Duggan Christopher, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2008, (Storia e Società) Prologo La Forza del destino di Verdi andò in scena nell'autunno del 1861. Il filo rosso correva lungo l'opera di Verdi ed era una idea che agli occhi di molti patrioti racchiudeva l'essenza del dramma politico dispiegatosi nel 1859-60: ossia che indipendentemente dalle intenzioni e azioni degli uomini c'era una forza, una mano nascosta che dirigeva il corso della storia verso mete predeterminate. Non stava forse qui la spiegazione migliore del come si era giunti a unificare A paese a dispetto di ostacoli apparentemente insormontabili? Una gran parte della popolazione italiana era stata indifferente, quando non schiettamente ostile; un aspro antagonismo aveva contrapposto l'ala moderata e quella democratica del movimento nazionale, per tacere dell'esistenza di differenze regionali profondamente radicate, dell'assenza di robusti legami economici, culturali e linguistici, e della vigorosa opposizione delle tre maggiori potenze del continente: la Chiesa cattolica romana, l'Austria e la Francia (l'imperatore Napoleone III aveva visto di buon occhio un Piemonte ingrandito, ma l'ultima cosa che voleva era un'Italia unita, suscettibile di rivelarsi una rivale della Francia nell'Europa meridionale). Mazzini dovette riconoscere al principio degli anni ’30 dopo una serie di insurrezioni fallite che la questione cruciale non era tanto la leadership o l’organizzazione del movimento rivoluzionario quanto l’educazione: si trattava di raggiungere Il popolo e persuaderlo ad appoggiare la causa del progresso e dell’unità nazionale. Questo libro cerca di indagare l’evoluzione dell’idea nazionale in Italia durante gli ultimi due secoli e d esamina alcune delle iniziative prese da politici, intellettuali e altri soggetti nel tentativo di colmare la distanza tra la comunità immaginata e la realtà. In Italia il terremoto politico degli anni Novanta, che ha provocato il tracollo della prima Repubblica, ha anche suscitato accese discussioni sulla natura e sui demeriti dell'unificazione, e una lunga controversia su quali elementi della storia d'Italia siano da celebrare e quali invece da condannare. La Lega Nord ha dichiarato che il Mezzogiorno deve a rigore essere considerato una nazione distinta, e ha criticato il Risorgimento per aver imposto al paese la camicia di forza dell'unità. E nel Mezzogiorno si sono levate voci di protesta contro quelli che sono stati visti come gli atteggiamenti tenacemente colonialisti e razzisti dei settentrionali, e contro la perpetrazione nel primo decennio postunitario di quello che secondo alcuni dev'essere giudicato un vero e proprio genocidio. Nei partiti di destra è emerso un orientamento volto a riabilitare il fascismo e a condannare la sinistra in quanto incapace di accettare la realtà dei delitti politici commessi dagli antifascisti durante e subito dopo la guerra. Dal canto suo la sinistra ha replicato mettendo in risalto gli aspetti illiberali, antidemocratici e disumani del regime mussoliniano. ... Nessun storico può restare immune dall’influenza di queste polemiche e alcuni dei temi centrali di questo studio (tra questi perché in Italia non si sia formato un forte senso dello stato né della nazione) sono venuti alla ribalta per effetto dello scompiglio seguito al crollo della “Prima Repubblica”… I. Liberazione 1796-1799 p. 6 Prima dell’invasione i francesi avevano annunziato che venivano per rompere le catene e Napoleone aveva promesso ai milanesi che la loro città sarebbe divenuta capitale. … Tra quanti osservavano le malconce truppe francesi entrare a Milano c’era Pietro Verri, un anziano economista. Verri era stato un personaggio eminente nel movimento riformatore che negli anni Sessanta e Settanta aveva dilagato nella maggioranza degli Stati italiani. Come in molti altri intellettuali, la lentezza del movimento aveva alimentato in lui una crescente delusione, e un disinganno nei confronti dei governi principeschi che nel 1786 aveva finito con l’indurlo a ritirarsi dalla vita pubblica. Lo scoppio della Rivoluzione francese aveva riacceso le sue speranze. Osservando i soldati francesi, percepiva una cruda energia che, lo sentiva, aveva le sue radici nella fiducia in se stessi che proveniva dal sentimento di appartenere a una "nazione", e compensava abbondantemente le carenze del loro equipaggiamento e la loro indisciplina: p. 8 Si trattava di un giudizio che già intorno alla metà del secolo era largamente diffuso; e per descrivere la situazione i commentatori sia italiani che stranieri ricorrevano spesso alla metafora del "sonno" e del "risveglio". Per esempio, il conte Francesco Algarotti, insigne filosofo e critico d’arte veneziano nel 1752 aveva scritto da Berlino di come un tempo, "dopo la comune barbarie d’Europa, gl’italiani apriron gli occhi prima delle altre nazioni [...] Se ora da noi si vada sonnecchiando così un poco, ora che gli altri vegliano, non è nostra colpa [...] Consoliamoci con le passate cose, benché, a dir vero, la consolazione sia alquanto magra. Le altre nazioni dominano ora, noi dominammo un tempo”. p. 10 Un buon esempio di quest’idea della nazione italiana è un saggio pubblicato nel 1765 in una rivista, «Il Caffè”, diretta da Pietro Verri. Intitolato "Della patria degli italiani", ha la forma di un’immaginaria conversazione con un uomo che all’entrare in un caffè milanese si sente chiedere se è un ”forestiere”. L’uomo dice di essere italiano, e, aggiunge, «un italiano in Italia non è mai forestiere, come un francese non è forestiere in Francia, un inglese in Inghilterra, un olandese in "Olanda". Ma gli viene spiegato che la sua affermazione significa ben poco, perché in Italia vige "l’universale costume [...] di chiamare col nome di forestiere chi non è nato e non vive dentro il recinto d'una muraglia>>. Il forestiero continua allora sostenendo che l’Italia è una nazione che risale all'epoca dei romani; e proprio perché gli italiani non sono riusciti ad accantonare le loro differenze e a riconoscere che hanno una patria comune, nella penisola la causa del progresso ha subito danni così gravi. Egli traccia però una distinzione netta tra patriottismo culturale e patriottismo politico: se da un lato occorre che gli italiani lavorino insieme ad accrescere la "gloria nazionale" nelle scienze e nelle arti, dall’altro hanno però il dovere di obbedire alle leggi dello Stato in cui vivono. p. 11 Napoleone fu quasi certamente una forza animatrice dietro il famoso concorso bandito nel settembre 1796 dall’amministrazione milanese (controllata dai francesi) per una dissertazione sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia". Il concorso svolse un ruolo importantissimo nel dar voce a molti dei temi che nei decenni a venire avrebbero dominato le discussioni sull’unificazione dell’Italia e sulla nazione italiana. Il comitato organizzatore pensava che le dissertazioni dovessero avere una finalità educativa … p. 12 La maggioranza ddle cinquantasette