L'Intergroup Sensitivity Effect Quando si parla di Intergroup Sensitivity Effect, ci si riferisce ad un fenomeno, ampiamente sperimentato, che riguarda i gruppi ed il loro modo di rispondere alle critiche. In particolare dagli studi è emersa una costante discrepanza fra come vengono considerate le critiche che nascono in seno al gruppo stesso e quelle invece provenienti, dall'esterno. Gli studi sull'intergroup sensitivity effect sono stati portati avanti principalmente nell'università australiana del Queensland, ma non mancano, come vedremo, interessanti contributi europei. Ma in cosa consiste l'ISE? Grazie al primo studio, del 2001, (Hornsey, Oppes, Svensson, 2001) è' stato osservato che le persone sono estremamente sensibili alle critiche dirette al proprio gruppo quando la fonte del criticismo è esterna. D'altro canto le stesse persone si mostrano tolleranti allo stesso tipo di critiche se queste arrivano da un membro dell'ingroup. Se in apparenza ciò va in contrasto con le precedenti ricerche sull'effetto “pecora nera”, che vedono nel dissidente dell'ingroup un elemento da contrastare, queste ricerche mettono in luce la tolleranza che ogni gruppo porta verso il criticismo interno. Le ragioni? Indubbiamente le critiche hanno la funzione positiva di promuovere il cambiamento e la crescita, e se nascono dall'interno vengono anche considerate costruttive. Ma se le stesse critiche provengono dall'esterno, vengono percepite in modo estremamente differente e l'autore viene descritto con peggiori tratti di personalità. Una spiegazione dell'intergroup sensitivity la si puà trarre dai principi che guidano la teoria dell'identità sociale (Tajfel, 1978; Tajfel e Turner, 1979; Turner, 1999). Secondo questa tesi infatti, il senso di chi siamo è formato, almeno in parte, dai gruppi a cui apparteniamo e pertanto siamo motivati a vedere noi stessi, e il gruppo stessa, in chiave positiva. Ne consegue che se abbiamo la percezione che il nostro gruppo venga discriminato, sminuito o assorbito da un altro gruppo, reagiamo con azioni di difesa. In realtà nessuno si sorprende di questo alto livello di ostilità dimostrata verso gli altri gruppi : questo processo segue infatti un principio generale secondo cui se un gruppo viene attaccato, i membri dello stesso lo difendono. Talmente intuitvo che non molte ricerche lo hanno esplicitamente indagato. La Social Identity Theory può inoltre chiarire il ruolo della costruttività nella spiegazione dell'intergroup sensitivity effect. La Sit vede infatti i gruppi immersi in un contesto dinamico in cui vengono messi in gioco status e ed identità: di conseguenza le persone possono avere delle aspettative pessimistiche circa il comportamento dei membri di altri gruppi. Con queste premesse, di fronte al criticismo degli outsider, si tende a non prenderlo in considerazione a differenza di quello che nasce in seno al gruppo e viene percepito come nell'interesse di tutti, Ma le critiche interne non vengono accettate solamente perché costruttive. Vengono accolte anche perché semplicemente più legittime. Questa considerazione nasce dal fatto che un membro dell'ingroup conosce meglio il proprio gruppo, ne ha più esperienza, “sa di cosa parla”. A differenza del membro esterno che non viene percepito come qualificato e viene delegittimato assieme al contenuto della sua critica. Salvando così l'autostima del gruppo. Studi sull'intergroup sensitivity Effect Dal 2001 a oggi, l'intergroup sensitivity effect è stato analizzato attraverso molteplici condizioni sperimentali con lo scopo di scoprirne le diverse variabili, e, in tempi più recenti alle tecniche per ridurlo(Hornsey, Robson, Smith, Esposo, Sutton, 2008). In un primo tempo i ricercatori hanno preso in considerazione il ruolo giocato dall'esperienza (Hornsey, Imani, 2004), e dall'investimento psicologico nei confronti del gruppo di appartenenza (Hornsey, Trembath, Gunthorpe 2004). Successivamente è stato approfondito il ruolo dell'audience e come questo fosse in grado di modulare l'intergroup sensitivity effect anche tramite l'ampiezza e la composizione dello stesso (Hornsey, De Bruijn, Creed, Allen, Ariyanto, Svensson, 2005; Elder, Sutton, Douglas, 2005; Aryianto, Hornsey, Gallois, 2006). Un ulteriore contributo di Sutton, Elder, Douglas (2006) ha messo in luce invece l'importanza delle convenzioni sociali nella genesi dell'intergroup sensitivity effect. Passeremo quindi in rassegna le diverse variabili analizzate dai ricercatori, in ordine cronologico, ma anche concettuale, con il fine di dare un quadro completo dell'intergroup sensitivity effect. Il primo studio Verrà descritto ora il primo studio del primo progetto sperimentale che si è occupato di indagare l’intergroup sensitivity effect. L’esperimento, svolto nel 2002 nell’Università di Queensland (Australia) ha dato infatti un’impostazione che è stata successivamente ripresa e modificata ad hoc per i successivi approfondimenti sull’intergroup sensitivity effect. Lo studio è stato quindi costruito in modo da poter esaminare se l’appartenenza del gruppo di chi critica può portare ad una maggiore o minore accettazione del messaggio critico. Per ridurre la trasparenza dell’esperimento ai partecipanti (178 studenti di psicologia, età media 22,92) è stato detto che lo studio era interessato ad esaminare la percezione delle persone dei tipi di personalità. I partecipanti erano considerati australiani se la dichiaravano come loro nazionalità più importante e se avevano