LUISS Guido Carli
Istituto di Studi Giuridici – Facoltà di Giurisprudenza
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OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
Seminario su:
I DIRITTI FONDAMENTALI E LE CORTI IN EUROPA
Incontro del 13 giugno 2003 sul tema
“La bioetica”
(introdotto dal Prof. Pietro Rescigno)
Resoconto redatto dal Dott. Giorgio Repetto e dal Dott. Maurizio Rossi
Bollettino n. 6/2003
Il calendario ed i resoconti degli incontri dell’Osservatorio Costituzionale, assieme ad altra documentazione, sono
reperibili sul sito Internet dell’Università Luiss Guido Carli (http://www.luiss.it/semcost/index.html)
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Realizzato nell’ambito della ricerca di rilevante interesse nazionale cofinanziata dal Murst (2001-2003)
Sergio PANUNZIO, nel ringraziare a nome dei partecipanti al Seminario il prof. Pietro Rescigno
per aver accettato di introdurre la relazione odierna, sottolinea come la scelta di affidare a questo
studioso l’introduzione su un tema come quello della bioetica è legata al fatto ben noto che nelle
riflessioni di questo maestro del diritto civile il tema della persona ha costantemente rappresentato
un aspetto centrale.
Pietro RESCIGNO sottolinea preliminarmente l’opportunità di interrogarsi sul senso da attribuire
al termine “bioetica” che, escogitato non da giuristi e ormai collaudato da più di trent’anni,
individua un settore dell’esperienza dai confini incerti in cui si incontrano e possono far valere
utilmente le loro competenze studiosi di diverse provenienze (filosofia, teologia, psicologia e
sociologia accanto ad altre), non ultimi i giuristi. Nei comitati di bioetica, dei quali lo stesso prof.
Rescigno ha fatto parte sin dalla loro istituzione, sono stati e sono tuttora presenti studiosi di diversa
origine, dal punto di vista della preparazione intellettuale, degli interessi culturali nonché, come è
facile comprendere, di diverso orientamento ideologico: sebbene chiamati ad adempiere ad una
funzione meramente consultiva – con l’esercizio di un incidenza sulle decisioni politiche assai
relativa –, tali comitati hanno tuttavia rappresentato un luogo di confronto di idee, che ha portato
all’elaborazione di documenti che rispecchiano tale pluralità di posizioni.
Nella lettura dei documenti di lavoro dei comitati – che malgrado tentativi volti a renderli
maggiormente accessibili, hanno avuto tuttavia una circolazione molto limitata – tale pluralità di
posizioni emerge chiaramente, ad esempio nella formulazione delle proposte la quale, avvenendo
non a maggioranza e quindi con un ampio grado di convergenza, vede comunque la presenza di
riserve e di opinioni dissenzienti.
Tali documenti rappresentano in ultima istanza un dibattito di idee e un inventario dei problemi
sorti negli ultimi quindici anni, ovvero da quando, con l’insorgere di una serie di questioni morali
che coinvolgevano queste diverse competenze, il legislatore avvertì la necessità di istituire queste
commissioni le quali, ai fini dell’assunzione di decisioni in questi settori particolarmente delicati,
vennero chiamate ad effettuare una ricognizione dei dati ed un disegno dello stato dell’arte quando
non una vera e propria presa di posizione.
Nell’intento di inquadrare temporalmente l’emersione dell’interesse degli studiosi per i temi
attinenti alla bioetica, quello del giurista, nel caso di specie del privatista, si afferma in via
discontinua e certamente non costante non solo a causa della preferenza che il diritto privato
accorda agli aspetti propriamente patrimoniali, ma anche perché, almeno fino ad un certo periodo, i
temi affrontati dalla bioetica non sembravano essere frequenti tra quelli di cui era chiamato ad
occuparsi il civilista.
Nondimeno, questi temi non sono ignorati dalla civilistica, che anzi talvolta ha finito per
occuparsene anche se in via non del tutto intenzionale: dopo tutto, la bioetica non poteva dirsi
completamente assente dal panorama delle questioni pratiche che i giuristi erano chiamati ad
affrontare.
Ripercorrendo la personale esperienza, Rescigno ricorda come il suo primo tema di studio fu
proprio quello dell’incapacità naturale, ripreso con riguardo in primo luogo a quegli istituti che il
diritto appresta a protezione del soggetto che versi in una situazione di inidoneità alla cura dei
propri interessi; in secondo luogo alla protezione dei soggetti che hanno aspettative dipendenti dalla
vita e dall’attività della persona incapace (come la famiglia dello stesso); in terzo ed ultimo luogo
alla protezione della generalità che può venir coinvolta dall’esercizio della facoltà di agire, in
particolare dell’autonomia dell’incapace, allorché le esigenze di protezione di quest’ultimo siano
chiamate a rendersi compatibili con la tutela dell’affidamento di soggetti terzi che vi abbiano
concluso dei negozi.
Questi temi sembrano tutti avere delle evidenti implicazioni di carattere morale oltre che politico o
sociale e spiegano perché, rispetto anche agli altri istituti tradizionali come l’interdizione e
l’inabilitazione che ancora persistono nel nostro ordinamento, altri sistemi siano diventati più aperti
a soluzioni meno drastiche per ciò che riguarda la privazione della capacità e la eliminazione di una
persona dai traffici giuridici. Questa apertura ha avuto come conseguenza di rapportare le misure
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protettive al tipo di atto e di escogitare figure di assistenza particolari – diverse, quindi, dalle forme
disciplinate dagli artt. 392 e 424 cod. civ. – che hanno da ultimo radice in una valutazione di
carattere morale.
Anche, quindi, temi non consueti della ricerca bioetica, nel momento in cui implicano decisioni che
toccano la sfera più strettamente personale dell’individuo, finiscono per occuparsene: è sufficiente
pensare ad esempio al problema appena descritto – eventualmente allargato sino a ricomprendere un
tema analogo e particolarmente sentito anche a livello di diritto costituzionale come quello
dell’handicap –, che nel momento in cui contempla istituti rispondenti al grado effettivo di
incapacità (come la Betreuung nel diritto tedesco) mette anche in dubbio la compatibilità con la
persistenza di istituti più radicali come quelli del diritto italiano.
In definitiva, si pensa che questi soggetti ai quali si vuol dare questo tipo di cura – che assorbe,
sostituisce o migliora il sistema di sostituzione o di affiancamento del soggetto, rispettivamente,
incapace o limitatamente capace – possano essere, rispetto agli altri soggetti legati dai vincoli
familiari, legali o di fatto, meglio abilitati a prendere decisioni che toccano momenti essenziali della
vita dell’incapace stesso (trattamenti medici, eventuale interruzione del trattamento quando non
scelte ancora più radicali che toccano la vita della persona). Tale valutazione si giustifica sulla base
del fatto che il potere che ricevono questi soggetti generalmente riposa sulla volontà
dell’interessato, manifestata quando egli era ancora in grado di poterla esprimere.