dissertazioni presentate sostenne che l'ltalia doveva costituirsi in repubblica unitaria sul modello francese. Secondo il testo vincitore, opera di un giovane filosofo piacentino, Melchiorre Gioia, se nel corso dei secoli l'ltalia non era riuscita a conquistare la libertà la causa principale di questo fallimento non era, come spesso si affermava, il suo clima (il grande scrittore francese Montesquieu aveva sostenuto in alcune famose pagine del suo Spirito delle leggi, pubblicato nel 17 48, che i climi caldi generavano accidia e servilismo, quelli freddi energia e indipendenza), ma la sua frammentazione politica. Questa storica mancanza di unità esigeva che l'ltalia diventasse uno Stato centralizzato e non una federazione. Gli italiani erano «indeboliti» nel carattere, e litigiosi; e, se il paese rimaneva diviso, si sarebbero combattuti l'un l'altro per il predominio locale, generando «mille discordie feroci». Nel frattempo i nemici stranieri «terrebbero sopra [le piccole repubbliche isolate] fisso lo sguardo, e seguendo i progressi delle fazioni, l'accrescimento degli odi nazionali», coglierebbero l'occasione propizia per invadere la penisola. L'introduzione della libertà e dell'uguaglianza avrebbe creato vincoli di affetto fraterno, e non ci sarebbero più stati «de' Siciliani, de' Fio- rentini, de' Turrinesi, ma degli Italiani e degli uomini». p.13 Tra i partecipanti al concorso c’era anche l’ex prete e appassionato democratico piemontese Giovanni Antonio Ranza, in Italia le differenze regionali erano così pronunciate che il tentativo di realizzare l'unità aveva le stesse probabilità di riuscire della ricerca del «moto perpetuo» o della «pietra filosofale». Ranza suggerì una repubblica federale costituita da undici Stati con un Congresso Generale a Pisa ( e la costruzione in questa città di un gi - gantesco monumento alla «nostra madre», la repubblica francese). p. 15 L'atteggiamento verso l'Italia del governo francese era altamente ambivalente. Malgrado il gran parlare di liberazione, la molla principale dietro l'invasione dell'Italia settentrionale era crudamente pragmatica. La campagna italiana era un diversivo rispetto al teatro di guerra principale nell'Europa settentrionale, e tutte le conquiste erano pensate come gettoni di scambio con i quali cercare di convincere l' Austria a fare la pace e accettare la frontiera del Reno. Non esisteva nessun programma mirante a unificare la penisola. ... Che la «liberazione» comportasse un elevato prezzo materiale diventò presto evidente. Lo Stato francese vacillava sull'orlo della bancarotta, e il governo di Parigi guardava all 'Italia come a una \ fonte di facile bottino. «Non lasciate nulla in Italia, di quello che \ la nostra situazione politica vi permette di trasportare e che può essere utile», si sentì dire Napoleone nel maggio 1796. A Milano fu imposta un'indennità (da pagare immediatamente) di 20 milioni di franchi. Modena doveva sborsare 7 ,5 milioni, Parma 2 milioni. Furono inoltre requisite enormi quantità di cavalli, muli, bovini e granaglie. Quando, in giugno, fu firmato un armistizio con gli Stati Pontifici, il papa ebbe l'ordine di pagare 21 milioni di lire in lingotti d'oro e d'argento, monete e forniture. Secondo una stima, alla fine del 1796 erano stati spremuti dai territori italiani qua- si 58 milioni di franchi in denaro e oggetti preziosi. E la politica di rapina sarebbe continuata senza soste per altri due anni. Un aspetto particolarmente irritante di questa politica (quanto meno per le élites colte) era l'accaparramento di opere d'arte. Di nuovo, fu Parigi a incoraggiare quest' opera di depredazione ... p. 16 Le sofferenze inflitte a particolarmente dure. Nel francesi occuparono la a un millennio fu un incidente in cui era nave francese entrata avviarono una lunga e il saccheggio continuò Napoleone consegnò quadro del Trattato di Ducale, e chiese come Venezia furono maggio del 1797 le truppe città, mettenddo così fine d'indipendenza. Il pretesto rimasta coinvolta una nella laguna. I francesi campagna di spoliazione; anche dopo che in ottobre Venezia all’Austria nel Campoformio. Il Palazzo quelle dei SS. Giovanni e Paolo, dei Gesuiti, della Madonna dell'Orto e di San Zaccaria vennero spogliate di opere del Tintoretto, Bellini, Tiziano, Paris Bordone e altri. Tra i più importanti dipinti confiscati c'erano due imponenti tele del Veronese: la Cena in casa di Levi, sottratta dalla chiesa di San Sebastiano, e Le Nozze di Cana, trafugata dal refettorio di San Giorgio Maggiore (la seconda si trova oggi al Louvre) .Furono portate via centinaia di libri rari, sculture, manoscritti, stampe e carte geografiche. L'umiliazione finale giunse il 7 dicembre 1797, quando i quattro cavalli di bronzo che per sei secoli avevano ornato la facciata di San Marco, e che più di ogni altra cosa simboleggiavano l'antica grandezza imperiale di Venezia, furono rimossi e spediti a Parigi ad adornare il Palazzo delle Tuileries, e in seguito l'Arc de Triomphe del Carrousel. p. 17 ... un libro destinato a diventare uno dei testi più influenti del Risorgimento. Le Ultime lettere di Jacopo Ortis, pubblicate nel 1802, raccontano la storia di un giovane costretto a fuggire dalla nativa Venezia dopo la cessione della Serenissima ali' Austria. Rifugiatosi sui Colli Euganei, s'innamora di una ragazza chiamata Teresa. Ma Teresa è già promessa a un marchese. Tormentato dall'amore per Teresa e per la patria perduta (Venezia, ma anche 1'Italia), Jacopo parte in cerca di sollievo, ma ne le bellezze dei paesaggi italiani ne le vestigia delle glorie passate riescono a consolarlo. Ogni cosa gli ricorda che 1 'Italia soffre sotto il giogo della dominazione straniera, e, come Teresa, non è libera. Dopo due anni torna a casa, trova Teresa sposata e si uccide. = irraggiuingibilità dell’oggetto agognato : Teresa/patria p. 20 Le esortazioni patriottiche di Foscolo e Alfieri non potevano cancellare il retaggio della storia. L'arrivo di Napoleone e il crollo della dominazione austriaca nell'ltalia settentrionale aprirono la strada all'irruzione delle vecchie rivalità municipali; e una volta liberate le città della Valle Padana si affrettarono a inviare a Parigi delegazioni incaricate di rivendicare il territorio più ampio possibile per le nuove repubbliche indipendenti. p. 21 In generale i contadini adottarono le opinioni propagandate dai loro parroci e vedevano la rivoluzione in termini di una empietà senza freni (oltre che di requisizioni e di accresciute richieste dello Stato – non ultimo il servizio militare). La bucolica descrizione stendalhiana – “per le campagne si vedeva sulla soglia dei tuguri il soldato francese occupato a ninnare il bambino della padrona di casa [...] Essendo le contraddanze troppo dotto e complicate perché i sodati potessero insegnarle alle donne del paese, erano queste che insegnavano ai giovinotti francesi la monferrina, il galoppo ed altri balli italiani – era in buona parte il frutto della fantasia dell’autore. Nelle campagne l’esercito