la figura di mou zongsan e il neo-confucianesimo

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Marcello Ghilardi
LA FIGURA DI MOU ZONGSAN (1909-1995)
E IL NEO-CONFUCIANESIMO NEL XX SECOLO
La storia culturale della Cina del secolo scorso vede un fitto avvicendarsi di figure di
intellettuali che si sforzano di dare nuova linfa alla tradizione confuciana, applicandosi nei campi
dell’indagine metafisica – come ricerca dei fondamenti della realtà e del sapere – e della filosofia o
della scienza politica. Alle due grandi fasi storiche del confucianesimo, l’epoca di Confucio (VI-V
sec. a.C.) e del neo-confucianesimo tra il XII e il XVI secolo – che ha in Zhu Xi (1130-1200) e
successivamente in Wang Yangming (1472-1529) le sue figure più significative – segue una terza
importante fase, quella del neo-confucianesimo contemporaneo (xiandai xinruxue 現代新儒學 ).
Questa importante corrente, che prende avvio nei primi decenni del Novecento, è giunta oggi alla
quarta generazione di studiosi, che la animano e le danno continuità in modi e in luoghi differenti.
Non è cosa di poco conto notare che solo gli esponenti della prima generazione vissero l’intera vita
sul suolo del continente cinese: tra questi, i più importanti furono Xiong Xili (1885-1968) e Ma
Yifu (1883-1967), che per primi intesero riscoprire le radici culturali della Cina classica in un’epoca
in cui operazioni di questo tipo correvano costantemente in rischio di passare per scelte reazionarie
o ultraconservatrici e di porsi in un atteggiamento di rottura con le correnti maggioritarie dello
stesso periodo. Ad essi si affiancarono Liang Shuming (1893-1988), che orientò le proprie
riflessioni soprattutto in ambito politico, e il famoso erudito e storico del pensiero Feng Youlan
(1895-1990).
I tre nomi più importanti della seconda generazione furono Mou Zongsan (1909-1995), Tang
Junyi (1909-1978) e Xu Fuguan (1903-1982), al pari di Liang più incline allo studio di tematiche
politiche. Con l’avvento del comunismo maoista, gli esponenti di questa generazione trovarono in
Taiwan e Hong Kong i luoghi più indicati e accoglienti per proseguire i loro studi senza il peso di
un regime politico autoritario. La terza generazione annovera tra i suoi elementi più famosi Yu
Yingshi (nato nel 1930), Lu Shuxian (1934), Du Weiming (1940) e François Cheng (1929),
particolarmente noto in Europa, poiché dalla fine degli anni Quaranta si è stabilito a Parigi. Della
seconda e della terza generazione di neoconfuciani contemporanei nessuno rimase in Cina, segno
della difficoltà di manifestare un pensiero sganciato dagli influssi del potere nell’epoca in cui il
maoismo era al suo apice.
La quarta generazione è costituita dagli intellettuali nati negli anni Cinquanta: Li Minghui, Luo
Yijun, Jiang Qing, Chen Lai, Zheng Jiadong e Anne Cheng. Con questa generazione si assiste a un
parziale ritorno degli intellettuali in Cina: le mutate condizioni socio-politiche della Repubblica
Popolare hanno consentito ad autori come Jiang, Luo, Chen o Zheng di lavorare – in modo più o
meno agevole – senza essere costretti a lasciare la madrepatria (diverso è il caso di Anne Cheng,
figlia di François, nata e cresciuta a Parigi).
È in particolar modo a partire dagli anni Sessanta che gli intellettuali cinesi iniziano ad
interessarsi al pensiero dell’Occidente, superando l’interesse meramente tecnico e utilitaristico che
fino ad allora era stato predominante. Come era successo al Giappone dell’epoca Meiji, la Cina si
trova a dover fare i conti non soltanto con un sistema tecnologico: per cogliere le ragioni del divario
tra i due mondi occorre risalire alle radici filosofiche di ciò che i sistemi economici e politici
costruiscono nella concretezza del loro operare; si tratta di interagire e integrare altri modelli. In una
Cina che per entrare rapidamente nella modernità politica ed economica non trova altre soluzioni se
non l’adozione del comunismo russo, adattato alla situazione locale, i “neoconfuciani
contemporanei” decidono di recuperare e ricostruire il proprio passato culturale per verificarne le
possibilità di rinnovamento e per vivificarlo, integrandolo con le nuove problematiche sopraggiunte
in seguito al secondo dopoguerra.
Il grande problema che si trova ad affrontare la Cina alla metà del Novecento – è uno dei
problemi che si trova a dover affrontare anche oggi – è quello di un’uscita seria dalla distruttiva
alternativa tra il progressivo abbandono della tradizione da parte degli iconoclasti contemporanei e
la fossilizzazione dei conservatori più retrivi; due strategie che, nella loro opposizione, possiedono
un sottofondo comune: l’idea di far equivalere la Cina all’Occidente 1. Filosofi come Mou Zongsan,
Tang Junyi e Xu Fuguan si posero invece come compito principale proprio quello di riscoprire la
vitalità della tradizione cinese classica mostrando ciò che aveva da dire all’epoca contemporanea –
dunque non solo come retaggio di un passato, certo nobile e interessante, ma pur sempre materiale
da museo; bensì come linfa vitale per un rinnovamento della cultura tutta intera, una cultura
profondamente e sinceramente cinese ma al tempo stesso rivolta al mondo e al futuro. Gli
intellettuali cinesi, come i filosofi giapponesi della scuola di Kyōto, si cimentarono dunque nella
duplice impresa di riscoprire nella propria cultura alcune risposte alle domande pressanti del mondo
contemporaneo, risposte che fossero insieme “vere” e profondamente “cinesi”, cioè non derivate da
altre tradizioni di pensiero. Come scrive Levenson: «L’impegno dei cinesi della modernità nei
confronti di questioni di carattere generale […] è l’impegno a cercare risposte che siano ‘vere’;
l’impegno di questi pensatori a questioni di carattere specifico consiste nel loro bisogno di trovare
risposte che fossero in qualche modo ‘loro proprie’»2.
La problematica delle “tre tradizioni” in Mou Zongsan
«Amo lo Shandong, tuttavia detesto lo Shandong di oggi. Amo la Cina, tuttavia detesto la Cina
di oggi. Amo l’umanità, tuttavia detesto l’umanità di oggi» 3 . Con queste parole struggenti e al
tempo stesso estremamente critiche si apre Shuo ‘huaixiang’ (Sulla nostalgia) di Mou Zongsan4, il
testo del 1953 che apre la raccolta di saggi intitolata Shenming de xuewen [Un insegnamento di vita].
1
Cfr. J. R. Levenson, Confucian China and Its Modern Fate. A Trilogy, University of California Press, Berkeley, vol. I,
1958 , p. XXIX-XXX (gli altri due volumi sono stati pubblicati nel 1964 e nel 1965).
2
J. R. Levenson, op. cit., p. XXXII. L’autore prosegue mettendo in evidenza i rischi connessi a questo doppio tentativo;
rischi che tuttavia non nascondono la necessità da parte della Cina di mantenere un legame tanto con il proprio passato
quanto con le urgenze del tempo presente.
