1 Lucio Gentilini LA PARTIZIONE DELL’INDIA BRITANNICA Introduzione Col suo miliardo e 200 milioni di abitanti l’India è la seconda entità geografica per diversità culturale, linguistica e somatica dopo l’Africa ed i suoi numerosi popoli, lingue e religioni sono un groviglio inestricabile. Anche se le sue etnie principali sono fondamentalmente due, quella settentrionale ariana (statura alta e pelle chiara) e quella meridionale dravidica (statura bassa e pelle scura), numerosissime sono però le sfumature e le derivazioni nate dal loro incrociarsi e fondersi. La sua costituzione addirittura non ha adottato una lingua nazionale e, anche se l’hindi è la lingua ufficiale del governo e l’inglese è considerato ‘lingua ufficiale sussidiaria’, essa riconosce altre 21 lingue (utilizzate anche nei documenti pubblici dei vari stati) mentre c’è chi ha calcolato che il numero dei suoi dialetti è ben 1.652. Coi suoi oltre 160 milioni di abitanti il Pakistan è una repubblica islamica più omogenea dal punto di vista religioso, ma la sua articolazione etnica è fortemente composita: il gruppo etnico più numeroso è il punjabi (ariani ben numerosi anche in India) seguito da quello dei sindi, ma ad est dell’Indo sono presenti i pashtun di stirpe iranica originari dall’Afghanistan (di cui costituiscono il gruppo più numeroso, oltre il 40% del totale) ed i baluchi presenti anche in Afghanistan e nell’Iran del sud. Come si vede, la popolazione del Pakistan non solo non è omogenea, ma molti dei popoli che ci vivono sono popoli divisi in quanto molto presenti anche in altri stati (India e Afghanistan soprattutto) e ciò si riflette anche nella lingua: l’urdu è la lingua nazionale e l’inglese è la lingua ufficiale usata negli atti governativi, negli affari, nelle università pubbliche e dall’élite urbana, ma oltre a queste quasi tutti i pakistani parlano la lingua del loro gruppo (appunto il punjabi, il sindhi, il pashtun ed il baluchi). Coi suoi oltre 160 milioni di abitanti il Bangladesh è etnicamente compatto, dato che il 98% della sua popolazione è bengalese, parla bengalese (anche se l’inglese è utilizzato come seconda lingua ed è diffuso soprattutto fra le classi alte e nell’istruzione superiore) ed è per il 90% di religione mussulmana (il resto è prevalentemente indù), tuttavia la regione geografica, etnica e linguistica del Bengala comprende anche la confinante regione indiana del (appunto) Bengala occidentale che conta altri oltre 145 milioni di abitanti e, insomma, se tutti gli abitanti del Bangladesh sono bengalesi, solo i 3/5 circa dei bengalesi vivono in Bangladesh. Coi suoi 21 milioni di abitanti lo Sri Lanka è popolato da cingalesi (82%), tamil indiani (5%), tamil (4,4%) e mori discendenti dagli arabi (8%): è per il 77% buddhista e per il 15% induista e le sue lingue ufficiali sono il singalese e il tamil, 2 definite anche lingue nazionali, cui si aggiunge l’inglese come lingua di collegamento. Con i suoi 51 milioni di abitanti il Myanmar è per il 70% di etnia Bamar (di qui il precedente nome ‘Birmania’) ed il resto della popolazione è frazionato in numerosi gruppi minori: la religione di gran lunga più praticata è il buddhismo mentre cristianesimo ed islam sono adottati ognuno da un 4% della popolazione. Questi scarni dati, pur tanto elementari, bastano già a porre il problema di come e perché questi stati (e soprattutto India, Pakistan e Bangladesh) si sono formati con confini che oggi dividono stessi popoli (e religioni) ed al loro interno ne includono di molto diversi. Queste pagine vogliono così provare a rispondere a questa domanda e vogliono cercare di illustrarne la risposta che in effetti è assai semplice: questi stati sono nati infatti dopo che già l’impero Moghul ne aveva assoggettato (ed unificato!) una buona parte, soprattutto dopo che l’Inghilterra li aveva conquistati ed uniti tutti in una stessa colonia e quando infine questi si liberarono da tale giogo. Essi sono insomma il risultato della partizione dell’India britannica. 3 Gli europei in India Quando Aurangzeb morì nel 1707 (vedere il mio ‘Aurangzeb e l’Islam in India nell’età moderna’) l’impero Moghul in India si era tanto esteso quanto indebolito per le lotte e per le divisioni interne (e non solo religiose) e fu da allora che gli europei poterono cominciare la loro opera di progressiva conquista che nel 1858 avrebbe portato alla definitiva trasformazione dell’immenso subcontinente in un’unica colonia britannica. I primi europei a sbarcare in India erano stati i portoghesi: il 20 maggio 1498, per la prima volta nella storia del mondo e dopo una navigazione diretta dall’Europa iniziata oltre dieci mesi prima, i portoghesi di Vasco da Gama avevano infatti preso terra a Capocate (poche miglia a nord di Calicut sulla costa del Malabar, nell’India sudoccidentale). Alla ricerca delle importantissime spezie, nel tentativo di rimediare al blocco delle rotte mediterranee operato dai turchi conquistatori dell’impero bizantino e volendo prendere alle spalle gli odiatissimi mussulmani, essi avevano finalmente aperto la ‘Carrera da India’, cioè il collegamento marittimo diretto fra Europa ed Asia ottenuto grazie alla circumnavigazione dell’Africa. I portoghesi erano stati interessati al commercio ed a spazzare quindi via dall’oceano Indiano gli arabi (mussulmani) che fino a quel momento l’avevano controllato: una spedizione dopo l’altra, essi avevano saputo inserirsi nelle lotte e nelle rivalità fra i vari potentati locali indiani, costruire tutta una serie di fortezze, di porti e di basi su tutte le coste dell’oceano Indiano (ma non erano riusciti ad impadronirsi di Aden e quindi a chiudere il mar Rosso) ed erano arrivati anche nel Pacifico così da monopolizzare i traffici dall’Oriente al Mediterraneo ed all’Europa. Essi tuttavia erano rimasti sempre sulla costa e – a parte i luoghi da essi conquistati – non avevano influito quindi che marginalmente sulla storia dell’immensa India mentre ben presto gli altissimi costi dell’impero, quelli di trasporto e le difficoltà di smercio in Europa avevano reso la loro impresa sempre meno remunerativa. Soprattutto però essi avevano dovuto soccombere all’assalto dei determinati ed attivissimi olandesi: in guerra contro la Spagna per la propria indipendenza e dopo che quest’ultima si era annessa il Portogallo (1580) - divenuto dunque anche questo un nemico - anche l’Olanda si era infatti lanciata sugli oceani. Dopo il successo della loro prima spedizione alla ricerca di pepe nel 1595 (che era costata comunque la vita ai 2/3 degli equipaggi), il suo governo nel 1602 aveva assicurato il monopolio commerciale con l’Asia, l’autorità di edificare fortezze, di 4 stipulare trattati e di muovere guerra – poteri insomma sovrani - alla (privata) Compagnia delle Indie Orientali (VOC), anch’essa alla ricerca delle richiestissime spezie. Gli olandesi si erano mossi subito con grande determinazione (e ferocia), ma avevano puntato prima sulle Molucche (Indonesia), la vera fonte delle spezie, e da lì, strappata Malacca ai portoghesi, verso l’India, espugnando una dopo l’altra le fortezze e le loro basi finchè alla metà del XVII a questi ultimi era restato poco più di Goa (la loro excapitale) e delle isolette (Daman e Diu). Mentre i portoghesi si erano quindi sempre più volti al Brasile ed ai loro possedimenti africani, gli olandesi erano divenuti la massima potenza marittima del mondo con quasi la metà di tutto il tonnellaggio internazionale: la loro ascesa era stata travolgente, ma anche per loro era arrivato il momento di cedere le armi di fronte alla nuova potenza emergente sugli oceani, l’Inghilterra. Accomunati all’Olanda nella guerra contro la Spagna, gli inglesi si erano concentrati inizialmente sulla conquista ed sul dominio dell’Atlantico, ma già nel 1600 era nata anche in Inghilterra la Compagnia delle Indie Orientali che a sua volta aveva iniziato la sua penetrazione in India: lo scontro con l’Olanda era stato inevitabile e nella seconda metà del XVII ben quattro guerre anglo-olandesi, combattute con tutti i mezzi sui sette mari, avevano assicurato la vittoria agli inglesi. Le guerre erano cessate quando nel 1688, in seguito alla seconda (o gloriosa) rivoluzione inglese, il governatore dell’Olanda Guglielmo d’Orange (marito di Maria II Stuart, figlia del re d’Inghilterra Giacomo II) era divenuto re d’Inghilterra: senza entrare nel complicato scacchiere europeo che aveva giustificato quest’evento straordinario, qui basti chiarire che l’Olanda a questo punto aveva smesso di opporsi all’Inghilterra preferendo accettare ormai una posizione di secondo piano, mentre l’Inghilterra era in piena espansione e procedeva di conquista in conquista. Tuttavia anch’essa aveva dovuto ben presto fronteggiare nuovi nemici sui mari, i francesi, partiti per ultimi ma con grandi ambizioni. In realtà la prima Compagnia delle Indie Orientali francese era stata fondata nel 1601, ma, dati i prevalenti interessi della Francia per le questioni europee ed i suoi disordini interni, era ben presto languita: fu così che solo al tempo di Luigi XIV l’attivissimo Colbert, campione della prevalente mentalità mercantilistica del tempo, aveva fondato ben cinque compagnie commerciali privilegiate (cioè volute e protette dalla Corona) fra cui, nel 1664, appunto la Compagnia delle Indie Orientali. Le ambizioni di grandezza francesi si erano indirizzate dunque anche verso l’India e lo scontro fra le potenze europee per il dominio degli scambi intercontinentali si era complicato ulteriormente. E’ degno di nota che le varie Compagnie, i loro mercanti ed i loro rispettivi stati si erano sempre mossi di comune accordo e che, insomma, non era esistita in pratica nessuna distinzione fra pubblico e privato: non si era trattato semplicemente del fatto che ogni stato proteggeva le sue Compagnie, ma che queste ultime oltremare erano 5 autorizzate ad esercitare autonomi (!) poteri sovrani potendo però sempre contare sull’appoggio e la protezione dei propri governi. Sempre in competizione fra loro, Francia ed Inghilterra – fra le altre cose – si erano ritagliate zone d’influenza sempre più ampie in India finchè con la guerra dei Sette Anni (1756-63) erano arrivate alla resa dei conti: senza entrare nel merito di tutte le motivazioni della guerra e delle altre questioni e decisioni prese ai tavoli di pace, in questa sede interessa che in base al trattato di Parigi (1763), con la perdita di Calcutta, del Bengala e della regione del Bihar (nell’India nord-orientale), della città di Pondicherry (sulla costa sud-orientale) e dell’intera regione del Deccan (il grande altopiano centrale), la Francia era stata di fatto estromessa dall’India e l’Inghilterra non aveva ormai più rivali europei nell’immenso subcontinente. La Compagnia in India Nel 1784 l’Indian Act - la legge voluta da William Pitt (il vecchio) che stabilizzò