere nè false, ma che di volta
in volta sono provate come tali. In altri termini, dialettica delle cose e dialettica dei discorsi sulle
cose.
Aristotele diceva che il suo inventore fosse Zenone, perchè deduceva una conclusione opposta alle
tesi dell'avversario: la dialettica si occupa dei contrari.
Della dialettica soggettiva, Kant celebra la morte. Dopo di lui, alla dialettica come tecnica dei
discorsi sulle cose, si sostituisce la dialettica delle cose.
In Kant la dialettica è un'operazione necessaria della ragione, prodotta da un'illusione
trascendentale: in questa necessità la ragione manifesta una sua struttura oggettiva, caratterizzata
dall'antitesi, dalla contraddizione. Ma vediamo più da vicino il discorso kantiano.
Kant tratta della dialettica nella Logica trascendentale della Critica della ragion pura, che è
articolata in una analitica e una dialettica. Nella prima, egli delinea il funzionamento dell’intelletto,
che, mediante le categorie applicate ai dati forniti dalla sensibilità, perviene a conoscenze universali
e necessarie. Questo è il modo scientificamente corretto di operare, la logica dell’intelletto è dunque
"una logica della verità":
"La parte, dunque, della logica trascendentale che espone gli elementi della conoscenza pura
dell’intelletto e i principi senza i quali nessun oggetto può assolutamente essere pensato, è
l’analitica trascendentale, e insieme una logica della verità" (2).
Ma a questo punto entra in gioco la ragione, che non si sottrae alla seduzione di usare le sue forme e
i suoi principi oltre i limiti dell’esperienza, scambiando esigenze soggettive per necessità oggettive.
L’operazione della ragione, che è descritta nella Dialettica trascendentale, è arbitraria: Kant la
definisce "una logica dell’apparenza", e la accosta alla sofistica degli antichi, che dava all’ignoranza
la tinta della verità. Ma tale arbitrio non è superabile, la ragione è mossa da esigenze a priori: fa
parte della natura umana sorpassare le possibilità dell’esperienza, nel tentativo di arrivare a forme
esaustive di conoscenza. Il concetto di dialettica, perciò, viene ad identificarsi con una pratica
illusoria, un esercizio sofistico, consistente nel "dare alla propria ignoranza l’aspetto della verità",
ma che, nello stesso tempo, risponde ad una tendenza "naturale e inevitabile", della ragione. Si
tratta, scrive Kant, di una dialettica "inscindibilmente legata all’umana ragione e che, anche dopo
che noi ne avremo scoperto l’illusione, non cesserà tuttavia di adescarla e trascinarla
incessantemente in errori momentanei, che avranno sempre bisogno di essere eliminati." (3)
La ragione, nel suo procedere verso una spiegazione totalizzante di ciò che esiste, si serve delle idee
trascendentali di anima, mondo, Dio; oggetto, rispettivamente, della Psicologia, della Cosmologia e
della Teologia. La prima è l’idea della totalità assoluta di tutti i fenomeni del senso interno, la
seconda di quelli del senso esterno, e la terza è "l’assoluta unità della condizione di tutti gli oggetti
del pensiero in generale" (4).
Soffermiamoci sull’idea cosmologica, dove la dialettica, col suo sistema delle antinomie, prelude
alla concezione hegeliana. L’idea trascendentale del mondo produce quattro conflitti, articolati in
una contrapposizione di tesi e antitesi, corrispondenti, le prime, al dogmatismo, le seconde,
all’empirismo. Prima tesi: il mondo nel tempo ha un cominciamento, e, per lo spazio, è chiuso
dentro limiti; antitesi: il mondo non ha né cominciamento né limiti spaziali, ma è, così rispetto al
tempo come rispetto allo spazio, infinito. Seconda tesi: ogni sostanza composta nel mondo consta di
parti semplici, e non esiste in nessun luogo se non il semplice, o ciò che ne è composto; antitesi:
nessuna cosa composta nel mondo consta di parti semplici; e in esso non esiste, in nessun luogo,
niente di semplice. Terza tesi: la causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono
essere derivati tutti i fenomeni del mondo. E’ necessario ammettere per la spiegazione di essi anche
una causalità per la libertà; antitesi: non c’è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade unicamente
secondo leggi della natura. Quarta tesi: nel mondo c’è qualcosa, che, o come sua parte o come sua
causa, è un essere assolutamente necessario; antitesi: in nessun luogo esiste un essere assolutamente
necessario, né nel mondo, né fuori del mondo, come sua causa (5).
Ora, i conflitti, posti in questa forma, non hanno soluzione. Scrive Kant:
"Laonde l’antinomia della ragion pura nelle sue idee cosmologiche vien superata dimostrando che
essa è meramente dialettica, è un conflitto d’una apparenza che nasce da questo, che si è applicata
l’idea dell’assoluta totalità, che non ha valore se non come condizione delle cose in sé, ai fenomeni,
i quali invece non esistono se non nella rappresentazione..." (6)
In altri termini, le antinomie possono essere superate solo adottando un nuovo punto di vista, quello
critico-trascendentale. Viene così presentato uno schema triadico, che porta al raggiungimento di
una prospettiva superiore attraverso il movimento necessario del pensiero che si dibatte tra ipotesi
contrapposte.
Hegel
In Hegel la dialettica presuppone, come sfondo ineliminabile, la concezione della realtà come
processo che si sviluppa mediante contraddizioni: la realtà è l'unità delle contraddizioni, e la verità è
la struttura di tutte le verità; ogni singolo concetto, ogni determinazione, non ha senso isolatamente,
al di fuori della totalità. La dialettica è appunto il movimento che forzando ogni realtà determinata,
e svelandone la parzialità, articola la vita del tutto. Non è, quindi, un'arte estrinseca, un
procedimento sofistico, che introduce dall'esterno le contraddizioni. Queste, per Hegel,
diversamente da Kant, che le considera solamente formali, sono interne alla realtà: è la stessa
tensione immanente ad ogni finito che porta quest’ultimo a negarsi. In altri termini, la dialettica non
è un metodo, un'astuzia del filosofo, ma la presentazione dello stesso mondo naturale e umano
tramite il discorso. La conoscenza filosofica non riflette sul reale, collocandosi fuori di esso, ma si
abbandona "alla vita dell'oggetto". Ciò comporta un altro importante presupposto: che la realtà sia
razionale, che sia accessibile al discorso e al pensiero. L'impegno del filosofo è comprendere
razionalmente questa realtà, sollevarla alla razionalità del concetto.