3
Mou Zongsan, Shuo “huaixiang” (1953), in Shenming de xuewen, Sanmin shuju, Taibei 1960, pp. 1-7 (la citazione è a
p. 1).
4
Del tutto sconosciuto in Italia se non tra i pochi addetti ai lavori che si occupano del pensiero cinese del secolo scorso,
Mou è di fatto una figura di primissimo piano nel panorama filosofico non solo cinese, ma anche internazionale. In
Francia è stata di recente pubblicata una raccolta di dodici conferenze tenute a Hong Kong nel 1973: cfr. Mou Zongsan,
Specificité de la philosophie chinoise, éd. du Cerf, Paris 2003. In questi testi Mou presenta la tradizione confuciana
come un pensiero aperto alla trascendenza – discostandosi così dalla maggior parte delle interpretazioni usuali – ovvero
come una saggezza metafisica in grado di aprirsi alla modernità e di dialogare con le altre filosofie e religioni (cfr.
l’introduzione di J. Thoraval, in particolare alle pp. 27 sgg.). Il ruolo di Mou nell’ambito della storia culturale della Cina
contemporanea è per certi versi analogo a quello rivestito da Nishida Kitarō per il Giappone: è stato infatti uno dei
filosofi cinesi che più si sono confrontati con la filosofia europea – in particolare con Kant e Hegel – nel tentativo serio,
documentato e approfondito di interrogare la secolare tradizione cinese, entrata in crisi, facendola dialogare con il
pensiero e la Weltanschauung dell’Occidente. Inizialmente lettore di Russell negli anni Trenta, con la crisi sociopolitica del suo paese si volge allo studio di Hegel e poi di Kant, che scopre dopo essersi rifugiato a Taiwan. L’obiettivo
principale del suo pensiero è quello di trasformare ed attualizzare l’esperienza in un moderno discorso filosofico, in
grado di fondare anche un nuovo ordine politico (xin waiwang 新外王); il pensiero di Kant costituirà per Mou il ponte
per pensare la relazione tra l’incontro con la scienza e la democrazia occidentali e la tradizione confuciana; di Kant,
Mou tradurrà le tre Critiche: Kangde de daode zhexue [La filosofia morale di Kant], Xuesheng shuju, Taibei 1982
La crisi che fin dai primi anni del Novecento investe la cultura cinese, in difficoltà nel
rinnovarsi restando al passo con la modernità, colpisce duramente lo stesso Mou. La sua persona, il
suo pensiero sono prostrati da un senso di frustrazione dovuto all’incapacità di rinvenire nella
cultura intellettuale cinese delle risposte adeguate alle sfide del nuovo secolo. Il suo saggio
autobiografico Wushi zishu [Autobiografia a cinquant’anni]5, molto importante non soltanto per
ricostruire le fasi del suo pensiero ma anche come documento di una generazione intera, mostra
chiaramente il suo sforzo di articolare un dialogo tra le principali forme del pensiero cinese –
confucianesimo, taoismo, buddhismo – e la tradizione filosofica europea, in particolare con il
criticismo di Kant. Il testo, ricco e appassionante, si divide in sei capitoli, nei quali Mou articola –
seguendo un costume tipico tra gli intellettuali cinesi - le fasi della sua crescita intellettuale. A
partire dall’infanzia, priva di grandi relazioni affettive e pregna di una sorta di “disordine” naturale,
di un caos (hundun 混沌) che è diretta conseguenza del sentimento estatico della natura e del mondo
circostanti (cap. 1), Mou passa attraverso la lettura di Hegel, che gli crea un profondo senso di
scissione spirituale. Nel 1928 inizia a studiare all’università di Pechino, ma la frattura tra astrazione
filosofica e vita pratica lo aliena dai principali movimenti degli intellettuali a lui contemporanei,
liberisti o marxisti (cap. 2). Si dedica dunque allo studio della filosofia, legge lo Yijing e forma così
un suo vocabolario filosofico e simbolico; si appassiona al pensiero di A.N. Whitehead (cap. 3).
Dopo l’interesse per il pensiero di matrice intuizionista, Mou si avvicina a forme di speculazione
che sottolineano l’importanza della logica e della teoria dell’argomentazione; studia i Principia
Mathematica di Russell e il Tractatus di Wittgenstein. Ma per superare le convenzioni dei linguaggi
logico-formali è necessario andare alle radici della conoscenza e scoprire il soggetto delle
proposizioni logiche: ecco il grande incontro con il Kant delle tre critiche, che Mou tradurrà in
cinese (cap. 4). Gli anni Quaranta segneranno poi la grande crisi, filosofica ed esistenziale, in
seguito alle difficoltà politiche e sociali della Cina. L’incontro con Feng Youlan e Xiong Shili lo
porterà quindi alla stesura di un trattato di “riabilitazione” della metafisica confuciana nei confronti
del pensiero buddhista, considerato “straniero” e dunque non rispondente all’autentica visione del
mondo di matrice cinese (cap. 5). Dieci anni di profonda depressione seguono, nella vita di Mou, gli
eventi della guerra civile; l’ultimo capitolo presenta il nuovo incontro con la sapienza buddhista,
attraverso un lungo e meditato commento al Vimalakirtinirdesa-sutra (cap. 6). Il silenzio di
Vimalakirti è assimilato da Mou alla necessità di accettare e sopportare la fase di sofferenza del suo
stesso popolo, che determina in conseguenza la sua stessa difficoltà nel comprendere teoreticamente
lo stallo a cui pare giunta la tradizione confuciana.
L’esperienza di Mou diventa paradigmatica per comprendere le vicende degli intellettuali suoi
coetanei, cresciuti in una situazione di sradicamento dalle origini e di perdita di quella coscienza
morale che da Confucio in poi aveva rappresentato la base più solida su cui fondare l’identità cinese.
La forte discontinuità avvertita a partire dalla metà del secolo tra il piano filosofico e quello sociale
determina l’impulso per una messa in questione dello stato di cose. Agli occhi di filosofi come Mou,
Xiong Shili o Xu Fuguan si impone la necessità di riproporre in una forma nuova e insieme antica il
confucianesimo – considerata la tradizione fondamentale del popolo cinese – per una triplice
necessità: religiosa, filosofica e pratica. Lo stesso Xiong Shili, il maestro di tutta la generazione di
(contiene la traduzione dei Fondamenti della metafisica dei costumi e della Critica della ragion pratica); Kangde chun
lixing zhi pipan [Critica della ragion pura di Kant], Xuesheng shuju, Taibei 1983, 2 voll; Kangde panduanli zhi pipan
[Critica della capacità di giudizio di Kant], Xuesheng shuju, Taibei 1993, 2 voll. (contiene una lunga prefazione di
Mou, pp. 3-91 del primo volume). L’influenza del pensiero di Mou Zongsan sembra oggi limitata agli ambienti più
interessati alle proposte teoretiche di Habermas da un lato o di Derrida dall’altro, ma il suo insegnamento ha attecchito
bene nelle università di Taiwan e di Hong Kong. La scrittura di Mou Zongsan è complessa, a tratti ellittica, e denota lo
sforzo di integrare concetti propri del lessico filosofico europeo all’interno di un percorso che vuole mantenersi in
armonia con la tradizione. Inoltre, non disponendo la lingua cinese di un sillabario come la lingua giapponese
(katakana), i nomi propri occidentali vengono spesso trascritti con caratteri che dovrebbero ricordarne il suono, ma che
spesso lo storpiano al punto da renderlo quasi irriconoscibile, rendendo ulteriormente difficili la lettura e la
comprensione.