e regolamentò la posizione inglese in India - concesse al governatore generale della Compagnia la facoltà di agire in nome del governo di Londra ed i vari governatori generali che si succedettero nella carica, grazie al dominio dei mari, alla superiorità del loro esercito moderno ed allo sfruttamento delle divisioni interne fra i vari stati indiani, procedettero all’ulteriore conquista dell’immenso territorio finchè, al termine delle guerre napoleoniche, nel 1818 gli inglesi dominavano ormai tutta l’India, ad eccezione del bacino dell’Indo e dell’Assam (nell’estremo nord-est) ed amministravano in maniera diretta la regioni più ricche con l’unica eccezione del regno Sikh (nel nord-ovest), ma le conquiste continuarono anche nei decenni seguenti con le occupazioni degli anni Quaranta del Sind (nell’India nord-occidentale) e del regno Sikh. Com’è noto, a metà Ottocento l’Inghilterra era la prima nazione industriale al mondo e la padrona del ferro e del carbone, così che, come dice Headrick, ‘Lungo tutto il bordo meridionale dell’Eurasia, ovunque potevano arrivare le sue navi e i suoi battelli, l’Inghilterra aveva ben poco da temere da qualsiasi altra potenza’ (pag. 43). La posizione della Compagnia era comunque estremamente particolare: lo stesso Indian Act prevedeva infatti il controllo del parlamento sulla Compagnia (e sui suoi dipendenti) cui quest’ultima doveva rispondere dei suoi comportamenti, ma, contemporaneamente, il parlamento (ed i singoli uomini politici) non doveva interferire sull’amministrazione della Compagnia stessa e sui suoi affari. A ognuno il suo mestiere, verrebbe da dire: la politica al parlamento e l’economia alla Compagnia che avrebbe dovuto comportarsi però nei confronti degli indiani secondo le indicazioni, anzi, le direttive, del parlamento stesso e si sarebbe dovuta astenere da nuove conquiste, evidentemente non più di sua competenza, ma manteneva intatti tutti i suoi privilegi, cioè il monopolio del commercio (in pratica il controllo della vita economica indigena). 6 La Compagnia costruì dunque la sua egemonia coloniale limitandosi all’aspetto commerciale-economico-finanziario: essa fece così dell’India il perno del suo intero raggio d’affari in Asia perchè a) monopolizzava a vantaggio proprio e della madrepatria il commercio fra India ed Europa, b) utilizzava le risorse fiscali dell’India per mantenere se stessa, le sue basi commerciali ed i suoi domini territoriali in Asia, c) ricorreva al cospicuo surplus commerciale dell’India verso il resto del mondo per controbilanciare il cronico e crescente disavanzo commerciale dell’Inghilterra nei confronti dell’Asia orientale. Tuttavia, come sempre nel caso del colonialismo, gli europei portarono insieme alla loro politica predatrice e sfruttatrice anche tutta una serie di miglioramenti, di ammodernamenti e di sviluppi intesi a trasformare i dominati perché assomigliassero sempre più ai loro dominatori: ciò era essenziale perché dominio e sfruttamento fossero sempre più completi ed efficienti, ma ciò soddisfaceva anche l’(ipocrita) ansia di ‘portare aiuto’ ai popoli che si riteneva ne fossero tanto bisognosi e rientrava in pieno nella mentalità superba ed autocompiaciuta degli europei del tempo che si sentivano del tutto superiori a tutte le altre civiltà e dunque in dovere di ‘elevarle’ perché si avvicinassero almeno alla loro: era insomma la (solita) infame ideologia del ‘fardello dell’uomo bianco’, così definita da Kipling, il massimo cantore di questa missione ‘civilizzatrice’. Come spesso nella cultura del colonialismo inglese, venivano ufficialmente enunciati i princìpi del liberalismo, come avvenne nel Charter Act del 1833 che pomposamente dichiarava che ‘… nessun nativo …dovrà essere inabilitato a detenere un qualsiasi posto, ufficio od impiego alle dipendenze della Compagnia a causa della sua religione, luogo di nascita, ascendenza, colore o uno qualsiasi dei detti motivi’. Almeno all’inizio i giovani indiani formatisi nelle scuole e università inglesi credettero sinceramente nelle dottrine liberali, nei valori morali e civici di cui la cultura europea si faceva portatrice e così credettero anche che gli inglesi si sarebbero comportati coerentemente con tali principî e avrebbero portato nel paese un profondo e positivo rinnovamento. Ma i proclami liberali erano in realtà poco più che parole e inevitabilmente la fiducia cominciò ad incrinarsi di fronte alla continua chiusura degli inglesi nei confronti delle sempre più insistenti richieste degli indiani occidentalizzati di rendere operanti i princìpi e lo spirito espressi dal Charter Act (e dal proclama reale del 1858). In ogni caso però tutta l’India britannica ricevette effettivamente moltissimi nuovi impulsi in ogni campo: dal restauro e dalla riorganizzazione del sistema dei canali alla riparazione delle vie di comunicazione, dalla creazione di un sistema di pubblica istruzione alla sostituzione come lingua ufficiale del persiano con le lingue locali e con l’inglese, dalla proibizione (almeno sulla carta) del lavoro minorile all’abolizione della pratica del sati (il rogo delle vedove sulle pire dove bruciavano i cadaveri dei mariti), la vita dell’immenso subcontinente veniva inesorabilmente trasformata 7 mentre e perché il suo commercio estero e la sua economia venivano sempre più gestiti dalla Compagnia e sottoposti agli interessi ormai planetari della madrepatria. Durante il XIX secolo la politica britannica impegnata ad attuare un preciso piano di occidentalizzazione del paese (cioè volendolo far incamminare sulla strada del ‘progresso’) divenne insomma sempre più intrusiva e sempre più paternalistica adottando atteggiamenti e prendendo provvedimenti spesso offensivi e discriminatori nei confronti degli indiani. L’arrivo dei missionari e la loro campagna di proselitismo destò sentimenti di inquietudine e il timore di una conversione forzata; ulteriore motivo di scontento fu la perdita per molti indiani delle cariche pubbliche sempre più massicciamente occupate da funzionari inglesi; la soppressione di antiche tradizioni indù - come il sati – e il mancato rispetto da parte inglese di prescrizioni e usanze locali contribuivano ad esasperare ed offendere gli animi. Le numerose annessioni territoriali e la cacciata dei relativi prìncipi dal trono occupato (magari da generazioni) concorsero anch’esse a suscitare sentimenti di forte risentimento e talvolta di decisa volontà di riscatto: oltretutto alcuni di questi regni erano annessi non in seguito ad un’azione militare (che sarebbe risultata almeno comprensibile) ma col pretesto che da un confronto tra il sistema di governo inglese e quello indiano il primo risultava senza dubbio di gran lunga migliore rispetto al secondo e dunque era legittimo estenderlo! Per legittimare le continue annessioni (piccole e grandi che fossero) addirittura venne varata una legge (!) che stabiliva che un proprietario terriero o un regnante potesse conservare controllo e profitti del suo territorio solo se il modo con cui lo amministrava rispecchiava i parametri dell’efficienza inglese, mentre in caso contrario l’intera area sarebbe passata agli inglesi stessi (che naturalmente si ergevano a giudici della bontà delle amministrazioni indiane). Un ulteriore provvedimento decretò la decadenza del diritto di successione al trono dei figli adottivi (e l’inglobamento automatico dei territori in questione nei domini inglesi) mentre era una tradizione plurisecolare che molti sovrani, per perpetuare la loro stirpe regale, in caso di assenza di figli maschi legittimi adottassero eredi della loro casta o famiglia con pieno diritto di successione. Un dominio come quello esercitato dalla Compagnia (e, in generale, come tutti gli altri del colonialismo) non si sarebbe tuttavia mai potuto esercitare senza l’accordo e la convenienza di una parte della società indiana stessa: come Mao a suo tempo avrebbe spiegato, l’occupante colonialista si allea infatti con le classi dominanti (o, almeno, con una parte di esse) che hanno tutto l’interesse a rafforzare in questo modo la loro oppressione sulle masse popolari che si trovano ora ad avere un nemico (molto forte) in più che, alleato dei loro signori, collabora con loro per mantenerli nella loro condizione di soggezione. Fu così che in genere le classi superiori indiane furono favorevoli alla presenza della Compagnia e ne trassero grandi vantaggi potendo aumentare i loro patrimoni terrieri in cui le condizioni dei contadini peggiorarono sensibilmente spesso fino alla 8 disperazione: non è del tutto esatto dunque parlare di sfruttamento degli indiani da parte degli inglesi, bensì di sfruttamento delle masse popolari indiane da parte degli inglesi e delle classi possidenti indiane – almeno nel XIX secolo. Un grosso e radicale cambiamento si verificò comunque in seguito alla rivoluzione industriale in Inghilterra: fino agli anni Venti dell’Ottocento le merci inglesi (ed europee) non erano state competitive sui mercati dell’Asia e per quanto i dominatori inglesi avessero cercato di imporsi, la loro bilancia commerciale con l’India non era riuscita ad essere in attivo. Per impedire un vero e proprio drenaggio di valuta (metallica) gli inglesi erano ricorsi addirittura alla produzione in India di oppio da vendere sugli avidi mercati cinesi. Tuttavia con la rivoluzione industriale l’Inghilterra potè cominciare a produrre in grande quantità ed a costi molto bassi così che il suo vantaggio divenne incolmabile: all’inizio furono i filati e le cotonate di Manchester che poterono dilagare in India dove non esistevano barriere doganali alle merci inglesi (mentre l’Inghilterra ne aveva di altissime sulle merci indiane) con l’ovvio risultato di distruggere in pochissimo tempo l’artigianato cotoniero indiano. Era una delle modalità classiche del colonialismo che, oltre a rapinare i paesi soggetti del loro lavoro e delle loro risorse, li costringeva a diventare mercati di sbocco delle produzioni della madrepatria e li costringeva ad esportarvi le loro materie prime (con scarso valore aggiunto) a basso costo. L’India dovette così intensificare l’esportazione di juta e di cotone greggio per l’insaziabile industria tessile inglese, di tè per l’assetata madrepatria e soprattutto di oppio per la Cina [e ciò comportò le due famose ‘guerre dell’oppio’ (1839-42 e 185660) che videro la sconfitta della Cina ed il suo conseguente ulteriore asservimento]. Per tutto il XIX secolo il monopolio governativo della produzione e della vendita dell’oppio rappresentò una delle massime risorse dell’economia indiana e dopo l’imposta fondiaria la seconda fonte fiscale dell’impero coloniale indiano, visto che – ripetiamolo - erano gli indiani a dover pagare i costi del loro stesso asservimento. Intanto, mentre gli inglesi venivano così plasmando il paese secondo la loro civiltà, la loro religione e, soprattutto, in favore dei loro interessi, dal punto di vista politico la Compagnia usurpò progressivamente sempre più potere dalla mani dell’imperatore Moghul relegandolo nella gabbia dorata della sua corte idilliaca e poetica a Delhi: tuttavia, anche se gli affari di stato erano diretti dal residente della Compagnia, l’impero Moghul rimaneva pur sempre ufficialmente in piedi e l’imperatore, per quanto manovrato ed eterodiretto, continuava a rimanere la fonte ufficiale e legittima del potere. La Compagnia insomma, di fatto padrona del paese e dotata di poteri sovrani, di una propria burocrazia, di proprie forze armate, detentrice della direzione del commercio e dell’economia indiane, rimaneva però pur sempre (almeno sulla carta) un’ospite ed una partner dell’imperatore. Questa situazione sicuramente precaria venne risolta dalla rivolta dei sepoys e dal suo soffocamento. 