L’Unità, 17 Aprile 2004
Vedere in faccia il boia. Come Antigone.
Tiezzi ha messo in scena un Brecht emozionante. E la guerra è un
macello senza risposte.
PRATO. Sorprendentemente, in modo addirittura scioccante, Antigone di
Sofocle di Bertolt Brecht è di noi, del nostro accidentato e pericoloso presente
che parla. E di tutte le guerre spesso disastrose del mondo intraprese con
smemorata baldanza per affermare il proprio potere, che costringono gli esseri
a trasformarsi in macellai, in eroi loro malgrado o in disertori; di una ribellione
individuale in nome delle leggi della “tribù”, della famiglia contro la legge
impersonale, spesso ambigua, dello Stato. Ma la vicenda della giovane figlia di
Edipo, che si mette contro Tebe in nome di una legge dettata dal sentimento
per poter dare sepoltura a un suo fratello che ha combattuto contro la città,
diventa, nel testo che Brecht scrisse nel 1947, quasi un’anarchica chiusa nella
sua individuale follia, prima vittima del destino di morte che si accompagna alla
sua stirpe. Lo spettacolo teso e coinvolgente di Federico Tiezzi, in scena al
Teatro Metastasio di Prato e coprodotto dalla Compagnia Lombardi Tiezzi, da
Emilia Romagna Teatro e dal metastasio, accentua e dilata il messaggio
brechtiano e lo rende percepibile qui e ora, in tutta la sua commovente
delusione generazionale, ma anche con tutta la forza di una domanda che non
ammette dilazioni.
Così Antigone secondo Brecht nella nuova, pregnante traduzione di Cesare
Mazzonis si snoda fra rimandi che ci spiazzano per la loro attualità: primo fra
tutti il momento in cui la ragazza, in fiammeggiante tuta rossa e con le catene
ai piedi, si avvia al sacrificio al quale la città l’ha condannata, cercando di
togliersi il cappuccio nero che le impedisce di guardare negli occhi i suoi
carnefici proprio come leggiamo in tante cronache di guerra di oggi. Del resto
lungo tutto lo spettacolo, costruito in crescendo, serpeggia la madre di tutte le
domande che percorre questo testo di cui il mitico Living Theatre firmò
un’indimenticabile edizione negli anni Sessanta: chi ha ragione fra il senso
dello Stato e del potere di Creonte e il diritto alla pietà individuale di Antigone?
La risposta, che in Sofocle era scontata, in Brecht, che presenta con scioccante
chiarezza i punti di vista, non lo è affatto. Anche questo è un segno della
modernità scomoda di quest’autore, un sasso gettato nella morta gora del
conformismo. Lo evidenzia chiaramente quella specie di secondo finale (in
realtà un nuovo prologo scritto dall’autore nel 1951), detto dall’indovino Tiresia
che ci invita a pesare bene le due ipotesi e a paragonare le cose viste a teatro
a qualcosa che ci riguarda da vicino.
Al suo secondo incontro con Brecht dopo Nella giungla delle città del 1997,
Federico Tiezzi ha costruito uno spettacolo in cui, rinnegando i segni di
un’antichità fuorviante, ci consegna l’immagine di una città di morti viventi, di
un’umanità da obitorio, mai del tutto nascosta dal siparietto brechtiano (scene
di Francesco Calcagnini) a mezza altezza di plastica la cui apertura e chiusura
scandisce i diversi momenti dell’azione. Luci gelide, lettini su cui stanno
sdraiati cadaveri; una colonna sonora che mescola brani classici alla mitica
Marlene; un coro iettatorio di vecchi che aspettano la morte capitanato dalla
feroce determinazione di Marion d’Amburgo e di Silvio Castiglioni, simile a un
gruppo di corvi neri che gracchiano oscuri presagi. Come ogni teatrante degno
di questo nome anche Tiezzi “scrive” in scena un suo testo personale fin
dall’inizio, che vede le sorelle Antigone e Ismene vestite di nero confrontarsi
con una gestualità da teatro orientale che cerca le sue radici nella rittura della
tradizione classica, grazie al movimento sincopato di un teatro che parla con il
corpo oltre che con la parola, le voci giocate sulla distanziazione o sul
sentimento e l’invenzione di fare raccontare la morale della storia a due donne
delle pulizie (Marion d’Amburgo e Lucia Ragni) intente al loro lavoro: un
intenso fotogramma che ricorda il grande Kantor.
