Capitolo secondo

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ER, J. L. La crisi della democrazia,
1977. p. 27- 40
2. ed. Torino: Giulio Einaudi,
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Capitolo secondo
Due democrazie
i. Anche quando una parte notevole dei loro apparati è già diventata
proprietà culturale diffusa, le ideologie si concretizzano per solito in
determinati nomi e opere. Cosí il retroterra ideologico dell´Inghilterra
rivoluzionaria (fine del XVII secolo) è indissolubilmente legato al nome
di John Locke e ai suoi Two Treatise of Government; il retroterra
ideologico della Francia rivoluzionaria un secolo piú tardi al nome di
Jean-Jacques Rosseau e al suo Contrat social. Lo scritto di Locke,
soprattutto secondo scritto sul governo civile, è una difesa della
«gloriosa» rivoluzione inglese, lo scritto di Rousseau è un preannuncio
della grande rivoluzione francese. Analizzando ambedue queste opere,
potremo familiarizzarci con le correnti di pensiero di queste agitate
epoche, con il senso reale dei loro sforzi e infine anche con la diversa
teoria e prassi democratica della Inghilterra insulare e del continente
europeo.
Il punto di partenza della riflessione politica di Locke è la finzione di
uno «stato naturale» nel quale gli uomini vivevano prima dell’avvento
della società. Questo stato naturale è uno stato di libertà assoluta, il che
significa che ciascuno può agire nei limiti del diritto naturale, disporre
della propria proprietà e persona come meglio ritiene e non aver riguardi
in ciò per nessun altro. Contemporaneamente questo stato è uno stato
di uguaglianza nel quale tutto il potere è reciproco e nessuno ne ha piú
dell’altro. Benché questo stato sia uno stato di libertà, esso non significa
assenza di legami in quanto è retto dalla legge naturale che lega
ognuno. Tale legge è la «ragione» la quale insegna all’umanità che tutti
sono uguali indipendenti e nessuno deve danneggiare l’altro nella sua
vita, proprietà, salute e libertà. La cura di
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rispettare questa legge naturale è lasciata ad ogni individuo, cosicché
ciascuno è giudice di tutti. Ma quando gli uomini sono giudici delle
proprie cose ciò non può non comportare grandi disagi per la loro
convivenza. Qui sta uno dei motivi principali per cui, abbandonando lo
stato naturale, gli uomini si sono uniti in società. L’unica via per la quale
l’uomo abbandona lo stato naturale di libertà, uguaglianza e
indipendenza può consistere nell’accordo con gli altri di unirsi in società.
Ciò che guida e determina la società non è altro che l’accordo dei suoi
singoli e poiché ciò che è un solo corpo deve anche muoversi in una
sola direzione, deve necessariamente muoversi in quella direzione verso
la quale lo spinge la forza maggiore, cioè appunto l’accordo della
maggioranza, come se la maggioranza avesse secondo legge di natura e
di ragione, il potere della, totalità
Qui troviamo dunque in una nuova forma la spiegazione stereotipica
della nascita della società. Merito di Locke, se si può qui parlare di
meriti, è di aver espresso con urgenza e con forza, nonché con grande
sincerità, il fine al quale tutta questa ideologia doveva servire. La
destinazione principale e culminante della società politica e il motivo
principale di essa è - e Locke è instancabile nel sottolinearlo –
l’assicurazione della proprietà. Si deve supporre che la società ha il
dovere di assicurare la proprietà di ogni singolo contro i disagi ai quali
essa è esposta nello stato naturale. Coloro che hanno il potere
legislativo nella società hanno dunque il dovere di governare secondo
leggi stabili, debitamente proclamate e approvate dal popolo, di eseguire
le sentenze per mezzo di giudici imparziali, e di usare il potere della
società soltanto per assicurare le leggi all’interno e eventualmente per
difendersi contro una pressione nemica dall’esterno. Con ciò sono dati
anche i limiti del piú alto potere legislativo nella società. Se il popolo gli
toglie il consenso o se questo potere viola le leggi costituzionali, esso
può essere revocato. Al potere legislativo è sottomesso e responsabile il
potere esecutivo. A capo del potere esecutivo c’è il re, anch’esso come
organo esecutivo. Soltanto in casi eccezionali il re può in qualche modo
supplire al potere legislativo (la cosiddetta prerogativa della corona).