9 La rivolta dei sepoys L’esercito che un pezzo dopo l’altro aveva conquistato l’India era stato sempre più composto dagli stessi indiani appartenenti alle varie etnie, popoli, gruppi linguistici e religiosi, che allora in fondo rendevano l’India un’espressione geografica. La frammentazione etnica, politica, religiosa e culturale era la condizione delle diverse regioni indiane che, legate a identità e storie differenti, quasi mai si erano davvero trovate organizzate in un fronte comune e compatto e sotto un’unica bandiera. In India il concetto di nazione era completamente assente, né sarebbe stato possibile nonostante la precedente conquista dei Moghul. Un elemento di unità cominciò tuttavia ad essere fornito proprio dall’esercito costruito dagli inglesi: anche se i nuovi regolamenti militari tenevano necessariamente conto del sistema delle caste e delle sue prescrizioni, l’esercito per definizione riorganizza e riassembla in un’unità elementi diversi, così i soldati giuravano fedeltà ai superiori ed all’esercito inglesi e, obbedendo ai loro ordini, finivano per combattere ogni volta contro altri eserciti indiani. A garantire che il controllo e la direzione dell’esercito rimanesse in mano inglese era l’occupazione delle posizioni di comando (mentre ai nativi erano naturalmente riservati ruoli subordinati) e l’accesso alle munizioni, ai cannoni e ad ogni altro aspetto vitale della macchina militare, ma nondimeno i soldati indiani – i sepoys godevano di vantaggi e di una posizione che in passato non avevano mai avuto: il prestigio di indossare la divisa di un esercito tanto potente, armi sofisticate e nettamente superiori a quelle locali, una paga regolare, (limitate) promozioni ed incentivi finanziari. Eppure, nonostante tutto ciò, il dominio inglese bruciava sull’orgoglio e sull’identità stessa degli indiani, umiliati ed espropriati della loro terra, e questi sentimenti esplosero durante la rivolta dei sepoys. La rivolta dei sepoys (o, a seconda dei punti di vista, ‘Indian Mutiny’ e ‘prima guerra d’indipendenza indiana’) si sviluppò dagli inizi del 1857 alla metà del 1858 soprattutto a Delhi e nell’area centro-settentrionale dell’India: i primi segni di un crescente malcontento (con azioni incendiarie nelle aree di acquartieramento delle truppe) erano cominciati già nel gennaio 1857, ma deflagrarono in maggio in seguito ad un episodio (apparentemente) incredibile. Il nuovo moschetto a canna rigata Pattern 1853 Enfield dato in dotazione ai sepoys era un fucile molto più efficiente del precedente, ma richiedeva che il soldato mordesse la punta della cartuccia per aprirla, ne mettesse la polvere nella canna e poi la pallottola con l’apposita bacchetta: per mantenerla asciutta la cartuccia era unta di grasso e, oltre al fatto che questo era disgustoso al palato e richiedeva continue pulizie della canna, presto si sparse la voce che era grasso di vacca, animale sacro per gli indù e che era dunque sacrilegio mettere in bocca, e di maiale, animale impuro per i mussulmani e che dunque ancora una volta non poteva esser messo in bocca. 10 Non servì a nulla che gli ingredienti del grasso venissero cambiati: i sepoys rifiutarono le nuove armi. Se essi fossero stati reclutati fra gli appartenenti alle caste inferiori forse il problema non sarebbe stato avvertito in modo così acuto, ma la Compagnia preferiva sceglierli fra gli appartenenti a caste più elevate, sia per ingraziarsele sia perché i suoi soldati fossero più rispettati: sicuramente poi il risentimento era aggravato anche a causa dell’aggressiva opera dei missionari, tanto che si rumoreggiò che le nuove cartucce erano parte di un complotto per facilitare le conversioni al Cristianesimo. La rivolta fu così animata da istanze politiche, sociali e da forti rivendicazioni religiose che compattarono i differenti culti presenti nel paese: essa combattè contro l’inarrestabile penetrazione occidentale e contro la sua minaccia sia alle religioni che a tutto il sistema di vita indiani. In maggio dunque la rivolta esplose e si trasformò in guerra aperta: essa si diffuse infatti anche fra la popolazione civile al di fuori delle forze armate, ma a causa dell’estrema disomogeneità delle società indiane essa non si trasformò mai in un’insurrezione generale come i suoi capi avevano sperato. La rivolta, iniziata vicino a Delhi, a poco a poco si propagò infatti in gran parte dell’India settentrionale, ma la maggior parte dell’India meridionale ed il Punjab (dove i sikhs non volevano il ritorno dell’impero Moghul) rimasero in genere estranei alla lotta (anche perché non tutti quegli stati erano stati ancora assoggettati al dominio della Compagnia) e nemmeno tutti i reparti dei sepoys si ribellarono. Alla ricerca di simboli e di credibilità, i rivoltosi si rivolsero all’imperatore Moghul Bahadur Shah II conosciuto come Zafar (il vittorioso), ventiduesimo discendente di Babur, e lo acclamarono imperatore di tutta l’India, ma non fu una scelta felice: nato nel 1775, Zafar aveva dunque 82 anni, e dal 1803, cioè fin dall’arrivo delle truppe inglesi nella capitale, era diventato in pratica un pensionato della Compagnia. Anche se aveva conservato il titolo di imperatore la sua giurisdizione non si estendeva oltre le mura del Forte Rosso: egli viveva insomma ritirato in questa splendida reggia di Delhi, dedito alla poesia e poco incline all’azione, così fu una semplice copertura (e una vittima) dei ribelli. Come sempre succede nelle rivolte, inizialmente il successo arrise ai sepoys che riuscirono a respingere le forze della Compagnia ed a conquistare numerose importanti città, ma quando gli inglesi reagirono, ricevettero rinforzi e partirono al contrattacco, i sepoys non furono in grado di resistere: essi mancavano di un comando centrale, i loro leaders erano troppo numerosi e per la maggior parte raja e prìncipi, praticamente alla testa della rivolta per diritto dinastico e dunque spesso incapaci ed opportunisti. L’episodio culminante della guerra fu l’assedio di Delhi da parte degli inglesi: dalle loro basi sul crinale (il famoso ‘ridge’) settentrionale di Delhi nel caldo soffocante dell’estate indiana l’assedio di Delhi durò dal 1 luglio al 21 settembre e si concluse con stragi della popolazione, feroce saccheggio ed indiscriminata devastazione della capitale. Massacri, ritorsioni, bombardamenti, furti e rapine furono perpetrati dagli inglesi con cieco furore e senza alcuna considerazione per gli innocenti e le innumerevoli opere 11 d’arte che andarono distrutte senza ritegno (come sarebbe successo l’anno seguente con la distruzione del Palazzo d’Estate nei dintorni di Pechino): oltretutto gli inglesi erano infiammati anche dalle notizie delle spietate uccisioni, avvenute per mano dei sepoys, di europei (senza riguardo alla loro età e al loro sesso) e di quegli indiani che avevano collaborato con loro. Dopo Delhi gli inglesi si mossero per liberare città per città tutto il territorio perso mentre nella madrepatria le notizie delle uccisioni di donne e bambini bianchi da parte dei rivoltosi scosse profondamente l’opinione pubblica che pretese a gran voce la punizione senza pietà dei colpevoli e non ascoltò più quei simpatizzanti della causa indiana che pure esistevano anche in Inghilterra. La fine della guerra, vittoriosa per gli inglesi, fu seguita dalla messa a morte della grande maggioranza dei combattenti indiani, come pure di un vasto numero di civili che si sospettava avessero avuto simpatia per la causa dei rivoltosi. La rappresaglia inglese fu sicuramente terribile: la maggior parte dei sepoys prigionieri fu impiccata o ‘legata al cannone’ per esserne sbriciolata - fine toccata anche a quei sepoys che non avevano preso parte alle uccisioni - e non ci fu modo di arrestare le ritorsioni. E’ difficile credere che le spaventose rappresaglie scatenate dagli inglesi siano state vendette per le analoghe violenze e le precedenti stragi perpetrate dai ribelli: esse invece ne furono largamente indipendenti ed addirittura le precedettero spingendo all’insurrezione anche sepoys e comunità indiane fino ad allora indecisi. In ogni caso la ferocia fu generale in questa guerra che pure occupa poco spazio nei testi di storia: fu una guerra violenta e brutale ed entrambi i contendenti si macchiarono di tutti quelle atrocità che nel Novecento sarebbero stati definiti ‘crimini di guerra’, ma naturalmente in termini numerici le perdite furono significativamente pesanti solo per la parte indiana che aveva una folta popolazione civile a differenza degli inglesi, relativamente pochi ed in genere soldati e funzionari. Mentre i soldati fecero pochissimi prigionieri (e spesso anche questi furono giustiziati in un secondo momento) interi villaggi furono poi rasi al suolo per il semplice sospetto di simpatia per gli insorti: gli indiani chiamarono queste rappresaglie ‘il vento del diavolo’ e stampa e governo inglesi non chiesero in alcun modo clemenza, sebbene il governatore generale Canning mostrasse comprensione verso gli indiani e si guadagnasse così lo sprezzante soprannome di ‘Clemenza Canning’. Bahadur Shah II venne imprigionato e ricevette le teste mozzate dei suoi figli come monito, punizione e vendetta: tuttavia in seguito, processato per altro tradimento (!) da una commissione militare riunita a Delhi, sarebbe stato esiliato a Rangoon dove sarebbe morto nel 1862. Così si sarebbe estinta la lunga e gloriosa dinastia Moghul. Col senno di poi è agevole vedere che la rivolta dei sepoys era condannata al fallimento fin dall’inizio: essa fu un confuso tentativo di ritorno al passato, il sogno di ripristinare i fasti di un’età che era stata invece fatalmente travolta dai tempi nuovi del commercio mondiale, della prima globalizzazione e dell’unificazione dei mercati. Con una felice espressione Spear la definisce ‘il canto del cigno della vecchia India’ (pag.347). 