Se la dialettica è il motore della realtà, il negativo, l'opposizione è il motore della dialettica.
Heidegger commenta questo aspetto della filosofia hegeliana, affermando che essa si spinge a
pensare il negativo come appartenente all'essere (7). Nella Prefazione alla Fenomenologia dello
Spirito, Hegel sottolinea quella "potenza del negativo" che, in ultima analisi, si identifica con la
stessa vita dello spirito, in quanto rende fluidi i "pensieri solidificati (die festen Gedanken)" in virtù
della distruzione, della morte. Dice Hegel:
"La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo il
mortuum, questo è ciò a cui si richiede la massima forza. La bellezza senza forza odia l'intelletto,
perchè questo le attribuisce dei compiti ch'essa non è in grado di assolvere. Ma non quella vita che
inorridisce dinanzi alla morte, schiava della distruzione; anzi quella che sopporta la morte e in essa
si mantiene, è la vita dello spirito" (8).
Ma vediamo uno dei pochi passi in cui Hegel ha parlato esplicitamente della dialettica. Nell'
Enciclopedia delle scienze filosofiche, egli ne ha descritto il movimento nei seguenti termini: "La
logicità (das Logische) ha, considerata secondo la forma, tre aspetti (Seiten): a) l’astratto o
intellettuale; b) il dialettico, o negativo razionale; c) lo speculativo, o positivo-razionale" (9). La
‘logicità’, ossia lo stesso movimento concettuale che riflette il movimento della realtà, ha tre aspetti,
tre lati: il primo consiste nel pensiero irrigidito in una qualunque determinazione astratta; è la
posizione propria dell'intelletto, il Verstand. Nel secondo, la ragione, la Vernunft - che è altra cosa
rispetto al Verstand - porta al limite le determinazioni finite e, mettendole in contraddizione fra di
loro, le costringe alla morte. Il terzo lato consiste nella sintesi degli opposti, nell'unità che include
anche le differenze; esso comprende la ricchezza di tutto il processo, che ha tolto le contraddizioni,
conservandole ed elevandole ad un piano più alto. Togliere, conservare ed elevare sono i significati
del sostantivo die Aufhebung e del verbo aufheben, dei 'termini tecnici', cioè, con cui Hegel indica
tale movimento.
Ora, come è pervenuto Hegel alla dialettica? Certamente, l'idealismo post-kantiano, che ha
elaborato la concezione dell'assoluto come storia, è l'immediato punto di riferimento. In particolare
la filosofia di Fichte, che concepisce la realtà come tensione di opposti, di io e non-io che genera le
cose. Tuttavia, come ha sottolineato Mario Trombino (10), l'evoluzione degli scritti di Hegel, da
Berna a Francoforte e a Jena, dimostra che lo sviluppo della concezione dialettica ha seguito una
strada parallela a quella di Fichte. La tensione degli opposti, che Fichte ha studiato teoreticamente
nella Dottrina della scienza, Hegel la osserva nella storia, soprattutto attraverso la riflessione sulle
vicende del popolo ebraico. L'identità degli Ebrei, secondo Hegel, è il frutto di un processo di
estraneazione: essi hanno elaborato una concezione di un Dio tutto, loro signore, e, identificando se
stessi come servi, estraniando in Dio la loro essenza di uomini, sono pervenuti alla coscienza di sè.
Tale schema, che Hegel ha successivamente impiegato per spiegare ogni ambito della realtà, viene
compiutamente elaborato nella Fenomenologia dello Spirito, in particolare, nella sezione dedicata
all'autocoscienza, in cui è descritto il movimento che sdoppia il soggetto proiettandolo fuori di sè,
verso l'altro, e lo restituisce quindi a se stesso, arricchito della coscienza di sè. Si tratta delle celebri
pagine che narrano il costituirsi della signoria e della servitù.
Occorre premettere che la relazione servo-padrone è solo un segmento di un percorso che ha inizio
con la coscienza, che, elevandosi per gradi successivi dalla particolare individualità e immediatezza,
giunge fino all'universalità dello spirito assoluto. E' un processo che ha carattere teleologico, in
quanto è il momento finale che ne legittima l'unità e il senso, predeterminando il momento iniziale e
le tappe intermedie. In altri termini, ogni tappa acquista il suo pieno significato solo in quella
successiva, che è insieme superamento e conservazione della precedente. Così la figura della
coscienza rinvia all'autocoscienza, questa alla coscienza infelice, quindi alla ragione e così via, nel
movimento circolare dello spirito che tutte le comprende. Il movimento dialettico, che scandisce le
tappe del processo, è dunque caratterizzato da un telos immanente.
Va inoltre sottolineata la funzione svolta dalla negatività, che scandisce l'intero processo,
manifestandosi nelle figure del desiderio, della lotta, della morte e del lavoro. Ognuna di esse è
caratterizzata dalla negazione del dato, immediato, naturale, animale; ma è una negazione che è
insieme distruzione e creazione: staccandosi da un mondo naturale e animale, l'autocoscienza
perviene ad un mondo storico e umano.
Vediamo più da vicino il testo hegeliano. Ciò che determina l'uscita dell'autocoscienza da se stessa
è il desiderio (Begierde) di riconoscimento (Anerkennung), che non è un desiderio puramente
animale, motivato da una qualche pulsione biologica, ma è rivolto costitutivamente all'altro. Scrive
Hegel:
"L'autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un'altra autocoscienza" (11).
Tale desiderio si configura come 'desiderio di un desiderio' (12), che non ha uno scopo concreto, ma
è di puro prestigio, e la cui soddisfazione passa attraverso una lotta in cui ciascuna autocoscienza
affronta il rischio della vita. Per Hegel, come per Freud, il desiderio è correlato al conflitto:
"La relazione di ambedue le autocoscienze è dunque così costituita ch'esse danno prova reciproca di
se stesse attraverso la lotta per la vita e per la morte" (13).