vissuto in Australia negli ultimi 10 anni. I partecipanti sono stati quindi assegnati casualmente ad una delle quattro condizione di 2 x 2 (dichiarazione positiva o negativa; oratore ingroup o outgroup). I partecipanti sono stati così sottoposti alle seguenti dichiarazioni: Quando penso all’Australia io penso che siano completamente razzisti; sono razzisti verso gli indigeni australiani e sono intolleranti con gli asiatici. Credo anche che non siano istruiti come altre società. oppure Quando penso agli australiani io penso a loro come persone completamente amichevoli ed accoglienti. Credo anche che quella degli australiani sia generalmente una società educata. Comunque la caratteristica che ho notato di più è che nel complesso sembrano avere un buon senso dell’umorismo. Nella condizione dove l’oratore era australiano, le dichiarazioni erano formulate attraverso un linguaggio inclusivo (es. “Quando penso agli australiani, io penso a noi…) Dopo aver letto lo scritto i partecipanti completavano un questionario per stimare le valutazioni dei partecipanti verso l’oratore e verso i suoi commenti. Ad esempio, l’oratore doveva essere descritto tramite una scala likert da 1 a 7 secondo le suguendi valutazioni: intelligente, affidabile, amichevole, aperto mentalmente, simpatico, gradevole, stimato, interessante. Anche le risposte alle seguenti domande erano registrate su scala likert da 1 a 7. Quanto ritieni fosse positiva l’affermazione sugli australiani? Quanto ritieni giusta l’affermazione sugli australiani? Le analisi sono state condotte utilizzando l’ANOVA: Tipologia del commento (positivo o negativo) x Gruppo dell’oratore (ingroup o outgroup). Il ruolo dell’esperienza La teoria dell'identità sociale, come già accennato, è in grado di offrirci una delle principali chiave di lettura per l’intergroup sensitivity effect; l'individuo infatti tende sistematicamente a confrontare il proprio ingroup con l' outgroup di riferimento attraverso una condotta marcatamente segnata da bias valutativi in favore del proprio ingroup. Il proprio gruppo viene quindi implicitamente considerato "migliore" rispetto agli "altri", che vengono metodicamente svalutati o confrontati in chiave critica. Ma i feedback negativi alle critiche provenienti dall'outgroup potrebbero non dipendere solamente da questo. Si potrebbe prendere infatti in considerazione un ulteriore fattore, che permette, almeno all'apparenza, di spiegare la difensività espressa nei confronti del criticismo outgroup. Ci si riferisce con questo al livello di competenza ed esperienza che si attribuisce al gruppo esterno: per esempio, se un americano critica l’Australia, gli australiani possono facilmente dubitare delle abilità della fonte nel criticare accuratamente il loro paese. Infatti, secondo questo ragionamento, i membri dell’ingroup potrebbero rifiutare le critiche proveniente da membri di gruppi esterni non tanto per la mera appartenenza ad un'altro gruppo, come rilevato dalla teoria dell'identità sociale, bensì perché questi vengono percepiti come poco esperti nei confronti del gruppo e quindi privi della fondamentale esperienza per giudicare accuratamente. Quest’ipotesi prende spunto dai risultati della ricerca di Raven (1965), che ha permesso di indagare il legame fra informazioni e competenza come esempi di potere: è stato dimostrato infatti che se ad una persona vengono attribuiti alti livelli di conoscenza o di abilità, essa è maggiormente in grado di in influenzare gli altri. La competenza infatti è una delle componenti fondamentali della credibilità la quale a sua volta è alla base delle capacità persuasive. (Hovland, Weiss 1951; Kelman, Hovland, 1953; Petty, Wegener, 1999). A conferma di ciò, Bannister (1986) ha rilevato che se un supervisore competente rilascia un feedback negativo, le persone dimostrano comunque un alto livello di soddisfazione, ed esprimono una maggior volontà di migliorare la propria performance. Partendo da questa prospettiva ed inserendoci in un contesto di criticismo intergruppi si potrebbe quindi ipotizzare che le critiche provenienti dall’outgroup siano meno influenti perché basate su un livello di esperienza inferiore verso il gruppo criticato rispetto a quello che appartiene ai membri del gruppo stesso: in quest'ottica che da grande rilievo alla competenza, si potrebbe anche spiegare la tendenza delle persone a trovarsi maggiormente d’accordo con le critiche provenienti dai propri compagni di gruppo piuttosto che dai membri esterni, e si chiarirebbe la ragione per cui le critiche esterne provocano un grado molto alto di suscettibilità. In sostanza, per questa prospettiva non ci sarebbe il bisogno di invocare il concetto di identità per spiegare l'intergroup sensitivity effect, dal momento che il principio modulatore non è la mera appartenenenza ad un gruppo, bensì l'esperienza dello stesso. Hornsey e Imani (2004) hanno però ridimensionato quest'ipotesi, dimostrando sperimentalmente che la valutazione delle critiche esterne rimane statisticamente invariata, senza prendere in considerazione l'ammontare di maggiore o minore esperienza che veniva attribuito all'outgroup. Questo dato è particolarmente evidente nel primo esperimento, dove la fonte del criticismo emerge a seconda delle condizioni sperimentali, da un gruppo di australiani (ingroup), uno di inglesi (outgroup) e uno composto da australiani espatriati in Inghilterra (ex ingroup). I risultati hanno qui dimostrato che di fronte ai commenti negativi, la