12 L’India colonia britannica La rivolta dei sepoys segnò una svolta nella storia dell’India ed in quella dell’impero britannico stesso: per una sorta di contrappasso (o di ‘eterogenesi dei fini’) erano stati infatti proprio gli inglesi ad unificare (od a ri-unificare) i numerosi popoli e stati che vivevano nell’immenso subcontinente, ma, così facendo (e così non potendo non fare), essi avevano compattato le società indiane e le avevano messe di fronte ad un dominio ed un controllo unico ed esterno cui prima o poi avrebbero reagito. Avvenne così che la rivolta dei sepoys a) innanzitutto fu la prima manifestazione della nascita dello spirito nazionale indiano e del suo desiderio di indipendenza; b) costrinse gli inglesi a gettare la maschera della loro pretesa superiore civiltà: il loro comportamento spietato e feroce mise in luce al contrario la loro barbarie e la violenza sfrenata della loro brama di sfruttamento e di ricchezza; c) soprattutto però mise in luce l’insufficienza della Compagnia a tenere sotto controllo un territorio così smisurato e dalla popolazione così numerosa. La Compagnia controllava direttamente oltre 1.432 kmq. di territorio con una popolazione di quasi 90 milioni persone ed i suoi alleati e tributari erano 43milioni su oltre 1.522mila kmq: solo 6 milioni di abitanti erano ancora indipendenti, seppur su un territorio di 327.702 kmq.: non si poteva continuare in questo modo ed era evidente che la Compagnia era insufficiente al compito, così l’Inghilterra stessa, allarmata dalla guerra e dalla difficoltà oggettiva di dominare il subcontinente, decise di prenderlo direttamente nelle sue mani e di gestirlo in prima persona. Già in agosto il ‘Government of India Act 1858’ sciolse la Compagnia dopo oltre due secoli e mezzo di esistenza e di stupefacenti realizzazioni così decisive per la storia dell’Inghilterra (e del pianeta stesso) e ne trasferì i poteri alla Corona: nel governo britannico venne così creato un nuovo ministero ad hoc, l’India Office, e l’amministrazione dell’India fu affidata ad un funzionario governativo, il Segretario di Stato per l’India, mentre il Governatore Generale dell’India divenne addirittura Viceré dell’India, residente a Calcutta ed incaricato di attuare le politiche e le misure volute dall’India Office. Subito la nuova amministrazione coloniale britannica si lanciò nell’attuazione di un vasto ciclo di riforme: come sempre nella politica coloniale si vollero integrare ed associare le più alte caste indiane ed i signori locali nel governo della colonia stessa; gli indiani furono ammessi nei servizi civili (naturalmente come subordinati); i tentativi di occidentalizzare gli indiani vennero abbandonati e venne lasciato loro il maggior spazio possibile purchè non interferisse coi piani (e cogli interessi) dei nuovi signori; l’appropriazione di terre venne fermata; la tolleranza religiosa fu permessa. In campo militare si aumentò il numero dei soldati britannici rispetto a quelli indiani; furono mantenuti i reggimenti rimasti fedeli; furono accresciute le unità straniere arruolate fra le cosiddette ‘martial races’ (quelle cioè che mostravano una maggior predisposizione al mestiere delle armi e che non facevano parte della popolazione 13 indiana predominante) come i temibilissimi Gurkha nepalesi, così decisivi nella campagna di Delhi; si eliminò il sistema che aveva estraniato i sepoys dai loro ufficiali britannici (ora molto più a contatto con loro) il cui numero peraltro calò vistosamente dato che maggior fiducia e responsabilità vennero delegate agli ufficiali indiani; tuttavia tutta l’artiglieria rimase in mano inglese. Il significato di tutte queste riforme è lampante: gli inglesi da maestri del colonialismo quali erano vollero fondere in un’unica compagine la miriade di popoli a loro sottomessi in tutti i continenti amalgamandone le economie in un unico mercato diretto da Londra (nel 1877 la Regina Vittoria divenne Imperatrice di tutte le Indie): fu un’operazione ciclopica che (per quel che riguarda l’India almeno) richiese a) innanzitutto che i popoli indiani accettassero il dominio britannico - e per questo si cercò di coinvolgerli il più possibile nell’amministrazione ma, ovviamente, sotto la direzione e la supervisione inglese; b) poi che le classi dominanti indigene si integrassero (seppur a un livello inferiore) nella struttura di comando della colonia - accettando naturalmente la supremazia inglese in cambio del riconoscimento del loro status precedente; c) inoltre che gli indiani venissero disturbati il meno possibile nei loro costumi, nelle loro religioni e nella loro cultura – a patto però che ciò non interferisse con le esigenze dell’impero; d) infine che gli indiani stessi venissero controllati militarmente – di qui la formazione di reparti militari composti da soldati provenienti da altri popoli. Gli inglesi erano convinti che la loro civiltà, la loro evidente superiorità e la loro visione planetaria dell’impero si sarebbero imposte praticamente da sole grazie alla loro stessa forza e capacità d’attrazione ed effettivamente fra le caste colte e dominanti non furono rari i casi di volontario adeguamento, di adesione convinta e di adozione dei costumi e della mentalità inglesi. L’India, ormai saldamente di fatto unificata e coordinata e diretta dal suo efficiente apparato amministrativo, l’ ‘Indian Civil Service’, continuò così il suo tumultuoso cambiamento su basi più regolari e solide mentre l’Occidente era a sua volta entrato in quel periodo di profonde innovazioni che va sotto il nome di ‘seconda rivoluzione industriale’: i due processi si saldarono in India che, oltretutto, era diventata il perno dell’intero impero britannico. Le nuove possibilità della tecnologia che nel XIX secolo trasformarono la vita sul pianeta e resero l’imperialismo coloniale ben più efficiente e possibile: esse furono ovviamente numerose (rete stradale e canali di irrigazione compresi), ma quelle di gran lunga più importanti furono sostanzialmente le seguenti: innanzitutto il telegrafo che con le sue centinaia di migliaia di chilometri di cavi (anche transoceanici!) permetteva il collegamento praticamente immediato di Londra con tutta la rete planetaria delle stazioni dell’impero: il miglior esempio di questa nuova meraviglia fu offerto il 22 giugno 1897, il ‘Giubileo del diamante’ in occasione della celebrazione dei 60 anni di regno della regina-imperatrice Vittoria, 14 quando quest’ultima in pochi secondi inviò il suo messaggio in tutti gli angoli del suo impero, il più grande che la storia dell’umanità avesse (e abbia) mai conosciuto. I tempi, pur cronologicamente vicini, in cui i dispacci arrivavano a destinazione dopo mesi e mesi di navigazione (e altrettanti erano necessari per la risposta) apparivano remoti – e lo erano davvero perché ora la situazione del colossale apparato coloniale era tenuta costantemente e facilmente sotto controllo ed era possibile un coordinamento, un’armonizzazione ed una capacità di reazione fino a poco prima impensabili. La navigazione a vapore abbreviò notevolmente i tempi di percorrenza, potè ignorare i monsoni che costringevano la navigazione a vela entro limiti insuperabili ed aumentare di molte volte i carichi trasportati che l’industria in pieno sviluppo richiedeva sempre più consistenti. Desta quindi un certo stupore che gli inglesi non si siano subito resi conto della decisiva importanza del canale di Suez: com’è noto, il canale fu opera del francese Ferdinand de Lesseps su progetto dell’ingegnere italiano (ma suddito austriaco) Luigi Negrelli e venne realizzato con una compartecipazione franco-egiziana all’impresa, tanto che alla cerimonia d’apertura, il 17 novembre 1869, quando per la prima volta le acque del Mediterraneo si unirono a quelle del mar Rosso, fu presente lo stesso Napoleone III. L’Inghilterra era rimasta incredibilmente assente dall’avventura (anzi si era opposta per rivalità con la Francia) della quale sarebbe pur stata la principale beneficiaria, ma seppe riprendersi presto ed alla prima occasione: già nel novembre 1875 l’Egitto era sull’orlo della bancarotta e i francesi tentarono di approfittarne offrendo prestiti ad un tasso molto alto e pretendendo assicurazioni che li avrebbero portati a controllare l’intero paese, ma il premier britannico Disraeli seppe agire con tempestività facendosi vendere dal khedive Isma'il Pascià per 4 milioni di sterline (anticipati dal banchiere Rothshild) la sua quota delle azioni (il 50%) della compagnia che aveva in gestione il canale per 99 anni. Disraeli si era mosso con velocità fulminea e con quella quota l’Inghilterra si era assicurata con un colpo solo il controllo della rotta delle Indie, ma non bastò ancora perché tale rotta era talmente vitale per l’Inghilterra che questa, ancora una volta alla prima (solita) occasione, nel 1882 inviò truppe per proteggere il canale e, di fatto, con questa mossa sottomise l’intero Egitto che entrava così anch’esso nel suo impero. Fu un classico esempio della ‘coda che muove il cane’, cioè di esigenze di geostrategia che spingono a nuove conquiste di per sé non volute, ma rese necessarie dallo sviluppo degli eventi. Come si è detto, per la sua stessa posizione geografica l’India era il perno dell’intero impero britannico (l’aveva capito anche Napoleone al tempo della sua campagna d’Egitto nel 1798), la ‘gemma più preziosa’ sulla corona della regina-imperatrice Vittoria e per la conseguente necessità di svilupparla gli inglesi si lanciarono nella costruzione della grandiosa rete ferroviaria indiana. La costruzione di strade ferrate fu una delle grandi epopee del secondo XIX secolo (dalla ‘coast to coast’ statunitense alla transiberiana russa) che vide tutta una serie di 15 imprese colossali e stupefacenti, ma la rete ferroviaria dell’India merita una menzione a parte. L’Inghilterra, sicura padrona dei mari, controllava agevolmente le coste, ma un dominio vero e proprio dell’immenso subcontinente - ed il suo conseguente sfruttamento - incontravano ancora difficoltà insormontabili dovute alla lenta e complicata rete dei trasporti che aumentava i costi delle merci fino a livelli proibitivi: era quindi necessario dotare l’India di un moderno sistema ferroviario che per Headrick ‘costituì il più mastodontico progetto dell’era coloniale’ (pag. 192) e che l’Inghilterra intraprese con determinazione: i lavori, già iniziati nel 1852, dopo la trasformazione dell’India in colonia britannica subirono così una decisa accelerazione. E’ evidente che sui terreni pianeggianti le difficoltà erano facilmente superabili, ma dove l’altopiano del Deccan scende a picco di 550-600 metri, dove si dovette procedere in salita e dove fu necessario scavalcare i grandi fiumi capaci di enormi straripamenti gli ingegneri britannici furono sempre capaci di ottenere i risultati voluti dimostrando tutto il loro valore tanto che nel 1868 le linee principali erano state già ultimate (!). Con le ferrovie arrivò tutto un nuovo modo di vivere e i costi del trasporto via terra crollarono, ma ciò non preparò o favorì – come alcuni avevano sperato – la rivoluzione industriale anche in India: le ferrovie indiane infatti non erano state certo costruite per questo e l’India divenne invece ancora meglio e sempre più dipendente dalle merci dell’industria britannica ed esportatrice di materie prime e di prodotti agricoli, secondo il canone classico dei paesi colonialisti che sfruttavano le colonie non solo per prelevarne le materie prime, ma, appunto, anche come mercati di sbocco per le loro merci. Il risultato fu evidentemente un progressivo e costante impoverimento della colonia che, oltretutto, doveva anche coprire i costi della sua stessa colonizzazione. Come si è detto, per tutto il XIX secolo l’India fu il centro economico dell’impero coloniale britannico, essenziale al suo commercio ed ai suoi collegamenti, mentre continuava a fornirgli la gran massa delle sue truppe, arruolate di prevalenza fra le sue minoranze guerriere come i sikh, i rajput e i gurka, mentre le caste elevate indigene continuavano a trarre vantaggi dalla sottomissione sempre più grave delle caste inferiori e dei contadini. Tuttavia allo stesso tempo era impossibile non vedere il miglioramento che la nuova amministrazione portava in tutti settori e la vera e propria rivoluzione che l’avvento di tante innovazioni tecnologiche produceva nella vita dello sterminato subcontinente. 