Notevole la prova degli attori a partire da Sandro Lombardi, un Creonte
autorevole e pericoloso proprio perché umano e dunque vittima anche lui.
Chiara Muti forse alla prova più importante della sua carriera è un’ Antigone
trepida e determinata con una sua consapevole dolcezza che si scioglie nel
momento dell’accettazione del sacrificio in un canto quasi da Ofelia. Ismene, la
sorella, è la brava Debora Zuin, forse la puiù brechtiana di tutti. E
sorprendente è il Tiresia biancovestito, dalla faccia gessosa di Giampiero Cicciò
mentre Massimiliano Speziali scandisce con sicurezza gli intermezzi cantati e il
racconto di ciò che succede. Da vedere.
Maria Grazia Gregori
La Nazione, 17 aprile 2004
Nella luce fredda di Antigone emozioni e fuochi di attori
PRATO. A Federico Tiezzi interessa molto l’uso poetico che Bertolt Brecht ha
fatto del teatro. In forma lirica ed espressionista, negli anni giovanili; ma
anche quando, finita la guerra e l’esilio, si mise al lavoro con gli attori del
Berliner Ensemble.
Nel 1948, prima di stabilirsi a Berlino Est, il poeta-regista Brecht allestì in
Svizzera una sua riscrittura dell’ “Antigone” di Sofocle: la figlia di Edipo, eroina
della pietà ma anche dell’intolleranza ribelle che sfida il re di Tebe Creonte
pretendendo la sepoltura per il fratello Polinice, nei secoli del teatro
eternamente resuscitata con sempre nuove interpretazioni.
Lo sguardo laico di Brecht si ferma sulle contraddizioni della legge e del potere,
oltre che sui guasti della guerra camuffati da ideologie. Ma Tiezzi, che da
ragazzo è stato folgorato dall’Antigone anarchica e corporale del Living di
Julian Beck, prova a tirare insieme con questo suo nuovo spettacolo il filo lirico
e quello più marcatamente teatrale. Partendo dal testo basato da Brecht sulla
versione ottocentesca, oscuramente romantica e visionaria, di Hölderlin: un po’
poesia, un po’ musica, che la sensibile traduzione di Cesare Mazzonis ha qui
cercato di echeggiare. Ma bilanciando anche, il regista, tutto l’invasamento con
il contrappeso di una razionalità che domina nello spettacolo fresco di debutto
al Metastasio. Dove prevale un’aria fredda da dramma didattico di quelli a
bacchetta, con scene spezzate dal buio per straniare e movimenti rigidi in
sincronia. Aria fredda e luce fredda, a illuminare una morgue-ospedale con
cadaveri sotto i lenzuoli pronti a rizzarsi come coro dei vecchi di Tebe, mentre
l’analisi del testo corrisponde a una simbolica dissezione. Eppure, dentro un
clima più brechtiano di quello in cui Brecht stesso calava le sue regie, sono
proprio le contraddizioni di colore a rendere vitale la dialettica di Tiezzi. A
cominciare da quelle espresse dagli attori. Chiara Muti, ad esempio, rompe
ogni rigidità di ragionamento già con la bella concentrazione passionale della
sua faccia naturalmente tragica. Che in scena calamita emozioni mentre
districa nodi affettivi antichi e di sangue, eseguendo tra l’altro con nitore
l’armonia dei versi (toccante il suo monologo di congedo, prima di consegnarsi
alle guardie). Poi c’è Sandro Lombardi, da tempo punto di riferimento capitale
per questa idea di scena: Un Creonte sospeso su un tutto, anatomista del
potere ambiguo già nella voce magistralmente deformata, che sembra additare
ironicamente la sintomatica doppiezza di Brecht rispetto al socialismo reale. Ma
c’è anche la scelta di un Tiresia grottesco, espressionista (Giampiero Cicciò), e
quella di mettere nel coro il guizzo di alcuni attori di carattere (Ragni,
D’Amburgo, Speziani), con la Brava Debora Zuin come Ismene.