reazione è fortemente influenzata dal gruppo di appartenenza, giudicando con la stessa durezza sia gli inglesi che gli australiani espatriati. Hornsey e Imani, hanno saputo dimostrare che quando si tratta di commenti negativi, non fa nessuna differenza se la fonte è uno straniero che conosce l'Australia o se non vi ha mai messo piede in vita sua: l'unica cosa che è in grado di modulare la reazione è la percezione di costruttività attribuita all'interlocutore. Per ridurre quindi il livello di difesa nei confronti del criticismo esterno, l'outgroup non deve concentrare le sue forze a dimostrare le proprie competenze, bensì dev'essere in grado di comprovare che con i loro commenti negativi non stanno cercando di svalutare l'outgroup per ricavarne un vantaggio ma vogliono fare gli interessi dello stesso. Attaccamento all'identità, costruttività A questo punto è ormai chiaro che di fronte al criticismo di un gruppo le persone sono sensibili non soltanto al mero contenuto di un messaggio, ma anche, e forse soprattutto, a chi sta portando avanti la critica. E' interessante però notare che questa tendenza ad accettare con più benevolenza i commenti dell'ingroup non è stata evidenziata nel caso di commenti positivi: quando i partecipanti leggono una lode rivolta alla loro università (Hornsey et al. 2002) o al loro paese (Hornsey et al., 2002; Hornsey & Imani, 2004), non valutano infatti in maniera differente lo speaker o il commento a seconda dell'attribuzione di membro ingroup o outgroup. Questo aspetto ci suggerisce quindi che l'intergroup sensitivity effect è un fenomeno specifico del criticismo. Hornsey ed Imani hanno messo in luce che ai membri dell'ingroup vengono attribuiti maggiore costruttività ai loro commenti negativi e che questo bias attribuzionale è in grado mediare di pienamente l'intergroup sensitivity effect. IEagly e colleghi (Eagli Wood, Chaiken, 1978; Wood, Eagly, 1981) avevano già sostenuto che di fronte ad un tentativo di persuasione, i soggetti cercano sistematicamente di indovinare i motivi reali dietro al le dichiarazioni del comunicatore. Allo stesso modo, quando le persone ricevono dei commenti negativi rivolti al proprio gruppo, esse realizzano una serie di ipotesi per comprendere il motivo alla base del criticismo. Se le persone arrivano alla conclusione che il criticismo è guidato da motivi motivazioni sterili, è più probabile che rifiutino il contenuto del messaggio, al contrario di quello che accade con le critiche percepite come costruttive. Le vittime delle critiche traggono le loro conclusioni basandosi su una serie di prove, ed una fondamentale è rappresentata dal gruppo di appartenenza: essa infatti aiuta a capire chi può essere creduto e chi no (Brewer, 1981; Duck, Fielding 1999; Tanis, Postmes, 200; Worchel, 1979). In assenza quindi di altre informazioni, le persone sono propense a considerare costruttive le critiche provenienti da membri dell'in-group, e al contrario ritenere sterili quelle provenienti dall'esterno. E si è notato che questo bias attribuzionale è pienamente in grado di mediare l'intergroup sensitivity effect (Hornsey, Imani, 2004; Hornsey, Trembath, Gunthorpe, 2004). Ci sono però ragioni per ritenere quest'ipotesi corretta sì, ma incompleta: secondo Hornsey, Trembath e Gunthorpe (2004) è infatti plausibile ipotizzare che queste attribuzioni di costruttività potrebbero essere ritrattate se le persone hanno ragione di mettere in dubbio il grado di impegno della fonte ingroup. Questo accade ad esempio quando la critica proviene da un membro dell'ingroup che notoriamente ha un basso livello di identificazione col gruppo d'appartenenza, oppure se questo utilizza un linguaggio che suggerisce una distanza psicologica dal resto del gruppo. Hornsey et al (2004) tramite due sperimentazioni hanno voluto quindi indagare l'ipotesi secondo cui a guidare l'ISE non è tanto l'appartenenza di gruppo quanto l'investimento psicologico nel gruppo stesso di chi muove la critica. Nel primo esperimento, i partecipanti australiani erano esposti ad una critica sul loro Paese: in un caso il commento negativo proveniva da un australiano con un livello basso di identificazione, nell’altro proveniva da un australiano con un alto livello di identificazione e infine da un non australiano. I risultati hanno confermato l'ipotesi, dando così legittimità alla salienza del grado di identificazione con il gruppo. Nel secondo esperimento, Hornsey e collaboratori hanno invece voluto richiamare il concetto di identità comune sovraordinata: un gruppo di anglo-australiani è stato esposto a critiche da parte di altri ango-australiani (condizione ingroup) oppure da parte di asiatici australiani (condizione outgroup). In questo caso la distinzione ingroup-outgroup è stata quindi mediata da un'altra identità condivisa, quella di Australiani. Le critiche sono quindi state costruite utilizzando un linguaggio escludente (Australiani, loro hanno problemi con gli asiatici) oppure in alternativa, includente (Australiani, noi abbiamo problemi con gli asiatici). Anche in questo caso si è giunti ad una conferma dell'ipotesi: le critiche poste tramite un linguaggio inclusivo infatti vengono lette come più costruttive e considerate meno negativamente rispetto alle critiche che utilizzano un linguaggio esclusivo. Quest'esperimento è stata la prima dimostrazione di come si può ridurre la difensività verso il criticismo utilizzando un linguaggio inclusivo, che riconduce ad una identità