Fichte, Johann Gottlieb

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Fichte, Johann Gottlieb
Caratteri generali della filosofia di Fichte.
Kant aveva voluto costruire una filosofia del finito, Fichte vuole costruire una filosofia
dell'infinito: dell'infinito che è nell'uomo e che è l'uomo stesso. Kant aveva riconosciuto nell'io
penso il principio supremo di tutta la conoscenza, ma l'io penso è un atto di autodeterminazione
essenziale, che suppone come già data l'esistenza; essa è però un'attività limitata ed il suo limite
è costituito dall'intuizione sensibile. Se l'io è l'unico principio, se alla sua attività è dovuto non
solo il pensiero della realtà oggettiva, ma anche la realtà stessa nel suo contenuto materiale, è
evidente che l'io è, non solo finito, ma infinito. Esso è finito in quanto ad esso si oppone una
realtà esterna, ma è anche infinito in quanto è l'unica sorgente di questa realtà. La sua infinita
attività è il solo principio che possa spiegare la realtà esterna, l'io finito e la loro
contrapposizione. La deduzione di Fichte è metafisica, perché deve far derivare dall'io sia il
soggetto che l'oggetto del conoscere ed è questo il principio supremo del sapere e de esso
Fichte deduce tutto il sapere.
La Dottrina della scienza.
L'ambizione di Fichte è di costruire un sistema che proponga un sapere assoluto e perfetto. Il
principio della Dottrina della scienza è l0io o autocoscienza: l'oggetto è possibile soltanto sotto
la condizione della coscienza o soggetto e questa è tale solo in quanto è coscienza di se
medesima ovvero autocoscienza.
Fichte comincia con lo stabilire tre principi o momenti della sua deduzione. Il primo è ricavato
dalla legge di identità: essa significa che un concetto è uguale a se stesso ed esprime un
rapporto necessario tra soggetto e predicato. Questo rapporto è posto dall'io, ma l'io non può
farlo se non pone prima se stesso, quindi l'io non può affermare nulla senza affermare la
propria esistenza. Di conseguenza il principio supremo non è quello di identità, ma l'io stesso in
quanto esso si pone da sé attraverso una auto-creazione. Applicando il principio della dialettica,
per cui non c'è affermazione senza negazione, Fichte sostiene che l'io sarebbe vuoto ed astratto
se non gli fosse contrapposto un non-io, qualcosa che gli resista. Da ciò deriva il secondo
principio: l'io pone il non-io, ma essendo tale non-io posto dall'io stesso, esso è nell'io,
momento essenziale per far si che la filosofia divenga speculativa. Si giunge cosi ad una terza
situazione che è quella concreta del mondo: un insieme di io finiti che si contrappongono a
oggetti finiti e sono da essi limitati. Nella sua filosofia, Fichte ha voluto mettere in luce che la
natura non è una realtà autonoma, ma qualcosa che esiste come momento dialettico della vita
dell'io. Questo a sua volta è finito ed infinito al tempo stesso, poiché è limitato dal non-io, ma
quest'ultimo esiste solo in relazione all'io e nell'io. L'io infinito non è solo la somma degli io
finiti, ma anche la loro meta ideale; l'io infinito rappresenta un io libero, senza limiti, di
conseguenza tendere all'io infinito significa dire che l'uomo è uno sforzo infinito verso la
libertà. Questo Streben romantico non ha però mai una conclusione, poiché raggiungendo e
superando gli ostacoli, l'io cesserebbe di esistere.
Tutta la Dottrina della scienza è volta a dimostrare che solo muovendo dall'io si riesce a
spiegare l'io stesso e la natura. Se si parte dallo spirito per arrivare alla natura si è in grado di
giustificare sia lo Spirito, come attività libera e creatrice dell'io, sia la natura, la quale diviene
un momento dialettico dello Streben dell'io.
La dottrina della conoscenza e della morale.