Sergio Colomba
Il Manifesto, 18 aprile 2004
Creonte, signore dei morti viventi
PRATO. L’Antigone riscritta da Bertolt Brecht nel 1948 non è molto diversa
dall’omonima tragedia di Sofocle. Anzi, Antigone di Sofocle volle intitolarla
allora, lo scrittore di drammi, quasi a rimarcare con intenzione la diretta
derivazione dall’antica tragedia greca – anche se in realtà la fonte letteraria è
la traduzione che ne fece Hölderlin, tanto estrema e letterale da essere
riprovata dai benpensanti dell’epoca che videro in essa il germe della follia del
grande poeta romantico. E tuttavia la distanza c’è e a misurarla non è solo il
richiamo del prologo all’attualità della guerra nazista, il dialogo lancinante fra
due sorelle chiuse in casa mentre fuori il fratello viene scannato. E’ che Sofocle
inscena lo scontro fra due ragioni profonde, nel che appunto consiste il
pensiero della tragedia. Quello brechtiano è invece dramma senza tragedia.
Qui la linea che separa ragioni e torti è netta, per Brecht come per lo
spettatore da lui convocato si tratta di guardare ai fatti e trarne le
conseguenze. Da un lato un potere cieco, quello di Creonte, che ha trascinato
la città in una guerra di conquista. Dall’altro la ragazza Antigone, la figlia di
Edipo, che rivendica il dovere di dare sepoltura al fratello ucciso per essersi
rifiutato di combattere quella guerra.
Proprio questa evidenza aveva guidato il Living Theatre di Julian Beck e Judith
Malina, quando negli anni sessanta da questo testo avevano tratto forse lo
spettacolo simbolo della loro storia e di un intero movimento artistico, laddove
il rinnovamento del linguaggio teatrale si coniugava alle istanze etiche e
politiche, in accordo con la scelta pacifista del collettivo americano. Giacchè
non c’erano dubbi sulla posizione di Antigone negli anni del Vietnam. Un’altra
guerra americana, se possibile ancora più inutile e stupida di quella, pesa sulle
coscienze oggi che Federico Tiezzi firma del dramma la nuova assai bella
messinscena prodotta insieme a Ert e Teatro Metastasio. E un omaggio ai cari
maestri potrebbero volentieri sembrare quegli iniziali tableaux vivants che
scandiscono il duetto spezzato delle due giovani donne, intorno al coltello
piantato su un pezzo di pane, a terra, che già ambiguamente si apre a una
duplice lettura, fra gesto quotidiano e rivolta armata.
Quegli anni non ancora di piombo e quello spettacolo sono però lontani.
Diversissimo è già l’impatto visivo, al sollevarsi del sipario di plastica che isola
l’interno della scena disegnata da Francesco Calcagnini. Tre pareti, alte grigie
senza finestre, racchiudono quel che visibilmente è un obitorio, con le file dei
lettini schierate sotto le grandi lampade al neon, i corpi distesi lì sopra coperti
dai lenzuoli. Molto teatrale, si direbbe da stabile tedesco. Ma questo spazio
forma come un’isola intorno al palcoscenico, dai lati si vede quel che si muove
“dietro le quinte”. La finzione è dichiarata due volte.
Comincia con la secchezza di un dramma didattico l’Antigone di Tiezzi. Le due
sorelle, Chiara Muti e Debora Zuin, disputano intorno al corpo del fratello
disteso a terra, se bisogna violare la legge che ne ha vietato la sepoltura, per
dare un esempio ai latenti oppositori. Quasi maschile Antigone, stretta in un
giubbino di pelle, se non fosse che quella posa da ragazzo è contraddetta
dall’emotività della parola. Mentre i corpi si sollevano da sotto i lenzuoli, come
morti viventi, lasciando intuire il vero significato di questa cerimoniale
autopsia. E Creonte entra invece in scena su una sorta di trabattello,
un’impalcatura mobile di tubi metallici su cui sta eretto, regale, avvolto in un
mantello che gli crea addosso un rigido guscio, maschera impenetrabile di un
potere inaccessibile. Come già il Living, Tiezzi ingloba nel testo le didascalie
scritte da Brecht per il proprio quaderno di regia, le usa come siparietti per
spezzare e raffreddare l’azione, anticipandone il contenuto. Perfettamente
brechtiano. Il dramma si dipana lungo il filo della sua lucida logica
dimostrativa, reso fin troppo contemporaneo da particolari tremendamente
familiari. La tuta color arancio dei prigionieri, quasi allegra, a non vedere le
catene ai piedi. Il cappuccio infilato sulla testa della condannata condotta a
morire.