Locke dunque non bada tanto né all’uguaglianza sociale, né alla libertà
sociale, bensi al diritto degli strati proprietari
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prietari di decidere da soli sulle leggi che essi ritengono necessarie per
la difesa della propria proprietà, e inoltre al fatto che il potere
governativo rimanga nelle loro mani o eventualmente sia sottoposto al
loro controllo. Piú che di difesa della democrazia quindi dovremmo
parlare di difesa della plutocrazia. Quanto sia giusta questa conclusione
lo si vede da una rapida analisi di teorie lockiane apparentemente
secondarie, e perciò per solito trascurate, con le quali egli motiva
l’istituzione della proprietà privata e la disuguaglianza nella proprietà.
Secondo Locke, il diritto di proprietà nasce con il lavoro. Non appena ho
nobilitato qualsiasi oggetto naturale con il mio lavoro, acquisto diritto di
proprietà su di esso. Perché io possa possedere piú proprietá nasce con
di quante io basti a consumare sarebbe necessario il consenso della
societa. La società me lo dà con l’istituzione del denaro. Locke con la
sua teoria del diritto naturale riesce a motivare e giustificare anche lo
sfruttamento coloniale. Secondo il diritto naturale, l’autodifesa è un mio
pieno diritto naturale e ugualmente è mio diritto trattare il vinto come
meglio credo. Se non gli tolgo la vita, allora gli lascio ciò di cui ha
perduto il diritto, quindi in realtà gli faccio una grazia se lo pongo
soltanto in stato di schiavitú. Tuttavia se ho pieno diritto sulla sua vita
non l’ho - quale coerenza, che nobilita l’uomo - sulla sua proprietà!
A questo punto sono tentato di spendere alcune parole in difesa del
cosiddetto principale nemico della democrazia, e rigoroso difensore
dell’assolutismo, Thomas Hobbes. A differenza da Locke, che peràltro è
in molte cose suo fedele allievo, Hobbes parte dallo stato naturale come
stato di guerra tutti contro tutti. Il vero volto dell’assolutismo di Hobbes
è però quasi indistinguibile dai principi del governo democratico. A
differenza da Locke, Hobbes però vede una piú perfetta garanzia di tale
governo nella monarchia assoluta, e non nella avida plutocrazia di
Locke.
La differenza cardinale tra Hobbes e Locke sta nel modo in cui essi
definiscono la nascita della legge. Per Hobbes il presupposto della legge
è un principe il qua e ha sí ricevuto il potere supremo con un contratto
sociale, ma resta ciò nostante sempre sovrano rispetto alla società: il
suo ordine è legge. Hobbes nella soluzione del problema politico parte
evidentemente dall’insieme della società, questo insieme però
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è rappresentato dal principe assoluto. Locke parte dall’individuo e
riconosce gli aspetti sociali per quanto essi significano la difesa
dell’individuo e il suo progresso e vantaggio. In Hobbes il cittadino è
definito prima di tutto dai suoi doveri, in Locke dai suoi diritti. Se
seguiamo la teoria politica inglese nei secoli, non possiamo non vedere
che essa si è mossa nel senso delpensiero di Locke. In Inghilterra hanno
raggiunto l’espressione piu pura tutte esigenze di diritti e libertà
individuali che caratterizzano l’alba del democratismo moderno. Per
passare di qui, spesso attraverso la mediazione delle colonie nordamericane, nella «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino»
della rivoluzione francese (1789).
2. Qui incontriamo, in una formulazione davvero pregnante, l’intero
complesso di queste opinioni, e non sarà inutile riprodurne i punti
essenziali già adesso, prima di analizzare il pensiero di Rousseau.
«i) Gli uomini nascono e vivono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni
sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.
2) Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti
naturali e imperscrittibili dell’uomo. Questi diritti sono: la libertà, la
proprietà, la sicurezza e la resistenza all’aggressione.
4) La libertà consiste essenzialmente nel poter fare tutto ciò che non
nuoce ad altri; cosí l’esercizio dei diritti naturali di ciascun individuo non
ha altri limiti se non quelli che assicurano agli altri membri della società
il godimento di questi stessi diritti. Quei limiti non possono essere
determinati che dalla legge.
5 ) La legge ha il diritto di proibire le azioni nocive alla Società. Tutto
ciò che non è proibito dalla legge non può essere impedito, e nessuno
può essere costretto a fare cosa che essa non ordina.