francese incontrava la paura e talvolta la testarda opposizione. ... Nell’aprile del 1797 Verona esplose in 5 giorni di crudeli combattimenti di strada, circa 200 soldati francesi furono massacrati al grido di “Viva San Marco”... p. 25 La Repubblica Napoletana, nata sotto la tutela delle forze francesi, non riuscì mai a conquistare il sostegno delle masse popolari. Il nuovo governo era formato da avvocati, funzionari, scrittori e professori di greco e di botanica, e la sua preoccupazione più urgente era la liquidazione del feudalesimo. A fine gennaio fu promulgata una legge che aboliva i fedecommessi e il maggiorasco, ma la legislazione sul regime feudale s'impantanò in interminabili discussioni sulla questione se le terre comuni dovessero essere restituite ai baroni o alo stato.... p. 26 Mentre la Repubblica lottava per guadagnarsi il favore popolare, in Sicilia la regina Maria Carolina e il suo amante, il primo ministro John Acton, facevano piani per riconquistare il Regno. il re Ferdinando, il cui interesse andava soprattutto alla caccia, si accodò però volentieri alle loro manovre. L'uomo prescelto per guidare la controrivoluzione era il cardinale Fabrizio Ruffo, un intimo amico di Maria Carolina e di Acton, e uomo noto per il grande coraggio personale {oltre che per le scandalose storie d'amo- re). Al principio di febbraio Ruffo sbarcò con un pugno d'uomini nella Calabria meridionale, dove aveva possedimenti feudali, e qui emanò un proclama rivolto ai «bravi e coraggiosi calabresi» esor- tandoli a unirsi «sotto lo stendardo della Santa Croce e del nostro amato Sovrano», a vendicare il papa e l'oltraggio fatto alla religione, al re e alla patria, e a scacciare i cospiratori settarii che cercavano di «distruggere la Divina Morale del Vangelo [...] depredare le nostre sostanze [...] insidiare la pudicizia delle vostre donne»47. A misura che Ruffo avanzava verso Napoli, i volontari affluivano in gran numero, attratti dalla sua promessa che chi combatteva per lui sarebbe stato ricompensato con «i beni dei patrioti [...] e il saccheggio delle città e delle terre che facessero loro aperta resistenza». Mantenne la parola. A Cotrone, malgrado la piccola guarnigione {trentadue soldati francesi) avesse offerto la resa, ordinò di attaccare, e per due giorni la città fu messa a sacco, e gli uomini e le donne, armati e disarmati, assassinati. Secondo il racconto di Pietro Colletta, uno storico contemporaneo, «Durò lo scompiglio due giorni; e nella mattina che seguì, alzato nel campo altare magnifico e croce ornata, dopo la messa che un prete, guerriero della Santa Fede, celebrò, il cardinale, vestito riccamente di porpora, lodò le gesta de' due scorsi giorni, assolve le colpe nel calore della pugna commesse, e col braccio in alto disegnando la croce benedisse le schiere». Il re pungolò Ruffo: «mi rincresce la troppa dolcezza che usate verso coloro che mi sono ribelli», gli scrisse il 28 marzo; e altre città che si trovarono sulla strada dell' «Armata Cristiana e Reale» subirono un destino simile a quello di Cotrone. Le forze di Ruffo, gonfiate da bande di predoni e detenuti fuggiaschi, e protette contro un attacco francese dalle navi da guerra britanniche e russe che \pattugliavano le coste dei due mari, raggiunsero la periferia di Na- \ poli il 13 giugno, festa di Sant' Antonio da Padova. A questo punto \ contavano circa 40.000 uomini. Durante una messa celebrata ali ' a- perto Ruffo li affidò alla protezione di Sant' Antonio {San Gennaro aveva mostrato la sua indegnità facendo liquefare il sangue a beneficio dei francesi), e l'indomani cominciò l'assalto alla città. Fu una faccenda brutale, peggiore del massacro di gennaio, e s'impresse a fuoco sull'immaginazione collettiva per decenni. Durò più di due settimane. Entrarono in azione anche i lazzari, dilagando nelle strade insieme con i calabresi al grido di “Viva il Re”, abbattendo gli alberi dela libertà. depredando e incendiando le case dei ricchi, saccheggiando i monasteri e le chiese e uccidendo chiunque avesse l’aria di un sostenitore della repubblica. II. La ricerca dell’anima della nazione p.31 In quel periodo un altro scorato osservatore della situazione italiana era Vincenzo Cuoco, un giovane scrittore nato nell770 a Civitacampomarano, non lontano da Campobasso, in una famiglia molisana della classe media, e trasferitosi a Napoli per studiare giurisprudenza. Ma non s' era mai laureato: le sue vere passioni erano la storia e la filosofia, ed era stato risucchiato nei circoli dell'elite intellettuale, diventando amico di uomini come Mario Pagano e Vincenzio Russo, entrambi giustiziati nel l799 per la parte avuta nella Repubblica Napoletana. Malgrado il suo ruolo personale nella Repubblica fosse stato modesto, Cuoco fu condannato all'esilio, e dopo il ritorno di re Ferdinandoi suoi beni vennero confiscati. In esilio riflette sui tragici eventi cui aveva assistito, e nel l80l pubblicò le sue conclusioni nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana de11799, un'opera che avrebbe esercitato un'enorme influenza. Secondo Cuoco, il difetto fatale della rivoluzione napoletana stava nell'abisso che separava i capi dalla massa della popolazione. Negli ultimi decenni Napoli aveva completamente smarrito la consapevolezza della sua peculiarità culturale: il governo e la corte s'erano riempiti di stranieri (uomini come John Acton, o Erilma Hamilton, la confidente della regina), e gli intellettuali correvano appresso alle ultime novità provenienti da Oltralpe. «Noi diventammo a vicenda or francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo più nulla». La rivoluzione del l799 era stata una «rivoluzione passiva» trapiantata dalla Francia sul suolo napoletano, con una costituzione francese e idee francesi. E non poteva sorprendere che per la grande maggioranze dei napoletani comuni non significasse assolutamente niente. p. 32 Può darsi che su Cuoco agisse l'influenza degli scrittori conservatori Edmund Burke e Joseph de Maistre, ma il suo debito principale era quasi certamente quello nei confronti di Giambattista Vico, il grande filosofo napoletano del primo Settecento che aveva elaborato una teoria generale del declino e della rigenerazione ciclici delle nazioni, e aveva sostenuto che le nazioni, come gli individui, avevano caratteri peculiari unici, che venivano plasmati dagli eventi e si esprimevano in lingue e culture differenti. Per Cuoco, come per molti altri patrioti dei primi anni dell'Ottocento alle prese col problema di come far nascere la nazione italiana (posto che esistesse, qualcosa che i più davano per scontato), una questione cruciale era se e come questo carattere plasmato dalla storia potesse venire cambiato. Nel suo Saggio Cuoco suggerì che la rivoluzione del 1799 avrebbe potuto funzionare se i capi avessero prestato una maggiore attenzione ai bisogni delle masse, per esempio creando organismi rappresentativi locali e occupandosi di concreti interessi materiali come le imposte e la terra. Ma era anche convinto