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Il verismo italiano
Sulla scia del naturalismo francese Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto diedero vita, intorno agli
anni settanta, al movimento verista italiano. Accomunati da stretti legami d’amicizia, essi accompagnarono la loro
attività di scrittori con un’acuta e innovativa riflessione critica e teorica. Riflessione che occupa una parte consistente
della produzione di Capuana, critico di professione, ma che segna, attraverso prefazioni, scambi epistolari, racconti
“manifesto”, anche quella degli altri due.
Il verismo nasce dalla volontà di recepire la lezione del naturalismo, ne accoglie in parte le suggestioni, si propone
espressamente di aderire a un modello europeo di letteratura, da contrapporre ai ritardi e ai provincialismi di quella
nazionale.
Al centro dell’interesse di Verga, Capuana e De Roberto si colloca la rappresentazione della società siciliana della
seconda metà dell’Ottocento nelle sue diverse classi sociali, con tutti i problemi legati alla sopravvivenza di tradizioni
arcaiche e feudali e all’arretratezza economica e culturale (Inchiesta in Sicilia di Franchetti e Sonnino – Questione
meridionale). I veristi rappresentano proprio la tensione e il conflitto fra antico e moderno, tra mondo rurale e
cittadino, tra codici patriarcali e istanze individuali. Tali conflitti sono presenti sia fra un ceto e l’altro che all’interno
dello stesso ceto; è significativo inoltre che Verga avesse progettato, senza peraltro concluderlo, un ciclo romanzesco
che doveva offrire una rappresentazione complessiva di tutte le classi sociali, e che De Roberto, richiamandosi
esplicitamente al ciclo dei Rougon-Macquart, intendesse realizzare un affresco storico-sociale attraverso le vicende di
un gruppo familiare nel corso di più generazioni.
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Diversamente dal naturalismo, che si proponeva di rappresentare una realtà urbana e industriale nelle sue
drammatiche contraddizioni, ma pur sempre in pieno sviluppo, il verismo offre invece l’immagine di un’Italia
“primitiva” e ancora feudale, segnata da un immobilismo sociale con pochissimi fermenti di modernizzazione,
dove la plebe appare rassegnata e priva della minima coscienza dei propri diritti. Ne viene fuori un affresco
connotato da un profondo pessimismo, un mondo non percorso da alcuna speranza riformista né tantomeno
rivoluzionaria. Verga, Capuana e De Roberto, grandi innovatori sul piano letterario, ma conservatori in
politica, non nutrivano alcuna fiducia nel progresso: segnati da un profondo pessimismo sociale ed
esistenziale, essi danno l’immagine di una società condannata ad un destino tragico ed immutabile.
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Tuttavia, proprio questo che sembra essere un limite, risulta in realtà un vantaggio dal punto di vista
dell’assoluta impersonalità: mentre il socialista rivoluzionario Zola, attraverso i suoi personaggi, dà spesso
voce alle sue istanze di cambiamento della società, i Veristi, e Verga in particolare, non hanno alcuna visione
fideistica del progresso da proporre, perciò registrano davvero la realtà cosi com’è.
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Altro aspetto che li differenzia dai naturalisti è il modo di trattare la dimensione interiore ed individuale.
Costante tematica delle opere dei veristi è infatti la passione, vista nelle sue manifestazioni più istintive e
primigenie, dunque incontrollabili. Non credendo però ad una scienza dei sentimenti, ossia alla possibilità di
prevedere, date certe premesse, quanto accadrà ai personaggi in base a certe leggi scientifiche, le passioni
appaiono come un dato di natura fatale, irriducibile alle logiche dell’intelletto. Lo scrittore perciò può
soltanto raccontare impassibilmente gli effetti che i sentimenti producono sui personaggi e sui loro
comportamenti.
La tecnica narrativa.
Tutti e tre gli autori ripudiano gli intrecci complessi e ricchi di colpi di scena; la trama deve essere prevedibile: il
risultato logico di uno svolgimento coerente con le premesse ambientali e il carattere dei personaggi. Ne risulta una
forma di racconto estremamente compatta, concentrata sulla connessione dei fatti e sul loro sviluppo interno, in cui
gli elementi descrittivi sono disseminati e quasi nascosti nella narrazione. I veristi mettono il lettore direttamente in
medias res, lasciandogli il compito di ricostruire i fili della narrazione. Da questo punto di vista potremmo dire che il
vero maestro dei veristi è Flaubert con la sua assoluta impersonalità; e proprio a lui Verga si ispira quando, nella
Prefazione a L’amante di Gramigna, dice che il romanzo “sembra essersi fatto da sé”, cioè che non conserva alcuna
traccia del “peccato originale” della creazione individuale.
La voce narrante non esprime dunque la visione del mondo dell’autore, ma piuttosto una visione interna al mondo
rappresentato, coincidente con il punto di vista dei personaggi e resa attraverso l’uso del discorso indiretto libero.