E invece no. Tiezzi tradisce Brecht, nel momento in cui sembra aderirgli, non
meno di quanto Brecht aveva tradito Sofocle. Lo fa senza bisogno di cambiare
una parola del testo, tradotto da Cesare Mazzonis. Bastano i corpi degli attori,
quello di Sandro Lombardi prima di tutti. Giacchè tutto lo spettacolo non è che
un lento slittamento che accompagna il percorso umano di Creonte, verso la
conoscenza. E’ lui infatti l’unica figura in divenire, l’unica capace di riacquistare
un dimensione tragica. Antigone resta chiusa nel suo fanatico assolutismo,
dove la pietà per i morti è troppo legata alla difesa degli ancestrali valori
privati contro quelli collettivi per non destare qualche sospetto, magari ci
regalasse davvero un elogio del disertore, e la sorella Ismene è quasi
cancellata da Brecht, lei che potrebbe essere la sintesi di un laico sentimento di
fratellanza. Tocca a Creonte confrontarsi con il coro dei vecchi cittadini di Tebe
(fra gli altri Lucia Ragni, Silvio Castiglioni, Marion D’Amburgo) come le
preoccupazioni di sopravvivenza dl guardiano (Massimiliano Speziani), fino
all’incontro con il derisorio Tiresia di Giampiero Cicciò che conclude la vicend in
maschera alla luce di una gelida visionarietà.
Lo sguardo del Tiresia contemporaneo non è rivolto al futuro ma al presente. E
il presente che ci racconta è dannatamente vicino a quello che viviamo, con la
guerra di conquista frettolosamente dichiarata vinta e sul punto di trasformarsi
in una sconfitta storica, il cresce del numero dei morti, la pubblica opinione che
scopre di essere stata ingannata. Manca alla storia attuale proprio Creonte,
manca la dimensione tragica del potere. Al suo posto siedono oggi dei
miserabili personaggi da operetta. Avercelo ricordato non è l’ultimo dei meriti
di questo spettacolo.
Gianni Manzella
La Repubblica, 18 aprile 2004
Antigone, il gesto ribelle che rievoca tutte le guerre.
Partito dalla memoria di un incontro adolescenziale rivelatore, quello con la
rappresentazione che il Living Theatre diede alla fine degli anni ’60 all’Antigone
sofoclea riscritta da Brecht adattando i tempi alla seconda guerra mondiale la
traduzione di Hölderlin, lo spettacolo di Federico Tiezzi matura inedite
suggestioni e una diversa visione scenica. Il mirabile spettacolo di Beck e della
Malina puntava sull’emozione nata dall’espressività dei corpi e dalla trasfusione
della parola in una fisicità coinvolgente in cui era nitido il riferimento al
Vietnam di quei giorni. Anche oggi nella parte conclusiva si sente il richiamo a
invasioni recenti, del resto già intuibile dalla cruda impostazione scenica: un
obitorio coi cadaveri coperti da lenzuoli nei letti bianchi, poi usati come oggetti
risonanti tra i metallici pali della scena tecnologica di Francesco Calcagnini
dove plastici sipari grigi isolano la parte centrale con frequenti chiusure a ogni
quadro.
Si rompono così i tempi, raffreddando la drammaticità, mentre svaria il
linguaggio, dall’accentuazione un po’ meccanica delle rime sottolineate nel
prologo della lucida traduzione di Cesare Mazzonis al librarsi nel canto
dell’Antigone ribelle di Chiara Muti, che supera in questi momenti una
debolezza un po’ formalistica. A lei si contrappone un eccesso retorico nel
compiacimento per la propria violenza tirannica da parte del Creonte di Sandro
Lombardi, che recupera il suo standard espressivo nel tragico finale, quando
l’azione finalmente esplode nel grido di rabbia delle vittime contro la tirannia. Il
limite dello spettacolo, come in recenti prove di Tiezzi, sta nello squilibrio tra
l’originalità velata d’intellettualismo dell’impostazione generale e la resa degli
attori, a volte abbandonati ai loro cliché. Ma spiccano alcune figure: su tutte il
bianchissimo Tiresia ermafrodito di Giampiero Cicciò e il messaggero
acutamente personalizzato di Massimiliano Speziani, ma anche il disperato
maledicente Fabio Mascagni del finale e, nel coro, nerovestito – in questo
spettacolo che predilige il grigio e il bianco – le due figure femminili di Marion
D’Amburgo e Lucia Ragni, quando si trasformano in serve da ospedale per dire
le loro verità e il quadro ritrova l’immediatezza comunicativa.