Solo l'autocoscienza vincitrice perviene al riconoscimento, ed è la coscienza del signore; quella del
servo, invece, rimane ad un livello inessenziale e cosale. Così Hegel sintetizza l'esito della lotta fra
le due autocoscienze:
"L'una è la coscienza indipendente alla quale è essenza l'esser-per-sè; l'altra è la coscienza
dipendente alla quale è essenza la vita o l'essere per un altro; l'uno è il signore, l'altro il servo" (14).
La vita del servo si svolge nell'inessenzialità, in quanto non autonoma ma dipendente da quella del
signore, ed inoltre è, per così dire, rigettata nel mondo naturale e animale. E tuttavia nella natura il
servo non vive solo il proprio sfruttamento, ma trova anche la propria emancipazione. Accenniamo
brevemente agli altri momenti del processo. Esaminiamo i due poli della relazione: dapprima
sembra che il padrone sia l'elemento vincente a tutti gli effetti: ha ottenuto ciò che desiderava, il
riconoscimento da parte dell'altro, gode della sua superiorità e, inoltre, l'altro gli si è sottomesso e
vive per lui. Ma a ben vedere, egli è finito in una condizione tragica, priva di sbocchi. Il
riconoscimento non può appagarlo, poichè non proviene da un suo pari, ma da chi si è rivelato
inferiore. E' riconosciuto da uno che egli non riconosce. Il signore è figura statica e parassitaria: si
limita a godere del lavoro del servo. Invece il servo, che lavora senza consumare, è l'elemento
dialettico: ha uno scopo per cui vivere e lottare, l'emacipazione dalla schiavitù. E tale
emancipazione egli ottiene mediante il lavoro, che Hegel definisce un "dileguare trattenuto": esso è,
cioè, un differimento del consumo, in grado di educare lo schiavo all'autodisciplina. In altri termini,
con il lavoro e la lotta lo schiavo entra nella storia, e proprio su tale piano si rivela vincente.
Liberando se stesso, libera l'umanità dalla schiavitù. (Nella visione marxiana, il servo è il proletario
che spezza non solo le proprie catene, ma quelle dell'intera società).
Va sottolineato un ulteriore passaggio. All'emancipazione del servo concorre anche un altro
elemento, l'angoscia della morte, di cui le autocoscienze hanno fatto esperienza nel momento della
lotta, e davanti alla quale la coscienza del servo ha provato angoscia (Angst). Essa, infatti "è stata,
così, intimamente dissolta, ha tremato nel profondo di sè, e ciò che in essa v'era di fisso ha
vacillato" (15).
La morte ha fluidificato la vita del servo, l'ha staccata da quello sfondo naturale e animale che la
caratterizzava in precedenza; ciò ha reso il servo disponibile al cambiamento. Con il lavoro che
trasforma la natura, lo schiavo sopprime poi definitivamente il suo attaccamento ad essa e la
dipendenza dal signore. La liberazione del servo passa infatti attraverso il mondo della storia e della
natura trasformato dal lavoro.
Marx
Diversamente da Hegel, per Marx la dialettica è un metodo (16), è lo strumento con cui egli stesso
ha analizzato la società borghese e l'economia, per comprenderla e trasformarla in senso
rivoluzionario. Ma a causa della sua provenienza dall'idealismo hegeliano, non è uno strumento
'neutrale', e per questo va modificato. Nel celeberrimo Poscritto alla seconda edizione del primo
libro del Capitale (1873), egli scrive:
"Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è
anche direttamente l'opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli, sotto il nome di Idea,
trasforma addirittura in soggetto indipendente, è il demiurgo del reale, mentre il reale non è che il
fenomeno esterno del processo del pensiero. Per me, viceversa, l'elemento ideale non è altro che
l'elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini. [..] La mistificazione alla quale
soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad
esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. In
lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico"
(17).
Comunque si interpreti questa formula del rovesciamento - Althusser dice che crea più problemi di
quanti ne risolva (18) - essa attesta, da parte di Marx, sia la persuasione che in Hegel si possa
separare il metodo dal sistema, la dialettica dall'idealismo, sia il riconoscimento di un contributo
hegeliano, consistente nell'aver esposto 'le forme generali del movimento dialettico', sia pure nella
forma ‘mistificata’. Il dibattito si è aperto su questo duplice ordine di problemi: da una parte si
evidenzia il riconoscimento di tale contributo, e quindi la continuità tra Marx e Hegel, dall'altra, si
sottolinea la rivolta antiidealistica, se ne rileva il distacco. E' un nesso teorico di importanza
fondamentale per chiarire non solo la questione della dialettica marxiana, ma la stessa autonomia
della filosofia di Marx. Senza addentrarci nella complessità del dibattito, ci limiteremo a qualche
riferimento.
Nell'intento di marcare la distanza tra i due pensatori, alcuni studiosi operano una distinzione
all'interno delle opere di Marx, tra un aspetto più vicino ad Hegel ed uno più autonomo. Si può
infatti osservare come il pensiero di Marx di fronte a Hegel non sia univoco, ma si sviluppi secondo
diverse fasi. Dal Pra (19) ha rilevato come Marx assuma nei confronti della dialettica hegeliana una
posizione fortemente critica in modo particolare nella Sacra famiglia, nella Ideologia Tedesca e
nella Miseria della filosofia, per poi tornare ad una rivalutazione della medesima nell'Introduzione
del 1857 a Per la critica dell'economia politica del 1859. In continuità con la sua rivolta
antiidealistica, su una base realistica analoga a quella rivendicata da Feuerbach, egli approderebbe
ad un tentativo di formulare la ricerca scientifica per altre vie, consistenti nel dare rilievo alla
dimensione empirica. Il 'fatto', in questo periodo, avrebbe un primato incontrastato, e gli schemi
dialettici, pur presenti, trarrebbero la loro validità direttamente da esso.
Anche Henri Lefebvre (20) individua in Marx un periodo in cui la logica di Hegel viene trattata "col
massimo disprezzo", e la dialettica è concepita "come data praticamente e costatata empiricamente".