Anche un tema classico del diritto privato, quindi, che vede appunto confluire tematiche inerenti
all’autonomia del soggetto e alla sua capacità, contiene in sé profili strettamente collegati con la
bioetica.
Un altro tema affrontato da Rescigno nei suoi studi, ugualmente carico di implicazioni morali e
anch’esso destinato, nella dottrina e nella giurisprudenza, a sviluppi impensati all’epoca della sua
tematizzazione, è stato quello del cosiddetto “danno da procreazione”, ovvero la possibilità di
un’azione di danno esercitata dal figlio, o da chi per lui in caso di incapacità di agire in giudizio, per
trasmissione di una malattia mediante il fatto stesso del concepimento.
Tale argomento conduceva inevitabilmente il giurista a porsi il problema della ammissibilità di un
fatto ingiusto lesivo e diminutivo di una sfera giuridica patrimoniale rispetto a chi non era nemmeno
pensabile in astratto – come di solito ragiona il giurista in materia di danno – essere un soggetto
immune da qualsiasi lesione, cioè un soggetto che, a seguito del fatto che si assume essere stato
lesivo e dannoso, avrebbe visto diminuita la sua condizione di pienezza di salute.
Nel caso del danno da procreazione, il discorso è tutto in chiave soltanto ipotetica: quello che si fa
valere davanti al giudice, più che la perdita di beni originariamente appartenenti al soggetto come
quello fondamentale della salute, è proprio il mancato conseguimento di una condizione della quale
quel soggetto concretamente, cioè in chiave storica, non ha mai goduto: proprio tale ultimo aspetto
sconvolgeva maggiormente il giurista abituato ad usare le categorie tecniche in materia di danno, di
ingiustizia, di conseguenze pregiudizievoli e di rapporto di causalità tra il fatto e il danno.
Su un tema del genere, comunque, venivano ad innestarsi una serie di riflessioni di carattere morale
e di conseguenza un rifiuto ad apprezzare e a valutare come problema giuridico un tema sul quale la
carica di giudizio di questo tipo sembrava dovesse prevalere, sino a recidere la stessa possibilità di
una riflessione del giurista: l’obiezione fondamentale sempre di carattere morale, o se si vuole di
carattere religioso data l’inevitabile compenetrazione dei due diversi punti di vista, era in definitiva
che non si potesse ragionare in termini di danno rispetto ad un bene quale quello della vita, che in sé
è sempre superiore rispetto alla lesione che il soggetto può lamentare, sia pure con questo giudizio
astratto ed ipotetico.
Sebbene taluni autori ricorressero, per negare in chiave polemica la risarcibilità di questa figura di
danno, all’istituto della compensazione del lucro – nella fattispecie consistente nell’aver ricevuto la
vita sebbene con il danno di una salute limitata –, senza ricorrere ad un istituto tecnico come questo,
che del resto è più costruito che positivamente regolato, vi era ovviamente una presa di posizione in
favore del bene della vita da apprezzare come tale, rispetto al quale quindi doveva interrompersi
ogni ricerca e ogni giudizio circa la lesione di questo bene.
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Nell’ottica di un ampliamento della discussione, una posizione fatta propria da coloro i quali si
assestavano su di una posizione nettamente critica nei confronti della ammissibilità di un
risarcimento per danno da procreazione consisteva nel riconoscere come non ci sia solamente la
salute della quale il soggetto possa dolersi, sussistendo invece una pluralità di ragioni nella realtà
contemporanea – e le tragiche esperienze da cui si usciva negli anni cinquanta rendevano questo
discorso ancora più attuale – per cui il soggetto si sente diminuito nella società in cui vive, con il
rischio che da questa azione possa nascere una sorta di processo moltiplicato all’infinito dei figli
contro i padri, indipendentemente dal fatto che il rapporto di filiazione sia legittimo o naturale
riconosciuto.
Anche questo in questo caso quindi, seppur ricorrente agli anni cinquanta del secolo scorso allorché
di bioetica non si parlava affatto, si avverte secondo Rescigno come con il diritto potessero
interferire punti di vista che avevano a che fare con valutazioni non traducibili nei termini del
discorso tecnico del giurista.
Questo discorso in materia di procreazione e, all’interno di esso, dell’eventuale pregiudizio che il
fatto stesso di essere procreato può apportare al soggetto, si è oggi allargato grazie ad una
giurisprudenza che, più interessante e meno timorosa di quella dei decenni passati nei confronti di
una improbabile “rivolta” dei figli verso i padri, non omette di prendere in considerazione e
conseguentemente di tutelare casi affini: a riguardo basti pensare, ad esempio, a quello della
mancata informazione circa malformazioni delle quali il soggetto che segue il processo di
procreazione non sia stato in grado, per colpa o negligenza, di avvertire la presenza, la possibilità o
anche soltanto il rischio.
Anche tutta questa materia, che si è venuta accrescendo nel tempo per mole e rilevanza delle
questioni trattate, si lega sostanzialmente a quelle considerazioni di fondo che dominavano quel
caso così specifico del figlio che agiva contro il genitore per far valere il danno da procreazione:
anche qui non mancano infatti, sebbene siano attenuati, certi rilievi attinenti ad una considerazione
del valore della vita in sé.
Dopo aver chiuso questo primo itinerario di ricerca su temi più datati e su temi nuovi, in relazione
ai quali il discorso della bioetica si poneva rispettivamente come un’anticipazione forse
inconsapevole ovvero un patrimonio acquisito alla luce del quale interpretare questioni di confine,
Rescigno ricorda come l’occasione più impegnativa per riflettere sui temi della bioetica, allorché
quest’ultima era già nata anagraficamente e veniva professata, fu un convegno organizzato presso
l’Accademia dei Lincei nel 1982 dal titolo “Il diritto e la vita materiale” (i cui atti sono raccolti nel
volume Giornate lincee sul tema – Il diritto e la vita materiale: Roma, 28-29 Maggio 1982, Roma,
1984)
In quella occasione, nella quale il dialogo venne intrattenuto principalmente con i biologi, si voleva
porre l’attenzione anche del giurista su tutta una serie di temi, primo dei quali era quello relativo
alla nascita e ai momenti ad essa precedenti. Dopo tutto, il tema del danno da procreazione è il tema
dei danni prenatali, vale a dire la responsabilità che viene costruita per un fatto che ha preceduto
l’esistenza del soggetto come persona, dotato di quella capacità che lo mette in grado di far valere
pretese. Durante quel convegno non venne tuttavia affrontata una tematica, quella relativa alla
possibilità di anticipare l’acquisto della capacità ad un momento anteriore alla nascita, che divenne
in seguito particolarmente scottante sebbene non fosse affatto nuova nella discussione della
civilistica: già nell’ultimo ottocento si era tentato infatti di anticipare la capacità rispetto alla nascita
sotto certi aspetti (già la dottrina romanistica conosce l’equiparazione del concepito al nato a taluni
effetti purché questo vada a suo vantaggio), come d’altronde di configurare una pur parziale
personalità che sopravvive alla morte (Totenrecht).