Le alternative sulla gnoseologia che si presentano a Fichte sono due: Idealismo e Dogmatismo;
il primo muove dall'io per spiegare la realtà, il secondo acquisisce come dato la natura e da essa
muove per spiegare lo spirito. Chiaramente Fichte non può che dichiararsi realista ed idealista:
realista perché alla base della conoscenza ammette un'azione del non-io sull'io, idealista perché
ritiene che il non-io sia, a propria volta, un prodotto dell'io. Il non-io non va però inteso come
una parvenza ingannatrice, ma una realtà di fronte a cui si trova ogni io empirico. La
riappropriazione del non-io da parte del soggetto avviene attraverso una serie di gradi della
conoscenza, mediante i quali si interiorizza l'oggetto che si rivela opera del soggetto.
L'attività dell'io sul non-io costituisce l'azione morale e lo sforzo che tende a ricondurre
l'oggetto alla pura attività dell'io è l'attività morale. Fichte riconosce così nell'esigenza morale il
vero significato dell'infinità dell'io: l'io pone oggetti perché senza di essi la sua libertà infinita
non sarebbe possibile. Con l'attività morale l'io supera ogni limite che gli impedisce di essere se
stesso; se l'io rinunciasse alla lotta e si adeguasse al non-io, sarebbe determinato dalla natura e
rinnegherebbe la sua essenza
Fichte si propone anche di dedurre l'esistenza degli altri io e di stabilirne il rapporto. Delle cose
ci si può servire, ma da esse non derivano sollecitazioni, invece queste mi possono venire solo
da esseri fuori di me, da altre intelligenze. Ne scaturisce però un altro limite: la propria
tendenza all'indipendenza non può negare la libertà altrui. La reciprocità d'azione, attraverso la
quale si realizza la libertà la libertà degli individui, può esistere solo in una comunità etica o
chiesa, come l'accordo sul modo di poter agire può realizzarsi solo con un contratto sociale o
stato. Fichte ammette, oltre alla chiesa ed allo stato, anche una comunità di dotti, caratterizzata
dall'assoluta libertà di comunicare il proprio pensiero. Questi dotti sono poi coloro che guidano
il progresso della società, il cui fine è la realizzazione della perfezione morale.
Secondo Fichte quindi l'attività teoretica fa conoscere all'uomo l'ostacolo che lo limita e gli
mostra il compito che lo attende: vincere l'opposizione e subordinare tutto ciò che limita la
propria libertà. Tale conoscenza ha però come fine l'attività pratica, che è attività morale perché
è affermazione della propria libertà, quindi Fichte parla giustamente di primato della ragion
pratica; discorso ben diverso da quello kantiano che vedeva un'esaltazione dell'attività pratica
perché vista come mezzo per abbracciare la metafisica.
Filosofia politica.
Fichte scorge il fine ultimo della vita comunitaria nella "società perfetta", intesa come insieme
di esseri liberi e considera lo Stato come un semplice mezzo, finalizzato al proprio
annientamento. Sebbene Fichte riconosca che ciò rappresenta più un auspicabile ideale-limite,
egli ritiene che lo Stato non possa fare a meno di proporselo come obiettivo. Egli fa dello Stato
il garante del diritto, che vale anche senza la buona volontà: concerne infatti solo le
manifestazioni esterne della libertà nel mondo, cioè le azioni ed implica perciò una costrizione
esterna. La persona non può però agire se non è libera e così Fichte individua tre diritti
originari e naturali: la libertà, la proprietà e la conservazione. Questi diritti non possono
essergli garantiti se non da una forza superiore, cioè lo Stato, esso dunque non elimina il diritto
naturale, ma lo realizza, tanto che Fichte accetta il diritto di fare rivoluzione, se motivato dal
fatto che uno Stato o un patto sociale non educa alla libertà. La condizione fondamentale di uno
stato è la formazione di una volontà generale nella quale siano unificate le volontà delle singole
persone e ciò accade proprio attraverso il contratto politico, che necessariamente deve dare dei
poteri allo Stato stesso per mandare ad effetto le leggi stabilite. Lo Stato deve anche rendere
impossibile la povertà, garantendo lavoro e benessere, pervenendo ad una forma si statalismo
socialistico ed autarchico; per fare questo esso ha il compito di sorvegliare l'intera produzione e
distribuzione dei beni. Per svolgere il suo compito in tutta libertà lo Stato deve organizzarsi
come un tutto chiuso, sostituendo l'economia liberale con un'economia pianificata e con
l'isolamento degli stati. Tale chiusura commerciale risulta possibile quando lo Stato ha, nei suoi
confini, tutto ciò che occorre; là ove questo manchi lo Stato può assumere il monopolio del
commercio estero. L'unica "merce" che ha la possibilità di muoversi senza essere sottoposta
allo Stato è la comunicazione culturale, intellettuale ed artistica.