16 La contraddizione del colonialismo britannico in India La giustificazione ideologica del colonialismo britannico – come del resto del colonialismo in generale - era l’incrollabile convinzione della superiorità della cultura e della tradizione inglesi (ed europee) su quelle indiane (e su tutte le altre) visto che in interi continenti secondo gli europei regnavano invece il disordine, l’ineguaglianza, l’arretratezza, la miseria, in una parola, la barbarie: i colonialisti si sentirono così sempre in dovere di portare ovunque la propria cultura e la propria civiltà insieme al loro ordine, anch’esso superiore,. Ma oltre a ciò erano le esigenze stesse del dominio coloniale a richiedere che i popoli assoggettati partecipassero alla cultura dei loro signori: essi infatti (o, almeno, una quota significativa di essi) dovevano collaborare e lavorare coi loro sfruttatori, 17 condividerne gli obiettivi, essere convinti della bontà del nuovo regime che li portava ad un livello incomparabilmente più alto, ecc., dovevano insomma diventare degli occidentali anche loro, altrimenti il colonialismo stesso non sarebbe mai stato possibile. Fin dallo sbarco degli spagnoli in America – cioè fin dall’inizio dell’espansione dell’Europa – questa era stata un’esigenza insopprimibile, ben compresa dai gesuiti che ovunque avevano aperto scuole e così fecero – dovettero fare – anche gli inglesi con gli indiani. E la contraddizione era proprio questa, necessaria ed ineliminabile: diffondere la cultura europea che parlava di libertà, di diritti civili, di stato di diritto e di uguaglianza, a persone che si volevano invece dominare e mantenere in uno stato di soggezione! Mostrare i benefici dello stato di diritto a chi ne doveva essere escluso! E per di più pretendere che tutto ciò venisse accettato e ritenuto giusto! Insomma, il colonialismo per la sua stessa struttura e natura non poteva non diffondere la cultura che nei suoi stessi principi ne era una negazione e implicitamente una contestazione! Non poteva cioè non fare a meno di offrire ai dominati gli strumenti culturali per ribellarsi mentre, oltretutto, li unificava! Esso si fondava su questo (apparente) paradosso. Fu così che per esempio i giovani indiani cui si facevano frequentare scuole nate sul modello di quelle in Inghilterra, che ne studiavano la lingua, la storia, la letteratura, la filosofia, il diritto, ecc., furono educati alla cultura più liberale del tempo ma contemporaneamente ogni giorno, usciti da scuola, vedevano che tali principi non venivano applicati da quegli stessi che glieli insegnavano: agli indiani erano precluse le cariche più importanti e direttive dell’amministrazione pubblica e, più in generale, dovevano vivere in un regime al massimo paternalistico, ma comunque autoritario, discriminatorio e spesso apertamente razzista nei loro confronti. Coloro che a parole dicevano di fondarsi sui principi dell’uguaglianza, della giustizia e della libertà, esibivano però diffidenza, arroganza e chiusura nei confronti di tutto ciò che era indiano: il tempo in cui gli inglesi, agli albori della loro avventura coloniale in India, avevano mostrato interesse ed un certo rispetto per le culture locali era tramontato e si era trasformato in un atteggiamento di sfoggio della propria superiorità culturale e addirittura razziale. Era inevitabile poi che quegli indiani che si erano formati nelle scuole e università inglesi e che avevano creduto ingenuamente nelle dottrine liberali e nei valori morali e civici di cui la cultura europea si faceva portatrice dovettero ben presto ricredersi posti di fronte alla sistematica chiusura degli inglesi ogni volta che erano richiesti di passare dalle parole ai fatti. Ma la forza di quelle idee, fatte ormai proprie dai giovani della nuova classe media occidentalizzata, non venne meno per questo ed anzi furono proprio quelle idee il motore della lotta di liberazione nazionale contro l’Inghilterra e di quella per trasformazione dell’India in una repubblica democratica. 18 Il Congresso Nazionale Indiano La contraddizione del colonialismo nel caso dell’India britannica assunse toni particolari e fu molto lenta ad esplodere, anche perché penetrò profondamente nelle fibre delle società indiane del tempo. Come ai tempi del dominio dei Moghul, in un primo tempo gli indiani avevano creduto che con gli inglesi si fosse passati semplicemente da un signore straniero ad un altro, ma ben presto si erano dovuti ricredere di fronte ai cambiamenti radicali che l’immissione nel mercato mondiale, la rivoluzione culturale e quella tecnologica stavano producendo nelle loro società: la reazione a questo terremoto era stata a volte di cieco entusiasmo, ma più spesso di rifiuto in nome di un’intera tradizione sconvolta. La rivolta dei sepoys aveva segnato il culmine ed il fallimento del tentativo antistorico di tornare al passato e per questo essa segna uno spartiacque nella storia dell’India e l’inizio di una nuova éra nella quale gli indiani si resero conto che avrebbero dovuto fare seriamente i conti con tutte le sconvolgenti novità che il dominio britannico comportava ed alle quali non era più possibile sfuggire. Dovevano imparare ad accettare l’Occidente, ma senza rinnegare e perdere se stessi. Ancora una volta era evidente che erano gli inglesi stessi a scavare la fossa del loro dominio coloniale grazie alle contraddizioni della sua logica interna stessa: furono gli inglesi infatti a fornire agli indiani i quattro strumenti fondamentali per compattarli e saldarli insieme: l’unificazione politica, la lingua, i trasporti e l’amministrazione. L’unificazione politica formò anche la prima coscienza nazionale; l’utilizzo dell’inglese, per quanto lingua straniera, come lingua professionale creò un’omogeneità tra le classi colte mai vista prima - quando si parlavano invece numerose lingue e dialetti diversi; la rivoluzione dei trasporti permise il contatto fisico fra persone prima separate da distanze sterminate e difficilmente percorribili; il nuovo, centralizzato e razionale apparato amministrativo introdotto dagli inglesi cancellò o combattè numerose differenze e separazioni di casta, tradizione e sistemi amministrativi stessi. Anche i giornali ebbero poi un ruolo di primo piano nell’amalgamare società fino ad allora estranee, diverse e lontane, e nel creare una prima coscienza nazionale indiana, visto che ora si poteva infatti conoscere ciò che succedeva in tutto il subcontinente considerato come un’unità. Nel confuso e drammatico dibattito e fra le spinte contrastanti generate dalla tumultuosa irruzione del XIX secolo nell’immenso e frastagliato subcontinente, la voce più importante e più decisiva fu comunque quella del Congresso Nazionale Indiano (o Partito del Congresso), un partito politico laico (seppur a larga maggioranza indù) ispirato al liberalismo ma con un forte interesse per la questione sociale e razziale. 19 La scoperta di essere una comunità più vasta di quelle dei regni e dei gruppi etnici diversi - e dunque la prospettiva di un’India nazione unita e unica - inevitabilmente portava con sè anche il bisogno e la necessità della sua indipendenza dall’Inghilterra. Fu in questo clima ancora agli albori che il Congresso Nazionale Indiano il 28 dicembre 1885 si riunì a Bombay per la prima volta. I suoi fondatori si ponevano l’obiettivo di unificare gli sforzi di quanti operavano per la causa nazionale e di dare vita ad una piattaforma dove fosse possibile impostare la discussione e programmi operativi per l’intera India. Lo spirito con cui il Congresso nacque non era affatto rivoluzionario bensì improntato ad un grande lealismo nei confronti della Corona inglese (!), nella convinzione che il legame tra India ed Inghilterra fosse benefico e necessario per entrambe. Quel 28 dicembre il Congresso si riunì così addirittura sotto gli auspici dell’allora vicerè lord Ripon: era infatti desiderio del governo inglese promuovere la formazione di un ceto dirigente indiano, fedele agli inglesi e capace di affiancarli nell’amministrazione di un paese troppo vasto, complesso e popoloso, per le tutto sommato limitate possibilità della burocrazia britannica. Il Congresso rappresentava la classe media indiana occidentalizzata e puntava a raggiungere i seguenti obiettivi: 1) il concreto accesso anche degli indiani alle cariche dirigenziali della burocrazia e dell'esercito; 2) una politica economica non volta a favorire unicamente gli interessi inglesi; 3) istituzioni rappresentative della volontà del popolo indiano. Come si vede, si voleva essere accettati dal regime esistente e non (ancora) sostituirlo. Il Congresso già nelle figure dei suoi tre fondatori mostrò la sua netta volontà di occidentalizzare l’India e di collaborare con gli inglesi (seppur su un piano di parità e di rispetto reciproco), tanto che, come si è visto, questi ultimi lo videro di buon occhio e lo giudicarono necessario e positivo per la loro politica coloniale che richiedeva necessariamente il sostegno dell’elemento indigeno (o, almeno, di una sua parte significativa). Uno dei tre fondatori fu addirittura un inglese, Allan Octavian Hume, che a vent’anni, nel 1849, si era recato in India ed era entrato nel Bengal Civil Service (l’ossatura amministrativa del paese) e si era poi distinto in varie attività fra cui l’educazione e lo studio (era ornitologo), finchè nel 1882 era