Uno degli argomenti centrali, anch’esso non estraneo alla bioetica, fu invece quello delle età
dell’uomo: a quest’ultimo riguardo basti pensare al rilievo prestato da norme di valore
costituzionale o sovranazionale alla considerazione dell’uomo che ne guarda il modo di essere e la
dignità avuto riguardo anche alle diversità che si legano, ad esempio, alla gioventù o all’anzianità,
analogamente alle diversità legate al sesso, fatte ormai da lungo tempo oggetto di un divieto di
discriminazione.
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Altro tema al centro del dibattito fu allora quello della fine della vita umana, che tocca più da vicino
la bioetica proprio perché questa trova nell’inizio della vita e, appunto, nella sua fine due tematiche
di rilevanza estrema. Nonostante l’importanza da ricondurre a tali tematiche, non è possibile
comunque trascurare come la bioetica si occupi anche di decisioni che non suscitano uguale
tensione, né spirituale né intellettuale, come ad esempio la salute – bene attorno al quale il discorso
bioetico si svolge – o le libertà che il soggetto esercita, rivendica ovvero può vedere limitate con
riguardo anche allo stesso bene salute.
Con riguardo a ciò, in una sentenza che riguardava la possibilità di ricorrere a prestazioni sanitarie
rese in un paese diverso da quello di provenienza – in cui il servizio sanitario nazionale rendesse per
l’appunto impossibile il ricorso a strutture di cura estere – la Corte di Giustizia delle Comunità
Europee (12.7.2001, Smits e Peerbooms, C-157/99) si è occupata di analizzare come una normativa
che condiziona questa possibilità ad un giudizio di idoneità tecnica fosse per l’appunto compatibile
con le esigenze di libertà individuale e di tutela della salute: proprio nel momento in cui entravano
in gioco problematiche connesse anche alla libertà di movimento nell’ambito di realtà
sovranazionali il discorso assumeva anche una sua rilevanza in relazione alla bioetica.
Sebbene la sentenza negò tale possibilità ritenendo legittimi quei limiti che a livello nazionale
disciplinavano tale ipotesi – limiti derivanti da ragioni di ordine economico –, il suo riflesso
importante è stato quello di sottolineare come la libertà in oggetto non attenesse solamente alla
libertà di curarsi o meno, ovvero alla rinuncia o all’interruzione della cura, ma anche, da un punto di
vista forse meno coinvolgente, alla scelta della cura, prestata obbligatoriamente nel proprio paese
ovvero resa possibile altrove.
Ad avviso di Rescigno proprio il tema della libertà della cura ha per il civilista connessioni con
problemi di vita concreta degli uomini: affrontato infatti come problema che nasce e si esaurisce
nella sfera personale lo si può risolvere, analogamente a quanto espresso da testi legislativi o da
decisioni giurisprudenziali, nel senso di una scelta personale sufficientemente protetta.
La possibilità di curarsi, di migliorare il proprio stato rimuovendo un pregiudizio alla propria salute,
resta liberamente esercitabile, ma può produrre conseguenze negative a carico del soggetto se c’è
un’incidenza sull’altrui sfera giuridica: qualora un soggetto subisca un danno e vi siano meccanismi
di cura idonei a rimuovere del tutto oppure a ridurre in maniera significativa il pregiudizio ricevuto,
il diritto può tener conto della rinuncia al trattamento medico facendola pesare sul soggetto? Su un
piano diverso, se a seguito del danno un soggetto risulta limitato o impedito nell’attività
professionale che svolgeva, è possibile una riabilitazione che gli consenta una diversa attività,
eventualmente anche più redditizia della precedente? Può questo soggetto invocare la libertà di
scelta della propria professione, costituzionalmente garantita, imponendola anche a chi è tenuto a
risarcire il danno?
L’incontro del tema delle libertà personali con valutazioni di carattere morale, oltre che giuridico,
che coinvolgono, dato l’ambito privatistico, anche l’interesse del terzo e la sfera giuridica altrui
dimostrano come su certi temi il discorso del diritto era chiamato a fare i propri conti col discorso
delle libertà e con le loro implicazioni non solo tecnico – giuridiche.
Tornando ora all’argomento della morte, il problema della determinazione del suo momento non è
legato solamente al tema, pur importantissimo, della donazione degli organi e dei trapianti – rispetto
al quale gli orientamenti di politica legislativa in Italia si sono andati evolvendo nel senso di una
maggiore apertura nei confronti di tale possibilità –, ma ha anche una sua rilevanza autonoma dal
punto di vista della riflessione bioetica, rilevanza che si è poi intrecciata con i due problemi del
suicidio e dell’eutanasia (sebbene tale ultimo termine venga talvolta evitato anche da chi cerca di
affrontare il tema dell’aiuto alla morte).
In relazione al suicidio le evoluzioni della legislazione hanno visto, ad esempio in Inghilterra, il
passaggio da un sistema che tendeva a criminalizzarlo – per ragioni di natura politico - fiscale –
nonostante l’impegno dei giudici nell’attutire tali effetti dichiarando il tentato suicida incapace di
intendere e di volere, ad una sua piena depenalizzazione. Tale diversità di disciplina, analogamente
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a quanto avveniva in altri settori, conduceva ad una giurisprudenza altalenante sia delle Corti
nazionali che della Corte europea dei diritti dell’uomo.
In definitiva, tuttavia, i divieti penali di assistenza, di collaborazione e di contributo al suicidio non
si risolvono in violazione di diritti fondamentali.
Anche con riferimento al discorso concernente il soggetto “competente” – per tradurre letteralmente
il termine ricorrente nei paesi di lingua inglese – ovvero in grado di esprimere validamente una
volontà che porti alla interruzione del trattamento medico o al distacco della macchina, tale
soluzione di legittimità sembra imporsi alla luce della considerazione secondo la quale laddove
risulti possibile individuare e riconoscere un atto di autodeterminazione cosciente c’è liceità
dell’atto.