In questa fase, che Lefebvre fa corrispondere al periodo giovanile di Marx, il metodo dialettico non
esisterebbe ancora, ci sarebbe il materialismo storico, non connesso ad una struttura del divenire
concettualmente esprimibile. La dialettica verrebbe trovata e riabilitata negli scritti della maturità, al
tempo dei lavori preparatori a Per la Critica dell'economia politica e al Capitale. Il metodo
dialettico è, per Lefebvre, sinonimo di scientificità: la distinzione in due grandi periodi,
caratterizzati dalla sua presenza o dalla mancanza, ha anche lo scopo di dimostrare come esso,
grazie alla pregiudiziale base costituita dal materialismo storico, abbia un carattere autonomo, e non
coinvolga alcun residuo idealistico.
Anche Althusser (21) si contraddistingue per l'esigenza di qualificare il metodo dialettico come una
vera e propria scienza (la "Teoria"). Tale metodo è considerato 'irriducibilmente' diverso dalla
logica speculativa hegeliana, in seguito ad una 'rottura epistemologica', situata al tempo dell'
Ideologia tedesca, che chiude definitivamente il periodo prescientifico di Marx. Questo implica una
differenza strutturale fra la concezione hegeliana e quella marxiana della dialettica, e la possibilità
di definirla. Ad esempio, la nozione di totalità, che in Hegel è lo sviluppo alienato di un 'principio
interno semplice', in Marx si configura invece come data sempre nella sua complessità,
nell'inegualianza della sua struttura 'a dominante'. Così pure la contraddizione che, in Marx,
riflettendo la complessità di struttura, è sempre 'surdeterminata'.
E' lecito domandarci fino a che punto siano valide distinzioni così rigidamente scandite; altri studi
hanno evidenziato come il motivo dialettico sia presente in forma più estesa e riscontrabile anche
negli scritti giovanili. Bobbio (22), ad esempio, rilevando l'atteggiamento complesso di Marx verso
Hegel, caratterizzato da attrazione per il metodo e da ripudio della metafisica, sostiene che la
dialettica è largamente presente nei primi scritti di Marx. Questi non criticherebbe la dialettica come
tale, ma il suo uso speculativo. Secondo Dal Pra, Bobbio ha ragione di respingere le troppo recise
dualità introdotte da Lefebvre in tutto il complesso degli scritti di Marx fino al 1857 e gli scritti
posteriori; ma ha ragione Lefebvre quando coglie in quelli sopra ricordati una fase di accentuato
distacco dalla dialettica ed un tentativo di formulare per vie diverse la ricerca scientifica.
Sembra dunque acquisito che l'ipotesi di una fondazione empiristica della dialettica (e lo studio di
Dal Pra è volto a cogliere appunto i tentativi di Marx di dare alla dialettica una dimensione
concreta) corrisponda ad una fase del pensiero di Marx, ma non tutti ritengono che egli abbia
raggiunto una posizione realmente diversa da quella di Hegel. La sua indagine non si
configurerebbe, in ultima analisi, come una vera e propria ricerca empirica, con tutti i limiti che ciò
comporta. Giulio Preti (23), ad esempio, considera il materialismo dialettico una forma di realismo
metafisico, nella misura in cui ritiene di poter stabilire l'esistenza di strutture generali del mondo
reale, e il materialismo storico una teologia della storia, in quanto prospetta come fine della storia il
termine dell'alienazione umana e la società senza classi. Nel contesto di una autentica fondazione
empiristica della dialettica, Preti ipotizza una possibile rilettura di Marx. Se questi, ad esempio,
intendesse lo schema dialettico come uno ‘schema pragmatico’, eviterebbe la conclusione
metafisica. Ma ciò dovrebbe significare che, una volta raggiunto il fine dell'emancipazione umana,
non avrebbe termine il processo storico, ma soltanto perderebbe di ‘interesse pragmatico’ tale fine,
ed un altro subentrerebbe al suo posto. In altri termini, le strutture dialettiche non dovrebbero valere
come strutture ontologiche della realtà, ma solo come strumenti pratici per una descrizione
concreta, in cui si svolge l'attività umana. In tal modo diverrebbero strumento utile per la
elaborazione di un discorso scientifico, nell'ambito del sapere storico.
Ma, al di là delle possibili riletture di Marx, se guardiamo alla posizione da lui storicamente
assunta, dobbiamo prendere atto che la dialettica mantiene una portata ontologica tale da renderla
inservibile ai fini dell'epistemologia contemporanea. Proprio perché il processo dialettico non è una
semplice sequenza di momenti, ma implica la totalità nella quale le varie fasi sono organicamente
connesse in una superiore unità, esso è intrinsecamente teleologico e metafisico.
La scuola di Della Volpe (24) assume tale posizione, giungendo all'abbandono del metodo dialettico
per un ritorno alla posizione kantiana e alla logica formale. Il marxismo, secondo questa scuola,
deve rinunciare a rivendicare a sé una logica speciale, la dialettica, appunto, per continuare a parlare
dei conflitti oggettivi in seno alla società, servendosi della logica non contraddittoria della scienza.
La formula dellavolpiana di un Marx "Galilei del mondo morale" esprime l'aspirazione del
marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, scienza al modo stesso della
scienza della natura. In tale ambito si apre anche una distinzione tra un Engels banalizzatore della
dialettica, ed un Marx scientifico a lui contrapposto. Senza entrare nel merito di quest'ultima
questione, si può notare che, se è indubbio che Engels ha conferito alla dialettica un orizzonte
ontologico più vasto, coinvolgendo la realtà naturale, è altrettanto indubbio che Marx conosceva e
condivideva le sue ricerche, e che tra i due si era stabilita una divisione dei compiti e del lavoro.
Nietzsche
Negli autori di cui ora ci occuperemo, ossia Nietzsche e Freud, non c'è uno spazio dedicato
esplicitamente al problema della dialettica: essi non teorizzano processi dialettici, nè opposizioni
connesse, per usare le parole di Lefebvre, ad una ‘struttura del divenire concettualmente
esprimibile'; nè si servono di schemi dialettici ‘empiristicamentre fondati’, nel senso indicato da
Preti, ossia intesi come strumenti pragmatici di analisi.
La questione dell’esistenza o meno di una dialettica in Nietzsche è molto dibattuta dagli studiosi.