5
Mou Zongsan, Wushi zishu, Ehu chubanshe, Taibei 1989.
Mou, è convinto che gli intellettuali cinesi del Novecento abbiano perso il senso della grandezza
intellettuale dei letterati cinesi di epoca Song e di epoca Ming. Il comunismo è stata la necessaria
conseguenza dell’aver trascurato e negletto la coscienza morale di matrice confuciana, filo rosso
che ha permesso ad ogni generazione di letterati di legarsi al vigoroso pensiero dei secoli passati.
Non c’è alcuna possibilità di reazione al regime politico e culturale dominante, senza una ripresa di
questo fondamento inconcusso della storia culturale cinese.
La riflessione matura di Mou prende le mosse dalla crisi del rapporto tra individuo e società in
Cina. Terminata la fiducia nell’utopia del testo intitolato Da Xue [La grande scienza, o Il grande
studio]6, secondo cui poteva esserci un rapporto diretto tra individuo e società, si tratta di ripensare
la possibilità di una continuità tra le dimensioni individuale e collettiva. Per Mou la questione
essenziale diviene quella di capire come sia possibile creare un passaggio senza frattura tra il
percorso di trasformazione individuale e una trasformazione della società. Le figure a cui fa
riferimento Mou sono il “saggio interiore”, neisheng 內聖, e il “principe esteriore”, waiwang 外王7:
dove trovare – questa è la domanda che assilla il suo pensiero – le condizioni per integrare tra loro
questi due aspetti? La ricerca di una saggezza interiore non può prescindere dalla sua
manifestazione a livello esteriore, da una ricaduta in ambito sociale; e, viceversa, la realizzazione
dell’armonia e del progresso sociali non può che fondarsi su un’autentica ristrutturazione della
moralità di ciascun individuo. Ecco il punto nodale: la Cina contemporanea ha perso, agli occhi del
filosofo, la capacità di fare tesoro della propria tradizione per dotarsi di strumenti in grado di farla
progredire, non soltanto in direzione della tecnica occidentale, mantenendosi però ancorata alla
forza della propria cultura. Mou si rivolge quindi alla storia confuciana per riscoprirne le linee di
forza. Il rapporto tra neisheng e waiwang, tra approfondimento morale e sviluppo sociale, è
individuato nella trasmissione di un ben preciso sistema etico-religioso (daotong 道通 ): la vera
saggezza interiore, che si inverava nel progresso della nazione, è racchiusa nella capacità del
confucianesimo classico di far corrispondere alla maturazione del singolo una maturazione del
sistema sociale a cui appartiene. La Via (Dao 道), intesa come ordine superiore su cui regolare il
corso della vita e al contempo come insieme di valori etici – supportati dal rispetto dei riti –
costituisce l’ossatura di un complesso ma armonico tessuto che ha mantenuto la coesione della
nazione cinese nel corso dei secoli. Questo sistema, che per secoli ha anteposto lo studio della
saggezza interiore, dei riti e del valore morale a quello della conoscenza scientifica e della scienza
politica, è stato scardinato in pochi decenni dal contatto con la modernità dell’Occidente. Secondo
lo stesso Mou la Cina non ha mai posseduto una tradizione scientifica vera e propria, e non ha
riconosciuto la priorità dell’intelletto (zhixing, termine con cui Mou rende il tedesco Verstand) che
esprime la facoltà discriminante della mente umana, atta alla conoscenza logico-matematica e alla
ricerca tecnico-scientifica8.
Con gli inizi del XX secolo la Cina si è rivolta ad ovest, virando decisamente e repentinamente
in direzione di una trasmissione del sapere di matrice occidentale, una trasmissione totalmente
estranea, straniera (waitong). Se prima l’ambito della saggezza e della trasmissione della via
6
Cfr. La Grande Scienza (Daxue), 1: «Il Dao della Grande Scienza consiste nel far risplendere la luce della virtù,
nell’esser vicino al popolo come alla propria famiglia, e nell’appagarsi soltanto nel bene supremo. […]. Nell’antichità,
per far risplendere la luce della virtù per tutto l’universo, si iniziava riordinando il proprio paese. Per riordinare il
proprio paese, si iniziava riordinando la propria famiglia. Per riordinare la propria famiglia, si iniziava perfezionando se
stessi. Per perfezionare se stessi, si iniziava rendendo diritto il proprio suore. Per rendere diritto il proprio cuore, si
iniziava rendendo autentica la propria intenzione. Per rendere autentica la propria intenzione, si iniziava sviluppando la
propria conoscenza, e si sviluppava la propria conoscenza esaminando le cose. […] Per il Figlio del Cielo come per
l’uomo comune, l’essenziale consiste nel perfezionare se stessi» (in A. Cheng, Storia del pensiero cinese, tr. it. Einaudi,
Torino 2001, pp. 57-58). Il testo pare escludere ogni dimensione metafisica, mostrando un processo che ha luogo
totalmente all’interno dell’essere umano. Ciò che Mou considera utopistico in questa concezione è la possibilità di una
vera trasmissione dall’ambito del neisheng a quello del waiwang, ed è proprio su questo punto che egli vede la necessità
di lavorare nuovamente aprendo nuove prospettive.
7
Cfr. Mou Zongsan, Guanyu wenhua yu Zhongguo wenhua, in Daode de lixiangzhuyi [L’idealismo morale], Xuesheng
shuju, Taibei, 1968 (prima ed. 1959), pp. 246-262.
8
Cfr. ivi, p. 261.
restavano strettamente collegati alle manifestazioni esterne della politica e del progresso, con
l’apertura indiscriminata alla trasmissione della “Via” occidentale – che comporta un insieme di
conoscenze, di pratiche e di rituali interni alla mentalità dell’Occidente – ha scavato un fossato tra
neisheng e waiwang. Qual è, si chiede a questo punto Mou, la matrice del daotong occidentale? Per
lui non c’è dubbio: la politica dell’Occidente (nella fattispecie, la democrazia) e la ricerca
scientifica (basata sui principi logico-matematici) si fondano sulla “Via” del cristianesimo. Ma per
poter commerciare con l’Europa e l’America, e per poter competere con le loro economie, è allora
necessario modellarsi anche sull’impianto religioso e culturale che ha dato loro l’abbrivio? Mou
non è convinto di questo, ma certo non nasconde la sfasatura che l’ingresso della scienza e della
pratica politica occidentale ha portato in seno alla Weltanschauung cinese.