Il tema fondamentale dei Discorsi di Fichte è l'educazione della maggioranza del popolo, anche
se solo il popolo tedesco risulta adatto a promuovere la nuova pedagogia, in virtù di ciò che
egli chiama il carattere fondamentale e che identifica nella lingua. Per questo i tedeschi sono
l'incarnazione di un popolo rimasto integro e puro e sono gli unici a potersi considerare un
popolo ed ad avere una patria. Rimane però il grande problema pedagogico dell'educazione dei
giovani: se un popolo è corrotto come può sperare di creare uomini migliori? La soluzione è
radicale: il bambino va sottratto ai genitori e va istruito in una sede diversa dalla società.
Seconda fase della filosofia di Fichte.
Gradualmente Fichte si evolve verso una sempre maggiore considerazione della vita religiosa e
torna a rielaborare la dottrina della scienza al fine di risolvere il problema del rapporto finitoinfinito. Se il finito si identifica con l'infinito, non necessariamente è vero il contrario: se
l'uomo è in qualche modo partecipe della divinità ed è in qualche misura la stessa divinità, ciò
non significa che essa si esaurisca nell'uomo. Nella prima fase, questa filosofia è una dottrina
dell'infinito nell'uomo, nella seconda, è una dottrina dell'infinito fuori dell'uomo. Fichte parte
dal presupposto che il sapere umano non è l'Assoluto, poiché questo è saldo e completo; il
mondo viene invece collegato con il sapere, anche se ne rappresenta solo una copia.
In una delle successive elaborazioni, l'essere è identificato con Dio, poiché è uno, immutabile
ed indivisibile, mentre il sapere non è Dio ed è fuori di Esso. Poiché però l'essere divino è tutto
in tutto, il sapere è l'essere di Dio, fuori di Dio cioè l'esteriorizzazione di Dio, esso è la Sua
immagine o schema.
Confronti.
Secondo Kant l'io penso è funzione soggettiva trascendentale, cioè individuale ma eguale in
ciascun uomo, secondo Fichte l'io trascendentale è Spirito unico, immanente nei singoli, libero
creatore della realtà. Secondo Kant l'io penso si differenzia dal soggetto empirico, pur essendo
una funzione di ciascuno; secondo Fichte l'io trascendentale si differenzia dall'io empirico
proprio di ogni uomo, pur essendo immanente in ciascuno. Le forme pure, secondo Kant, sono
le attività soggettivo-trascendentali che rendono possibile la conoscenza; secondo Fichte, sono
le leggi reali attraverso le quali l'io trascendentale si attua dialetticamente. Kant ammette un
elemento soggettivo (le forme a priori) ed un elemento extrasoggettivo (la natura da cui deriva
il contenuto della sintesi); Fichte invece deduce, tanto l'io quanto il non-io, da un principio
unico, dall'io trascendentale. Kant ammette la distinzione di fenomeno e di noumeno; Fichte
supera tale distinzione riducendo a fenomeno il noumeno perché anche questo è prodotto dall'io
trascendentale. Kant e Fichte parlano di primato della ragion pratica: secondo Kant, la morale è
superiore alla conoscenza perché solo la prima permette all'uomo di abbracciare la metafisica;
secondo Fichte invece l'attività conoscitiva è subordinata a quella pratica: la conoscenza infatti
è il fondamento ed il mezzo per l'attuazione della morale. Nell'attività morale, secondo Kant, è
determinata soltanto la forma (imperativo categorico), mentre il contenuto rimane
indeterminato; secondo Fichte invece è determinato anche il contenuto perché è detto ciò che si
deve fare (superare il non-io).
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