stato costretto alle dimissioni per le sue idee ritenute troppo avanzate se non addirittura sovversive: convinto che gli indiani dovevano elevarsi anche con le proprie forze, già l’anno seguente aveva scritto una famosa lettera aperta ai laureati dell’università di Calcutta invitandoli a scendere direttamente in politica ed a costituire un loro movimento politico nazionale. Un altro, Dadabhai Naoroji, proveniva da una famiglia di sacerdoti zoroastriani e, già professore di matematica e di filosofia naturale, nel 1855 si era trasferito a Londra come socio di una ditta inglese e a Liverpool aveva aperto una sede della prima società indiana in Inghilterra: dopo soli tre anni si era già dimesso per motivi etici, 20 ma nel 1859 aveva fondato una sua compagnia per il commercio del cotone. Tuttavia l’attività economica – che pure mostrava il sempre più stretto collegamento fra India e Inghilterra - non era stato il suo unico campo d’azione perché nello sforzo di unire i due popoli su un piano di parità e di conoscenza reciproca era poi divenuto professore di lingua gujarati all’University College of London e nel 1867 aveva contributo a istituire l’East India Association allo scopo di far conoscere alla società britannica la cultura indiana. L’Associazione aveva comunque dovuto lottare duramente - per esempio contro le teorie dell’Ethnological Society of London che aveva sosteneva invece la superiorità degli europei sugli asiatici. Il terzo fondatore, sir Dinshaw Edulji Wacha, di nascita un parsi, cioè appartenente ad una (la maggiore) delle due comunità zoroastriane dell’India, era un esperto in economia e finanza e se ne occupò sempre e con irreprensibile precisione. Dopo la fondazione del Congresso continuò con vigore la sua campagna per una politica economica sana e stabile: nel 1897 per esempio egli mostrò di fronte alla Commissione Welby a Londra che lo squilibrio finanziario dell’India dipendeva dal continuo aumento delle spese (militari e civili) imposto all’India - ed effettivamente, dato che i costi del colonialismo inglese ricadevano (ovviamente) sui colonizzati e che, data l’importanza dell’India nell’impero britannico, l’esercito indiano era numeroso e spesso inviato oltreconfine - le spese erano davvero ingenti ed esagerate. Presidente del Congresso dal 1901, nel 1915 fu poi presidente della Indian Merchants' Chamber finchè i suoi meriti furono ufficialmente riconosciuti dalla Corona che lo nominò Sir nel 1917. Questi brevi cenni sui tre fondatori del Congresso rivelano con chiarezza che il coinvolgimento ed il ruolo degli indiani voluto dagli inglesi erano sinceri, ma potevano funzionare solo se gli indiani accettavano che l’India rimanesse subalterna all’Inghilterra all’interno del suo impero: questo era infatti lo scopo e la necessità della politica inglese che fondeva in un’unica visione i suoi interessi imperiali con la sua missione civilizzatrice. Gli inglesi insomma rimanevano convinti di essere i portatori di una civiltà superiore cui gli indiani dovevano adattarsi rimanendo entro i limiti imposti dalla supremazia britannica: essi avevano ovviamente bisogno della collaborazione degli indiani e favorivano tutte le iniziative in questo senso (come il Congresso) così gli indiani dopo il fallimento della rivolta dei sepoys accettarono questa sorta di patto con gli inglesi (che per parte loro non perdonavano gli atti ostili che anzi reprimevano con durezza), ma questo equilibrio e questa collaborazione poterono durare solo finchè gli indiani sentirono di aver bisogno degli inglesi nel loro sforzo verso la modernità e l’occidentalizzazione. Naturalmente in concreto le cose non erano poi così semplici ed il dibattito all’interno del Congresso (e fuori) fu intenso come per esempio quello fra chi puntava prima sull’indipendenza (Tilak) e poi sulle riforme e chi invece (Gokale) pensava che l’India prima di diventare indipendente avrebbe avuto bisogno di essere seriamente riformata, quindi ancora degli inglesi. 21 La crisi di fine Ottocento Per tutto il XIX secolo l’India rimase il perno economico essenziale dell’intero impero coloniale britannico e la massima fornitrice delle sue truppe, in genere provenienti dalle minoranze guerriere (come i sikh, i rajput e i gurka), ma gli effetti negativi del dominio coloniale erano sempre più evidenti. Tutto ciò favorì il risveglio dello spirito critico dei primi nazionalisti indiani, ma avvertì anche gli inglesi (o almeno i meno ottusi di loro) che l’India stava diventando ormai un ‘limone spremuto’ - com’era inequivocabilmente dimostrato dal costante declino (dal 10% intorno al 1800 al 2% un secolo dopo) del contributo dell’India al commercio mondiale - e che così non si poteva continuare. La situazione dell’India divenne infatti drammatica alla fine del secolo: nel 1896 e 1897 le piogge non caddero provocando terribili carestie e nello stesso 1897 una nave proveniente da un porto cinese portò nel paese una violenta epidemia di peste. Il governo vicereale impose manu militari misure sanitarie severissime (ma razionali) che però cozzavano contro costumi sociali e religiosi e pregiudizi della popolazione indigena: l’urto fra le due culture fu durissimo tanto che il presidente della commissione sanitaria venne ucciso, furono operati numerosi arresti (fra cui quello di Tilak, accusato di sedizione, incarcerato e processato) e altre misure repressive vennero prese contro il terrorismo che stava dilagando. Fu proprio in questi frangenti che nel 1898 giunse in India il nuovo viceré, il famoso lord Curzon, tipicissimo esempio di quella mentalità imperialistica secondo cui gli inglesi erano stati chiamati ad adempiere al compito storico di civilizzare il mondo assumendosi sulle spalle ‘the white man’s burden’ secondo la celeberrima espressione di Kipling. L’amministrazione di Curzon manifestò nel modo più chiaro l’errore di valutazione dell’ideologia colonialistica: ottimo, capace e determinatissimo amministratore, egli volle raggiungere il massimo dell’efficienza del suo governo vicereale, convinto che i suoi sudditi non potessero avere altra aspirazione che quella di essere ben amministrati, così si sforzò di accentrare al massimo tutti i poteri nelle sue mani. Da convinto colonialista sostenitore dell’indubbia superiorità (senza paragoni) del sistema europeo e britannico su quelli inaccettabili dei popoli extraeuropei, egli ignorò le speranze e le aspirazioni del movimento nazionale indiano che da trent’anni chiedeva che gli indiani stessi (o, almeno, anche gli indiani) potessero esercitare quei poteri in casa propria. Per quanto buoni potessero essere i suoi numerosi interventi e valide le misure da lui prese, l’esclusione degli indigeni ed il disprezzo manifestato per loro e per la loro civiltà gli attirarono l’ostilità (comprensibilissima) della popolazione. L’acme dell’incomprensione e del malcontento fu toccata nel 1905 (l’ultimo anno di Curzon in India) con la spartizione del Bengala: Curzon giudicava il ricco e popoloso Bengala, centro della cultura e della letteratura dell’India contemporanea e conseguentemente culla del movimento nazionale indiano, un pericoloso focolaio di sovversione da spegnere al più presto e così con la scusa dell’efficienza 22 amministrativa lo divise in Bengala occidentale (prevalentemente indù) e Bengala orientale (prevalentemente musulmano). Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso e la collera popolare esplose con proteste, una nuova ondata di bellicosità mahratta, agitazioni nelle campagne, violenze e veri e propri atti di terrorismo da parte di una serie di movimenti grandi e piccoli, diversi e magari rivali, ma tutti intesi ad organizzare un conflitto armato contro gli inglesi. Nel riconoscimento che bisognava colpire l’Inghilterra anche negli interessi che la spingevano al colonialismo, nacque poi anche un movimento di boicottaggio delle sue merci e contemporaneamente di impulso alla produzione locale. La reazione inglese fu la solita tristissima repressione poliziesca e giudiziaria che non fece che inasprire la risposta terroristica ed alimentare il conflitto. Dopo pochi anni la spartizione del Bengala fu annullata, ma intanto nel 1909 per tutelare i diritti della cospicua comunità islamica indiana e per sostenerne le rivendicazioni, a Dacca i fratelli Mohamed e Shaukat Ali fondarono la Lega Mussulmana - che comunque condivideva la causa nazionalista del Congresso (dominato tuttavia dagli indù). L’annessione della Birmania all’India britannica Proprio mentre in India nasceva il Congresso l’India britannica si accresceva della Birmania ormai interamente conquistata: era stata la logica stessa del colonialismo che aveva spinto gli inglesi ad accrescere i loro domini finchè non li avevano sentiti al sicuro dalle minacce delle popolazioni vicine. Insieme ai territori già conquistati gli inglesi ne avevano infatti ereditato anche i problemi di politica estera (oltre al fatto che ovviamente intendevano mettere le mani sul maggior numero di risorse possibile). Anche la Birmania, il buddhista ‘Paese delle Pagode’, punto di arrivo e di stanziamento di numerose popolazioni provenienti da nord e da est, dopo aver alternato periodi di unione a periodi divisione, aveva avuto i primi veri contatti con gli europei all’inizio del XVI in seguito all’arrivo dei portoghesi ed ai loro insediamenti commerciali in India e nella penisola di Malacca. Nei due secoli seguenti, come del resto altrove, olandesi, inglesi e francesi erano entrati in competizione – prima coi portoghesi, poi fra essi stessi - nel tentativo di strappare sempre più estesi diritti commerciali e quei possedimenti territoriali che li rendessero possibili e li garantissero. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, nel 1752 si era affermata nel paese la dinastia Konbaung i cui re non solo l’avevano riunificato, ma avevano occupato l’Arakan (l’attuale fascia costiera occidentale) e trasformato i regni indiani di Manipur (la regione più orientale dell’Assam con capitale Imphal) e l’Assam stesso in stati vassalli. 