"Decidere se si possa o no parlare di uno svolgimento dialettico del pensiero di Nietzsche – scrive
G. Vattimo - è, come si capisce, questione di grande importanza. Essa va risolta, a nostro parere,
tenendo presente che [...] ciò che Nietzshe si propone è ‘costruire’ un uomo nella cui formazione
non ci sia più, come momento essenziale, la figura dialettica del servo-padrone" (25). La tesi di
Vattimo è che, poiché Nietzsche rifiuta la naturalità e la costitutività della relazione servo-padrone,
non si può parlare di lui come di un pensatore dialettico. Anche G. Deleuze – per il quale Nietzsche
è un pensatore essenzialmente antimetafisico - sostiene l’irriducibilità del filosofo alla dialettica,
nella quale si concentrano proprio gli aspetti del pensiero metafisico, dall’invenzione socratica, alla
teleologia, al pensiero reattivo (26).
Tuttavia, pur escludendo l’esistenza in Nietzsche di strutture dialettiche, non si può non cogliere
una dialetticità del suo pensiero, nel senso che i concetti di base entrano fra di loro in un rapporto di
contrarietà e sono attraversati da una tensione interna che chiede di essere risolta. La sua filosofia è
caratterizzata da un dinamismo che la porta ad un continuo superamento di se stessa. Nella metafora
del viandante a cui manca una meta finale, illustrata nell'aforisma 638 di Umano, troppo umano, si
trova il suo senso profondo, la sua erraticità:
"Chi anche solo in una certa misura è giunto alla libertà della ragione, non può poi sentirsi sulla
terra nient'altro che un viandante - per quanto non un viaggiatore diretto a una meta finale: perchè
questa non esiste. Ben vorrà invece guardare e tener gli occhi bene aperti, per rendersi conto di
come veramente procedano tutte le cose nel mondo; perciò non potrà legare il suo cuore troppo
saldamente ad alcuna cosa particolare: deve esserci in lui stesso qualcosa di errante, che trovi la sua
gioia nel mutamento e nella transitorietà" (27).
Anche Zarathustra è un viandante, che in nessun luogo ha mai trovato patria: "errabondo in ogni
città, un commiato presso tutte le porte" (28).
Zarathustra è un personaggio eminentemente dialettico: creatore e distruttore, è il simbolo della
suprema affermazione e, nello stesso tempo, della negazione più radicale. Tale dialetticità egli
eredita dallo spirito del dionisiaco:
"Il problema psicologico del tipo Zarathustra è questo: come mai colui che dice no in misura
inaudita, che mette in opera il no di fronte a tutto ciò a cui finora è stato detto sì, nondimeno possa
essere l’opposto di uno spirito negatore; come mai colui che porta il peso più grande del destino, un
compito fatale, nondimeno possa essere lo spirito più leggero, e quello che sta più al di là –
Zarathustra è un danzatore - ; come mai colui che ha la visione più dura, più tremenda della realtà
che ha pensato ‘il pensiero più abissale’, nondimeno non vi ravvisi nessuna obiezione contro
l’esistenza, neppure contro il suo eterno ritorno [...]. Ma ancora una volta, questo è il concetto di
Dioniso" (29).
Naturalmente, Nietzsche non può essere assimilato ad Hegel: la sua filosofia manca di un
presupposto fondamentale, l'omogeneità fra logos e realtà; quest’ultima, per Nietzsche, non è
razionale, ma frammento e caos, e, in quanto tale, non è conoscibile dall’uomo:
"Nell’’in sé’ non esistono ‘collegamenti causali’, ‘necessità’, non ‘libertà psicologiche’ poiché in
questo campo l’effetto non consegue dalla ‘causa’ e non vige alcuna ‘legge’. Siamo noi soltanto ad
avere immaginosamente plasmato le cause, la successione e la funzionalità di una cosa rispetto
all’altra, la relatività, la costrizione, il numero, la norma, la libertà, il motivo, lo scopo; e se
foggiamo e infondiamo nelle cose questo mondo di segni come ‘in sé’, operiamo in ciò ancora una
volta come abbiamo sempre operato, cioè in maniera mitologica" (30).
Poiché l’uomo si limita a porre concetti convenzionali privi di portata ontologica, la conoscenza è
una sorta di ‘mitologia’; la natura non è testo, bensì interpretazione. La stessa scelta aforistica di
Nietzsche muove da un tale assunto: le idee nascono da brevi illuminazioni, non sono concatenate
more geometrico. La dimostrazione, il ragionamento deduttivo, propri del sistema filosofico,
presuppongono infatti l’omogeneità fra il piano logico-linguistico e quello reale.
Ma, detto questo, analizziamo alcuni passi ed alcuni concetti nei quali si può cogliere il senso della
'dialetticità' della filosofia nietzscheana. Nell'aforisma 1 di Umano, troppo umano, intitolato
"Chimica delle idee e dei sentimenti", ad esempio, viene annunciato il compito della 'filosofia
storica' - che non va pensata disgiunta dalle scienze naturali - che consiste nel superare quelle
contrapposizioni rigide (vero-falso, egoista-altruista, razionale-irrazionale) che sono state fissate dal
pensiero metafisico. Laddove quest'ultimo determina entità assolute, questo tipo di filosofia, che è
assimilata ad una "chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici", risolve le
contrapposizioni storicamente ed analiticamente, mostrando come esse siano "sublimazioni, in cui
l'elemento base appare quasi volatilizzato", senza peraltro indietreggiare di fronte alla conclusione
che "i colori più magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati". La 'chimica delle
idee e dei sentimenti' mostra che l'altruismo deriva dall'egoismo, gli ideali più nobili da cose 'umane
troppo umane'. Dunque, dissolvendo le determinazioni opposte l'una nell'altra, la filosofia storica
assolve il medesimo ruolo della Vernunft hegeliana.
E ‘dialettico’, in un senso assai prossimo a Hegel, si può definire il grande affresco tracciato in
Umano, troppo umano, laddove Nietzsche teorizza il superamento di morale, religione ed arte in
base ad uno schema storico-evolutivo. Per quanto riguarda la morale, egli parla del passaggio da
un'umanità 'morale', gravata dall'errore e dal senso di colpa, ad un'umanità 'saggia',
consapevolmente innocente (af. 107). Come la morale, anche la religione e l'arte sono considerate in
una prospettiva storica nella quale trovano il loro superamento e il loro senso nella scienza. Egli ci
propone, in definitiva, un processo in cui ogni momento si innesta in quello successivo, che lo
supera e insieme lo conserva. Nell' aforisma 222, scrive:
"Come l'arte figurativa e la musica danno la misura della ricchezza di sentimento effettivamente
acquistata e accresciuta grazie alla religione, così, se l'arte scomparisse, l'intensità e la molteplicità
della gioia di vivere, cui essa ci ha abituato, esigerebbero ancora di essere soddisfatte. L'uomo
scientifico è l'ulteriore sviluppo dell'uomo artistico".