che fosse necessario riformare le masse, cui facevano difetto qualità civiche essenziali come l'«amor di patria» e la «virtù militare». ... Cuoc fu il primo ad affermare che in Italia il problema nazionale era un problema di educazione, di come trasformare una popolazione di lazzari e contadini, corrotta da secoli di dominazione straniera, di rpeti, di divisione politica e d’ignoranza, in un popolo indipendente, unito, disciplinato e patriottico. ... Per Cuoco –ma anche per Alfieri – il modello era offerto dalla Roma repubblicana ... ma pur ammirando il patrittismo e il valor militare dei romani, il suo temperamento filosofico lo portava a desiderare per la nazione italiana un modello meno sanguinario. E lo trovò in una civiltà mitica che er afiorita prima di Grecia e di Roma, e che ai suoi occhi era superiore a entrambe. La sua tesi di una siffatta remotissima origine dell'ltalia fu argomentata in un romanzo, Platone in Italia, che nonostante le sue astruserie e il suo andamento disordinato ebbe un grande successo. Esso descrive il viaggio compiuto dal filosofo Platone e da tale Cleobulo dalla Grecia all'ltalia, le loro conversazioni con i saggi del posto e la loro scoperta di uno Stato «etrusco», un tempo potente, il cui popolo aveva conosciuto la prosperità delle leggi, dell'agricoltura, della guerra e del commercio, ma che in seguito a un processo di degenerazione morale era stato sopraffatto da invasori stranieri e aveva perduto la sua indipendenza e la sua unità... p.35 Dopo che, a partire dal l800, i francesi ebbero ripristinato il loro controllo sulla penisola, l'idea di un'antica civiltà italiana libera e unitaria distrutta dai romani ebbe forti risonanze patriottiche. La seconda invasione napoleonica dell'Italia, avvenuta nella primavera di quell'anno sulla scia del colpo di Stato dell8 brumaio e dell'istituzione del Consolato, produsse una nuova fioritura di esperimenti costituzionali, accompagnati da un nuovo affaccendarsi sui confini, cancellati e ridisegnati in maniera quasi del tutto arbitraria. In Lombardia e in Emilia rinacque la Repubblica Cisalpina, con l'aggiunta nell80l di parti del Veneto, e in seguito di Modena, della Romagna e delle Marche. Nel 1 802 fu ribattezzata Repubblica Italiana, e nel l805 Regno d'Italia. Nel l80l il Piemonte diventò una «divisione militare francese», per venire poi annesso alla Francia l'anno successivo (la Sardegna rimase nelle mani dei Savoia, sotto la protezione della flotta britannica). La Toscana diventò il Regno d'Etruria sotto un membro della casa dei Borboni (nel l807 arrivò anche per essa l'annessione). ... p. 39 Per i contemporanei lo spirito del progresso incarnato nel nuovo ordine amministrativo trovò un simbolo potente nell’introduzione dell’illuminazione stradale... Napoli fu nella notte illuminata da 1920 lampade lucentissime essendo per lo innanzi così buia che nascondeva furti ed oscenità – ricordava lo storico Pietro Colletta. p. 40 avversione delle masse a un sistema che appariva caratterizzato da 3 elementi principali: l’aumento delle imposte, la coscrizione militare e la chiusura dei monasteri. Così il pooplo rifiutò il sistema metrico decimale, restando nell’antica barbarie di pesi e misure infiniti. Analoga opposizione ottenne anche il tentativo di mettere sotto controllo il gioco d’azzardo e la prostituzione. p. 45 Alfieri e l’immagine d’Italia del Canova Quando l’8 ottobre 1803 Alfieri morì, la sua amante, Louise contessa d’Albany, decise che avrebbe avuto un grandioso monumento funerario nella Xsa di Santa Croce a Firenze. La scelta dell'artista appariva ovvia: il più grande poeta italiano doveva essere celebrato dal più grande scultore italiano, Antonio Canova. All'epoca Canova era sommerso di lavori commissionatigli dalle corti principesche dell'intera Europa, ma la contessa d' Albany aveva una volontà di ferro ed eccellenti relazioni. E lo stesso era vero del suo nuovo amante, il pittore francese François Xavier Fabre. Insieme, e con l'aiuto del Segretario di Stato pontificio, il cardinal Consalvi, convinsero Canova ad accettare l'incarico. L' opera progrediva lentamente. Il progetto originario di Canova una stele ornata da genii con un ritratto dello scultore in bassorilievo non soddisfece la contessa: per 10.000 scudi sentiva di avere il diritto quanto meno a una scultura a tutto tondo. C'era poi il problema che in quel periodo Canova era occupato con altre committenze di primaria importanza, come la colossale statua di Napoleone raffigurato nudo come «Marte pacificatore»: il monumento all'autore del Misogallo dovette aspettare. Ma al principio del 1807 l'accordo sulla composizione finale era ormai raggiunto: un grande sarcofago su una base ellittica a due livelli, con lire, maschere, festoni, ghirlande e iscrizioni; e sul davanti una donna di aspetto maestoso che impersonava l'Italia. Per fare spazio al monumento accanto alla tomba di Niccolò Machiavelli, la contessa ottenne l'aiuto di Elisa Baciocchi, la granduchessa di Toscana, nel far sgombrare un certo numero di sepolcri più antichi, malgrado il loro interesse storico. Aveva inoltre utilizzato i suoi potenti contatti per vincere l'opposizione del clero di Santa Croce a che il suo nome figurasse in bella vista sul basamento: dopo tutto, la relazione della contessa con Alfieri era stata non poco scandalosa. Il monumento fu inaugurato nel settembre 1810, e la reazione generale fu di straordinario entusiasmo. Canova aveva compiuto un grosso sforzo per assicurare che la composizione fosse “d'uno stile grave e maestoso [...] per corrispondere [...] alla fierezza della penna di questo sommo poeta” (a quanto si sa, per ispirarsi aveva letto le opere di Alfieri e i Sepolcri foscoliani). Fu in particolare la figura dell'Italia -la prima mai realizzata della nazione in un monumento ad attirare il plauso più convinto. Adattata dalla statua della Temperanza scolpita da Canova per la tomba del pa- pa Clemente XIV e dall'immagine di Venezia da lui inserita nel progetto di un monumento per Francesco Pesaro, la donna alta ed elegante, che ha sul capo un diadema di torri merlate ed è morbidamente avvolta da una tunica e da un mantello classici con la vita alta, la testa china in una espressione di dolore e gli occhi bagnati di lacrime, s’impose ai patrioti italiani come un’icona potente.. ... Fu durante il periodo napoleonico quando ci s’impegnò a fare della politica una religione secolare, che l’iconografia dell’Italia cominciò a fiorire. p. 49 Corinna, o /'Italia, fu il frutto di un viaggio nella penisola compiuto da Madame de Stael nel 1805 in compagnia del precettore dei suoi figli, l'illustre accademico tedesco e traduttore di Shakespeare August Wilhelm von Schlegel, e del grande studioso svizzero Simonde de Sismondi Sismondi era allora impegnato a scrivere il primo volume della sua monumentale storia delle repubbliche medievali italiane un'opera la cui celebrazione della cruda energia, della valentia militare e dell'indipendenza delle città Stato dei secoli