23 Con l’affermazione inglese, cioè con la presenza ormai di un solo dominatore in India, la situazione non potè che precipitare ed i due espansionismi si trovarono inevitabilmente in conflitto. Nel 1823 Birmania ed Inghilterra entrarono in guerra nel territorio dell’attuale Manipur: furono i birmani guidati dal re Alaungpaya ad attaccare gli inglesi nell’Assam e lo scontro coinvolse anche i siamesi, da tempo in urto per conto loro con la Birmania che aveva occupato il Tenasserim (la parte settentrionale della lunga penisola che termina con l’attuale Malesia). Questa prima guerra anglo-birmana durò tre anni ed alla fine i birmani, sconfitti ripetutamente, si arresero e cedettero agli inglesi Arakan, Manipur e lo stesso Tenasserim. Nel 1852 a causa di alcuni problemi legati al trattato che aveva posto fine alla prima guerra anglo-birmana gli inglesi provocarono i birmani in uno scontro navale e addirittura assediarono Rangoon. Anche in questa seconda guerra anglo-birmana furono gli inglesi ad uscire vittoriosi e l’anno seguente poterono così annettere alla loro enorme colonia indiana anche la regione di Pegu, la parte sud-occidentale della Birmania. A causa della crisi della Birmania sotto re Thibaw Min e della tensione creatasi nuovamente fra i due stati, parte della popolazione inglese era stata costretta a fuggire dalla Birmania. Oltretutto nel 1885 i francesi avevano intavolato trattative per costruire filiali delle loro banche in Birmania e anche gli italiani avevano cominciato a manifestare interesse per l’alta Birmania: gli inglesi decisero quindi di battere tutti sul tempo e di risolvere il problema del difficile rapporto con l’inquieto vicino una volta per tutte. Con un’invasione da sud dettero così il via alla terza guerra anglobirmana e il 9 novembre 1885 giunsero ad occupare l’allora capitale Mandalay. Già nella prima notte di occupazione soldati inglesi ubriachi ed entusiasti diedero alle fiamme il tesoro reale e pochi giorni dopo il trono fu portato a Calcutta e le sue gemme più preziose inviate alla regina-imperatrice Vittoria (com’era già avvenuto per esempio dal Punjab col celeberrimo diamante Koh-i-noor, lo storico gioiello dei Moghul, una trentina d’anni prima). Per la fine dell’anno l’invasione era già terminata ed il 1 gennaio 1886 la Birmania sparì come stato indipendente: visto che non fu possibile trovare governanti-fantoccio che dessero almeno una parvenza di autonomia al paese, esso venne dichiarato possedimento inglese con capitale Rangoon e, nonostante tutte le sue diversità (dalla razza alla religione, dalla lingua all’agricoltura, ecc.), esso venne annesso alla già immensa India britannica e sottoposto al duplice sfruttamento sia da parte degli inglesi che anche degli indiani stessi che lo penetrarono forzosamente. A differenza che in India, in Birmania i conquistatori si trovarono comunque a dover fronteggiare subito (dopo un solo paio di settimane) una continua e decisa guerriglia partigiana condotta da ogni settore della popolazione, dai principi ai contadini, dai briganti ai monaci buddhisti, cui risposero con la (solita) politica criminale del terrore e colle (solite) brutali repressioni e rappresaglie: chiamando tutto ciò ‘pacificazione’ 24 si macchiarono dei (soliti) crimini contro l’umanità di cui non dovettero mai rendere conto a nessun tribunale, nemmeno a quello della storia, visto che – del tutto razzisticamente - mai un popolo o un regime europeo ha dovuto affrontare alcun giudizio per gli orrori inflitti a popoli non-bianchi. Naturalmente, inserita a forza nell’India britannica, anche la Birmania conobbe gli stessi cambiamenti, ammodernamenti, mutamenti e la costruzione delle stesse abituali infrastrutture coloniali (porti, strade, ponti, ferrovie, sistema amministrativo occidentale, ecc.). Degno di nota - ed anche questo è un aspetto fondamentale del colonialismo – fu che le guerre contro i birmani furono combattute da soldati indiani inquadrati nell’esercito coloniale da ufficiali inglesi. Fu anche questa una storia che si è sempre ripetuta: non solo i colonizzati venivano sfruttati e le loro risorse rapinate (per esempio sotto gli inglesi la Birmania divenne uno dei più importanti esportatori di riso, alla coltivazione del quale furono adibite nuove ampie zone), ma dovevano pagare i costi della loro stessa sottomissione e fornire uomini e mezzi per le ulteriori guerre dei loro padroni. Lo sfruttamento coloniale doveva essere a costo zero per i colonizzatori. La svolta del Novecento Col nuovo secolo gli eventi presero però un diverso andamento. Innanzitutto l’irresistibile espansione europea nei quattro continenti subì un colpo clamoroso in seguito alla schiacciante vittoria giapponese contro la Russia nel 1905 che rivelò al mondo che gli europei potevano essere sconfitti da un paese asiatico: certo altre vittorie erano arrise ai popoli di colore nella loro resistenza contro i colonialisti europei (per es. Khartoum o Adua), ma erano state battute d’arresto in contesti particolari favorevoli ai resistenti mentre stavolta si trattava di una guerra vera e propria combattuta coi mezzi più moderni allora a disposizione. Il trionfo giapponese ebbe un profondo impatto sui nazionalisti di tutta l’Asia che sentirono anche come loro quella vittoria – e soprattutto gli indiani che già avevano seguito ‘con avida attenzione’ (Panikkar) la rivolta dei Boxers del 1900 a Pechino. In secondo luogo in Inghilterra alle elezioni del 1906 i liberali conquistarono un’ampia maggioranza in parlamento dove addirittura per la prima volta faceva il suo ingresso un gruppo di 29 deputati laburisti: la netta svolta a sinistra del nuovo governo di sir Henry Campbell-Bannermann (con sir Edward Grey agli Affari Esteri e Winston Churchill primo sottosegretario alle Colonie) ebbe effetti anche in India dove Curzon venne sostituito con Minto, vennero varate nuove riforme, gli indiani poterono accedere in maggior numero alle cariche pubbliche anche alte, venne cancellata la divisione del Bengala e Delhi divenne la nuova capitale al posto di Calcutta. Infine veniva a comporsi anche il ‘Grande Gioco’, cioè l’annoso scontro fra Russia e Inghilterra (a questo proposito vedi il mio ‘Gli ultimi due secoli in Asia Centrale’) che si sarebbe definitivamente concluso con la Convenzione anglo-russa del 31 25 agosto 1907 e anche questo impressionò i nazionalisti indiani che videro ancora una volta che gli europei non costituivano un blocco compatto e potevano essere fermati. A tutto ciò seguirono poi la rivoluzione dei ‘Giovani Turchi’ nel 1908, il movimento nazionalista persiano del 1910 e la rivoluzione cinese del 1911. Gli anni che precedettero la prima guerra mondiale offrirono insomma un ampio spettro di utili insegnamenti a quegli indiani che soprattutto nel Congresso aspiravano ad essere liberi e padroni in casa propria, rafforzando l’ala di Tilak (comunque imprigionato nel 1908) su quella di Gokhale. La spettacolare avanzata europea in tutto il pianeta si era ormai esaurita per mancanza di nuovi popoli e territori da sottomettere e conseguentemente le rivalità fra gli stati europei ricominciavano ad emergere sempre più minacciose mentre, terminata la conquista, si venivano manifestando ora i problemi di tenuta degli sconfinati imperi coloniali. L’India nella prima guerra mondiale Quando la notte del 4 agosto 1914 l’esercito tedesco, attraversati Lussemburgo e Belgio, invase la Francia, immediatamente l’Inghilterra le dichiarò guerra in aiuto dell’alleata e dunque anche l’India si trovò coinvolta nel conflitto: era uno scontro fra le potenze europee che, abbandonando ogni richiamo alla diplomazia e all’equilibrio, volevano spartirsi l’Europa (e in fondo il pianeta stesso) e non certo una guerra che riguardasse direttamente l’India, ma, nonostante questo, alla notizia dello scoppio delle ostilità anche gli indiani, come i dissennati europei, si abbandonarono a manifestazioni di giubilo e di entusiasmo, offrendo e promettendo all’Inghilterra lealtà, aiuto e sostegno (anche finanziario) non chiedendo altro che di partecipare (!). Gli inglesi tuttavia non pensarono di sfruttare il momento favorevole per rinnovare e perfezionare il patto fra colonizzatori e colonizzati ma si limitarono a richiamare soldati indiani da spedire sui campi di battaglia europei perdendo così un’occasione d’oro: secondo Spear ‘gli inglesi mancavano di fantasia: nessuno capì quanto facilmente quell’emozione, non tenuta nel debito conto o disprezzata, avrebbe potuto trasformarsi in amarezza e odio’ (pag. 432), ma si sbaglia perché non di errore si trattò, bensì della logica conseguenza dell’impostazione coloniale stessa. Gli inglesi infatti non volevano e non potevano permettere che gli indiani partecipassero su un piede di parità alle scelte ed alle strategie imperiali: il loro contributo e la loro collaborazione, per quanto essenziali, secondo loro dovevano invece rimanere relegati ad un livello di subalternità. Era la stessa logica insomma che ispirava tutti i loro comportamenti in India, e cioè far avanzare gli indiani nella gestione della colonia solo per quel tanto necessario al suo funzionamento: un rapporto paritario dell’India con la madrepatria sarebbe stato semplicemente in contraddizione con la precisa volontà di mantenerla, appunto, una colonia. 26 I In ogni caso lo sforzo sostenuto dall’India nel conflitto fu notevole: essa fornì infatti 800mila combattenti e 400mila addetti ai servizi, ma si trattava di soldati preparati e pensati per la difesa dell’India, non per essere spediti in terre lontane a combattere contro i migliori eserciti del mondo. Le derrate alimentari ed ogni tipo di rifornimenti che l’India dovette far arrivare oltremare furono enormi e naturalmente più lo sforzo bellico si veniva intensificando, più le richieste inglesi di uomini e mezzi aumentavano - fino all’aperta coercizione. Eppure, nonostante tutto, l’India restò fedele e si sottomise ad ogni sacrificio, tanto che l’Inghilterra potè lasciare nel paese sempre meno uomini giungendo ad un minimo di 15mila, un’inezia in un territorio di quelle dimensioni. Quando l’India era entrata in guerra il Congresso era dominato da Gokhale e dalla sua maggioranza moderata, ma proprio nel giugno1914 Tilak era stato rilasciato dopo sei anni di carcere e alla fine del 1916 (Gokhale era morto l’anno prima) era lui il nuovo padrone del partito, addirittura con l’appoggio dei mussulmani cui aveva concesso la divisione dei due elettorati a seconda della confessione religiosa dei votanti: la lunghezza e la durezza inaspettate (per tutti) della guerra ed il comportamento degli inglesi nei confronti degli indiani avevano presto spento gli iniziali entusiasmi, nondimeno Tilak seppe muoversi con duttilità. Egli infatti appoggiò lo sforzo bellico, rifiutò la violenza come arma per giungere all’indipendenza, accolse favorevolmente la dichiarazione Montagu (20 agosto 1917) che, fra l’altro, allargava notevolmente il diritto di voto agli indiani e permetteva loro anche cariche ministeriali, ma non cessò mai di pretendere l’indipendenza, seppur alla fine della guerra. Come se la guerra stessa non fosse bastata, il peggio arrivò poi nel 1918-19 - a guerra ormai conclusa! – con la famosa influenza ‘spagnola’ che infuriò in tutto il mondo (commentando lo studio di Crosby Guido Majno la definì ‘una pagina del Medioevo nel XX secolo’) e che in India fece 5 milioni di morti, una cifra terribile anche per un paese purtroppo abituato alle stragi delle carestie (che comunque gli inglesi avevano da tempo cercato di combattere e contenere). II Alla fine della guerra anche l’India era esausta ma, soprattutto, gli europei con essa avevano perduto quel prestigio morale che tanto aveva impressionato i popoli colonizzati; la pretesa superiorità degli europei era stata altrettanto compromessa se non del tutto svanita nel bestiale ed insensato macello e nelle devastanti distruzioni della guerra; l’unità degli occidentali appariva ora come assolutamente falsa … ed inoltre a travolgere l’intera impostazione coloniale del pianeta si aggiungevano adesso due fatti nuovi e sconvolgenti, la rivoluzione d’Ottobre (con l’appello di Lenin agli ‘oppressi d’Asia’) ed i Quattordici punti di Wilson (fra cui spiccava il principio dell’autodeterminazione dei popoli). 