Nel mondo moderno la scienza raccoglie l'eredità dell'arte; quest'ultima sarà considerata presto "una
magnifica reliquia". Solo la sua eredità continuerà ad esistere e ad esercitare la sua influenza:
"Il sole è già tramontato, ma il cielo della nostra vita arde e risplende di esso, sebbene non lo
vediamo più" (af. 223).
Anche in Nietzsche, come in Hegel, la ‘potenza del negativo’, della morte, è necessaria
all’economia dello spirito. "Spirito è la vita che taglia nella propria carne", afferma Zarathustra
(31). E ancora: "Io amo colui che vuole creare al di sopra di sè e così perisce" (32). Zarathustra
incarna il sentimento di pienezza e di sovrabbondanza, e, nondimeno si paragona alla vite che
"vuole il vignaiuolo e il falcetto del vignaiuolo!" (33). La perfetta aderenza alla vita, alla gioia e alla
pienezza della vita include infatti la morte e il dolore.
La stessa volontà di verità, ossia la qualità umana più elevata, è, in ultima analisi, una volontà di
morte. A questa conclusione Nietzsche perviene nell’ultima filosofia; in precedenza egli aveva
prospettato una diversa soluzione della questione. Nella Gaia scienza e nello Zarathustra, egli
postula una connessione tra la conoscenza e l’istintualità profonda, giungendo ad escludere una
volontà di verità autonoma. Nella Gaia scienza, la conoscenza è "soltanto un certo rapporto degli
impulsi tra loro". (af. 333) Nello Zarathustra, nel capitolo "Della vittoria su se stessi", la vita
esclama: "E anche tu, uomo della conoscenza, non sei che un sentiero e l’orma della mia volontà: in
verità, la mia volontà di potenza cammina anche sulle gambe della tua volontà di verità" (34). La
volontà di verità è del tutto riconducibile alla volontà di potenza, e ciò fa sì che si riveli una forza
incrementatrice di vita. Ma nelle ulitme opere, per esempio, in Al di là del bene e del male e in
Genealogia della morale, si profila un insanabile contrasto tra vita e conoscenza, potenza e verità
(35). Contro la vita, che è volontà di maschera, di illusione, che prospera all’interno di un orizzonte
limitato, infierisce l’uomo della conoscenza, la cui crudeltà vuole invece andare a fondo,
smascherare. La volontà di verità, non più assoggettata agli istinti vitali, diviene "una occulta verità
di morte".
Freud
A prima vista Freud e Hegel non potrebbero essere più distanti; il rifiuto del primo di qualsiasi
concezione panlogistica e totalizzante non potrebbe essere più radicale, al punto di giungere a
diffidare di qualsiasi speculazione filosofica. In Inibizione, sintomo e angoscia del 1925, egli scrive:
"In generale io non sono per la fabbricazione di concezioni del mondo. Si lasci pur questo ai
filosofi, i quali dichiarano di non credere che si possa intraprendere il viaggio della vita senza un
simile Baedeker, che dà informazioni su tutto. Accogliamo umilmente la commiserazione con la
quale i filosofi, dall'alto delle loro superiori esigenze, guardano in basso verso di noi. Dato però che
neppur noi possiamo sconfessare il nostro orgoglio narcisistico, osserveremo a nostra consolazione
che tutte queste 'guide di vita' invecchiano presto, che il nostro piccolo lavoro, per quanto miope e
limitato, è ciò che rende necessari i loro ammodernamenti, e che tutti questi "Baedeker", anche i più
moderni, altro non sono che tentativi di rimpiazzare il vecchio catechismo, così confortante nella
sua completezza." (36)
Nel medesimo testo, il filosofo è assimilato a quel viandante che, cantando nell'oscurità, "rinnega la
propria apprensione, ma non per questo vede più chiaro" (37).
D’altra parte, la formazione culturale di Freud avviene nell’ambito del positivismo; le sue idee sono
in gran parte attinte e assimilate dai circoli scientifici del suo tempo. Fra questi, la scuola di
fisiologia che fa capo a Helmholtz, Du Bois Reymond, Bruecke e Ludwig, fondatori della Società
Fisica Berlinese, è certamente il più importante.
La scuola fisiologica ha un indirizzo fisicalista, poichè persegue un ideale scientifico di misurabilità
matematica dei fenomeni fisiologici, e basa le sue ipotesi su concetti tratti dalla fisica, come il
principio di conservazione dell'energia, formulato da Robert Mayer e divulgato da Helmholtz. Un
basilare presupposto filosofico di questa scuola è la tesi agnostica di origine kantiana, la quale
ammette che la scienza sia rigorosamente fondata su limiti definiti: ne deriva che l'inconoscibilità
dei principi di base di una scienza è garanzia di scientificità (38). Un presupposto che contraddice
radicalmente la tesi hegeliana della perfetta corrispondenza fra logos e realtà e della trasparenza di
quest’ultima.
Inoltre, la filosofia hegeliana, come si è visto, ha un carattere teleologico: il momento finale è il
telos, che predetermina le tappe iniziali e quelle intermedie di un processo, e ne sancisce la totalità e
l'unità. Al contrario, la concezione freudiana del sogno e del desiderio è imperniata sul concetto di
regressione, che è, insieme, ritorno all'infanzia, alla percezione, e a modalità espressive preverbali e
raffigurative (39); e sulla regressione converge l'interpretazione freudiana dei processi psichici
fondamentali, che ci mostrano la perpetua vicinanza dell’uomo al processo primario. E se in Hegel
il senso del divenire è nella fine, così in Freud è nell’inizio: il bambino è la verità dell’uomo.
Ma come in Nietzsche, così anche in Freud si può dimostrare, se non l’esistenza di strutture
dialettiche vere e proprie, una dialetticità di fondo. Come in Nietzsche, così anche in Freud, i
concetti di base sono dinamici: in questo la psicoanalisi è fondamentalmente dialettica. Basti
pensare alla complessità della psiche, di cui essa evidenzia le numerose istanze, spesso in conflitto
fra loro; le due topiche, elaborate per risolvere tale complessità, possono essere interpretate come
dialettiche di ‘sistemi’ (40).