Franco Quadri
Il Sole 24 Ore, 18 aprile 2004
Brecht nella Tebe dei morti viventi.
All’apparenza, l’Antigone di Sofocle nella riscrittura “epica” di Brecht – che
risale al ’48, l’anno del rientro dall’esilio, e apre un percorso di rielaborazione
dei classici – non sembra differire troppo dall’originale: tolto il prologo, che ne
precipita brutalmente i fatti tra le violenze e i lutti della Germania nazista,
l’unica vera aggiunta è nel finale, in cui Creonte viene messo in ginocchio,
proprio mentre festeggia la vittoria, dal rovinoso esito della guerra di rapina in
tentata per questioni di miniere contro Argo, chiara metafora dell’Unione
Sovietica.
A determinare la distanza rispetto alla tragedia antica – a parte il prevedibile
intento di fare della protagonista una sorta di eroina della resistenza, seppur
tardivamente consapevole – e soprattutto il tono, destituito di ogni sacralità,
improntato a una sferzante lucidità dimostrativa. In questa versione, mutata
dall’accesa traduzione di Hölderlin, la Tebe di Brecht è una città dominata da
ferrei rapporti di classe, dove non pesa il Fato, ma le scelte politiche e
l’opposizione alla guerra non nasce tanto da un generico pacifismo, quanto
dalla denuncia degli spietati interessi economici che la motivano.
Ma è proprio scontato che una trasposizione ideata per risultare “attuale” dopo
la caduta del Reich continui di per sé ad apparirci tale anche oggi? Le cose in
realtà non stanno del tutto così: e infatti Federico Tiezzi, nel riproporre il testo
quasi quarant’anni dopo il celeberrimo allestimento del Living Theatre, può
cercare di ottenere l’effetto voluto, cioè di indurre lo spettatore ad una presa di
coscienza critica, solo utilizzando Brecht per superare Brecht, per tornare
attraverso di lui a Hölderlin e Sofocle, senza troppo preoccuparsi di una
recitazione “straniata” o di una dialettica ideologica che s’imponga sull’urgenza
delle emozioni.
Nello spettacolo allestito dal Teatro Metastasio di prato c’è un mezzo sipario
trasparente che lascia brechtianamente intravedere i macchinisti al lavoro nei
cambi di scena, ci sono i personaggi che enunciano le didascalie in cui vengono
anticipate le azioni successive, e Antigone si rivolge direttamente al pubblico
chiedendone il sostegno: ma lei, più che un modello di comportamenti sociali,
sembra incarnare un bruciante idealismo, e Creonte non è la caricatura di
Hitler, ma l’esponente di un’assai più sfumata e in fondo “laica” ragion di Stato.
Nel gelido obitorio in cui è calata la vicenda, l’invenzione più efficace di Tiezzi è
il coro degli anziani, trasformati in cadaveri viventi ridestati dai comandi di
Creonte. E’ un coro ambiguo, più complice che testimone delle malefatte del
tiranno, pronto sia a incoraggiarne gli atti sanguinari per trarne dei vantaggi,
che a prendere subdolamente le distanze quando l’impresa volge al peggio.
Non solo per le maschere animalesche che indossano nelle danze rituali, le sue
figure richiamano degli uccellacci malevoli e dei cani ringhiosi: e quando
Antigone va a morire, l’accompagnano battendo feroci colpi nei loro letti
metallici.
Sul versante interpretativo, è interessante la personalissima via all’ “eticità” di
Sandro Lombardi, un Creonte raziocinante e insieme un po’ sfuggente, tutto
penombre e doppifondi. Nell’Antigone di Chiara Muti – in tuta arancione da
prigioniera americana – il sentimentalismo tende a prevalere sulla passione;
più tagliente e perentoria l’Ismene della giovane Debora Zuin. Ma a spiccare
soprattutto è l’inquietante Tiresia in carriola di Giampiero Cicciò, bianca
creatura ermafrodita issata su grotteschi costumi, stridula visionaria,
perfidamente brechtiana.