Tale affermazione risulta infatti coerente con una ipotesi meno accentuata quale quella del divieto
di accanimento terapeutico, che prescinde da una espressa manifestazione di volontà del soggetto,
anche se tale divieto di accanimento può trovare una sua corroborante base nella manifestazione di
volontà, affidata preventivamente o a soggetti curatori come il Betreuer dell’esperienza tedesca
ovvero, ancora più frequentemente, al testamento di vita (living will) che il soggetto redige con la
garanzia di certe forme e di un eventuale rinnovo prestato in maniera consapevole.
Con riferimento ad un altro tema oggetto da sempre di riflessione della bioetica, l’aborto, Rescigno
ricorda come in due sentenze (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 4.10.1991, The Society
for the protection of Unborn Children Ireland, C-159/90 e Corte Europea dei diritti dell’uomo,
29.10.1992, Open Door et Dublin Well Woman c. Irlanda) riguardanti l’Irlanda, paese nel quale
l’aborto rimane figura penalmente incriminata, la limitazione legislativa della libertà di associazioni
studentesche di fatto di informare circa i paesi e le organizzazioni pubbliche o private che
rendessero possibile tale interruzione volontaria di gravidanza sia stata ritenuta legittima dalle due
corti europee.
Michele TAMPONI afferma di riconoscersi tra i giuristi che, seppur inconsapevolmente, si
occupano di bioetica: qualunque civilista è chiamato ad occuparsi infatti di tanti argomenti che
lambiscono la morale, la politica, i profili sociali ed etici. Da questo punto di vista sono tanti gli
istituti a presentare implicazioni latamente bioetiche o “bioeticistiche”: oltre alle tematiche
opportunamente richiamate in causa da Rescigno, Tamponi rimanda al dibattito alimentatosi verso
la fine degli anni ’70 in vista e in conseguenza dell’emanazione della legge sull’interruzione di
gravidanza e alle polemiche seguite alla legge almeno fino allo svolgimento del referendum, come
anche allo scritto di Giorgio Oppo su “L’inizio della vita umana” (in Riv. dir. civ. 1982, pp. 499 –
529) ovvero alla normativa sul transessualismo dei primi anni ’80.
Si è trattato di temi che hanno determinato dei riflessi sulla problematica amplissima della
responsabilità civile non solo in relazione al danno da procreazione e al danno alla vita prenatale,
pur giustamente ricordati da Rescigno, ma anche alle distinzioni avviate dagli anni ’70 (danno
biologico, esistenziale, alla vita di relazione) che implicano considerazioni sull’uomo e sulla
persona umana che indubbiamente presentano diretti risvolti di tipo etico.
Ad avviso di Tamponi è tuttavia possibile tracciare una linea di demarcazione tra questi temi, dato
che tali problematiche, insieme a tante altre, trovavano una possibilità di soluzione o perché vi
interveniva il legislatore (come nel caso dell’aborto o del transessualismo) oppure perché il giurista
era in grado di individuare nell’ordinamento principi e quindi delle risposte attraverso lo strumento
dell’analogia. Il caso è, ad esempio, quello degli studi sulla sperimentazione umana, che fino a
venti anni fa si ponevano problemi nuovi utilizzando gli strumenti positivi disponibili, come la
possibilità di invocare l’art. 5 cod. civ., di utilizzare l’istituto del consenso, del consenso informato,
della sua revoca, dell’ammissibilità della sperimentazione su minori, interdetti e nascituri, della
configurazione di una responsabilità civile dello sperimentatore (è responsabilità contrattuale? è
attività pericolosa? vige la limitazione ex art. 2236 cod. civ.? può il controllo giurisdizionale
sfociare in una inibitoria?).
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Probabilmente oggi per il civilista, in relazione ad alcuni dei temi accennati – come le
manipolazioni genetiche, la clonazione, la maternità surrogata e la procreazione artificiale – è
difficile trovare delle risposte.
E’ quindi come se ci si trovasse di fronte a due gradi diversi di bioetica: il primo, quello
dell’esperienza dei decenni passati, in cui il giurista era comunque in grado di trovare delle
soluzioni a problemi pratici, e un secondo, quello attuale, in cui il civilista avverte un senso di
impotenza e invoca disperatamente l’intervento del legislatore, acquistando la consapevolezza di
non poter risolvere i casi che si presentano alla sua esperienza.
Tommaso Edoardo FROSINI ritiene che la bioetica sia essenzialmente un frutto della tecnologia:
gran parte delle questioni bioetiche – come la clonazione e la fecondazione assistita – rappresentano
infatti forme di intervento tecnologico sull’individuo.
La tecnologia ha finito infatti per determinare tutta una serie di problemi che hanno inciso
profondamente sul genere umano e sul corpo umano analogamente a quanto avvenuto ad esempio
con l’informatica, che ha modificato e costretto il diritto a rivedere le sue stesse categorie.
Sulla base del tema scelto nel recente colloquio biennale dell’Associazione di diritto comparato,
“Scienza e diritto”, Frosini si chiede se sia la scienza a dominare il diritto o viceversa: il diritto ha
ancora capacità sue proprie in grado, se non proprio di dominare la scienza nella fase estrema della
tecnologia, di governare un fenomeno comunque intimamente connesso con la tecnologia come la
bioetica stessa, attraverso le sue norme scritte come quelle della Carta dei diritti fondamentali di
Nizza (che colloca sul piano dei diritti fondamentali la bioetica)? La continua trasformazione delle
scoperte tecnologiche, in quanto si riversi sulla bioetica, implica che il diritto scritto vi si adegui o
piuttosto che la soluzione di casi di bioetica stessa venga demandata all’opera della giurisprudenza,
riscontrata l’incapacità del diritto scritto di contenere costantemente la progressione della tecnologia
anche in materia bioetica?
Sergio LARICCIA, dopo aver ringraziato Rescigno per la ricchezza della sua introduzione, gli
chiede in primo luogo quale sia stata la sua esperienza come membro del Comitato di bioetica.
Essendo infatti tale Comitato composto da persone di diverso orientamento ideologico, molte volte
sono state percepite dall’opinione pubblica polemiche relative, ad esempio, alla appartenenza dei
presidenti ad una “coloritura” politica specifica. Al riguardo Lariccia si interroga se, talvolta, questa
diversità di posizioni non possa giungere a paralizzarne l’azione.
In relazione poi all’accennata commistione tra valutazione morale e religiosa in materia di bioetica,
un problema che sempre viene riscontrato concerne indubbiamente la presenza e la valorizzazione
di diverse morali e di diverse religioni: a questo riguardo, l’insistenza con cui si chiede che nel
Preambolo della Costituzione europea ci sia un richiamo alle radici cristiane sembra rappresentare
la richiesta che il futuro legislatore dell’Europa sia in un certo senso vincolato da questo riferimento
forte.
Gaetano AZZARITI prende spunto dalla ricostruzione proposta nell’introduzione del prof.