che precedono il Rinascimento conrribui a ispirare una generazione di parrioti italiani. Nata in una famiglia prote- stante svizzera, allevata in un ambiente parigino alramente cosmopolita (il padre eraJacques Necker, l'illustre ministro delle Fi- nanze di Luigi XVI il cui licenziamento nel luglio 1789 fu la causa scatenante dell'assalto alla Bastiglia), e sposatasi giovane con un aristocratico svedese, Madame de Stael era affascinata dalle questioni legate all'identità nazionale, e in particolare dalle forze istituzionali e ambientali operanti nella formazione del carattere dei diversi popoli Prima del 1805 aveva avuto una scarsa considerazione degli italiani. Il suo centro di gravità emotivo e intellettuale era saldamente ancorato nell'Europa settentrionale. Ma I'influenza di Sismondi, un'appassionata storia d'amore a Roma, e l'ira per il dispotico cinismo manifestato da Napoleone sia nei suoi con- fronti sia verso la penisola, ammorbidirono i suoi pregiudizi... ... Madame de Stael scrisse Corinna in Svizzera e in Francia tra il 1805 e il 1806, in un periodo in cui Napoleone stava allargando il suo dispotico controllo a quasi tutto il territorio della penisola; e questo sfondo, insieme con la paziente, e senza dubbio insistente opera di ammaestramento svolta da Sismondi mentre percorrevano velocemente la penisola, fece sì che il romanzo avesse una spiccata coloritura politica (Napoleone fu lesto a coglierla, e rinnovò furibondo il divieto per Madame de Stael di metter piede a Parigi). In superficie, il romanzo si presentava come poco più di una storia d'amore alquanto melodrammatica. Lord Nelvil, un giovane aristocratico anglo-scozzese di bell'aspetto e stanco del mondo, se ne va in Italia per rimettersi in salute e v'incontra Corinna, una poetessa dal temperamento esuberante ed emotivamente liberata. La scorge per la prima volta proprio mentre viene incoronata d’alloro sul Campidoglio durante una brillante cerimonia in onore del suo genio. I due s'innamorano e viaggiano per l'Italia insieme, incantandosi davanti alle bellezze del paese e ammirando i suoi tesori artistici... III. Cospirazione e Resistenza p. 58 rivolte rurali La vendita delle antiche «terre nazionali» feudali fu un mezzo importante per guadagnare consensi. Diversamente dalla Francia, dove i contadini beneficiarono massicciamente di queste vendite, in Italia ad avvantaggiarsene furono perlopiù i proprietari terrieri e i ceti professionali urbani. In Piemonte, tipici beneficiari furono grandi famiglie aristocratiche come i Cavour, i d'Azeglio e i Balbo {che avrebbero tutte svolto un ruolo di primo piano nel movimento nazionale). Nell'Italia meridionale, dove il feudalesimo fu abolito nel 1806 sulla scia dell'occupazione francese, ci furono tentativi di far sì che i contadini ricevessero qualcosa. Qui la questione chiave erano le terre comuni, su cui la gente del posto aveva goduto antichi diritti, per esempio di pascolo o di raccolta di legname, e che erano state un ingrediente essenziale dei suoi mezzi di sussistenza. Fu costituita una commissione speciale per studiare l'intreccio, spesso molto complesso, delle rivendicazioni contrapposte dei feudatari e delle comunità; e si decise che dove venivano accertati dei diritti una parte della terra doveva andare ai contadini più poveri. Ma in pratica i baroni furono spesso in grado di frustrare gli sforzi dei funzionari statali, col risultato che in molte zone del Sud la questione della distribuzione delle terre comuni sarebbe rimasta una piaga aperta fino a Novecento inoltrato. p. 61 ... In assenza di una politica concreta, praticabile, di distribuzione della terra ai poveri, niente poteva mitigare i sentimenti di rabbia nutriti da molti contadini di fronte all'aumento dei prezzi, alla violenta impennata delle imposte indirette, alla perdita delle terre comuni, alla leva obbligatoria e alla soppressione dei conventi {che, a parte l'oltraggio arrecato alla loro sensibilità religiosa, li privava di un'importante fonte di beneficenza e di lavoro), Nell'ltalia settentrionale, l'agitazione nelle campagne raggiunse livelli particolarmente elevati alla fine de11805, quando l'Austria cedette Venezia e la Dalmazia al Regno d'ltalia {Pace di Presburgo), Questa novità fece sì che i contadini non potevano più scivolare al di là del confine per evitare la leva, Tipico delle rivolte di questo periodo {e caratteristico della durezza con cui Napoleone le affrontò) fu un episodio verificatosi a Crespino, nei pressi di Rovigo, Cominciò nell'ottobre 1805 come una protesta contro le tasse, con una cinquantina di lavoratori del posto che devastarono il municipio e distrussero i registri, Dai paesi vicini arrivarono rinforzi, col risultato che la milizia locale fu disarmata e le porte della città spalancate per far entrare i soldati austriaci, Quando la notizia di questi avvenimenti raggiunse Napoleone, questi s'infu- riò, e 1'11 febbraio 1806 firmò alle Tuileries un decreto in cui si stabiliva che gli abitanti di Crespino fossero spogliati dei loro diritti di cittadini ... p. 64 Il più famoso dei ribelli era Michele Pezza, un soldato irrego- lare e un bandito noto come Fra Diavolo. Nato ne11771, figlio di un carrettiere e commerciante della cittadina laziale di Itri, a quanto si racconta Pezza s'era guadagnato il soprannome quando era ancora un bambino grazie al carattere in docile e a un voto fatto dalla madre a San Francesco di Paola: se il figlio, gravemente ammalato, fosse guarito, l'avrebbe vestito da frate. E mantenne l'impegno. Dopo aver ucciso due uomini a metà degli anni Novanta in una controversia d'onore (classico punto di partenza nel curriculum di molti briganti) era fuggito sulle colline dando vita a una banda di malfattori, ma l'arruolamento nell'esercito borbonico gli aveva valso la grazia. Nel 1799 era entrato nell' Armata Cristiana del cardinal Ruffo alla testa di una forza di parecchie migliaia di volontari notoriamente assetati di sangue, e aveva svolto un ruolo importante nel rovesciamento della Repubblica Napoletana e nel successivo attacco sferrato contro la guarnigione francese a Roma. Il re Ferdinando aveva ricompensato i suoi servigi con 2500 ducati e la promozione al grado di colonnello. Quando, al principio de11806, i francesi invasero il Regno di Napoli, Pezza emerse ancora una volta come il capo di una forza di irregolari, implacabile nel dare filo da torcere ai francesi e instaurando il regno del terrore nelle piccole città e nei paesi della Campania (il tutto in nome di re Ferdinando). Aveva l'appoggio degli inglesi, che in luglio sbarcarono un corpo di truppe in Calabria e sconfissero i francesi nella battaglia di Maida (un fatto d'arme bucolicamente commemorato battezzando Maida Vale, ossia Valle di Maida, un quartiere residenziale di Londra). Sulla scia di questa vittoria Pezza cercò di scatenare un'insurrezione nell'Italia meridionale, ma ebbe scarso successo. Sulla sua testa pendeva adesso la gigantesca taglia di 17.000 ducati. I francesi volevano catturarlo