6) La legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini
hanno diritto a concorrere personalmente o per mezzo dei loro
rappresentanti alla sua forinazione. Essa deve essere eguale per tutti,
sia che protegga, sia che punisca. Essendo tutti i cittadini uguali innanzi
ad essa, sono ugualmente
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ammissibili a tutte le dignità, uffizi ed impieghi pubblici, a seconda delle
loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e del
loro ingegno.
7) Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto, se non nei
casi contemplati dalla legge e secondo le forme che essa prescrive.
10) Nessuno deve essere disturbato nelle sue opinioni, anche religiose,
purché la loro manifestazione non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla
legge.
11) La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei
diritti più preziosi dell’uomo. Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere
e pubblicare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà
nei casi contemplati dalla legge.
I7 ed ultimo) La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, non
potrà essere tolta in nessun caso, salvo quello in cui la necessità
pubblica, legalmente constatata, lo esiga chiaramente, e sempre con la
condizione di una precedente, giusta indennità» (Nota 1).
Tutto ciò che abbiamo detto essere tipico della rivolta politica
individuale con la quale si inizia il periodo moderno della storia europa
raggiunge qui in un certo senso il suo culmine. Questa magna charta
della democrazia sembra conoscere soltanto i diritti individuali e sembra
solo imporre alla società il rispetto di questi diritti. Sotto questo aspetto
i portavoce della restaurazione non erano del tutto lontani dal vero
quando accusavano le parole d’ordine rivoluzionarie di puro negativismo.
Ma si trattava davvero di negazione?
Prima di poter rispondere a questa domanda torniamo per un breve
attimo a Rousseau.
Anche egli parte dalla finzione del contratto sociale, non lo intende
però come una realtà bensí piuttosto come una condizione a priori
perché il potere diventi diritto, in quanto il potere e la legge secondo lui
possono durare soltanto per decisione spontanea e volontaria
dell’individuo. Di qui il problema del contratto sociale appare a Rousseau
come
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l’impegno a trovare una forma di associazione che difenda e sostenga
con tutta la forza sociale la persona e la proprietà di ogni membro
déll’associazione e attraverso la quale ognuno ascolti e obbedisca
soltanto a se stesso, sebbene si sia unito con tutti gli altri, e resti libero
come prima. Non si può quindi dire che il contratto sociale distrugga
l’uguaglianza naturale, piuttosto al contrario esso pone l’uguaglianza
morale e legale in luogo della disuguaglianza fisica. Sulla base di questo
contratto, solo la volontà generale può guidare lo stato secondo il fine
della sua fondazione fine che è il bene di tutti e perciò solo a lei, unica,
indivisibile (e quindi anche non rappresentabile) appartiene il potere
sovrano. Perché il contratto sociale non sia una vuota formula, esso
comprende l’impegno che colui che volesse resistere alla volontà
propria, vi sarà costretto, il che significa che sarà costretto ad essere
libero. Vi è infatti una grande differenza tra volontà di tutti (volonté de
tous) e la volontà generale (volonté générale); la prima pone attenzione
soltanto al vantaggio generale, la seconda all’interesse privato,
costituendo soltanto l’insieme delle volontà singole. Se non vi è garanzia
che la volontà generale sarà davvero la volontà di tutti, è necessario
accontentarsi della semplice maggioranza come espressione della
volontà generale e supporre che la minoranza voleva anche essa
esprimere la volontà generale, ma si è sbagliata; e come garanzia
dell’espressione piú pura di questa volontà è necessario lasciare da un
lato la sovranità al tutto, all’insieme (il che porta cosiddetta democrazia
diretta), dall´altro non permettere la creazione di gruppi di interesse
nella società.
In primo piano nella teoria di Rousseau non sta l´individuo bensí la
società che crea la volontà generale politica. Anche Rousseau parte dai
concetti stereotipici della libertà e dell’uguaglianza individuale, ma
l’uguaglianza è accentuata con maggior forza della libertà ed è anche
intesa in modo diverso. Essa non sta all’inizio ma è piuttosto la
conseguenza, il risultato della società civile. Per natura gli uomini non
sono uguali, diventano uguali soltanto con il diritto e con la legge. A
questa è collegata una ulteriore differenza: il diritto e la legge non sono
nella loro essenza, portata e validità qualche cosa di individuale bensí
qualche cosa di sociale. Rousseau continuerà a condividere l’opinione
individualistica
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che il fine della società sia difendere la persona e la proprietà dei singoli
suoi membri. Perfettamente non individualistica però è la sua idea che la
società (come tutto) è superiore ai singoli, essendo dotata nei loro
confronti di potere coativo.