sovraordinata condivisa, e capace quindi di guidare l'intergroup sensitivity effect. Spettatori e ruolo delle convenzioni sociali Quando gli esseri umani comunicano fra di loro, l'interlocutore viene implicitamente ritenuto onesto e sincero (Ekman 2001, Grice, 1975) e allo stesso tempo ci si preoccupa di proteggerne la pubblica dignità. Quest’ultima norma viene però messa in discussione quando le persone si trovano a dover comunicare qualcosa di negativo da dire nei riguardi di altre persone o altri gruppi (Brown, Levinson, 1987). La difficoltà è tale che le persone si trovano in difficoltà anche nel momento in cui devono dare voce a critiche sincere, ben intenzionate e supportate da valide ragioni: le critiche anche se mosse in buona fede possono infatti rappresentare un pericolo per la reputazione. Se da un lato un onesto criticismo rappresenta quindi una delle modalità cardine per identificare e correggere i comportamenti ottimali, dall'altro si tratta di un processo che rischia di generare tensione. Il criticismo interpersonale, ovvero quello che nasce fra singoli individui, è fortemente governato dalle convenzioni sociali e sia le persone coinvolte che gli spettatori rispondono sfavorevolmente alla violazione di queste attese: ad esempio di fronte alle critiche non ci si aspetta una reazione di difesa (R.A. Baron, 1993). Jones, Hester, Farina & David hanno inoltre riscontrato che gli spettatori reagiscono alle critiche con maggior veemenza rispetto a quanto farebbero gli individui al centro delle critiche; essi infatti potrebbero preferire ritirarsi per non rischiare il conflitto e dover affrontare chi ha commentato negativamente. Avere a che fare con degli spettatori, ovvero quelle persone che assistono al criticismo senza prenderne parte non è una prospettiva remota perché vi sono molti contesti reali dove si sviluppa criticismo fra gruppi a cui non apparteniamo. Ma cosa succede quando da una dimensione interpersonale si passa a quella collettiva? E’ plausibile che coloro che assistono al criticismo intergruppi, proprio come quando avviene tra singoli individui, reagiscano con forza a tutto ciò che vada contro le norme (Hornsey, 2003; Maas et al., 1995). Ad esempio dagli studi è emerso che non è permesso rivolgere critiche a determinati gruppi (Franco & Mass, 1999), e le dichiarazioni contenenti pregiudizi verso i gruppi conducono gli spettatori a formarsi una sfavorevole impressione dell’interlocutore. Quindi, se da un lato secondo la teoria dell'identità sociale i gruppi sono animati dal desiderio di difendere il proprio gruppo dagli attacchi esterni, durante la comunicazione ricoprono un ruolo centrale anche le convenzioni sociali che impongo educazione, fedeltà ed assenza di malizia. Cosa distingue i membri dei gruppi coinvolti dagli spettatori? Nello scenario in questione, questi ultimi non hanno legittimi interessi nel proteggere il benessere o la stima del gruppo criticato e ne conseguono quindi due ipotesi: se gli spettatori sono indifferenti alla fonte del criticismo, l'intergroup sensitivity effect dipende direttamente dalla teoria dell'identità sociale. Se invece manifestano una preferenza verso il criticismo interno, si può pensare che l'intergroup sensitivity effect dipenda dalle convenzioni sociali. Tramite lo studio di Sutton, Elder, e Douglas (2006) è stato dimostrato che gli spettatori non sono necessariamente mossi dalla necessità di proteggere il benessere o la stima di un gruppo vittima di criticismo dal momento che la loro risposta viene determinata dal senso di quello che viene normativamente considerato come giusto oppure sbagliato. Quando gli spettatori si trovano di fronte all’espressione di criticismo verso un gruppo, rispondono valutando duramente l’autore delle critiche. Quindi sia per gli spettatori che per gli appartenenti al gruppo criticato, l’intergroup sensitivity effect, andrebbe attribuito alla valenza di costruttività che si sottende alle critiche interne. A differenza di Hornsey & Imani (2004) che ricollegano l’ISE al concetto di identità sociale, Sutton et. Al (2006) preferiscono spiegarlo attraverso il ruolo delle convenzioni sociali. Questo perché gli spettatori non hanno nessun particolare interesse verso il gruppo che viene criticato, e presentano l'intergroup sensitivity effect anche quando il gruppo oggetto di critiche è remoto. E’ stato constatato però che la tensione fra gruppi motiva le persone a parlare contro gli altri gruppi: capita così che le persone aderiscano con più forza alle norme imposte dal gruppo d'appartenenza, che sovente includono anche un certo grado di diffamazione dell'outgroup, piuttosto che alle convenzioni sociali. E’ interessante notate infine che le persone motivate a denigrare i gruppi esterni potrebbero essere in grado di rifuggire alle sanzioni attraverso l'utilizzo di tecniche indirette, come ad esempio manipolando l'astrazione linguistica (Douglas, Sutton, 2003; Maas, 1999) o limitandosi a criticare il gruppo in questione solo quando l'audience è a priori concorde con quel genere di pregiudizi (Douglas, Mc Garty, 2001). Audience Come già ricordato, il criticismo che si realizza all' interno di un gruppo, può essere considerato un prezioso meccanismo interno che porta con se anche dei rischi: Hornsey et al. (2002) ha infatti suggerito che quando il criticismo nasce in seno al gruppo, esso viene tendenzialmente tollerato finché non rischia di rendere il gruppo vulnerabile agli attacchi degli altri