Se il rapporto tra daotong della Cina classica con la sua pratica politica ha rappresentato nei
secoli il rapoprto tra un’identità culturale e un’identità politica, e il rapporto tra daotong e studio
accademico-scientifico ha costituito il nesso tra saggezza e dibattito filosofico, il daotong specifico
dell’Occidente cristiano ha creato nuovi (dis)equilibri, rimettendo in questione antiche consuetudini
e presupposti mai criticati. Il rapporto tra i due daotong, cinese ed europeo, viene a costituire agli
occhi di Mou l’esordio di un impegnativo dialogo interculturale e interreligioso. La convinzione che
il pensiero confuciano sia portatore di una vera e propria dimensione metafisica lo spinge a
evidenziare ciò in cui consiste la differenza tra la filosofia occidentale e quella cinese: mentre la
prima sviluppa una “metafisica della morale” (o dei costumi, come scrive Kant), la seconda dà
luogo a una “metafisica morale”. La differenza fondamentale risiede nel ruolo accordato dalle due
distinte tradizioni alla “pratica” (shijian), che Mou individua nell’importanza accordata in epoca
classica alle nozioni di “miglioramento personale” (xiushen) e di “lavoro su di sé” (gongfu). Se il
filosofo occidentale affronta i temi e i problemi in un modo essenzialmente teorico, il saggio cinese
si impegna in una pratica di trasformazione di sé al fine di assecondare il corso della Via, la
processualità cosmica di cui ogni individuo, ogni società, popolo o nazione fanno parte; il saggio sa
che il suo comportamento, per essere davvero perfetto, non deve far altro che assecondare quello
del Cielo e della Terra, l’ordine da cui scaturisce ogni evento naturale9.
Ma i rapporti che si instaurano tra gli ambiti indicati dal triangolo composto da trasmissione
culturale, scienza e identità politica contemporanea mettono in luce la necessità di un ripensamento
della sviluppo della scienza e della storia politica in Cina. Per Mou è chiaro che lo sviluppo cinese
non può ricalcare le orme di quello europeo, dal momento che non ha avuto il passato dell’Europa
ed è differente la stessa relazione tra la conoscenza e l’azione in seno alle due tradizioni. Per
comprendere lo Zeitgeist della contemporaneità e le possibilità future del popolo cinese, non si può
fare a meno di indagare le tensioni che operano tra le tre variabili funzionali (oltre a quella, si
potrebbe aggiungere, del soggetto che le prende in considerazione)10. Tra sistemi politici, o politicoreligiosi (zhengtong) e il paradigma scientifico (xuetong) esiste senza dubbio una relazione di
condizionamento reciproco – anche se il più delle volte emerge con maggior evidenza il
condizionamento che le idee e il progresso scientifici subiscono a causa della situazione politica
vigente; tra un sistema culturale in senso lato (daotong) e la forma politica che esso si dà
(zhengtong) il rapporto è ancor più cogente, e anche in questo caso è sempre importante interrogarsi
su quali elementi siano le condizioni, e quali i condizionati. Ma per quanto riguarda il rapporto tra
daotong cinese (che per Mou è individuato tout-court in quello confuciano, che include anche le
dimensioni del taoismo e del buddhismo, come interagenti e integrate con esso) e la scienza, la
questione si fa molto delicata e complessa. In quale forma si può dare uno sviluppo scientifico,
all’interno di un contesto che non ha mai sviluppato una forma di razionalità come quella europea,
J. Thoraval nota che dopo la traduzione in inglese di una parte dell’opera di Pierre Hadot Exercices spirituels et
philosophie antique (Albin Michel, Paris 2002, ed. orig. 1993), il filosofo cinese Du Weiming rivolse grande interesse
per quel saggio, che mostra come anche nella Grecia antica la filosofia costituisse una vera e propria pratica di vita. Cfr.
Le débat sur la légitimité…, cit., pp. 80 sgg.
10
Cfr. Mou Zongsan, Guanyu wenhua yu Zhongguo wenhua [Cultura estera e cultura cinese], in Daode de lixiangzhuyi
[L’idealismo morale], Xuesheng shuju, Taibei 1959 (5^ ed., 1982), pp. 246-262. In particolare, cfr. pp. 259-261.
9
ma ne ha conosciute altre11? Come integrare una forma mentis e un modello di razionalità in una
tradizione che serba in sé, intrinsecamente, altri modelli? Si delinea dunque una tensione ulteriore,
quella che confronta tra loro i due daotong, le due culture nel tentativo di chiarirle reciprocamente,
in virtù delle differenze che le separano e dei punti di contatto che le possono avvicinare, senza
appiattirle l’una sull’altra o tentare di individuarne una astratta, media tra le due, che funga da
nuovo modello per il futuro. La tentazione sincretista o universalista è coscientemente evitata da
Mou, che resta indissolubilmente legato al daotong cinese e, anzi, intraprende questo arduo
percorso di scoperta di sé e dell’altro, e di sé attraverso l’altro, proprio al fine di mostrare la vitalità
della cultura confuciana e la sua possibilità di porsi come modello ancora attivo ed efficace, punto
di riferimento nella complessità del mondo attuale e non mero retaggio di un passato archeologico.
Riemerge l’importanza della cura e della coltivazione della saggezza interiore (neisheng), che deve
entrare in un rapporto dialettico con il daotong della nazione – rapporto che può essere garantito
solo da un rinnovato rispetto per i riti, li: «La tradizione della Via dipende dalla saggezza interiore,
la tradizione politica dalla regalità esteriore (Daotong zhi neisheng yan, zhengtong zhi waiwang
yan)»12. Di fatto, l’autentica saggezza consiste esattamente nella trasmissione della Via: tra l’una e
l’altra dimensione, tra interiorità dell’individuo e collettività civile e sociale, c’è una continuità
naturale, perché la Via, il Dao del singolo si inserisce nel Dao del paese e della cultura a cui quel
singolo appartiene.
Eppure, sembra che la Cina nel XX secolo non riesca a fare a meno di imitare l’Occidente nel
maggior numero di aspetti, al fine di raggiungerne il benessere e lo sviluppo tecnologico ed
economico. Ecco perché agli occhi di Mou si rivela indispensabile chiarire come l’esperienza
europea non possa essere semplicemente imitata: come si è visto, tradizione culturale, politica e
sviluppo scientifico si compongono in un insieme legato e coerente, e non è possibile esportare uno
dei fattori senza comporlo con gli altri. La stessa democrazia – che per Mou rappresenta il modello
politico della contemporaneità, da costruire e migliorare – non può essere trapiantata in paesi e
culture con un passato, dei costumi e dei valori diversi da quelli europei senza una serie di
adattamenti, specificazioni e tempi di integrazione e trasformazione necessari ad evitare esperimenti
fallimentari o utopie inattuabili. Questo, d’altronde, non significa che lo sviluppo verificatosi in
Occidente non sia possibile in altri paesi. Tutte le culture e tutti i popoli possiedono, in potenza, i
“germi”13 di un tale fecondo sviluppo e le qualità per farli crescere; essi non sono una prerogativa
esclusiva dell’Occidente. Tuttavia, ogni nazione è in grado di far crescere i semi dello sviluppo solo
a patto di tenere conto delle proprie peculiarità: se la specificità della storia e del progresso
occidentali risiedono, dal punto di vista culturale, nella filosofia greca e ancor più nel pensiero
cristiano (questo è per Mou il vero e proprio daotong dell’Europa), si tratterà di riconoscere per
ogni popolo la sua tradizione fondante, il sistema di riferimento – per quanto riguarda i valori, le
leggi, le nozioni – in grado di supportare e sostenere uno sviluppo economico e tecnico che non ne
snaturi l’essenza. La Cina ha dunque una sola possibilità, se non vuole alienarsi in una sorta di
esotismo tecnologico: far dialogare e interagire il daotong dell’Occidente con il proprio sistema
culturale, senza occultare o disconoscere le rispettive caratteristiche.