Renato Palazzi
Corriere della Sera, 21 aprile 2004
Nel lugubre salotto dell’”Antigone” di Tiezzi
Qual è il modesto piacere di un cronista di teatro? E’ di saperne una più del
diavolo. Ma Federico Tiezzi è un regista che questo piacere te lo ruba: con
genuina perversione, con gusto, scientificamente. Quando fa uno spettacolo
Tiezzi ha tutto esplorato, ha tutto riversato sulla scena. E non solo: gli avanzi,
la materia che non è venuta alla luce, li elabora in qualche intervista. Così, la
sua Antigone di Brecht risulta un vademecum. E’ la sua memoria infantile
dell’Antigone del Living.
Non è, si intende, un’inutile ripetizione di quel fulgido spettacolo. E’
un’allusione alla guerra imperialista (Tebe aggredisce Argo per via delle
miniere). Non è una strizzata d’occhio al presente, sarebbe troppo facile,
sarebbe volgare. E’ uno spettacolo didattico: perché, dice Tiezzi, “per certi
versi sono diventato un razionalista storico”.
E’ tuttavia un’allusione al Brecht che il regista predilige, quello giovanile:
dunque, uno spettacolo pieno di malinconia. Mi limito ad osservare che, non
essendo un fanatico del teatro come divertimento, se uno spettacolo è
ambientato in un obitorio, il mio naturale istinto è di distrarmi, tendo a farmi i
fatti miei. Perché Tiezzi ha sentito questa urgenza di ambientare la sua
Antigone in un così lugubre luogo? Perché gli abitanti di Tebe sono tutti morti,
o è come se già lo fossero. A chi Tiezzi alludesse, o se semplicemente alludeva,
non saprei dire. Constato che l’obitorio è diventato nell’immaginario
contemporaneo un luogo mondano, dove si fa conversazione, si fa della
filosofia, ci si mostra (un poco), si vede quello che è in voga e quello che non
lo è. Non vi accorgete? Quest’anno si portano il bianco e il nero, come i
giapponesi! Ed è così, in questo ambiente splatter che Creonte, a causa della
dolcezza e bravura di Sandro Lombardi, rischia di sembrare il personaggio più
umano. E’ che Lombardi non dà scampo a nessuna sillaba del suo dettato: e
poiché ogni sillaba ha una specifica intonazione, egli rischia di fare musica, di
lasciare che il suon prevalga sul significato. Ma non era questo che Tiezzi
voleva, un tiranno carico di psiche e tuttavia formalistico?
In quanto a Chiara Muti, che è Antigone, la sua recitazione è tutta di testa.
Pietà sì, ma con misura! Ella avanza vacillando. Vacilla nel suo dolore. Cade a
terra. Sembra un’attrice di quando ero ragazzo, Elena Zareschi. (Il teatro a
quell’epoca lo odiavo. Non piaceva neppure a Tiezzi. Almeno non gli piaceva
quel tipo di teatro). Ma Chiara è come Tiezzi la vuole e si rialza. Viene verso di
noi. Ci apostrofa. Alza il braccio destro. Punta l’indice. Tende il collo, come un
uccellino nello sforzo supremo, di fronte all’arroganza della natura. Chiara è la
nostra coscienza. Brecht non so. Brecht non lo capisco. A volte mi è simpatico.
A volte mi sembra un guardiano d’ossa. Egli aiuta i registi come Tiezzi ad
essere più fedeli a sé di quanto essi stessi vorrebbero.
Franco Cordelli
Avvenire, sabato 24 aprile 2004
Oltre il crollo delle ideologia con “Antigone”.
Spiace avere solo sessanta (ora 59) righe per parlare di questa Antigone di
Sofocle di B. Brecht, o meglio: di questa Antigone di Sofocle di Brecht di
Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, da noi ammirata e invidiata a Modena,
Teatro Storchi. Ci vorrebbe una pagina solo per il bastone che LombardiCreonte regge al suo ingresso, e una solo per i lavandini su un lato della
splendida installazione scenografica (la sala di un obitorio ricavato da un
vecchio palazzo signorile) che restringe la scena, così da rendere visibile –
brechtianamente- il fuoriscena, ma solo per trasformare anch’esso –
tiezzianamente - in scena. Perché se il teatro ha da parlare del mondo, allora è
il mondo che deve farsi teatro: anche quella parte di mondo che finge di non
essere teatro.