Ma anche la teoria delle pulsioni, che Freud, nel corso della sua elaborazione teorica, ha modificato
più volte, mantiene sempre una polarità. All'inizio egli ha parlato di pulsioni dell'Io o di
autoconservazione, legate ai bisogni organici, e il cui prototipo è la fame, a cui si contrappongono le
pulsioni sessuali, o libido. Con la scoperta del narcisismo, viene introdotta una nuova opposizione,
interna alla libido, fra due orientamenti, quello narcisistico e quello oggettuale (nel primo caso la
libido è rivolta verso il soggetto, nel secondo all'esterno, verso un oggetto). Vi è infine l'ultimo
periodo, che vede contrapposti Eros e Thanatos, ossia la pulsione sessuale, o di vita, e la pulsione di
morte (Todestrieb).
Ma, per avere più propriamente il senso della ‘dialetticità’ della psicoanalisi, soffermiamoci su una
situazione particolare, la relazione edipica, che presenta una straordinaria analogia di struttura con
la relazione hegeliana del servo-padrone: in entrambe è rappresentato il passaggio dall’animalità
alla cultura, dalla vita all’autocoscienza, attraverso le figure del desiderio, della lotta, della morte,
dell’angoscia (41).
Diversamente dalla relazione servo-padrone, il conflitto edipico non è governato da alcun Logos; è
una concezione che nasce dall'autoanalisi di Freud e trova conferma nella pratica clinica. L'Edipo
freudiano consiste, in sintesi, in quelle dinamiche inconsce che caratterizzano la situazione del
bambino e della bambina nei rapporti con i genitori. Esso è, per Freud, un momento fondamentale
nella vita dell'individuo, ne marca profondamente la personalità e la vita di relazione; in quanto
"complesso nucleare delle nevrosi", fa addirittura da spartiacque tra il normale e il patologico. Nel
caso clinico del piccolo Hans, ossia in una situazione patogena, Freud coglie l' importanza di questo
conflitto, che da allora è diventato uno dei fondamenti della teoria psicoanalitica.
"Hans è veramente un piccolo Edipo, che vorrebbe togliere di mezzo, sopprimere il padre per essere
solo con la bella madre, per dormire con lei" (42).
Il piccolo Hans non riesce a padroneggiare i suoi impulsi amorosi verso la madre, nè l'ostilità per il
padre, visto come l'ostacolo che si frappone al suo desiderio. Il padre, amato-odiato in un conflitto
d'ambivalenza, è anche temuto, a causa delle possibili rappresaglie. La paura del bambino di essere
morso dal cavallo è uno spostamento di questa paura del padre, conseguenza degli stessi impulsi
ostili di Hans.
Come nella relazione servo-padrone, il desiderio si scontra con l’Altro, e, mediato dal conflitto e
dalla lotta, accede al piano della cultura. Anche in questo caso è determinante il ruolo svolto
dall'angoscia: è l'angoscia di castrazione, la paura cioè di essere evirato dal padre, che impone al
bambino di rinunciare al desiderio della madre, e di identificarsi con il padre. Il bambino si
comporta cioè come il servo, che, per conservare la vita, si ritrae dalla lotta e si sottomette al
signore, riconoscendo la sua superiorità, avendo in lui un polo di riferimento e di confronto. Come
per il servo, la dipendenza del bambino viene risolta mediante la disciplina degli istinti. Tale
sottomissione-riconoscimento, nell'analisi freudiana, passa per l'identificazione, movimento che
ricorda la duplicazione dell'autocoscienza hegeliana, che consiste nell'interiorizzazione della figura
paterna e del divieto. L’identificazione risolve la crisi edipica e genera il Super-io. Ecco quanto
scrive Freud nel Tramonto del complesso edipico (1924):
"Gli investimenti oggettuali vengono abbandonati e sostituiti dall'identificazione. L'autorità paterna
o parentale introiettata nell'Io vi costituisce il nucleo del Super-io, il quale assume dal padre la
severità, perpetuando il suo divieto dell'incesto, e garantendo così l'Io contro il ritorno di
investimenti oggettuali libidici" (43).
Il Super-io rappresenta, per Freud, il nostro rapporto con i genitori, e tramite essi, con i valori
sociali ed etici dell'ambiente culturale. "Da bambini piccoli abbiamo riconosciuto, ammirato e
temuto questi esseri superiori, e più tardi li abbiamo assunti dentro di noi" (44). L'acquisizione di
questi valori da parte del bambino non è solo il frutto dell'educazione, ma è soprattutto il risultato
della risoluzione dell'Edipo e della formazione del Super-io, o Ideale dell’Io. In altre parole,
attraverso la rinuncia ai suoi desideri sessuali ed ostili, il bambino fa il suo ingresso nella cultura.
"L'ideale dell'Io, per le vicende che hanno condotto alla sua formazione, si riallaccia sotto molteplci
aspetti alle acquisizioni filogenetiche, e cioè all'eredità arcaica dell'individuo singolo. Ciò che è
appartenuto alla dimensione più profonda della vita psichica individuale, si trasforma, mediante la
formazione dell'ideale, in quelli che noi riteniamo i valori più alti dello spirito umano." (45)
Note
(1) L. Sichirollo, Dialettica, ISEDI, Milano 1973, pp. 83 e sgg.
(2) I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V.
Mathieu, Bari 1966, vol. I, p. 101.
(3) Ivi, vol 2°, p. 288.
(4) Ivi, p. 313.
(5) Ivi, pp. 354-375.
(6) Ivi, p. 411.
(7) Scrive Heidegger: "Sappiamo che l'idealismo tedesco ha pensato l'essere come volontà. Questa
filosofia si spinge addirittura fino a pensare il negativo come appartenente all' essere" (M.
Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Milano 1994, p. 71). Lo stesso concetto afferma Nietzsche
là dove scrive: "Il significato della filosofia tedesca (Hegel): escogitare un panteismo in cui il male,
l'errore e il dolore non siano avvertiti come argomenti contro la divinità" (F. Nietzsche, La volontà
di potenza, trad. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1995, af. 416).