Rescigno per osservare che la nozione di bioetica si è ampliata nel corso del tempo, finendo per
mutare le proprie prospettive d’origine. Oggi si può affermare che è difficile circoscrivere e definire
la specificità della bioetica, in campo giuridico.
Quest’evoluzione può rilevarsi richiamando quanto da Rescigno esposto: egli ha precorso i tempi,
studiando in un passato ormai remoto alcune tematiche che oggi sono considerate di bioetica, ma in
ciò è stato aiutato anche dagli strumenti tradizionali di cui il civilista dispone, in particolar modo
dall’istituto della responsabilità civile per danni. Gli studi sulla bioetica nascono, in effetti, come
questioni particolari legate alla tematica generale della responsabilità civile per danni.
Azzariti osserva che oggi non è più (solo) così. Gli studi di bioetica superano di gran lunga l’aspetto
specifico della responsabilità, venendosi a legare anche e sempre di più allo stato delle persone,
ponendo in discussione la nozione stessa di persona, chiamando al centro dei propri interessi la
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dignità umana. Ciò spiega – tra l’altro – l’attenzione particolare della scienza costituzionalista alle
tematiche della bioetica.
La bioetica inoltre tende a sconvolgere le tradizionali categorie, sia quelle civilistiche sia quelle
pubblicistiche, sia quelle relative alla responsabilità sia quelle relative alla persona, ponendosi sul
bordo, ai suoi limiti estremi: come è evidente nei casi richiamati anche da Rescigno, del diritto “alla
vita” o “alla morte”.
In molti casi appare evidente che la bioetica non ha più tanto a che fare con le questioni della
responsabilità per danni. La procreazione assistita o l’eutanasia, persino il divieto o meno delle
pratiche eugenetiche, non sollevano tanto questioni d’ordine patrimoniale, ciò che esse mettono in
gioco sono essenzialmente la relazione della persona con la società e l’idea stessa di persona.
La bioetica inoltre coinvolge oggi tutte le fasi della vita, non più solo i suoi momenti estremi (diritto
alla vita o alla morte), tocca delle tematiche relative al “corso della vita” (fenomeno dei trapianti,
handicap). In tal modo essa coinvolge alcune classiche questioni giuridico-costituzionali, in
particolare quelle delle forme concrete di welfare e l’essenza dei diritti sociali.
Così, ad esempio, le tecnobiologie applicate alla medicina, l’ingegneria genetica, ovvero le
sperimentazioni sugli embrioni, che vengono poste in essere al fine di (cercare di) migliorare o
risolvere i problemi dei disabili o dei malati, sono naturalmente legati al classico diritto
costituzionale alla salute. Ma la prospettiva bioetica può essere utile a chiarire la complessità dei
diritti delle persone: in questi casi appare con evidenza, infatti, che i diritti dei disabili o dei malati
non sono circoscrivibili al solo diritto alla salute, coinvolgano anche il diritto al libero sviluppo
della persona e la sua dignità.
Sulle orme del titolo del convegno svoltosi ai Lincei nel 1982, “Il diritto e la vita materiale”, la
bioetica potrebbe essere allora definita come il diritto alla vita materiale. Ma in tale prospettiva
essa è destinata ad allargarsi indefinitamente e, forse, anche a perdere la sua autonomia concettuale,
tanto che si dovrebbe parlare non più di bioetica, bensì – direttamente - di “biodiritto”. In questa
più ampia, ma anche più impegnativa, prospettiva (quella del “biodiritto”), si vuole sottolineare che
quando si affrontano le questioni della vita materiale, ciò che viene coinvolto è il diritto in quanto
tale. E’ il diritto che studia le condizioni concrete di vita. La bioetica (intesa come biodiritto) non si
caratterizzerebbe dunque tanto per l’oggetto di studio specifico, ma verrebbe a configurarsi come
una prospettiva di studio del diritto fortemente attento alla persona ed alle sue particolari e concrete
condizioni di vita. Null’altro in fondo che il diritto quando pone al centro della sua indagine i diritti
della persona, e in particolare i suoi diritti sociali.
Due considerazioni conclusive, di carattere generale, possono essere tratte: la prima riguarda i limiti
del diritto, cioè fin dove esso può spingersi nel regolare la vita concreta degli individui e delle
collettività. E’ notoriamente una delle questioni più delicate della bioetica, che si conferma decisiva,
non solo per ragioni etiche o morali, ma anche per limiti ontologici e politico-culturali: la “ricerca
della felicità” non è assicurabile attraverso il diritto. Al diritto (o più in generale alla Repubblica) è,
negli Stati costituzionali, assegnato il compito di riconoscere e garantire alcuni pre-requisiti,
imponendo di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impediscono il pieno sviluppo delle
persone in rapporto tra loro.
Azzariti, inoltre – è la seconda considerazione conclusiva – ritiene necessario rilevare che, seppure
può essere utile “costituzionalizzare” la bioetica, mediante l’inserimento di uno specifico articolo ad
essa dedicato nei testi costituzionali più recenti (l’ultimo caso riguarda la Carta di Nizza, all’articolo
3), sarebbe un errore – se la bioetica viene considerata nella prospettiva più generale del
“biodiritto”, da Azzariti prospettata – limitare a queste specifiche disposizioni “costituzionali” le
tematiche sollevate. Le regole della bioetica debbano rinvenirsi in molteplici disposizioni
costituzionali (anche quelle classiche e generali, in particolari quelle relative ai diritti sociali). Così,
se è vero che la bioetica si collega sempre più alla persona, diventano fondamentali gli artt. 2 e 3
della Costituzione italiana. Ma anche gran parte dei diritti costituzionali, che possono essere riletti
in una prospettiva biopolitica. Questo complesso di disposizioni non sempre poste al centro della
riflessione della bioetica tradizionale, diventano oggi invece essenziali.
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Paolo RIDOLA afferma di essere stato colpito dalle affermazioni fatte da Rescigno sulle
valutazioni di carattere morale che entrano nell’esperienza giuridica, in modo particolare quando si
toccano i temi della bioetica.
La questione che Ridola vuole affrontare è quella della prospettiva di studio del costituzionalista e
del civilista sui temi della bioetica. In particolare, si è verificato un avvicinamento delle due
prospettive, pur essendo i costituzionalisti partiti da una riflessione sui diritti, mentre i civilisti da
una riflessione sulla responsabilità. Entrambi sono però arrivati a fare i conti, citando un passaggio
della relazione dello stesso Rescigno, “con il problema della libertà al di là delle valutazioni di
carattere tecnico”. Libertà del soggetto, considerato non come il centro astratto di imputazioni
giuridiche, ma come soggetto nelle sue condizioni di vita e di fronte agli “incerti del mestiere di
vivere”, così come si è espressa la Corte costituzionale nella sentenza sul riconoscimento dei figli
incestuosi.