gruppi. Questa riflessione suggerisce quindi che il criticismo intergruppo potrebbe mettere a repentaglio il gruppo rendendolo vulnerabile alla diffamazione esterna e suscettibile alle critiche dell’outgroup. Aggiungiamo ora un ulteriore elemento: immaginiamo ad esempio una situazione in cui le critiche avvengono di fronte ad un vasto pubblico. I commenti e i giudizi negativi non sono più accessibili esclusivamente ai membri dell’ingroup, i quali ne potrebbero fare un uso costruttivo, ma diventano alla portata anche ai membri degli altri gruppi, i quali potrebbero farsi meno scrupoli ed utilizzare i commenti a proprio vantaggio danneggiando così il benessere e la reputazione del gruppo. Oppure, dal momento che il membro dell’ingroup sceglie come audience un gruppo esterno, si potrebbe alimentare il sospetto che egli desideri cambiare gruppo d’appartenenza e che tramite il criticismo cerchi di allontanarsene psicologicamente, magari cercando di ingraziarsi il gruppo a cui aspira appartenere (Eagly et al.,1978). Secondo la prospettiva dell’identità sociale, i gruppi sono impegnati in una lotta continua per ottenere ricompense positive e uno status elevato. I risultati di questo scontro hanno implicazioni per l’autostima, ed in certi casi anche in termini di ricompense materiali: vi è quindi una regola implicita che vuole che i membri di un gruppo si impegnino per presentare al resto del mondo il lato migliore del proprio gruppo. Quest’aspettativa è anche espressa anche attraverso determinati modi di dire “Keep it in-house”(“i panni sporchi vanno lavati in casa, i panni sporchi non si lavano in pubblico”?). E’ quindi ragionevole pensare che esistano delle vere e proprie norme che indicano contrarietà per le critiche poste di fronte ad un audience outgroup. Hornsey et al. (2005) ha quindi sperimentalmente confermato quanto sopra: la scelta di esprimere il criticismo di fronte ad un audience ingroup è considerata come più appropriata. La scelta dell’audience ha inoltre profonde conseguenze su come il gruppo si sente nei confronti della critica. Un interessante variante dell’esperimento ha messo in luce che questo effetto è mediato dal grado di identificazione: quando il criticismo è espresso di fronte ad un outgroup da una persona che si identifica fortemente con il proprio gruppo, più probabilmente rispetto agli altri membri, di radunarsi dietro la critica sentendola necessità di richiamare le imperfezioni del gruppo. La comunicazione pubblica data la sua rilevanza è stata ampiamente perlustrata: quello che emerge, è che le persone sono estremamente attente alle implicazioni strategiche che differenziano la comunicazione privata da quella pubblica (Baumeister, 1982; Schlenker, 1980) e per esempio, prima di esprimere opinioni e giudizi, prendono attentamente in considerazione a chi si stanno rivolgendo, ovvero a che gruppo appartiene il proprio audience (Crandell, Eshelman, O Brien, 2002; Klein, Licata, Azzi, Durala, 2003). Come già ricordato, le persone si preoccupano dei meta-stereotipi ovvero di come i gruppi esterni rilevanti, si rappresentano il gruppo in questione (Vorauer, Main, O’Connel, 1998). Gli individui ripongono quindi un legittimo interesse in questa meta-stereotipi dal momento che se hanno una valenza negativa vengono minacciate l’identità sociale, l’autostima e gli interessi materiali del gruppo. E ancora maggiori sono le difficoltà nel creare e mantenere una positiva presentazione pubblica di sé quando essi fanno parte di un gruppo che è valutato negativamente (Cialdini, Richardson, 1981; Eidelman, Biernat, 2003). La salienza dei meta-stereotipi è stata inoltre dimostrata da Klein e Azzi (2001) : gli studiosi hanno dimostrato che quando gli individui descrivono il proprio gruppo d'appartenenza pensando di rivolgersi ad un audience esterno, selezionano maggiormente i tratti positivi e diminuiscono allo stesso tempo quelli negativi. Il contesto comunicativo rientra quindi in quei fattori fondamentali capaci di modulare le reazioni al criticismo proveniente dall'ingroup e dall'outgroup. Elder, Sutton e Douglas (2005) approfondendo il legame fra composizione e dimensione dell’audience hanno messo in luce che l'intergroup sensitivity effect sparisce quando le critiche vengono poste in pubblico, ovvero se i commenti negativi vengono invece dichiarati pubblicamente, non sono i benvenuti sia se provenienti da un membro dell'ingroup sia se provenienti da un membro dell'outgroup. Lo studio inglese ha dimostrato inoltre che questa tolleranza verso le critiche ingroup non dipende tanto dalla dimensione, ridotta, dell'audience, bensì dal fatto che la critica rimane all’interno del gruppo. L'intergroup sensitivity effect e le culture collettiviste. Le ricerche australiane ed europee fin qui svolte si sono concentrate ad indagare l'ISE all'interno di culture caratterizzate dall'individualismo: sono state analizzate le reazioni degli australiani di fronte alle critiche degli stranieri, (Hornsey, Imani, 2004), quelle degli studenti universitari criticati da chi studente non lo è (Hornsey et al. 2002; Elder et al. 2005), ed è stato approfondito il criticismo fra scuole (O'Dwyner et al., 2002). Gli studi condotti fino a quel momento sono stati svolti in Australia, in America e in Gran Bretagna: tre nazioni fra le più individualiste in tutto il mondo. I ricercatori si sono quindi domandati se ci si potesse aspettare risultati differenti, dal punto di vista dell'intergroup sensitivity effect, in