11
Cfr. Mou Zongsan, Lüelun daotong, xuetong, zhengtong [Breve discussione sulla trasmissione della Via, della
scienza, della politica], in Shenming de xuewen, cit., pp. 60-71. Per il filosofo cinese la scienza consiste in una rigorosa
forma di sapere logico, matematizzato; in questo senso non si può affermare che vi sia stata una scienza vera e propria
in Cina, dove si è sempre privilegiato piuttosto lo studio della moralità – non di una conoscenza, di una σοφία secondo
la tradizione iniziata nell’antica Grecia (pp. 60-62). La Cina non può sperare di occidentalizzarsi tramite l’assunzione
della scienza e della politica europee, senza comprendere anche il peculiare daotong dell’Occidente (il pensiero della
cristianità): tuttavia, non bisogna che essa rigetti la propria cultura, si tratta invece di riuscire a integrare i diversi aspetti
e le diverse “trasmissioni della Via” (pp.70-71).
12
Ivi, p. 260.
13
Mou impiega il termine buddhista houfa 瘊法 (traduzione del sanscrito dharma) per indicare i germi, i semi ricchi di
potenzialità che possono essere sviluppati in una direzione feconda e positiva.
Nel già citato testo del 1953 Shuo ‘huaixiang’ (Sulla nostalgia) 14 , Mou sottolinea la
convinzione di dover provvedere, da parte della Cina, all’istituzione di un sistema organico e
coerente, al passo con i tempi moderni, in grado di integrare le tre dimensioni della vita di una
nazione: bisogna 1) far emergere lo spirito autentico della democrazia, stabilendo un baricentro
stabile ad ogni manifestazione della vita politica; 2) far sorgere uno spirito scientifico traendo il
migliore insegnamento dalla tradizione occidentale; 3) rinnovare e rivitalizzare lo spirito della
tradizione cinese, una piattaforma morale che costituisca l’asse fondamentale della vita quotidiana e
al contempo della prospettiva politica nazionale, rinsaldando l’antico legame tra vita dell’individuo
e vita della nazione: questa piattaforma dovrà essere formata sull’impianto dei valori etici del
confucianesimo15.
Mou e il pensiero dell’Occidente: il confronto con Kant
Nel 1958, Mou Zongsan pubblica con alcuni colleghi – Xu Fuguan, Tang Junyi e Zhang Jumai
– un importante Manifesto16 per contrastare la tendenza all’esotismo scientista che ha invaso la Cina
a partire dagli inizi del Novecento. L’interlocutore ideale del testo è il lettore occidentale, al quale
gli intellettuali cinesi si rivolgono con un duplice intento: da un lato vogliono chiarirgli alcuni
caratteri fondamentali del pensiero cinese, rimasti sottostimati o addirittura misconosciuti, dall’altro
cercano di provocarlo, mettendolo a confronto con un sistema di pensiero che non deve temere
complessi di inferiorità rispetto alla filosofia europea. Lo sforzo di Mou si inscrive nel suo continuo
lavoro di ritrascrizione dei principi confuciani in un linguaggio e secondo un metodo che possano
affrontare le sfide della contemporaneità e le argomentazioni del pensiero europeo. In particolare,
uno dei punti principali di discussione è quello relativo alla definizione dell’essenza del daotong
confuciano. Per Mou si tratta al tempo stesso di una religione e di una filosofia, che coinvolge tanto
l’aspetto spirituale dell’uomo quanto quello intellettuale. Non è vero, come si afferma spesso in
Occidente, che il confucianesimo si riduce a una pratica morale, a una modellizzazione della figura
del saggio; il senso morale è piuttosto il valore supremo dell’uomo, superiore alla stessa vita (ecco
perché il saggio confuciano è disposto a morire in nome dei propri ideali). Per questo motivo la
“trasmissione della Via” in Cina non distingue la dimensione religiosa da quella filosofica o da
quella sociale e politica: mentre la razionalità europea ha distinto i linguaggi, le tecniche
argomentative e gli ambiti di ricerca (letterario, filosofico, religioso, politico, ecc.), la pratica di
saggezza cinese ha da sempre integrato i vari ambiti dell’umano concentrandosi sullo studio dello
spirito e della natura (xinxingxue 心 性 學 ), nelle loro caratteristiche essenziali, senza sentire la
necessità di una separazione degli ambiti.
Dopo aver criticato le tre forme che nel corso dei secoli la mentalità occidentale ha adottato per
interpretare la cultura cinese 17 , il Manifesto prosegue con una netta presa di posizione: «Noi
chiediamo che chiunque studi la Cina riconosca la vitalità della sua cultura», scrivono i firmatari.
«Se è vero che si trova in uno stato di salute molto precario, […] tuttavia non è morta» 18 . La
preoccupazione degli intellettuali cinesi nel Manifesto, come appare fin dalle prime pagine, è quella
di rendere conto della specificità della propria cultura, per evitare che venga catalogata
sommariamente dalla ragione occidentale. Ciò che conta è cogliere l’essenza della cultura cinese,
non a partire dai suoi frammenti, ma cercando di coglierne direttamente il cuore, la radice. Tale
caratteristica essenziale è da trovarsi nell’unità fondamentale, nella natura essenzialmente
Mou Zongsan, Shuo ‘huaixiang’, in Shenming de xuewen, cit. L’intero saggio denota il tentativo di Mou di delineare
il primo abbozzo di un sistema filosofico, allo scopo di fornire delle indicazioni di carattere pratico per il suo paese, che
si trova in una situazione critica nel difficile passaggio dalle antiche strutture a un nuovo assetto socio-politico.
15
Ivi, pp. 5-7.
16
Wei Zhongguo wenhua jinggao shijie renshi xuanyan (1958) [Manifesto rivolto al mondo per la difesa della cultura
cinese], in Dangdai xin rujia [I neoconfuciani contemporanei], Sanlian shudian, Beijing 1989, pp. 1-52.
17
Ivi, pp. 3-6. Le tre forme sono l’interpretazione da parte dei gesuiti, quella dell’idealismo tedesco (in particolare
quella di Hegel) e l’assunzione acritica e della razionalità economico-pragmatica del XX secolo.
18
Ivi, p. 7.