a tutti i costi, e per uno scherzo del destino singolarmente appropriato (dato il fascino che l'uomo e il suo soprannome avrebbero esercitato sull'immaginazione romantica), l'ufficiale incaricato di dare la caccia a Pezza era Sigisbert Hugo, il padre di Victor, il grande poeta. Pezza e i suoi uomini subirono una rovinosa sconfitta nei pressi di Campobasso. Pezza riuscì a fuggire, ma fu presto catturato e consegnato ai francesi (dopo essere stato ferito da banditi rivali). Processato senza indugio, furono rifiutate le richieste britanniche che chiedevano fosse considerato un prigioniero di guerra. L’11 novembre 1806 Fra Diavolo venne impiccato a Napoli come criminale comune. p. 66 In un clima di oppressione, la segretezza era un indispensabile strumento politico. Sotto Napoleone, e dopo il 1815, nel periodo della Restaurazione, gli avversari dell'ordine esistente erano costretti a ricorrere al sotterfugio per eludere il controllo della polizia e dei censori. Un modo di farlo consisteva nel manifestare il dissenso mediante un codice: per esempio mascherando l'opposizione mediante dibattiti culturali {sulla lingua, gli stili letterari, lo studio della storia), o simboli letterari, artistici e musicali, o addirittura utilizzando la moda {a partire dall'ultimo decennio del Settecento chiome e barbe offrirono un arsenale particolarmente ric- codi mezzi di espressione politica). Oppure si poteva ricorrere a organizzazioni clandestine, con l'uso di giuramenti e rituali per proteggerei membri contro il rischio di infiltrazioni e tradimenti. Ma il segreto non era soltanto un espediente pragmatico. Nel corso del Settecento s'era altresì impregnato di un'eccitante valenza intellettuale: l'accesso a un sapere segreto era la chiave che apriva le porte della rivelazione e dell'illuminazione, e portava con se l'appartenenza a una nuova elite basata sull'intelletto anziché sulla ricchezza o sulla classe sociale. Le società segrete italiane si svilupparono perlopiù a partire dalla massoneria, a quanto pare introdotta originariamente in Toscana dall'Inghilterra nel decennio 1730-40. Malgrado i divieti pontifici, s'era gradatamente diffusa nell'intera penisola, e negli anni Ottanta s'era assicurata il favore dell'aristocrazia e delle corti, e con esso una certa rispettabilità. Ma lo scoppio della Rivoluzione francese la fece apparire sovversiva, col risultato che le logge chiusero i battenti o furono costrette a rifugiarsi in una segretezza sempre più fitta, subendo spesso nel corso del processo una radicalizzazione politica. p.67 In quegli anni erano attive alcune società segrete cattoliche, che capeggiavano l'opposizione reazionaria al dominio napoleonico; ed è probabile che le loro radici fossero non tanto nella massoneria, quanto nelle varie associazioni create dai gesuiti dopo la soppressione della Compagnia di Gesù (1773 ). Alla base del sostegno di cui godevano c'erano il risentimento per le politiche anticlericali e antipontificie dei francesi, la fedeltà al vecchio ordine e la versione conservatrice del romanticismo affiorata intorno alla svolta del secolo, con la sua celebrazione della religione, del mistero, dell'autorità e del tradizionalismo estetico. L'Amicizia cristiana, un'associazione fondata nei primi anni Ottanta del Settecento, operava in Piemonte, mentre la Società del Cuore di Gesù era attiva nel territorio della Repubblica Italiana, causando non poche ansie a Melzi d'Eril e al suo governo. Nel Mezzogiorno c'erano le sette dei Trinitari e dei Calderari, che erano foraggiate da agenti dei Borboni e s'ispiravano al movimento sanfedista di Ruffo de11799. Ma la società segreta più importante era la Carboneria. Non sappiamo con precisione quando e dove sia nata. C'è chi suggerisce come luogo d'origine la Scozia, ma altri pensano al Giura, e altri ancora alle foreste tedesche. È possibile che abbia fatto la sua prima comparsa in Italia nell'ultimo decennio del Settecento, ma cominciò a crescere in misura significativa soltanto dopo il 1806 nel Regno di Napoli, in parte grazie all'appoggio degli inglesi. I Carbonari erano sostanzialmente compatti nell'opposizione a Napoleone (il “grosso lupo” che aveva “ucciso la repubblica”) e alla dominazione francese, nonché nell'aspirazione all'indipendenza italiana; ma come nel caso della Società dei Raggi c'era molta incertezza riguardo a ciò con cui volevano sostituirli se una repubblica federale o una qualche forma di monarchia costituzionale. E non mancavano i problemi per quanto concerneva gli obiettivi sociali della società. A quanto pare, dagli iniziati giunti ai gradi più elevati ci si aspettava che facessero proprie le idee egualitarie radicali del tipo abbracciato sul finire del Settecento da Filippo Buonarroti e dai suoi seguaci. Ma al livello dei soci ordinari tipicamente piccoli proprietari terrieri, professionisti, soldati e pubblici funzionari, membri del clero -erano certamente in molti a recalcitrare davanti a un siffatto estremismo, col risultato che a questa par- te del programma della Carboneria fu messa la sordina. Sia nella struttura che nello stile, la Carboneria aveva una forte impronta massonica. L'unità di base era una cellula locale chiamata «vendita». Un gruppo di «vendite» era controllato da una «vendita madre», a sua volta sottoposta a un'«alta vendita». Inizialmente, sembrano esserci stati soltanto due gradi -Apprendi- sta e Maestro ma a un certo punto ne fu aggiunto un terzo, quello di Gran Maestro; e quest'ultimo livello fu successivamente (forse dopo il 1815) sostituito con un ventaglio di sette nuovi gradi. L'innalzamento a ciascun grado comportava una nuova cerimonia d'iniziazione, nuovi rituali e un nuovo catechismo, nonche l'accesso a un nuovo livello di conoscenza: se agli apprendisti veni- vano impartiti precetti generali di carattere filantropico, morale e religioso, chi si trovava più in alto nella gerarchia riceveva un'istruzione politica su come operare per rovesciate i tiranni. Tutti i Carbonari dovevano possedere un moschetto e una baionetta, e pagare una quota mensile alla loro «vendita». Per minimizzare il rischio di tradimenti a opera di spie della polizia o delatori, l'organizzazione aveva maglie molto strette. Ciascun affiliato aveva accesso soltanto a un ristretto numero di altri affiliati, e i segni di riconoscimento e le parole d'ordine venivano cambiati regolarmente su direttive provenienti dall ' «alta vendita». ... Il linguaggio e i rituali della Carboneria attingevano massicciamente alla liturgia e al simbolismo cristiani, e questo dovette essere uno dei motivi della sua forza d’attrazione. Un posto centale negli insegnamenti della carboneria occupavano le idee di forza d’animo di fronte alle avversità, di dedizione alla verità e alla virtù, e di opposizione alla tirannia. Il santo patrono della società era San Teobaldo, un eremita dell’XI secolo, nobile, aveva sprezzato i beni per ritirarsi nelle foreste della Germania per condurvi una vita ispirata all’austerità. p. 70 Se nel Mezzogiorno