Rimane tuttavia un dubbio, una domanda, ovvero quale sia il posto della responsabilità nei temi
della bioetica. Certo, la prospettiva della responsabilità per danno di derivazione privatistica è del
tutto inappagante: tuttavia bisogna chiedersi se il passaggio da una prospettiva sulla responsabilità
per danno e valutazione dei costi ad una che punti l’attenzione sul “senso della persona” lasci
davvero fuori la prima o la ricomprenda.
Ridola afferma di far riferimento ad una riflessione filosofica che ha tante sfaccettature, come la
componente che affonda le radici nella tradizione giudaica (la riflessione sulla responsabilità di H.
Jonas) ovvero la riflessione sulla responsabilità nella teologia protestante (Dietrich Bonhoeffer).
Il costituzionalista può trovare, nelle suddette riflessioni, delle indicazioni di grande suggestione,
che sono in qualche misura state riprese dai testi costituzionali più recenti, come ad esempio l’art.
20a del GG che introduce il principio di responsabilità nei confronti delle generazioni future e
alcuni passaggi della Carta di Nizza che congiunge dignità e solidarietà. Ma così facendo emerge,
ancora più forte, il problema della responsabilità e del posto cui assegnarle.
Francesco CERRONE afferma che il discorso del prof. Rescigno può essere compreso a partire da
un discorso sulla “maggiore età dell’uomo”. Kantianamente l’uomo diventa maggiorenne perché è
capace da sé di darsi regole e quindi può essere teorizzata l’autonomia dell’individuo. Da qui parte
la riflessione giuridica per cui si può anche ragionare sulla sussistenza del consenso nel momento
della morte. L’individuo però deve essere inserito in una trama di discipline sociali sempre più
complesse: la medicina, il diritto (pensando agli studi di Foucault), etc.
Il problema di fondo riguarda, forse, non tanto il prevalere tra diritto e scienza, quanto il modo di
“pensare la vita” (il “pensare la morte” è problema complesso con cui è difficile misurarsi): la vita
può essere concetto metafisico, ipostatizzato, astratto – così come è riscontrabile nella riflessione
giuridica intorno al danno da procreazione –, per cui c’è un “valore vita in sé” da difendere,
indipendentemente dalle condizioni materiali di vita.
D’altro lato si può intendere la vita nella sua nudità, legata nella sua immanenza a delle condizioni
storiche, sociali, di costume. Allora, se è così, anche la nozione di bioetica può essere colta non
tanto in astratto ma legata alle determinazioni politico culturali, agli assetti sociali, ai rapporti di
forza tra le soggettività sociali.
I valori costituzionali, ovvero i valori che promanano dalle ideologie dei diritti universali
dell’uomo, dovrebbero cercare, insieme alle valutazioni di carattere morale, un rapporto sincero e
non mimetico con la concretezza degli assetti sociali.
Cerrone chiede, in conclusione, se una maggiore sincerità nel rapporto tra realtà sociali nonché
economiche ed elaborazione teorica su questi diritti non possa in qualche modo contribuire ad una
migliore definizione dei problemi legati alla bioetica.
Federico ROSELLI chiede al professor Rescigno qualche informazione sul modo di procedere
della Commissione di bioetica, della quale il professore fa parte.
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La posizione di precetti suscettibili di rilievo giuridico (come quelli etici) da parte di un organo
collegiale può avvenire secondo il principio di maggioranza. Roselli chiede se a questo principio,
oppure a quello dell’unanimità, si attenga la Commissione. Egli osserva poi che la posizione di
precetti etici si fonda per lo più sul principio di autorità e che alternativo a questo è il principio di
persuasione, attuabile attraverso la motivazione delle decisioni. Qui sta, nel diritto, la principale
differenza fra la legge, espressione di autorità politica legittimata dalla maggioranza, e la sentenza,
legittimata da persuasiva interpretazione della legge (artt. 101, 2° co., 111, 6° co. Cost.). Roselli
chiede se le decisioni della Commissione vengano motivate ed in base a quale tipo di argomenti. Se,
in altre parole, si dia una topica etica, considerata la prevalente rinuncia ad un’etica razionale e la
tendenza ad un’etica ragionevole.
Sergio STAMMATI condivide naturalmente l’opinione di Rescigno – nostro comune maestro –
che siano i grandi fatti della nascita e della morte umana e le trasformazioni che entrambe possono
subire a causa dei progressi spettacolari della medicina e della biologia ad occupare il centro
dell’interesse che l’etica e il diritto portano a questi fenomeni, i quali, pur coevi alla vita di tutti i
viventi, appaiono oggi, a causa di quei progressi, in qualche modo nuovi. Ritiene (sicuramente in
consonanza con Rescigno) che attenzione crescente e non minore il diritto debba prestare alle
questioni poste dalla ricerca sulle malattie, specialmente di quelle genetiche, per la peculiarità, la
straordinaria varietà, la delicatezza estrema dei problemi etici e giuridici legati alla conoscenza di
dati (quelli genetici) che rivelano la struttura materiale della salute umana individuale in modo tanto
radicale da permettere, non solo la conoscenza di essa quale è al momento in cui la si indaga, ma
anche la predizione di come la stessa potrà trasformarsi in un futuro anche non vicino (su questo
tema, fra gli altri, Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna 1995) Quanto poi alla cura di tali malattie è
noto quanto intenso sia attualmente il dibattito al riguardo (per es. relativamente all’impiego delle
cellule staminali embrionali e degli embrioni soprannumerari) e quanto controverse, in sede
nazionale, sovranazionale e internazionale, siano le posizioni etiche e giuridiche relative ai mezzi
lecitamente utilizzabili a tale scopo.