In tutto questo si possono scorgere punti di contatto con Hobbes. Là
dove Hobbes però costringe la società a rinunciare alla propria sovranità
in favore del governo, che non è responsabile ormai verso nessuno più
ed è quindi assoluto, la società resta in Rousseau portatrice duratura
della sovranità di governo. Ma società significa l’insieme dei cittadini.
Dove Locke conosce l’individuo libero che vive nella società per il proprio
vantaggio personale, Rousseau conosce l’individuo e il cittadino; dove
l’individuo ha rinunciato alla propria libertà per ricevere come compenso
e sostituzione l’uguaglianza civile. Potremmo quindi dire che in Rousseau
la società è data dall’insieme dei cittadini, i quali in questa loro funzione
civile creano la volontà generale. E soltanto con questa riserva,
estremamente significativa per il giudizio delle teorie di Rousseau, si può
dire che la società gli appare una totalità che nasce per somma delle sue
singole parti (a differenza da Locke, che derivava l´unità del «corpo»
sociale direttamente dagli «individui» e non dai «cittadini»). Più
precisamente dovremmo però dire che soltanto a questa condizione si
può giungere dagli individui alla società. E ora comprendiamo
perfettamente quello spostamento di accento che abbiamo constatato
poco sopra: è l´uguaglianza legale degli individui e non già la loro
libertà naturale ciò che costituisce la società. La ragione «matematica»
di Rousseau ha giustamente compreso che si possono sommare soltanto
unità omogenee, ma a differenza della precedente teoria, che scorgeva
tale omogeneità nella uguaglianza dei diritti individuali naturali, ha
postulato l’uguaglianza civile. Affinché l’uguaglianza nella libertà
individuale finisca con la disuguaglianza sociale essa dovrebbe
significare contemporaneamente anche uguaglianza nell´uso di questa
libertà. Contro di ciò Rousseau obietta che nessuno può garantire alla
società che gli individui liberi osservino questo imperativo di
autolimitazione in favore degli altri. La società deve crearsi da sola la
garanzia che esso sarà rispettato con l’assegnare a tutti i membri della
società obblighi in parti uguali.
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Perché questi obblighi siano legalmente validi è indispensabile che tutti li
assumano spontaneamente e volontariamente. Poiché tutti fanno cosí
per propria decisione libera non vi è motivo di temere che questi
obblighi significheranno una coercizione, un danno individuale
immotivato. Ma perché tutti possano agire cosí, essi debbono sentirsi
nella propria decisione come cittadini e non come individui isolati. Il
nostro circolo si chiude.
3. La concezione di Rousseau rinnova radicalmente la concezione della
libertà democratica. E se questa significava prima e significherà ancora
per molto tempo il complesso di diritti individuali verso la società, come
la formula la Dichiarazione rivoluzionaria, in Rousseau essa significa
dovere autonomo, cioè una limitazione che il cittadino pone liberamente
a se stesso, con la quale limita la libertà del proprio movimento, un
impegno che egli prende liberamente con se stesso appunto come
cittadino. In questa concezione la democrazia non è prima di tutto un
diritto bensí un dovere. E questo dovere diventa (e resta) democratico
per essere stato assunto volontariamente. Se non l’individuo ma il
cittadino ritiene che il bene della società richieda un cambiamento di
questi o quegli impegni legali, di queste o quelle organizzazioni sociali e
simili, con uguale libertà egli attuerà tale cambiamento. Abbiamo detto:
se il cittadino, sebbene dovessimo dire: se tutti i cittadini o almeno la
loro maggioranza. Ebbene, un’altra caratteristica della teoria di
Rousseau è che se l’individuo nella società si comporta come cittadino
egli con ciò tende ad esprimere non già la propria volontà bensí quella
generale. Rispetto alla ragione «matematica» e alle premesse che ne
aveva derivato Rousseau, questa conclusione è assolutamente giusta. In
realtà essa è difettosa. L’errore deve essere nelle premesse.