14
omogenea e unitaria (yi ben xing 一本性) della “trasmissione della Via” (daotong): a differenza della
storia culturale europea, che ha visto confrontarsi una pluralità di sistemi di pensiero – che proprio
per questa eterogeneità hanno avuto bisogno di un principio di unificazione trascendente: di qui,
l’assoluta centralità del cristianesimo come fattore unificante – la Cina si è formata secondo un
percorso lineare, coerente, omogeneo. In questo senso si può parlare a buon diritto di una
“metafisica” (xingshangxue 性上學) cinese: non nell’accezione di “ricerca del principio primo” o di
“indagine intorno all’intelligibile”, bensì come uno studio dello spirito e della natura che non
distingue l’interrogazione teoretica dalla ricaduta pragmatica, dalla tensione etica, ma le unisce in
una sola e medesima pratica di vita19.
È nella vasta e importante opera del 1968 Xinti yu xingti [‘Spirito’ e ‘natura’] che Mou
Zongsan prosegue e approfondisce questi concetti, discutendoli in rapporto alla cultura confuciana.
Il confucianesimo viene definito da Mou come una vera e propria “metafisica morale”, una
trasmissione di saggezza al tempo stesso religiosa, etica, filosofica e politica che si pone come meta
ultima la condizione del Saggio. Non vi è necessità di ricorrere alla figura di un Dio trascendente,
ma è la stessa azione morale che mette in grado di superare l’ambito del finito e del relativo per
cogliere la dimensione dell’incondizionato. Lo sforzo morale, che investe l’essere umano nella sua
integralità, manifesta la presenza di un principio morale infinito, incarnato dal Saggio (ideale tanto
coerente quanto irraggiungibile); salvezza e fede sono interiori, intrinseci alla dimensione
dell’umano20. Il confucianesimo non si riduce quindi ad un insieme di riti (critica che spesso gli è
stata mossa, non soltanto da parte di interpreti occidentali ma anche da pensatori taoisti o buddhisti),
ma mette in moto un’autentica trasformazione di sé. Questo è l’aspetto della trascendenza che
interessa a Mou, e che nella sua lettura della storia del confucianesimo è la visione di Confucio e
Mencio, riscoperti davvero solo in seguito alla dinastia Song (960-1269): il Cielo (Tian 天) come
principio regolatore, normativo, come modello da seguire deve essere rispecchiato nell’interiorità
dell’essere umano; il senso di umanità, o benevolenza (ren 仁) è la cifra della trascendenza insita nel
cuore del’uomo. La vera tradizione confuciana pone la moralità all’interno della natura umana: è
qui e non altrove che si scopre la Via morale universale, il Dao come principio di vita naturale e di
quella sociale. Da questo nodo di relazioni concettuali scaturisce l’interesse per la filosofia di Kant,
in particolare per la trattazione della ragione pratica.
Il confronto con la speculazione kantiana prende le mosse dalla tematizzazione del sentimento
morale e della sua autonomia. Ciò che innanzitutto colpisce Mou, studiando i testi kantiani
(inizialmente la Critica della ragion pura) è la divisione programmatica in una parte analitica (la
Dottrina degli elementi) e in una metodologica (la Dottrina del metodo): contrariamente a quanto si
aspetterebbe uno spirito confuciano, Kant accorda maggiore attenzione e quantità di pagine alla
prima, mentre la parte più specificamente “pratica”, che concerne in un certo senso il modus
operandi vero e proprio dell’indagine filosofica, è conclusa in modo più rapido. Per la mentalità
cinese è al contrario la parte analitica di uno studio a rivestire il ruolo subordinato, laddove il
comportamento morale (e lo studio che precede la messa in pratica della moralità) costituisce la
dimensione assolutamente prioritaria. Tuttavia, ciò che richiama l’attenzione dello studioso cinese è
soprattutto lo studio della morale e dell’autonomia della libertà in Kant. Discutendo della Critica
della ragion pratica Mou indica subito un elemento di grande distanza tra la concezione kantiana,
emblematica per la speculazione occidentale, e quella confuciana, emblematica per tutto il pensiero
cinese. La filosofia di Kant si è rivolta alla costruzione di una “teologia morale” (daode de shenxue
道德的神) invece di fondare una “metafisica morale” (daode de xingshangxue 道德的性上學)21; ma
questo non significa che una metafisica morale non sia possibile. Anzi, è proprio questo il campo
d’azione della riflessione confuciana. Questa si caratterizza per aver inteso la dimensione metafisica
come originantesi dalla pratica morale, pur restando insita in essa: l’ambito del trascendente si
dischiude nel processo di trasformazione di sé che segue allo sforzo del saggio nel conseguimento
19
Ivi, pp. 10-12.
Cfr. Mou Zongsan, Xinti yu xingti [‘Spirito’ e ‘natura’], tomo 1, Zhengzhong shuju, Taibei, 1968, pp. 6-7.
21
Cfr. ivi, p. 7.
20
della virtù. Ecco l’altra grande differenza di impostazione, tra la concezione kantiana e quella
confuciana: mentre la teologia morale della prima dà luogo all’edificazione di una “metafisica della
morale” (daode zhi xingshangxue 道 德 之 性 上 學 ), la seconda conduce a una vera e propria
“metafisica morale” (daode de xingshangxue 道德的性上學). È solo pensando e agendo secondo una
“metafisica morale”, per Mou, che si può evitare il formalismo astratto a cui conduce il pensiero
kantiano separando libertà e legge morale 22. Non può sussistere una divisione, nemmeno solo a
livello gnoseologico, tra ratio essendi e ratio cognoscendi, dal momento che solo rapportandosi
ogni giorno con l’esperienza pratica scopriamo effettivamente la libertà; in altre parole, è nelle
nostre singole azioni che sveliamo il fondamento in base a cui di fatto le compiamo, non erigendo
un sistema teorico che pretenda di delucidare le condizioni a priori di tali comportamenti. Qui si
misura la lontananza tra l’atteggiamento pragmatico del pensiero confuciano e l’attitudine teoretica
che caratterizza la filosofia occidentale: per Mou, Kant assume la stessa morale come un oggetto di
studio; la metafisica morale confuciana non si distacca invece dall’esperienza concreta. La
concezione confuciana ritiene possibile fondare nell’interiorità umana la legge morale, non
accontentandosi di considerarla un mero postulato della ragione pratica, ma ponendola come base
effettiva della vita sociale dell’essere umano. Da questo punto di vista la riflessione kantiana resta
ancorata all’ambito teorico, riuscendo senza dubbio a pensare l’esistenza e l’attualità della legge
morale, ma senza sganciarsi da una riflessione discorsiva e senza poter fondare nell’esperienza
vissuta un’autentica esperienza morale. Questa resta invece indicibile e non tematizzabile da un
punto di vista logico-razionale, secondo la prospettiva confuciana, che in modo analogo alle altre
grandi tradizioni filosofico-religiose dell’Asia orientale (taoismo e buddhismo in particolare) è
segnata da un atteggiamento di sfiducia nelle possibilità del “discorso” di cogliere l’essenziale della
vita umana. La tensione ed eventualmente il raggiungimento della saggezza da parte dell’uomo non
sono analizzabili a parole, ma solo esperibili nel corso di una pratica di vita23.