la società segreta più importante fu la Carboneria, nel Nord le principali sette liberali furono la Filadelfia e l' Adelfia. Vennero probabilmente introdotte in Italia da ufficiali dell'esercito francese delusi; e le loro file si riempirono di ex giacobini italiani furiosi davanti al crescente conservatorismo socia- le del regime napoleonico. Filippo Buonarroti, l'illustre patriota e cospiratore, partecipò attivamente al lavoro dell' Adelfia dopo essere stato rilasciato dalla prigione ne11809, riuscendo ben presto a infonderle un nuovo vigore e a incamminarla su una strada nuova {nei venticinque anni successivi si sarebbe imposto come la forza animatrice del mondo delle sette italiane). p. 72 Per le sette, una fonte importante di sostegno era la Sicilia, occupata dagli inglesi dopo che i Borboni vi si erano rifugiati per sfuggire ai francesi. Per un certo tempo l'isola aveva goduto di stretti legami commerciali con l'Inghilterra grazie allo sviluppo dell'industria del vino di Marsala, promossa da imprenditori inglesi fin da- gli anni Settanta del Settecento. E questi legami si rafforzarono grandemente durante il periodo napoleonico, quando in Inghilterra prese piede la moda dei vini alcolizzati, favorita dall'assenza dalle tavole britanniche dei chiaretti e dei vini di Borgogna francesi. Nel 1814 operavano a Marsala quattro aziende britanniche, cui se ne aggiungevano parecchie altre a Mazara del Vallo, più a sud lungo la costa. In quel periodo l'ampiezza degli interessi britannici in Sicilia era tale che sparsi nell'isola c'erano una trentina fra consoli e viceconsoli di Londra. La compatta, e perlopiù ricchissima aristocrazia terriera isolana si compiaceva di questi legami, scorgendovi un mezzo per realizzare il sogno lungamente accarezzato dell'indipendenza della «nazione siciliana» dall'odiatissima Napoli. Nei salotti palermitani s'impose addirittura la moda di parlare italiano o siciliano con accento inglese. p. 75 Come molti inglesi della sua formazione, nutriva sentimenti di nostalgica simpatia per la terra di Augusto e Virgilio. Ma la concezione inglese dell'indipendenza italiana era alimentata anche da pragmatiche considerazioni geopolitiche. Se, disse nel gennaio 1814 al ministro degli Esteri britannico, Lord Castlereagh, si riuscisse a risvegliare l' «energia nazionale» degli italiani, com'era avvenuto in Spagna e in Germania, «questo grande popolo, invece di essere [...] come in passato, costituito da spregevoli schiavi di miserabili piccoli principi, diventerebbe una possente barriera contro sia l' Austria che la Francia [...]». IV: Restaurazione, Romanticismo e rivolta p. 85 Nel 1820 Hayez fece rumore a Milano con un dipinto storico esposto all’Accademia di Brera, che rappresentava un capitano del ‘300 che la famiglia implorava di non abbandonarla, di respingere la richiesta di partire per combattere per la Repubblica di Venezia Quest’opera è il primo quadro di soggetto storico-medievale della produzione di Francesco Hayez. Anche questo quadro, come «I vespri siciliani», utilizza un episodio storico come metafora da utilizzare per gli ideali risorgimentali. Siamo nel XIV secolo e Pietro Rossi fu chiamato dal doge di Venezia Dandolo ad assumere il comando delle forze veneziane per resistere ai tentativi di espansione degli scaligeri, guidati da Mastino della Scala, che stavano assediando il Castello di Pontremoli. La moglie e le figlie del condottiero lo pregarono di non accettare, ma, nonostante ciò, Pietro Rossi diede il suo assenso. In questo quadro vengono dunque esaltati i valori dell’eroismo, al pari di quanto avevamo visto ne «Il giuramento degli Orazi», nonché delle libertà repubblicane di contro a quelle dispotiche, rappresentate dagli scaligeri, signori di Milano. ... A Milano il quadro fu subito salutato come rivoluzionario. Vi si vide una conferma della superiorità del romanticismo sul classicismo. I critici ne lodarono il pathos sentimentale, l'attenzione per il dettaglio storico, evidente nell'architettura del castello, nei costumi e nell'armatura dei cavalieri (chiaramente ispirati, insieme con i colori e il giuoco di rimandi dei gesti e delle teste inclinate, dallo studio recentemente compiuto da Hayez sulle opere di artisti del Rinascimento veneto come Giorgione, Cima e Carpaccio) e le posture non convenzionali delle figure, presentate di schiena e con i volti celati o semicelati, col risultato di generare tensione e mistero, e d'invitare gli spettatori a usare la loro immaginazione per completare il racconto e indovinare le espressioni , dei personaggi. Nella figlia piangente sulla destra della scena, modellata sulla statua dell'Italia nella canoviana tomba dell'Alfieri in Santa Croce, è chiaramente leggibile una miscela di patriottismo, hommage e premonizione di morte. Anche la rappresentazione del dilemma che sta di fronte a Rossi guadagnò a Hayez l'ammirazione dei critici. Il volto e la postura di Rossi, che esprimono calma, dignità, tristezza e una meditativa incertezza, parvero riflettere efficacemente la gravità della scelta: si trattava di prestare ascolto ai dolci appelli dell'amore e dei doveri familiari, o andare a combattere il nemico, gli Scaligeri (Rossi scelse il secondo corno del dilemma, e finì ucciso in battaglia} .Ma il successo riportato nel 1820 dal quadro di Hayez non era dovuto solo al fatto che sposava il nuovo vocabolario del romanticismo. Erano all'opera anche fattori politici. p. 86 Quanto alla «nazione», l'idea, spogliata dei panni di cui l'aveva rivestita la Rivoluzione francese, rientrò nel sicuro ovile conservatore del pragmatismo storico. Non bisognava considerare le nazioni come mistiche entità intemporali che dovevano trovare espressione nelle volontà liberate dei loro popoli. Le nazioni esistevano soltanto nella misura in cui avevano dimostrato la capacità di conservare la loro indipendenza politica nel corso del tempo. Di conseguenza, l'ltalia non era una nazione. Era, secondo le brutali parole pronunciate nel 1847 dal cancelliere austriaco, il principe di Metternich, “une expression geographique”. E il nazionalismo italiano non era niente di più che il sogno a occhi aperti di un pugno di settari e d'intellettuali che si arrogavano il diritto di minacciare l'ordine politico e sociale costituito e di sconvolgere la tranquilla esistenza della grande massa della popolazione. Dopo tutto, che cosa voleva mai la gente comune al di là del benessere materiale, di un' amministrazione efficiente e di buone leggi? Nel clima conservatore del Congresso di Vienna, e di fronte al riemergere della politica dinastica di vecchio stile, la simpatia per il nazionalismo italiano dei liberali inglesi come Lord Bentinck si affievolì. Si convenne che l' Austria doveva essere compensata per le perdite territoriali subite in Germania e nelle province belghe ricevendo il controllo dell'intera penisola italiana. La Lombardia, l'ex Repubblica di Venezia, il Trentino e la Valtellina vennero riunite insieme nel Regno del Lombardo Veneto... p. 89 