E non è cosí difficile trovarlo: la società appunto non è una somma di
individui, neanche se li cambiamo in cittadini ideali, e non la
raggiungeremo partendo dai singoli bensí dall’insieme, dalla totalità dei
rapporti sociali che legano e collegano variamente i diversi, i singoli
individui. È merito di Rosseau l´aver sottolineato con tanta forza la
generalità (intendi la totalità) della volontà politica; è un suo non minore
merito l’aver messo in evidenza rispetto alle proclamate
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libertà individuali appunto quella generalità; è forse il suo più grande
merito l’aver espresso il senso positivo della «libertà» democratica. Ma è
il suo erróre fondamentale il non essere riuscito - soggiacendo alle
suggestioni della ragione «misurante» - a distaccarsi dal suo atomistico
modo di pensare. La totalità è restata sempre per lui la somma delle
parti. Quando poi Rousseau deve far fronte a delle difficoltà, quando
deve per esempio stabilire la differenza tra la volontà di tutti e la volontà
generale, non può fare altro che «misurare» nuovamente: per mezzo
della media aritmetica. Se secondo Rousseau tutti gli individui
rinunciano alla propria (naturale) libertà, lo fanno nella speranza che la
società (la totalità) non potrà mai danneggiare le parti che la
compongono. Ma queste parti sono individui, e non già cittadini? Di
questi individui allora vale che essi non sono uguali, e rispetto a questa
loro (naturale) disuguaglianza deve necessariamente fallire ogni
tentativo di ridurli in una unità (omogenea). Questa conclusione è
stereotipica: se partiamo dall’individuo, non arriveremo mai alla società.
La realtà sociale non è dominabile per mezzo della ragione «misurante»,
appunto perché non è una realtà misurabile.
Il piú fatale di essi doveva diventare il presupposto che la volontà
generale pasce in parti uguali dal basso e che essa sarà data nel modo
piú preciso quando a tutti i mernbri della società sarà data la possibilità
di esprimerla. Perché valga tale postulato di Rousseau doveva essere
soddisfatta una condizione fondamentale che abbiamo già visto: ogni
individuo dovrebbe essere cittadino nel senso
Da questo errore
fondamentale di Rousseau derivano tutti gli altri.
rousseauia no, ma ciò non significa altro che il consenso sociale
dovrebbe preesistere e che questo consenso nascerebbe per opera di
tutti gli individui in parti uguali. Il consenso politico è infatti
conseguenza del consenso di idee, incorporato nelle singole ideologie. Le
ideologie però e soprattutto le sintesi ideologiche non sono opera della
«moltitudine», bensí di una «élite» cioè di un relativamente
insignificante strato della società. Rousseau potrebbe aver piú p meno
ragione a una condizione: che avessimo davanti a noi totalità sociali
piccole, la cui vita fosse assai poco differenziata, e quindi dominabile col
senplice occhio del cittadino medio. Anche
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se nemmeno qui la sua teoria potrebbe valere senza eccezioni, non
sarebbe almeno contraddittoria. Ebbene appunto tali piccole formazioni
sociali aveva in mente Rousseau.
I seguaci diretti e ancor piú indiretti di Rousseau, non condivisero piú
queste sue opinioni, in compenso accolgono con maggior decisione la
sua dottrina secondo la quale il senso vero della democrazia sta nel
meccanismo elettorale sommatorio, il quale garantisce l’espressione
della infallibile «volontà del popolo». Qui — potremmo già ora
constatare — è uno dei motivi fondamentali di quella che chiamiamo
crisi della democrazia. Ma con questo anticiperemmo di troppo.