Il senso di un confronto
Il confronto con Kant, lungi dall’essere occasionale o pretestuoso è per Mou decisivo e
risponde a diverse esigenze, dispiegando altrettanti significati. In primo luogo, per Mou era
essenziale stabilire un ponte, un punto di passaggio tra il confucianesimo e la filosofia occidentale,
22
Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. a cura di V. Mathieu, Rusconi, Milano 1993, p. 39 (nota): «Affinché
non ci si immagini di trovare qui incoerenze, quando chiamo la libertà “condizione della legge morale”, e, nella
trattazione successiva, affermo che la legge morale è la condizione a cui soltanto possiamo divenire consapevoli della
libertà, voglio ricordare soltanto che la libertà è, bensì, la ratio essendi della legge morale, ma la legge morale è la ratio
cognoscendi della libertà […]. Se non vi fosse libertà, non si potrebbe affatto trovare in noi la legge morale».
23
In relazione alle problematiche morali in riferimento a Kant, cfr. anche Mou Zongsan, Xianxiang yu wuzishen
[Fenomeno e cosa in sé], Xuesheng shuju, Taibei 1975, e Yuanshan lun [Trattato sul bene perfetto], Xuesheng shuju,
Taibei 1985 (quest’opera, che prende le mosse dallo studio della dialettica della ragion pratica tra felicità e virtù,
contiene anche la traduzione della prima parte del testo di Kant La religione entro i limiti della semplice ragione]. Di
Mou, a proposito delle tematiche del confronto tra pensiero orientale e occidentale, è molto interessante anche la
raccolta Zhong xi zhexue zhi huitong shisi jiang [Quattordici conferenze sull’intercomprensione delle filosofie cinese e
occidentale] (1980), Xuesheng shuju, Taibei 1990 (in particolare l’ottava conferenza ritorna su tematiche kantiane; cfr.
pp. 111-134). Sul ruolo del pensiero di Kant nella formazione della speculazione di Mou, cfr. Li Minghui, Mou Zongsan
sixiang zhong de rujia yu Kangde [Kant e il confucianesimo nel pensiero di Mou Zongsan], in Dangdai ruxue zhi ziwo
zhuanhua [L’autotrasformazione del confucianesimo contemporaneo], Zhongyang yanjiuyuan, Taibei 1994, pp. 53-87:
si tratta di una sintesi dei rapporti tra la filosofia kantiana e il pensiero di Mou, redatta dal suo miglior allievo. Il
dibattito sulla rilevanza dei concetti di “autonomia” e di “sentimento morale” aplicati al confucianesimo è stato
affrontato da Huang Jinxing, Suowei daode zizhuxing: yi xifang guannian jieshi Zhongguo sixiang zhi xianzhi de
liezheng [L’autonomia morale: illustrazione dei limiti del pensiero cinese alla luce dei concetti occidentali] e Mengzi
siduan shuo yu daodegan shuo [La teoria di Mencio dei “quattro germogli” della moralità e la dottrina del sentimento
morale], in Huang, Youru shengyu, Quanli, xinyang yu zhengdangxing [L’ingresso in un territorio sacro: potere,
credenza e giustificazione], Shanxi shifan daxue chubanshe, Xi’an, 1998, pp. 9-33; e da Li Menghui, Rujia yu Kangde
[Il confucianesimo e Kant], Lianjing, Taibei 1990, e Id., Das Problem des moralischen Gefuhls in der Entwicklung der
Kantischen Ethik, Academia Sinica, Taibei 1994.
per dimostrare la possibilità dell’incontro e del dialogo pur nel rispetto delle rispettive peculiarità.
Solo stabilendo un dialogo con il pensiero occidentale l’identità cinese, messa fortemente in crisi,
poteva individuarsi e ripresentarsi come degna di attenzione e a tutti gli effetti ancora vitale. Il
confronto con l’Occidente permette a Mou di scoprire l’esistenza di molti Occidenti e di molti
Orienti, e di verificare come entrambe le locuzioni geografiche siano sempre passibili di rettifiche,
di aggiustamenti, di eccezioni. Esistono molti Orienti nell’Occidente, così come molti Occidenti
nell’Oriente. Le esperienze di pratica e di pensiero si incontrano, si incrociano, talvolta si
scambiano i ruoli che vengono loro assegnati dalla stereotipata opinione comune 24 . In secondo
luogo, era in gioco la possibilità di una legittimazione del confucianesimo come tradizione portante
della cultura cinese e come corrente ancora vitale e al passo con la modernità, un pensiero in grado
di porsi come interlocutore del daotong dell’Occidente. Studiando il pensiero di Kant e mettendo in
luce gli aspetti differenti e analoghi tra il suo sistema e la riflessione morale confuciana, Mou
costruisce una pratica inter-filosofica e inter-culturale. Come Nishida, di fatto, anche Mou rileva la
necessità per il mondo contemporaneo – non soltanto per l’Oriente cinese o giapponese, ma il
mondo intero, per la cultura nella sua dimensione globale (e globalizzata) – di instaurare ponti,
connessioni, confronti e incroci tra le tradizioni e le correnti culturali. La filosofia, dal X secolo in
poi, non può più parlare soltanto le lingue europee, così come il daotong proprio della Cina o del
Giappone non può più rinchiudersi in una gabbia dorata escludendo le provocazioni non solo
tecnologiche, economiche o militari, ma anche filosofiche, religiose, sociali che provengono dal
resto del mondo. Il tentativo di Mou, come pure quello di Nishida, è anche quello di criticare i limiti
della speculazione occidentale, a partire da altri versanti e altri orizzonti del pensiero.
Rivitalizzando il daotong della propria nazione e riscoprendo i valori dell’identità culturale a cui
appartengono, Mou e Nishida fecondano la tradizione filosofica occidentale apportando delle
visioni inedite, dei punti di vista sconosciuti, e coniando nuovi concetti. Per Mou Zongsan la
filosofia europea e quella cinese non possono più ignorarsi, anzi devono incontrarsi per delucidare
reciprocamente i pregi e i limiti che le caratterizzano. Per quanto riguarda il pensiero occidentale,
uno dei suoi più grandi difetti consiste per l’intellettuale cinese nell’essere dominato da
preoccupazioni di tipo epistemologico – come nel caso della riflessione kantiana circa le questioni
morali, sempre soggette alla “presa” del discorso gnoseologico. Questo atteggiamento porta
inevitabilmente a uno squilibrio tra il mondo dei fenomeni (la natura) e il mondo dei noumeni
(l’interiorità dell’essere umano). Se la ragione può avere una visione precisa e categorizzare
l’ambito oggettivo della natura, quello dell’interiorità umana può essere soltanto intuito, inteso in
modo indiretto; piuttosto, esso sarà reso manifesto e operante dalla pratica di saggezza che il
daotong cinese ha saputo tematizzare in modo profondo25.