una cultura collettivista come quella indonesiana (Ariyanto, Hornsey, Gallois, 2006). Un'altra dimensione indagata dai ricercatori è quella relativa all'audience: come abbiamo potuto vedere, dagli studi precedenti è emerso che la valutazione relativamente positiva del criticismo ingroup dipende in larga parte dalla sede in cui vengono dichiarati i suddetti commenti negativi. In altre parole è essenziale che le critiche vengano fatte di fronte ad un audicence appartenente all'ingroup dal momento che alle persone non piace perdere la faccia di fronte agli altri e pertanto diventano particolarmente sensibili quando le critiche avvengono di fronte a persone esterne al proprio gruppo d'appartenenza Ma cosa distingue le culture individualiste da quelle collettiviste? Brevemente, i membri delle culture individualiste si definiscono attraverso la loro indipendenza e l'autonomia rispetto al gruppo d'appartenenza: gli obiettivi personali sono prioritari rispetto a quelli collettivi. Al contrario, i membri delle culture individualiste assegnano molta più importanza al gruppo d'appartenenza, definendosi attraverso esso e subordinando i propri obiettivi rispetto a quelli collettivi. Nelle culture collettiviste, le persone sono più attente a non rovinare l'armonia di gruppo ed è quindi possibile che non venga data la stessa tolleranza verso le critiche interne. E' stato inoltre notato che i membri delle culture collettiviste pongono molta attenzione alla distinzione ingroup/outgroup ponendo un maggior bisogno di mantenere la reputazione di fronte agli altri. E' quindi possibile che la pressione a mantenere il criticismo in casa sia maggiore nelle culture collettiviste piuttosto che in quelle individualiste e le persone che violano quest'aspettativa vadano incontro a maggiori sanzioni. Ruolo della fonte del messaggio e dell’audience: una ricerca in Indonesia Lo studio in questione si distingue dalle precedenti per il contesto di realizzazione rendendolo particolarmente interessante. Infatti l’effetto dell'audience nella modulazione dell'intergroup sensitivity effect non è stato studiato in un contesto neutro, bensì all’interno di un conflitto reale che contrappone mussulmani e cristiani: la relazione fra questi due gruppi in Indonesia è caratterizzata da lotte politiche, e a volte anche sanguinise. Ai partecipanti mussulmani veniva richiesto di leggere l'estratto di un'intervista nella quale una persona criticava i mussulmani. L'identità di colui che criticava, era manipolata affinché per alcuni partecipanti fosse un altro mussulmano, per i restanti partecipanti fosse invece un cristiano. Il paradigma di ricerca prevedeva inoltre la manipolazione della variabile relativa all'audience: ad alcuni veniva detto che l'intervista era tratta da un giornale mussulmano, ai restanti che era tratta da una rivista cristiana. I risultati della ricerca non hanno disatteso le aspettative: le critiche erano infatti considerate in maniera più negativa se provenienti da un cristiano rispetto che da un mussulmano. Ma non solo, i partecipanti si trovavano maggiormente d'accordo con la stessa critica se questa proveniva da un mussulmano. Questo dato mette in luce che l'appartenenza al gruppo influenza non solo i sentimenti verso le critiche ma anche il grado di vericidità accordata alla critica stessa. Ma dallo studio sono emerse delle differenze fra culture collettiviste e culture individualiste? Come già accennato, anche nelle culture collettiviste vengono maggiormente tollerate le critiche nate in seno al'ingroup. Una ragione potrebbe essere che il campione di partecipanti musulmani percepisce la critiche come utili al gruppo piuttosto che come dannose. Ed in effetti, sebbene il criticismo di un gruppo possa essere considerato minaccioso, la mancanza dello stesso può condurre a conseguenze altrettanto disastrose poiché può portare a meccaniche decisionali rigide e disfunzionali (Janis, 1982). La seconda domanda di ricerca riguardava invece il ruolo dell'audience. Proprio come nelle ricerche svolte in Australia e in Gran Bretagna, le critiche ingroup erano viste come più appropriate quando erano espresse di fronte ad un pubblico interno, in accordo con la logica che le critiche vadano tenute “in casa”. E’ però venuto alla luce un effetto che i ricercatori non si aspettavano: quando un cristiano portava delle critiche alla comunità mussulmana, i partecipanti dell'esperimento, consideravano sede più appropriata il giornale cristiano piuttosto che quello mussulmano. In sostanza i musulmani dello studio hanno ritenuto più appropriate le critiche dietro alle spalle piuttosto che direttamente in faccia, come viene invece comunemente suggerito dalla saggezza popolare. Le ragioni di questo inaspettato effetto non sono chiare però è possibile che nelle culture collettiviste le regole di educazione che governano i diversi gruppi incoraggino a cercare di mantenere relazioni positive. Reazioni pubbliche e private al criticismo intergruppi Nella maggior parte degli studi fin qui citati, le risposte dei partecipanti venivano raccolte utilizzando prevalentemente questionari, che permettevano di catturare gli stati interni delle persone. Però quando si tratta di prendere in considerazione l'influenza sociale, non è importante capire solamente quello che le persone sentono e pensano ma diviene altrettanto importante comprendere cosa esse dicono e poi fanno, poiché le intenzioni che si esprimono pubblicamente e quelle espresse