Circa le questioni collegate ai nuovi modi di nascere, sulle quali la relazione introduttiva si è
fermata con più insistenza, esse sono evidentemente diverse e diversamente acute relativamente a
ciascuno di tali modi. Al di là dell’approssimazione che una riflessione non diversificata deve
scontare, si deve notare, secondo Stammati, come essi, nel loro complesso, facciano emergere una
dimensione pubblicistica, e anzi sicuramente costituzionale, della procreazione c.d. “artificiale” o
“medicalmente assistita”, che viene, secondo certi modi di vedere, rappresentata come oggetto di un
diritto (costituzionale) al pari di quella naturale, nel mentre che, secondo altri modi vedere, viene
rappresentata diversamente, e talora (spesso) come espressione di un’attività illecita. Nel “limbo
costituzionale” in cui attualmente si trovano, le nuove forme di procreazione rese possibili dal
progresso tecnologico vengono viste, da un lato (posizioni laico – liberali), positivamente, in
relazione al potenziamento della soggettività dei “genitori”; dall’altro (posizioni cattoliche, ma,
recentemente anche non cattoliche, J. Habermas Il futuro della natura umana, ovvero I rischi di una
genetica liberale, Torino 2002), negativamente, in relazione all’irreversibilità e all’asimmetria delle
decisioni genitoriali nei confronti del “destino” dei figli. Stammati pensa che ambedue le
prospettive, a causa della generalità che pretendono di avere, siano parziali, quindi vere e false
contemporaneamente. Certo è che l’esasperazione del profilo soggettivo – peraltro improbabile
nella situazione europea e più ancora in quella italiana – può condurre alla riemersione esasperata di
quei profili di responsabilità (anche patrimoniale) dei genitori nei confronti dei figli, non
infrequentemente prospettata di fronte alle corti di stati nordamericani (e documentati, in un suo
noto contributo di qualche anno fa, da V. Zeno Zencovich), per aver procreato figli in violazione del
diritto di questi ultimi “a nascere sani” (azione per wrongful birth) o, all’estremo, del diritto dei
medesimi “a non nascere” (azione per wrongful life). Nella prospettiva esposta un inquadramento
costituzionalmente non bilanciato dei diritti di procreazione si salda, dunque, a una prospettazione
altrettanto non bilanciata dei diritti dei figli.
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Il progresso tecnologico, e la possibilità da esso offerta che la vita incosciente venga
indefinitamente prolungata, influenza anche il momento della morte, l’altro oggetto della riflessione
bioetica sul quale si è soffermato Rescigno, che ha ricordato la relazione, allora pionieristica, sui
“testamenti di vita”, da Lui presentata al convegno linceo sul “diritto e la vita materiale” del 1984.
E’ concepibile, si chiede Stammati, un diritto individuale a disporre della propria vita, il diritto a
morire (come è intitolato un noto volumetto di H.Jonas, edizioni del Melangolo), più precisamente
il diritto di essere aiutato da altri a procurarsi la morte, all’occorrere di situazioni esistenziali
estreme, le quali, come si dice, compromettono radicalmente la possibilità di vivere “con dignità”?
Egli fa, preliminarmente, notare come a proposito dell’eutanasia, sia la cultura “laica” ad appellarsi
a un principio da essa poco amato come quello della dignità umana, letto secondo una direttrice
favorevole alla legittimazione di quella pratica, e come non giovi alla cultura che lo legge in modo
opposto, attardarsi nell’equiparazione dell’eutanasia da legalizzare eventualmente nei casi estremi
(e in alcuni paesi – in Olanda ad esempio – già effettivamente legalizzata), alle pratiche di
eliminazione indiscriminata dei deportati effettuate nei campi di sterminio. In astratto osserva che
quel diritto, una volta che ne siano state precisate con certezza le dimensioni, gli appare eticamente
e giuridicamente riconoscibile, dato che esso (letto nel suo verso liberale) ha come suo oggetto il
soggetto stesso che pretende di esercitarlo. In concreto ritiene, però, che entro le comunità nazionali
nelle quali si manifestino contrasti incomponibili riguardo al riconoscimento dell’eutanasia – un
accordo fra le diverse sensibilità culturali si manifesta per ora unicamente nel rifiuto
dell’accanimento terapeutico – non si riesca a mettere a punto la fondazione costituzionale
complessa che il riconoscimento di quel diritto (letto nel verso relativo e sociale di diritto ad essere
aiutato a morire), indubbiamente esige, a causa delle vaste collaborazioni attive, di carattere
professionale, familiare e sociale che gli sono necessarie per potersi realizzare. Si chiede, infine, se
una più forte, eventuale, convergenza delle culture finora contrapposte a proposito dell’eutanasia,
sarà l’effetto di una crescita liberale delle società – entro le quali , perciò, potrà conservarsi e, messo
alla prova, crescere il senso sacrale della vita come “donum Dei” – o se essa sarà l’effetto di una
stanchezza di quelle stesse società e di un più diffuso egoismo sociale.
Sergio PANUNZIO interviene per riprendere un tema cui anche lo stesso Rescigno ha accennato,
ovvero quello del suicidio assistito. Più precisamente egli richiama la sentenza Pretty (Corte
europea dei diritti dell’uomo, 29-04-02, Pretty c. U.K.). Il caso in questione riguardava una signora
che soffriva di una malattia incurabile e degenerativa il cui esito sarebbe stato quello di una
situazione di incapacità a svolgere tutte le funzioni materiali, con perdita di dignità, gravissime
sofferenze nella fase terminale della malattia, e privata anche della possibilità del suicidio. La
signora dunque chiedeva che il marito fosse scagionato, qualora questi l’avesse assistita nel
suicidio, dal corrispettivo reato previsto dall’ordinamento inglese. La Corte europea dei diritti
dell’uomo ha negato tale diritto affermando che il caso non rientrava nell’art. 3 della Convenzione –
che vieta i trattamenti inumani o degradanti – partendo da una concezione restrittiva: tali
trattamenti sono infatti ritenuti degradanti solo se aggressivi nei confronti della persona e non
curativi. Inoltre la Corte ha escluso che la pretesa potesse essere fondata sull’art. 8 CEDU, sul
rispetto della vita privata e familiare, in quanto il diritto a morire dignitosamente nell’ambito della
propria famiglia va riconosciuto, ma va comunque bilanciato. E precisamente la Corte ha bilanciato
tale diritto con l’esigenza di evitare che un riconoscimento del genere possa essere pericoloso per le
persone ritenute “deboli”. Infatti, secondo la Corte, si dovrebbe evitare che le persone
psicologicamente deboli possano essere indotte a scelte di questo tipo, laddove vivano in condizioni
non così drammatiche come quelle della signora Pretty.
Secondo Panunzio tale bilanciamento non è persuasivo, in quanto i valori in questione non sono
commensurabili.
Panunzio inoltre si chiede se la Carta di Nizza non possa aprire prospettive diverse, avendo essa
ripreso alcuni articoli della CEDU, in particolare l’art. 4 (Proibizione della tortura e delle pene o
trattamenti inumani o degradanti) e l’art. 7 (Rispetto della vita privata e della vita familiare) della
Carta. Infatti, se la Carta di Nizza diventerà parte del Trattato costituzionale o se, sviluppando una
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tendenza criticata e criticabile ma che comunque è emersa, i giudici nazionali inizieranno ad
applicarla direttamente, potrebbe accadere che la gestione giudiziaria di tali problemi non passerà
più tanto per la Corte di Strasburgo, né per quella di Lussemburgo, ma – sulla base della disciplina
della Carta - si svolga soprattutto davanti ai giudici nazionali.