Un' altra fonte di malcontento popolare era la coscrizione. L'epoca napoleonica aveva trasformato la natura del conflitto militare tra Stati: in passato poco più che l'intrapresa {di modeste dimensioni) di un principe, adesso era qualcosa la cui logica lo spingeva verso quella che il generale prussiano Karl von Clausewitz chiamava «guerra totale». Gli eserciti di massa erano ormai una : realtà ineludibile (dal che discendeva che nell'Ottocento la ricerca della fedeltà attiva dei sudditi era molto più importante che nel secolo precedente). Nel Lombardo-Veneto la coscrizione fu introdotta nell'agosto 1815, tra la generale costernazione dei contadini; e nel 1820 la durata della leva raddoppiò, passando da quattro a 8 anni {buona parte dei quali trascorsi spesso fuori d'Italia). In Piemonte nel 1817 1'esercito permanente passò da 12.000 a 30.000 uomini, e i coscritti venivano arruolati per otto anni. Nel Mezzogiorno la durata della leva era inferiore {sei anni) ... p. 90 Non c'è dubbio che le masse costituissero una preoccupazione per i governi della Restaurazione. Ma c' erano buone ragioni per sperare che una Chiesa cattolica rinvigorita, con i suoi ordini religiosi, le sue missioni, i suoi giubilei e i suoi pellegrinaggi, non che la panoplia dei nuovi o potenziati culti popolari in particolare quelli della Vergine Maria: il rosario, la Madonna Addolorata, il mese mariano sarebbe riuscita a mantenere tranquilli i contadini. Il vero problema riguardava invece le classi colte. Erano state esposte per anni a idee spesso diametralmente opposte a quelle dell'assolutismo, e molti di coloro che sotto Napoleone erano arrivati a occupare posizioni importanti adesso si ritrovarono messi da parte e sostituiti da membri della vecchia aristocrazia, soprattutto negli Stati Pontifici e in Piemonte (sebbene la scarsità delle competenze tra i nobili costringesse ben presto a un parziale voltafaccia). Nel Mezzogiorno re Ferdinando conservò la maggioranza dei funzionari e degli ufficiali napoleonici, ma un grosso problema era costituito da un sistema scolastico che sfornava troppi laureati (specialmente in giurisprudenza) in rapporto ai posti disponibili. La più grande fonte di malumori tra le classi superiori stava tuttavia, paradossalmente, nel fatto che gli Stati restaurati non avevano restaurato abbastanza. Il regime napoleonico aveva inferto un duro colpo al grosso della vecchia aristocrazia, che aveva visto scomparire i suoi poteri e privilegi locali, di cui i nobili e le loro famiglie avevano spesso menato vanto per generazioni. ... ma nel 1814-15 1a maggioranza della vecchia guardia riponeva tutte le sue speranze in un ripristino di buona parte delle vecchie prerogative. Questi uomini restarono amaramente delusi; e nella loro frustrazione cominciarono a guardare con crescente simpatia al liberalismo costituzionale, e perfino a una qualche forma di unità nazionale, visti come mezzo per scalzare l’assetto della Restaurazione e recuperare le posizioni di potere. p. 101 Sulla scia delle rivoluzioni de1 1820-21 , in tutta la penisola la repressione fu feroce. I governanti puntavano a soffocare le idee liberali sotto una cappa di devozione ufficiale, col risultato che l'influenza della Chiesa compenetrò quasi ogni singolo ambito della vita pubblica. In particolare la scuola e la censura subirono in pieno gli effetti dell'offensiva della morale e dell'intolleranza cattoliche. Nel Mezzogiorno vaste epurazioni colpirono l'esercito, l'amministrazione e la giustizia, e la Carboneria fu ridotta all'ombra di se stessa, riuscendo a sopravvivere soltanto nella condizione di innumerevoli, dispersi frammenti, e spesso con nuovi nomi e nuovi riti. Negli Stati Pontifici gli ebrei furono ancora una volta rinchiusi nei ghetti, e si procedette all'arresto di centinaia di persone so- spettate di sovversivismo politico, in specie in Romagna, dove l'attività dei settari era stata particolarmente intensa. In Piemonte Carlo Felice si sentì confermato nei suoi istinti reazionari e nella sua diffidenza per gli intellettuali (des mauvais sont tous lettres et les bons sont tous ignorants» ). I tribunali pronunciarono dozzine di sentenze capitali a carico di ribelli quasi sempre contumaci, e l' amministrazione fu sistematicamente ripulita dei dissidenti. p. 102 L'accentuata severità della censura, che rendeva molto più dìfficile ai liberali manifestare apertamente le loro idee attraverso la carta stampata, fece sì che nel corso degli anni Venti e Trenta altri media acquistassero un'importanza crescente come veicoli del sentimento patriottico. Per forza di cose, i quadri erano accessibili a cerchie ristrette; ma molte delle opere più acclamate di Hayez e dei suoi contemporanei riuscirono a raggiungere un pubblico amplissimo sotto forma di incisioni. Immagini come quella di Pietro Rossi che rinuncia con tristezza alle gioie della vita familiare per andare a combattere i suoi nemici contribuirono così a disseminare e celebrare ingredienti chiave di un ethos pubblico, accrescendone per questa via la rilevanza e la forza. Inoltre, in una società che il cattolicesimo aveva assuefatto alle vivide descrizioni dei tormenti sopportati dai santi (altrettanti banchi di prova sulla via della santità), la raffigurazione di sofferenze profane aveva una vigorosa capacità di commuovere e di legittimare. Quando Francesco Arese tornò a Milano dopo tre anni passati allo Spielberg, incaricò Hayez di fargli un ritratto che lo mostrasse seduto nella sua spoglia cella di pie- tra con le catene ai piedi (può darsi che a muoverlo fosse in parte una coscienza turbata: era stato uno dei più chiacchieroni nelle sue rivelazioni alla polizia). li contrasto tra l'abito e l'atteggiamento aristocratici di Arese e l'avvilente squallore dell'ambiente era calcolato per produrre il massimo impatto emotivo. p. 103 Ma in Italia la rappresentazione del Medioevo suscitava alcuni problemi spinosi. Se Vico, Cuoco e altri avevano contestato l'idea della maggioranza dei dotti del Rinascimento e de1l'illuminismo, secondo la quale le radici dell'Italia moderna stavano nel mondo romano, postulando invece l'esistenza di una civiltà preclassica {quella degli etruschi, un popolo unito, pacifico e colto), nel periodo post 1815 la convinzione crescente degli storici che le origini delle nazioni europee andassero ricercate nell'epoca cruenta delle invasioni barbariche dopo il V secolo d.C. significava accenderei riflettori su un periodo brulicante di messaggi contraddittori dal punto di vista del patriottismo italiano. Non c' era dubbio che Colombo fosse un uomo di grande lungimiranza ed energia; ma come mai era stato costretto ad affidarsi al patrocinio spagnolo per i suoi viaggi di esplorazione? Anche Pietro Rossi era chiaramente un uomo ambizioso e dotato di eccellenti virtù militari, pronto a castigare i suoi nemici. Ma chi erano i suoi nemici? Non si trattava di invasori od oppressori stranieri, ma dei signori di Verona e dei loro seguaci: in altre parole, di connazionali italiani.