privatamente, molto spesso non coincidono . Riprendendo una metafora di Goffman (1969), il mondo è quindi visto come un palcoscenico dove molte delle interazioni sociali sono essenzialmente la messa in scena di una serie di ruoli costruiti che permettono di proiettare al mondo un'immagine di sé desiderabile. Le persone quindi tendono ad inibire le opinioni poco popolari per evitare di venire censurate o messe in ridicolo (Asch, 1951; Deutsch, Gerard, 1955), mentre al contrario coltivano opinioni e comportamenti per valorizzare il vantaggio sociale (Baumeister, 1982; Leary, Kowalski, 1990; Schlenderk, 1980). Le considerazioni di tipo strategico sono quindi rilevanti anche per analizzare il criticismo diretto ai gruppi. Data la natura rischiosa ed emozionalmente carica dei commenti negativi, è infatti probabile che i destinatari del criticismo siano sensibili alla censura quando rispondono. Indipendentemente dal loro grado di accordo con il criticismo, i destinatari delle reazioni pubbliche potrebbero essere calibrati o adattate in funzione dell’audience. Per esempio, se i destinatari credono che ci sono costi accordando con le critiche, come ad esempio il rischio di disapprovazione da parte dei compagni di gruppo, allora possono esprimere difensività indipendentemente dal fatto che in privato potrebbero essere d’accordo con il contenuto della critica. La questione diviene quindi la seguente: sotto quali circostanza potrebbe avere un costo trovarsi personalmente d’accordo con delle critiche? L’ipotesi di Hornsey, Frederiks, Smith, Ford (2007) è che sostenere il criticismo di fronte ad un apprezzato in-group sia proprio uno di questi contesti. Trovandosi d’accordo con il criticismo del proprio gruppo, le persone rischiano infatti di mandare il messaggio di essere sleale, disinteressato se non addirittura ostile verso il proprio gruppo. In determinate circostanze, potrebbero quindi sentire che è più sicuro diffondere le credenziali del loro gruppo, difendendolo, sminuendo il criticismo. Dagli studi di Hornsey et al (2007) è evidente infatti che le persone si pongono maggiormente sulla difensiva quando credono che le loro reazioni siano visibili ai propri compagni, specialmente se di alto status, rispetto a quando esse sono private. Al contrario quando invece l'audio è composto da membri a cui è associato un basso status, vi sono delle prove che le persone riportano meno difensività in pubblico rispetto che in privato. Nell’esperimento studenti di scienze sociali sono stati esposti ad una critica verso la loro facoltà da parte di un altro studente di scienze sociali (critica ingroup), oppure uno studente di matematica (critica outgroup). Veniva quindi lasciato loro credere che le loro valutazioni sarebbero rimaste strettamente anonime (condizione privata) oppure identificabili da altri membri dell’ingroup (condizione pubblica). Inoltre, i partecipanti alla condizione pubblica presentavano le loro risposte ad un audience ingroup di status alto oppure basso. I risultati hanno dimostrato che quando le risposte ad una critica ingroup sono pubbliche e visibili ad un ingroup di alto status le persone mostrano una maggiore difensività verso la critica ingroup, tanto da eliminare l’intergroup sensitivity effect. Non sorprende che le persone potrebbero esagerare le loro reazioni negative verso il criticismo quando si trovano di fonte a compagni di alto status: è infatti dimostrato da tempo che i membri del gruppo tendono a disapprovare chi esprime il dissenso oppure chi getta il gruppo in cattiva luce (Festinger, 1950; Marques, Paez, 1994). Così i membri del gruppo tenderebbero ad essere cauti quando si tratta di criticare il gruppo o ad appoggiare le critiche di altri per la paura che questo possa compromettere la loro posizione sociale. Meno intuitivo invece è il fatto che l'effetto del contesto di risposta , emerge solamente in risposta alle critiche ingroup ma non in risposta alle critiche esterne. Il processo strategico infatti non serve a difendere di per sé il gruppo, bensì a distanziarsi dai membri devianti dell'ingroup e a rassicurare il gruppo che non si è d'accordo con loro. Una conseguenza dell'esagerata difensività che compare verso le critiche ingroup, è che l'intergroup sensitivity effecty in alcuni contesti pubblici. In questo modo l'ISE potrebbe non essere rintracciabile se noi abbiamo accesso solamente alle pubbliche dichiarazioni di intenti. Un importante implicazione è che i membri dei gruppi potrebbero trovare difficoltoso misurare il livello di supporto interno in caso di criticismo. In particolare, critiche interne e un alto status associato ai membri del gruppo potrebbero presumibilmente portare a sottovalutare l'ampiezza con cui gli altri individui appoggiano i commenti negativi. La riduzione dell’ISE Ma ridurre l’intergroup è possibile? Questa è la domanda che attualmente si stanno ponendo i ricercatori, sperimentando strategie che ne permettano un'effettiva riduzione. Particolarmente significativo è il recente studio di Hornsey et al. (2008) all'interno del quale sono state ipotizzate ed analizzate tre metodologie per attenuare gli atteggiamenti difensivi nei confronti del criticismo esterno: lo sweeting lo Sharing lo Spotlighting Sweeting Una prima strategia, denominata “sweeting” consiste nel far precedere le critiche da un introduzione positiva. La portata di questa tecnica era già messa in luce tramite un esperimento di Tracy et al (1987) in cui ai partecipanti