Non meno rilevante doveva diventare il secondo errope che deriva dalle
dubbie premesse di Rousseau. Perché l’individuo possa creare la volontà
generale deve prima diventare cittadino. Individuo significa qualcuno
che è legato dai piú diversi, legami, relativi alla sua professione, alle
sue predilezioni, ai suoi rapporti con diversi settori del cosmo sociale;
significa cioè qualche cosa di vivo e di concreto che si ribella a qualsiasi
schema rigido. L’intenzione di Rousseau era piú che giustificata. Egli
intendeva sottolineare la generalità dell’interesse politico, ciò per cui
l’individuo si sente legato alla totalità della società. Poiché tuttavia la
società era ai suoi occhi la astratta somma di astratti cittadini, anche
l’interesse politico doveva per lui mutarsi in qualcosa di ugualmente
astratto. E cosí, riflettendo sui problemi politici, egli era
necessariamente portato a fare di un rapporto diretto non mediato tra
un astratto cittadino e una astratta totalità sociale il presupposto della
loro positiva soluzione. Dovendo decidere delle cose politiche, il cittadino
di Rousseau doveva concentrarsi soltanto su questa totalità, doveva
liberarsi di tutto ciò che concretamente egli era nella società. Dove si
trattava di cose politiche, qui poteva esserci per Rousseau solo il
cittadino da una parte e la società dall’altra, e nulla tra diloro. Ma alla
società appartengono indissolubilmente anche diverse funzioni piú o
meno parziali, cioè tali che la società come totalità ne è interessata
soltanto per certi aspetti; e anzi tali funzioni non sono la relativa
maggioranza e la missione della funzione politica non è forse di
ricondurle tutte in un ordine unitario? Non appena perdiamo di vista
questa circostanza, non appena la società diventa per noi una pura
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astrazione che ha rapporto solo con i propri cittadini, abbiamo
automaticamente tolto al potere sociale tuttó ciò che fa deila società.
4 . Anche qui Rousseau ha delle scusanti. Nella sua socità in miniatura si
può creare mediante l’assemblea, un rapporto diretto tra il cittadino e la
società. Nelle vaste società moderne o dovremo rinunciare alla
democrazia nel senso rousseauiano o saremo costretti a far ricorso al
sistema rappresentativo che Rousseau rifiutava. Non senza coerenza: se
soltanto la totalità dei cittadini crea la volontà generale e soltanto essa
rappresenta adeguatamente la sovranità sociale non si può che rifiutare
qualsiasi delegazione come qualcosa che non coglie pienamente, o
deforma, la volontà genera. D’altra parte anche ragionando in termini e
concetti rousseauiani non sarà impossibile superare teoricamente questa
difficoltà. Il cittadino di Rousseau è un microcosmo sociale nel
macrocosmo, rappresentante dela volontà generale in piccolo, cosí che
sarebbe ammissibile che un solo cittadino rappresenti la volontà della
totalità (Hobbes!), purché egli osservi la condizione fondamentale della
intenzionalità civile. Tanto piú si può pensare che tali rappresentanti
diventeranno i delegati eletti se sia nella loro elezione che nella loro
persona sarà soddisfatta quella condizione. Certo non furono questi i
motivi che portarono al sistema rappresentativo, furono motivi tecnici.
In compenso però quegli errori della concezione rousseauiana che
potrebbero perdersi in piccole società dovevano ora farsi valere in tutta
la loro urgenza e gravità. Teoricamente sono l’uno di fronte all’altra di
nuovo l’individuo-cittadino da una parte e la totalità della società
rappresentata dal potere sovrano, cioè dal governo, dall’altra. Il loro
rapporto è di nuovo diretto come richiedeva Rousseau. L’unico
cambiamento sta nel fatto che i cittadini delegano dalle proprie fila dei
rappresentanti che dànno vita all’assemblea legislativa, cosi che esistono
di nuovo solo due membri: il plenum della società e la rappresentanza
centrale come soggetto del governo. Tra questi due membri non c’è, non
ci può e non ci deve essere alcun membro mediatore. Non soltanto
perché i cittadini nel delegare il governo devono comportarsi appunto
come cittadini, bensí e soprattutto perché è loro vietato comportarsi
diversamente. IntendenPágina 38
do garantire da deformazioni la volontà generale, Rousseau ha vietato ai
singoli individui di far parte di qualsiasi asso clazi9P9 di Interesse che
potesse distrarli dalla richiesta intenzione civile.
Ma per poter intervenire in quell’intreccio di funzioni sociali parziali nel
quale abbiamo visto il suo scopa concreto, la società ha allora un solo
strumento, la rappresentanza centrale (parlamentare), rispettivamente
il governo. E quanto maggiori e quanto più impotente sarà il
parlamento. Forse abbiamo di nuovo anticipato. Ma era necessario
proclamare questo secondo motivo della crisi della democrazia proprio
qui dove è una delle sue radici. Vedremo oltre che non è la sola radice.