La diffusione di una tecnologia comune, sebbene di fatto possa distruggere il mondo, potrebbe costituire davvero
quella idea hegeliana di uno Spirito del mondo. E la Cina, dunque, sarebbe diversa dalla Russia e dall’Inghilterra non in
quanto la civiltà confuciana differisce da quella cristiana, ma in quanto le nazioni, mantenendo le proprie personae
storiche, differiscono le une dalle altre – pur esistendo in un’unica civiltà multicolore e sovranazionale. La saggezza di
Confucio potrà ancora essere percepita in Cina (o nuovamente percepita), come quella di Socrate in Europa. Ma la
24
Un punto su cui Mou insiste a più riprese è la distinzione tra una sorta di filiazione corretta, ortodossa del
confucianesimo – sulla linea che da Confucio passa attraverso Mencio e i suoi successori, e un ramo eterodosso, che si
fa portatore di un’istanza eteronoma per quanto riguarda il fondamento della legge morale, e che ha in Zhu Xi il suo
principale esponente. Questa filiazione rappresenta per Mou Zongsan il versante “occidentale” della cultura cinese e del
daotong confuciano in particolare. Cfr. Mou Zongsan, Song Ming ruxue gaishu [Esposizione generale del
confucianesimo di epoca Song e Ming], in Zhongguo zhexue shijiu jiang [Diciannove conferenze sula filosofia cinese],
Xuesheng shuju, Taibei 1978, pp. 369-420.
25
Qui Mou cade nella classica “trappola” classificatoria che cerca di attribuire un primato all’una o all’altra cultura per
quanto riguarda i diversi aspetti della riflessione o della pratica morale. In questo caso, per Mou l’Occidente gode
chiaramente di una superiorità per quanto attiene all’ambito della conoscenza scientifica, mente l’Oriente lo supera in
rapporto alla pratica di saggezza e alla comprensione del mondo interiore dell’uomo. Cfr. Wei Zhongguo wenhua
jinggao shijie renshi xuanyan [Manifesto rivolto al mondo per la difesa della cultura cinese], cit., capp. 4-6 (pp. 10-21);
Xinti yu xingti [‘Spirito’ e ‘natura’], cit., pp. 6-14.
civiltà confuciana sarebbe ‘storica’ come quella greca, e la moderna cultura cinese sarebbe cosmopolita come ogni altra
[…]. In una vera storia mondiale, in cui tutte le conquiste del passato si trovano in un museo privo di muri, il passato di
ciascuno sarebbe anche il passato di tutti gli altri; e questo implica una conseguenza poco confuciana, ovvero la perdita
del senso della tradizione26.
Questo brano di Levenson, che al termine del primo tomo della sua opera dedicata alla
modernità del confucianesimo problematizza il rapporto tra tradizione e modernità, tra appartenenza
alle radici e condivisione della cultura tra le varie identità nazionali, sembra esplicitare una sorta di
impasse nella quale rischia di imbattersi chiunque cerchi di mantenere al tempo stesso la peculiarità
di un’esperienza culturale e l’importanza dello scambio, del confronto, dell’incontro e anche della
trasmissione di valori. Quali strategie adottare – se ne esistono – per non seppellire le tradizioni
antiche e locali in nome di un universalismo culturale che schiaccia sotto di sé ogni differenza? E
viceversa: come permettere al mondo di auto-determinarsi storicamente senza bloccarlo nelle sue
manifestazioni singole, che purtroppo spesso diventano sclerotizzate o originano fondamentalismi
di ogni genere?
Una possibile linea di sviluppo è forse insita nella stessa formulazione del problema da parte di
Levenson. Quando il sinologo paventa la conseguenza «poco confuciana» di una perdita della
tradizione per la condivisione di un passato comune in cui ogni tradizione è la tradizione di tutti, al
tempo stesso sembra implicare che solo mantenendo la contraddizione tra identità e differenza, tra
particolarità e universalità – la cultura tradizionale nella sua unicità irripetibile e il progresso
dell’autodeterminazione del mondo storico – possa esserci un’interazione tra culture, unica garanzia
della vitalità e del rinnovamento delle stesse. Del resto è questa l’unica strada percorribile, se si
vuole evitare sia la frammentazione causata dall’ignoranza reciproca che conduce all’isterilimento
di ogni formazione storico-culturale, sia l’omologazione globalizzante che disconosce le ricchezze
individuali. È questo in fondo anche uno dei grandi insegnamenti della Storia, intendendola non
come mero repertorio di eventi passati ma come forma attiva dell’interazione di pensieri, di culture,
di vite. Non vi è Storia se non nel continuo auto-negarsi di elementi che trovano la propria verità
soltanto nell’incontro con l’altro27. L’universale dialettico che è il mondo è continua auto-identità di
contraddizioni, dove non si può mai dare una sintesi finale, ma in cui la tensione si mantiene ad
ogni livello: della specie dell’individuo, del particolare e dell’universale, del soggetto e dell’oggetto.
La cultura – e qui davvero bisogna riferirsi all’insieme delle interazioni di tutte le culture,
interazione che davvero si rivela l’universale concreto di cui ogni cultura singola, presa in sé, è il
momento astratto – è questa continua tensione interna, di sé con sé. È coincidenza di autorelazione
ed eterorelazione: al tempo stesso passività e attività, recettività e agire che si proietta fuori di sé. E
«tra recettività e attività non c’è gradualità, continuità, contiguità, perché l’una è la forma dell’altra.
Nell’uomo non è pensabile un’attività che non sia essa stessa recettività, e non è pensabile
un’attività che non sia essa stessa attività»28: ecco perché la relazione tra tradizione e modernità, tra
individualità e molteplicità, o tra particolare e universale non può risolversi ma resta
indissolubilmente coinvolta nel movimento dialettico di auto-contraddizione che è il motore di
fondo di ogni espressione culturale 29 . La cultura, in quanto auto-contraddizione, è più che
meramente “problematica”. Più che problema, essa resta sempre mistero a se stessa: non perché non
26
J. R. Levenson, Confucian China and Its Modern Fate, cit., p. 123.
Ho cercato di discutere questi temi anche in M. Ghilardi, L’identità culturale alla prova del mondo globalizzato, in
“L’Acropoli”, 5/2004, pp. 592-598. Riprendo qui una citazione che segnava uno dei fili conduttori di quella riflessione:
«È solo quando si riconosce vita a tutto ciò di cui si dà storia e che non è solo lo scenario di essa, che si rende giustizia
al concetto di vita. Poiché è in base alla storia, e non alla natura […], che va determinato, in ultima istanza, l’ambito
della vita. Di qui deriva, per il filosofo, il compito di intendere ogni vita naturale in base a quella più ampia di storia (W.
Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus, tr. it., Einaudi, Torino 1981, p. 41).
28
L. Pareyson, Ontologia della libertà, Einaudi, Torino 2000, p. 15.
29
Espressione che non è né un’ipostasi trascendente, poiché ciò con cui l’essere umano si rapporta o ciò che in esso si
struttura non può prescindere dalla sua stessa attività – non esiste indipendente dall’elemento umano; né è
metafisicamente determinata, perché può costituirsi e svilupparsi soltanto se viene adottata e vissuta, trasformata
dall’uomo stesso (cfr. L. Pareyson, op. cit., p.15, n. 20).
27
sia comprensibile o studiabile, ma nel senso che il suo oggetto non è esterno ad essa e non si può
pensare in modo indipendente, ma mettendone in questione i presupposti e le condizioni di
esistenza non si può non mettere in questione anche l’idea stessa di cultura e il proprio sé30.
30
Cfr. ivi, pp. 12-13. Sul rapporto tra attività e recettività, su libertà e situazione, cfr. ivi, pp. 15-23.
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