veniva chiesto di ricordare esempi di critiche positive e negative che avevano ricevuto in passato. Nel 19% dei casi di critiche vissute positivamente, i commenti negativi erano per l'appunto inseriti all’interno di una cornice, un contesto, positivo. Durante l’esperimento di Hornsey, i partecipanti leggevano una critica rivolta al loro gruppo, attribuita ad un outgroup di non australiani. A seconda della condizione sperimentale, le critiche erano quindi accompagnate da una lode oppure no. I risultati non solo hanno dimostrato che l’uso della lode può aiutare a ridurre gli atteggiamenti difensivi nei confronti del criticismo esterno ma non solo: anche i partecipanti si trovano infatti maggiormente d’accordo con il contenuto della critica. Quindi sempre meglio inserire le critiche in una cornice positiva, di lode, specialmente se è importante mantenere una buona impressione sull’interlocutore. Ma perché la lode funziona? Grazie all’esperimento si è potuto comprendere non solo che la lode è utile a ridurre al criticismo ma anche perché ciò avviene: essenzialmente si è visto che le critiche accompagnate dalla lode vengono percepite come più costruttive e piacevoli rispetto alle critiche pure, suscitando infine un maggior grado di accordo. Per concludere è importante considerare che la lode serve a modulare sia le critiche dirette all’outgroup che quelle in seno all’ingroup stesso; questa strategia riduce quindi la difensiva ma non agisce riducendo l’intergroup sensitivity effect stesso. Sharing La prospettiva dell’identità sociale suggerisce che le persone guadagnano e mantengono l’autostima attraverso l’appartenenza a gruppi che offrono un’immagine positiva. Quindi quando una persona esterna critica il gruppo a cui apparteniamo, consideriamo le sue parole come un attacco atto a dimostrare la superiorità propria o del gruppo a cui appartiene e con cui si identifica. Ma se la critica è preceduta da una condivisione delle critiche (“anche noi siamo così…”), i membri dell’ingroup potrebbero propendere per una spiegazione alternativa: la persona sta portando avanti dei commenti negativi per il bene del gruppo. L'esperimento di Hornsey è quindi proseguito testando queste ipotesi: nell’esperimento, 160 partecipanti australiani hanno letto un ipotetico estratto di un intervista dove una persona criticava gli Australiani accusandoli di razzismo: nella condizione “ingroup” questa persona era australiana, nella condizione “outgroup” era invece straniera. La condizione di “out-group” era inoltre declinato in tre versioni: nella prima l’intervistato indicava il razzismo come un problema anche del proprio paese (“anche noi siamo razzisti”), in una seconda condizione definiva il razzismo come un problema comune ad altre nazionalità senza citare la propria, mentre nell’ultima ometteva qualsiasi tipo di confronto con altri Paesi esteri. I risultati hanno dimostrato che la condivisione è una strategia effettivamente funzionante nel ridurre la difensiva: l'effetto positivo della condivisione è quindi abbastanza forte da eradicare l'intergroup sensitivity effect,incidendo sulla percezione della motivazione. Spotlighting L'ultima strategia presa in considerazione da Hornsey et al. (2008) è quella relativa allo spotlighting, ovvero una tattica dove l'interlocutore sottolinea che il criticismo non è riferito all'intero gruppo bensì solo ad una ristretta parte di esso. I ricercatori hanno identificato tre motivazioni alla base di questa strategia; innanzitutto lo spotlighting è coerente con il principio di specificità, principio che le ricerche hanno indicato come importante nella formulazione dei feedback (Baron, 1988) . Inoltre, le ricerche suggeriscono che le persone disapprovano gli individui che compiono generalizzazioni verso altri gruppi (Mae, Carlson, 2005). Infine questa strategia permetterebbe anche di ridurre ogni minaccia all'identità personale perché quando qualcuno critica il gruppo d'appartenenza, questo rappresenta una sfida all'identità sociale e ai valori. Tramite lo spotlighting invece (“non tutti sono così...”), si può assumere che le critiche sono dirette solamente ad alcuni non colpendo direttamente ogni membro del gruppo: in questo caso il criticismo rappresenta una minaccia all'identità sociale senza però andare a toccare l'identità individuale. A riguardo delle generalizzazioni, le ricerche hanno dimostrato che le persone tendono ad avere una visione dei gruppi esterni più omogenea rispetto al gruppo di appartenenza (Ostrom, Sedikides, 1992), per la semplice ragione che ne hanno meno esperienza (Linvelle, Fischer, Salovey, 1989): può essere quindi che il criticismo esterno venga percepito come più generalizzato rispetto al criticismo interno e che questo contribuisca a generare l'intergroup sensitivity effect. Una via quindi per superarlo è dichiarare esplicitamente che le critiche non vanno applicate a tutti, ma giusto ad una parte del gruppo. Nonostante questo i risultati sono stati controversi, poiché in questo caso la strategia non ha dimostrato avere effetti significativi su come si sentono le persone verso la critica contenuta nel messaggio. In sostanza sembra che lo spotlighting non aiuti a ridurre l'intergroup sensitivity effect. Nonstante il risultato possa sorprendere, dal momento che si tratta di una strategia usata molto spesso, da un punto di vista teorico essa non va ad incidere in modo significativo sulle attribuzioni che le persone fanno sui motivi delle critiche.