Ma non abbiamo ancora finito con gli errori. Poiché la democrazia diretta
richiesta da Rousseau era tecnicamente irrealizzabile e non rimase che
ricorrere al sistema rappresentativo, si mostrò la necessità di creare
degli strumenti (dei centri) che servissero a raccogliere le correnti
politiche nella società. Furono i partiti politici, che nella loro struttura si
assimilarono allo schema fondamentale di Rousseau: anch’essi
dovevano essere guidati dall’intenzione civile, cioè il loro programma
doveva essere un programma politico nel vero senso della parola, un
programma generale;
anch’essi dovevano ricorrere all’intero arco
sociale come base organizzativa; anch’essi non dovevano in
conseguenza di ciò soggiacere ad interessi particolari corporativi. Poiché
però ogni funzione sociale ha un aspetto politico, sia pure in gradazioni
diverse, l’amministrazione sociale di queste funzioni sociali veniva in
definitiva impedita dall’organizznocratica; non rimase altra scelta se non
che i partiti politici assumessero rimase funzione a costo di
compromettere la propria destinazione originaria, cioè quella politica.
Questa è una semplice conseguenza dell’errore precedente; e però
anche una delle cause principali dello cause principali dello stato critico
dei partiti oggi. Abbiamo ancora una volta anticipato, ma per gli stessi
motivi di prima.
Resta la terza ed ultima conseguenza alla quale porta la finzione della
volontà generale. Là dove la società dispone per soltanto
dell’organizzazione parlamentare, che si leva come un’alta cupola al di
sopra della società, da null’altro legata ad essa che da saltuari interventi
diretPágina 39
ti dei cittadini nelle elezioni, non resta che creare per l’esecuzione di
tutti i compiti legati all’amministrazione sociale un organo specifico,
l’amministrazione statale, rappresentata dalla burocrazia. Cosí lo stato
rousseauíano sfocia necessariamente nello stato burocratico, cui
presiede un’organizzazione parlamentare in teoria onnipotente, nella
realtà impotente. Come conclusione, tenteremo di definire le differeze
tra la concezione lockiana e rousseauiana della democrazia e della
società democratica. In Locke che rappresenta qui la tradizione politica
inglese, l’accento primario e principale è sulla libertà individuale che la
società ha il dovere di difendere. In questo senso definiremmo questa
concezione della democrazia come libertaria (forse suonerebbe meglio
«liberalistica», ma il liberalismo è una formazione ideologica e politica
troppo definita perché non sorga il pericolo di incomprensione ideologica
se usassimo questo termine anche per concezioni che, se sono legate
direttamente al liberalismo, se ne distaccano nettamente in alcuni punti
essenziali che vedremo nel prossimo capitolo). Al contrario in Rousseau,
che rappresenta qui la tradizione politica francese, l’accento primario e
principale è sull’uguaglianza sociale. In questo senso definiremmo
questa concezione della democrazia come egalitaria.
Vediamo ora quali conseguenze discendono da queste due diverse
concezioni. Se il punto di partenza dell’attività politica è la libertà in
qualsiasi sua forma, il risultato sarà la molteplicità e multiformità del
movimento individuale; limitato in singoli casi concreti – ricordiamo la
concezione della legge in Locke- più che generalmente normativizzato.
Conseguenza di ciò Sarà un’analoga molteplicita dell’amministrazione
sociale, cioè la sua decentralizzazione. Di viene sia la prevalenza del
diritto consuetudinario in Inghilterra come la ben sviluppata autonomia
quale si concretizza nella istituzione dei giudici di pace nelle contee
provinciali. Al contrario se il punto di partenza è l’uguaglianza sociale, ne
sarà conseguenza un ordine legale univoco accompagnato dà
un’organizzazione amministrativa univoca, centralistica. Di qui vengono
sia la sistematicità del codice legale francese come la burocrazia
francese severamente centralizzata (l’Inghilterra l’avrà soltanto nel
pieno XIX secolo, quando sullo stato si accumuleranno compiti sempre
piú numerosi, cui non si può far fronte senza un apparato
amministrativo stabile spePágina 40
cializzato). Si potrebbe sviluppare oltre questo parallelo dell’empiricità
inglese da un lato e del razionalismo francese dall’altro (con il suo vivo
senso per la sistematicità e la trasparenza logica, ma anche per la
suscettibilità individuale che si sottomette all’ordine solo per decisione
autonoma). Se confrontiamo in questo senso la personalità di Locke con
quella di Rousseau, si mostra forse che ambedue questi stili di vita e stili
politici sono da loro rappresentati con sufficiente proprietà.
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