Panunzio, in conclusione, si chiede se questo non potrà comportare una interpretazione più ampia
della portata di quei principi, e del valore della dignità della persona, di quanto su queste tematiche
non facciano oggi le Corti sovranazionali.
Pietro RESCIGNO ringrazia per l’attenzione e per tutte le questioni poste che arricchiscono la sua
introduzione. Partendo dall’intervento finale, sul giudice nazionale più aperto delle Corti
sovranazionali, questo passa per la formula della Carta di Nizza che contempla i settori della
medicina e biologia anche se si limita a dei principi elementari su cui si è formata, anche in base
all’esperienza dei Comitati di bioetica italiani, una opinione comune.
Per ciò che riguarda il funzionamento dei Comitati al di là di maggioranze e formulazioni e
proposte, essi finiscono col dir poco. Anche perché la parte costruttiva e descrittiva della realtà e
che cerca di tradurre in qualcosa di concreto ciò che il Comitato pensa, è all’insegna di contenuti
minimi da tutti condivisi ed è accompagnata, ogni volta che ci si inoltri su un terreno più spinoso,
da un’indicazione sufficientemente neutra e dalla menzione di dissensi ed eventuali opinioni
contrarie.
Il Comitato è nato dunque all’insegna di una neutralità di opinioni, perciò ha pesato poco, ma i
documenti da esso prodotti potrebbero essere più utili se meglio conosciuti, per dare un’idea del
modo con cui discipline così diverse, coinvolte dalla bioetica, prendono atto dei problemi e fanno
un primo esame. Rescigno pensa che, al di là di questo, l’esperienza del Comitato nazionale di
bioetica non sia stata del tutto positiva.
La conclusione del discorso di Tamponi sulla necessità od opportunità di interventi legislativi è un
tema molto delicato. Rescigno esprime perplessità e dubbi, che nascono non solo dalla
constatazione che il legislatore quando si è mosso su questo terreno e ha tentato di intervenire lo ha
fatto sempre in maniera discutibile – facendo addirittura preferire la non regolamentazione
all’intervento legislativo –, ma anche perché in certi temi l’intervento legislativo appare non proprio
da evitare, ma da usare comunque con estrema prudenza. Inoltre su certe questioni la risposta
normativa precisa non è nemmeno possibile.
Innanzi tutto certi temi emergono nella pratica anche senza l’intervento legislativo: si può pensare al
caso, risolto dalla Corte di cassazione dopo che la Corte costituzionale aveva tenuto un
atteggiamento elusivo, dell’azione di disconoscimento da parte del marito che aveva consentito alla
inseminazione eterologa. Se questo verrà recepito in una norma di legge, significherà convalidare
un qualcosa che nella giurisprudenza è ormai presente. E la giurisprudenza è arrivata a tenere questa
posizione sulla base del principio di responsabilità, cui si è fatto cenno in qualche intervento, inteso
non come riparazione del danno ma come autoresponsabilità dei soggetti, che deve accompagnarsi
al riconoscimento dell’autonomia, quasi facendone da contrappeso. Dunque secondo Rescigno il
tema della regolamentazione di situazioni da ricondurre alla bioetica è un tema che va posto ma con
una persistente attitudine alla prudenza.
Per ciò che riguarda l’interrogativo posto da Lariccia, sulla volontà di vincolare il legislatore
nascosta dietro al richiamo delle origini giudaico cristiane nel preambolo della Costituzione
europea, Rescigno risponde affermativamente. Probabilmente si vuole dare con questo richiamo una
risposta negativa a certi temi. Tuttavia nella realtà tale collegamento si rivelerà meno stretto di
quanto si pensi.
Riguardo al tema della responsabilità, Rescigno afferma che questa non deve essere intesa nella
prospettiva limitata del civilista (responsabilità per danno) ma che bisogna valutare i temi della
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bioetica alla luce della posizione e del primato della persona e degli stati di cui la persona è titolare;
soprattutto degli stati relativi al modo di essere, di svilupparsi, di crescita della persona, che
riguardano non solo le varie età della vita ma anche le “diminuzioni” di capacità e possibilità di
partecipazione. Quindi va posto il problema dell’handicap come motivo non di discriminazione ma
di tutela in relazione anche alle altre libertà. Secondo Rescigno questo è un discorso che anche la
bioetica deve affrontare, ma che appartiene anche al diritto civile e costituzionale e che attraversa
tutte le nostre discipline e riflessioni.
Per quanto riguarda la sentenza della Corte costituzionale sulla dichiarazione giudiziale di paternità
dei figli incestuosi, Rescigno ritiene che questa non abbia valore innovativo nel sistema. Infatti
questa sentenza, enunciando questo principio, lo accompagna con una limitazione notevole e
irragionevole. Infatti, nell’ordinamento la dichiarazione giudiziale di paternità e riconoscibilità sono
strettamente legate: infatti sono dichiarabili giudizialmente come figli coloro che possono essere
riconosciuti. Non è quindi ragionevole affermare, come fa la sentenza suddetta, che, contrariamente
a tutto il sistema positivo, quello che può fare il giudice non potrebbe farlo il privato. Infatti nel
caso in questione avverrebbe il contrario: possono essere dichiarati giudizialmente figli al di là del
legame incestuoso e non possono essere riconosciuti da parte di chi è in grado di conoscere la verità
di questa derivazione.
Il tema dell’autonomia merita una riflessione approfondita: nella stessa Carta di Nizza si fa
riferimento al “consenso libero e informato” in materia di medicina e biologia.
Il civilista non può dimenticare che questo principio è nato sul terreno degli interessi patrimoniali,
dell’amministrazione e gestione dei propri interessi. Tale principio è ora “trasportato” su un terreno
radicalmente diverso, quello della bioetica, che in definitiva significa “disporre di sé”. Bisogna
allora interrogarsi se sia sufficiente a garantire il rispetto di una volontà libera e autonoma un
formalismo che in ogni caso ci vuole in questa materia, ma che non può essere la chiave di
risoluzione di tutti i problemi.
Anche l’intervento finale di Panunzio, secondo Rescigno, si collega al tema della libera volontà e
della necessità delle forme, della ricerca delle forme più adeguate. Perché anche il caso della
necessità di essere aiutato o assistito, in certe ipotesi estreme, ovvero della possibilità, questa vista
dai giudici come più aperta, di poter provvedere da solo, riconduce al tema dell’autodeterminazione
e all’esigenza ineludibile di certe forme. E’ un pericolo che in materia di bioetica sussiste sempre,
perché in alcuni casi grazie alla forma è possibile liberarsi di taluni problemi di coscienza. Così, se
si risolve il problema del consenso informato nel ricevere in ospedale un modulo senza sapere,
firmandolo, quale ne sia il contenuto, l’esaltazione dell’autodeterminazione finisce certamente col
ricevere concrete smentite.
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