(8) G. W. F. Hegel, La Fenomenologia dello Spirito, trad. it di E. De Negri, Firenze 1993, p. 26.
(9) G. W. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. di B. Croce, RomaBari 1994,
p. 95.
(10) M. Trombino, Filosofia/Testi-percorsi, V, Bologna 1997, cfr. in particolare le pagg. 345-47.
(11) G. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 151.
(12) Cfr. l'interpretazione di A. Kojève, in La dialettica e l'Idea della morte in Hegel, Torino 1991.
(13) G. W. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., p. 157.
(14) Ivi, p. 159.
(15) Ivi, pp. 161-62.
(16) Scrive L. Sichirollo: "Ciò che distingue Marx e coloro che da Marx discendono, Engels
compreso, è la configurazione della dialettica come metodo" (Dialettica, cit., p. 162).
(17) K. Marx, Il Capitale, "Poscritto alla seconda edizione", Roma 1970, pp. 44-45.
(18) L. Althusser, Per Marx, Roma 1970, pp. 71-72.
(19) Si sofferma ampiamente su tale dibattito M. Dal Pra, in La dialettica in Marx, Roma-Bari
1977; cfr. in particolare l'Introduzione.
(20) H. Lefebvre, Il materialismo dialettico, Torino 1949.
(21) L. Althusser, Per Marx, cit., cfr. in particolare i capp. III ("Contraddizione e
surdeterminazione") e VI ("Sulla dialettica materialista").
(22) N. Bobbio, La dialettica in Marx, in "Rivista di filosofia", XLIX, Torino 1958, pp. 334-54.
(23) G. Preti, Praxis ed empirismo, Torino 1957.
(24) Di G. Della Volpe si vedano Rousseau e Marx, Roma 1962, e Chiave della dialettica storica,
Roma 1964.
(25) G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, Milano 1996, p. 174.
(26) G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Firenze 1978.
(27) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, trad. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano 1982.
(28) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano 1987,
libro II, "Del paese dell’istruzione", p.146.
(29) F. Nietzsche, Ecce Homo, trad. it. A cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1977, p. 76.
(30) F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, trad. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano
1987, af. 21.
(31) F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., libro II, "Dei saggi illustri", p. 125.
(32) Ib., libro I, "Del cammino del creatore", p. 75.
(33) Ib., libro III, "Del grande anelito", p. 273.
(34) Ib., libro II, p. 139.
(35) Mi permetto di segnalare il mio Nietzsche e la filosofia del viandante, Milano 1992, in
particolare il cap. settimo, pp.115-122.
(36) Opere di Sigmund Freud (= OSF), Torino 1989, vol. 10, pp. 245-46. Sul rapporto tra Freud e la
filosofia, mi permetto di segnalare il mio articolo su Freud filosofo, (anche a stampa in Bollettino
della Società Filosofica Italiana, n. 167 maggio-agosto 1999).
(37) OSF, vol. 10, p. 246.
(38) Esiste al proposito una sorta di manifesto ufficiale di tale agnosticismo, ed è il celebre discorso
(l'Ignorabimus!) pronunciato da Du Bois-Reymond nel 1872 al Congresso dei naturalisti di Lipsia.
Egli sostiene in quell'occasione che la scienza della natura, relativamente ai suoi assunti di base,
come i concetti di forza e di materia, si imbatte in problemi insolubili, veri e propri enigmi. Ma ciò,
lungi dall'indurre ad atteggiamenti scettici, costituisce una garanzia della validità della ricerca che
sia compresa entro quei limiti. Cfr. P. L. Assoun, Introduzione all'epistemologia freudiana, RomaNapoli 1988, parte prima, capitolo terzo. Sulla formazione di Freud cfr. anche S. Bernfeld e S.C.
Bernfeld, Per una biografia di Freud, Torino 1991.
(39) "Tutti e tre i tipi di regressione - afferma Freud - ne costituiscono tuttavia in fondo uno solo e
nella maggioranza dei casi coincidono, poichè ciò che è cronologicamente più antico è nello stesso
tempo formalmente primitivo e, nella topica psichica, più vicino all'estremità percettiva" (OSF, vol.
3, pp. 500-1).
(40) Scrive a questo proposito P. Ricoeur (Della interpretazione. Saggio su Freud, Genova 1991, p.
438): " Più ancora, la seconda topica è come la rappresentazione grafica di una dialettica. [..] La
seconda topica è la dialettica propriamente detta attraverso la quale giocano le diverse dicotomie
degli istinti e le contrapposte sorti degli istinti che abbiamo ora ricordato. E’ con il problema del
Super-Io che sorge la situazione dialettica che ha reso possibile la stessa prima topica, giacchè è
essa che è all’origine dei conflitti intrapsichici. Il desiderio ha il suo ‘altro’. [..] Di più, le serie di
coppie, Io-Es, Io-Super-Io, Io-Mondo, che costituiscono queste relazioni di dipendenza, si
presentano tutte, come nella dialettica hegeliana, come relazione da signore a servo che è necessario
superare successivamente".
(41) Il confronto Hegel-Freud è trattato, in modo assai ampio e articolato, da P. Ricoeur (op.cit., III
sez. del libro III). Sviluppando l’analogia tra il servo-padrone e la relazione analitica, egli scrive (p.
435): "Come ci insegna il decisivo episodio del transfert, la presa di coscienza non solo passa per la
coscienza dell’altra, quella dell’analista, ma comporta una fase di lotta che non può non ricordare la
lotta per il riconoscimento; si tratta in effetti di una relazione disuguale, in cui il paziente, come il
servo della dialettica hegeliana, vede di volta in volta l’altra coscienza come l’essenziale e come
l’inessenziale; anch’egli trova dapprima la propria verità nell’altro, prima di diventare il signore con
un ‘lavoro’ paragonabile al lavoro del servo, il lavoro stesso dell’analisi".
(42) S. Freud, Il caso clinico del piccolo Hans, OSF, 5, p. 562.
(43) S. Freud, Il tramonto del complesso edipico, 1924, OSF, 10, pp. 30-31.
(44) S. Freud, L'Io e l' Es, 1922, OSF, 9, p. 498.
(45) Ib., pp. 498-99.
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A. Barli
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