E’ Creonte a patire il crollo inevitabile, metatemporale, dell’idealismo – che,
nella versione brechtiana, s’incarna nella classica forma dello stato tedesco,
codificata dai Prussiani ben prima delle follie hitleriane. Lo Stato divino!, cui
Antigone (una convincente Chiara Muti) – contrappone, nel segno della
correzione marxista, uno stato “umano”. Il tradimento di Brecht nei confronti
di Sofocle, di cui ricalca tutto l’essenziale della vicenda, sta in fondo qui, nella
contrapposizione tra due esperienze politiche: l’una (Creonte) che pretende
reinventarsi come vera natura delle cose, come superiorità dello spirito di cui la
natura è soltanto conseguenza, e che perciò non può concepire frattura alcuna
tra leggi dello Stato e leggi del Cuore (in quanto lo Stato è anche il cuore);
l’altra (Antigone), che rivendica (marxianamente) al pensiero e all’azione
politica una funzione di servizio nei confronti dell’uomo e della storia.
Ma è la storia, quella scritta dopo Brecht, a darci la lettura che Tiezzi e
Lombardi raccolgono, qui. E la storia ci dice che Creonte ha eliminato Antigone
per sempre, che Antigone è morta, ma che ora senza di lei anche lui è
destinato al lentissimo, inesorabile suicidio. Convinto della vittoria, infatti,
Creonte attacca Argo, la nemica, e la distrugge, ma ora gli argivi tornano e,
presto o tardi, sarà la sua Tebe a soccombere per sempre. Eppure, nonostante
la presenza presente e pulsante dell’oggi nello spettacolo, non c’è mai
l’impressione
del
“riferimento”,
del
“rimando”,
né
tantomeno
dell’ammiccamento: che svilisce la storia in cronaca e l’arte in ideologia.
Non si parla del presente schiacciandosi sul presente, rincorrendolo: se è
rincorso, non è più presente. Brecht disse che nel suo (nostro) tempo “parlare
d’alberi è delitto”, ma sugli alberi scrisse alcune delle sue poesie più belle.
Tiezzi e Lombardi ci inchiodano alla vita sfiorando i particolari, le minuzie. E io
li invidio per questo.
Lode a tutti, s’intende: alla traduzione di Cesare Mazzonis, a Chiara Muti, ad
Alessandro Schiavo (Emone), a Debora Zuin (Ismene), a Giampiero Cicciò
(Tiresia), e poi ancora il coro. Perfette anche le scene (F. Calcagnini) e le luci
(R. Innocenti). Ma è l’idea centrale che muove tutto e tutti.
Luca Doninelli
Panorama, 29 aprile 2004
Morti viventi del visionario Brecht
In una fredda luce da obitorio gli anziani di Tebe scostano i lenzuoli e si
rianimano in coro, come le mummie di Federico Ruysch nell’operetta
leopardiana. Ambientare il dramma in una morgue, come se la discesa di
Antigone nell’Ade fosse una fuga da una realtà di morti viventi, è l’idea
fondamentale di Tiezzi nel fronteggiare questo testo brechtiano del 1947,
modellato sull’Antigone di Sofocle nella versione poetica do Friedrich Hölderlin.
Questa scelta drastica rende solo citatorio il preludio di Brecht, che “attualizza”
a gesto di rivolta antinazista la ribellione di Antigone alle leggi della città per
ottenere degna sepoltura alle spoglie di suo fratello Polinice.
C’è un complesso d’Antigone, magnificamente studiato da Gorge Steiner, che
percorre la cultura europea del tardo Settecento fino a quando Sigmund Freud
lo sostituisce con quello di Edipo. Tiezzi lo usa edipicamente per fare i conti, fra
ribellione e venerazione, con due mostri sacri: lo stesso Brecht e il Living
Theatre, con la sua Antigone libertaria del ’67. Se quello del regista risulta
infine un antagonismo ben riuscito, molto merito va a Sandro Lombardi,
Creonte ironico e pieno di doppifondi, dalla voce magistralmente deformata, e
a Chiara Muti, Antigone nitidamente passionale, ben affiancati da Debora Zuin,
Giampiero Cicciò e tutti gli altri.
Roberto Barbolini