27 La prima guerra mondiale fu insomma cruciale anche per la storia dell'India e non solo per l’enorme costo economico e umano del conflitto, ma anche per la mancata concessione dell’autonomia politica tante volte promessa dall’Inghilterra ed ora rimangiata per timore che la rivoluzione comunista russa potesse in questo modo estendersi anche al subcontinente indiano. Ancora una volta, gli inglesi non erano soli ad allarmarsi per ogni accenno di protesta popolare e per i primi limitati scioperi proclamati dai neonati sindacati: il timore dei padroni inglesi era infatti pienamente condiviso dalle stesse élites indiane, loro alleate nello sfruttamento delle masse lavoratrici - e che si sarebbero spinte addirittura ad approvare, come si vedrà, l’insensato e criminale massacro di Amritsar. III Per i mussulmani indiani lo shock fu poi ancora più grande perché il sultano ottomano, il capo spirituale e temporale dell’Islam entrato in guerra contro l’Inghilterra, era stato completamente sconfitto; peggio ancora, al tavolo di pace l’impero ottomano, il braccio armato dell’Islam, venne smembrato ed addirittura il sultanato stesso sarebbe stato presto abolito! (a questo proposito vedere le parti relative dei miei ‘ ‘Neve’ di Orhan Pamuk’ e ‘La ricomposizione etnica dell’Europa’). Il problema della presenza dei mussulmani in India e dei loro rapporti con la grande maggioranza indù erano comunque più profondi e di più vecchia data. E’ molto difficile e forse impossibile stabilire con certezza quando l’impero Moghul sia nato perché se ufficialmente se ne fa risalire l’avvento all’inizio del XVI secolo con Babur, tuttavia erano secoli che i mussulmani si erano insediati in India e che ne avevano conquistato porzioni enormi: in ogni caso con l’impero Moghul i mussulmani avevano imposto il loro dominio culturale in India e circa 1/4 della popolazione indiana era mussulmano. Quando l’impero Moghul crollò sotto l’urto degli eserciti europei la comunità musulmana dell’India si sentì comprensibilmente persa e disorientata, essendo sottomessa agli inglesi e circondata da una grande maggioranza indù, cioè di infedeli. Le cose peggiorarono ulteriormente quando, nel tentativo di scongiurare l’indiscriminata occidentalizzazione, in India cominciò a formarsi un primo sentimento nazionale e si cominciò a parlare di identità indiana da parte di molte organizzazioni e di numerosi gruppi politicizzati, in genere indù: i mussulmani temettero allora di finire marginalizzati ed assorbiti, prospettiva per loro assolutamente inaccettabile. Il Congresso aveva infatti cercato di unificare gli indiani al di là della loro appartenenza religiosa, e in parte c’era anche riuscito, ma la frattura fra le due comunità non si era ancora saldata – né lo sarebbe mai stata. Accanto a quelle induiste si formarono allora anche numerose organizzazioni mussulmane, che – sempre per reagire al colonialismo ed all’occidentalizzazione rivendicavano anch’esse la propria identità indiana, ma prettamente islamica. 28 L’India fra le due guerre Tilak non trascurò di curare i suoi rapporti politici con gli inglesi e trascorse praticamente tutto il 1919 a Londra dove, visti inutili i suoi sforzi coi liberali, ruppe gli indugi e si volse ai laburisti, allora in netta ascesa. I Tuttavia era ormai arrivata l’ora dell’entrata in scena del quarantanovenne avvocato Gandhi. Mohandas Karamchand Gandhi era nato il 2 ottobre 1869 nel Gujarat (stato sul lembo nord-occidentale dell’India sull’oceano Indiano) in una famiglia dedita al commercio, anche se suo padre era divenuto poi primo ministro del principato di Rajkot. A 12 anni si era dovuto sposare con un matrimonio combinato secondo la tradizione indù (dal quale sarebbero nati quattro figli maschi) e a 18 anni era partito per Londra dove si era laureato in giurisprudenza, ma solo due giorni dopo era tornato in India (1891). La svolta della sua vita era avvenuta quando nel 1894 la ditta indiana presso cui lavorava l’aveva incaricato di difendere una causa in Sudafrica perché lì aveva potuto sperimentare direttamente il razzismo inglese verso i neri e soprattutto verso i 150mila indiani colà residenti. Nel giovane avvocato era così maturata un’evoluzione interiore spettacolare: di orientamento jainista, egli in difesa degli indiani aveva infatti applicato con successo la sua tattica rivoluzionaria della non-violenza, cioè della resistenza all’ingiustizia mediante il rifiuto non-violento - costasse quel che costasse - di accettarla e di sottomettersi ad essa. Dopo vent’anni di permanenza aveva lasciato definitivamente il Sudafrica nel 1914, proprio al momento dello scoppio della prima guerra mondiale: il 9 gennaio 1915 quand’era sbarcato a Mumbai, data la sua fama, era stato accolto come un eroe nazionale e Gokhale lo aveva preso sotto la sua protezione consigliandogli di viaggiare per l’India per conoscerne il vero volto e le vere condizioni in cui allora essa versava. Anche in India Gandhi volle ricorrere alla sua strategia della non-violenza e l’occasione gliel’offrirono le proteste contro le ‘Rowlatt Acts’, vere e proprie leggi di polizia che avrebbero permesso ai giudici di pronunciare sentenze senza giuria per gli accusati di attività sovversive ed ai governi provinciali addirittura di imprigionare senza processo i sospettati: nonostante le sue intenzioni, le manifestazioni sfociarono però anche in violenze che ad Amristar (nel Punjab) costarono la vita a quattro europei linciati dalla folla il 10 aprile 1919. 29 La reazione del comandante locale, il generale Dyer, fu forsennata: tre giorni dopo infatti egli, senza alcun preavviso, ordinò di aprire il fuoco su una folla di manifestanti (non autorizzati) disarmati in uno spazio chiuso: dato che non esistevano altre uscite oltre a quella già occupata dai soldati, la gente non potè nemmeno tentare di scappare tanto che alcuni si gettarono in un pozzo per sfuggire al tiro dei proiettili che continuò sino all’esaurimento delle munizioni, quando finalmente le truppe si ritirarono senza fornire alcuna assistenza medica ai feriti. Solo l’impossibilità di entrare nella piazza aveva impedito ad un’autoblindo di aprire il fuoco con la sua mitragliatrice. Secondo le cifre ufficiali i morti furono 379 e i feriti oltre 1.200, ma, non ancora soddisfatto, Dyer proclamò la legge marziale e prese altre durissime misure razziste, punitive ed umilianti. La commissione d’inchiesta (quattro indiani e quattro inglesi sotto la presidenza di uno di questi ultimi) e sconfessò poi l’operato di Dyer, ma per i membri indiani della commissione la punizione del generale non fu assolutamente adeguata: contro Dyer non venne infatti preso alcun provvedimento e venne soltanto costretto alle dimissioni. Amristar segnò il punto di non ritorno della causa indiana e segnò una netta svolta anche nell’atteggiamento di Gandhi. II Fino a quel momento Gandhi era stato infatti per la cooperazione incondizionata con gli inglesi, ai quali chiedeva però coerenza con la propria cultura e con i propri princìpi, ma ora con la determinazione e la nettezza della sua mente rigorosa e della sua ispirazione fortemente religiosa proclamò che ‘La cooperazione, sotto qualsiasi forma, con questo governo satanico è peccaminosa’: la rottura con gli inglesi non sarebbe potuta essere più netta e definitiva perché per Gandhi con essi non era più possibile alcun dialogo. Il Congresso fu con Gandhi. Gandhi si identificò inoltre con gli ultimi della società e arrivava al punto di pulire le latrine, compito riservato agli intoccabili (che lui chiamò ‘figli di Dio’), e dal 1921 cominciò a vestire come i contadini: egli venne sempre più considerato un santo ed un profeta e riuscì in questo modo ad unire le masse al movimento di liberazione nazionale fino a quel momento appannaggio della classe colta ed occidentalizzata. Gandhi, sempre rigorosamente non-violento, intensificò la sua campagna di disobbedienza civile secondo la quale – rifuggendo da ogni violenza e non opponendosi alle punizioni – bisognava però rifiutarsi di obbedire alle leggi immorali e di adempiere agli ordini ingiusti. Egli seppe mettere gli inglesi in contraddizione con se stessi e con i loro stessi princìpi amalgamando il nazionalismo e la democrazia europei coi dettami jainisti della non-violenza e della non-resistenza al nemico; egli volle così unire tutti gli indiani indipendentemente dalla loro casta di nascita e dalla loro appartenenza 30 religiosa ed allo stesso tempo impedire che il movimento di liberazione nazionale sfociasse nel terrorismo e nello scontro armato. In nome della non-violenza e della non-cooperazione col male Gandhi propose le dimissioni degli indiani dalle cariche pubbliche, l’abbandono delle scuole inglesi e il rifiuto di partecipare alle elezioni, ma su questo terreno furono in pochi a seguirlo. Il nuovo vicerè Reading volle infatti andare a vedere le carte di Gandhi convinto com’era che il suo programma fosse troppo astratto ed idealista e così, confidando anche nel miglioramento della situazione economica, lo fece arrestare per sedizione e condannare a sei anni (ma ne scontò solo due). Venne inoltre varata una nuova costituzione che, più aperta e democratica, guadagnò ulteriori consensi agli inglesi: in base ai suoi dettami fu attuato il decentramento amministrativo ed aumentato il ruolo dei consigli provinciali mentre i mussulmani (e i sikhs nel Punjab) ottennero collegi elettorali – per gli organi centrali e per quelli periferici – riservati solo a loro. L’India venne riconosciuta come un’entità politica autonoma ed entrò addirittura a far parte della neonata Società delle Nazioni (!). Anche se nel nuovo Consiglio sedevano tre inglesi e tre indiani, il vicerè rimaneva tuttavia pur sempre responsabile di fronte al parlamento di Londra (e non certamente a quello indiano) - e dunque era pur sempre Londra ad aver l’ultima parola sugli affari dell’India - i progressi portati dalla nuova costituzione erano comunque indubbi. Con Gandhi ancora in carcere il suo movimento per la non-cooperazione si affievolì notevolmente e prevalse la tattica di opporsi agli inglesi dall’interno delle istituzioni, quindi collaborando (seppur in maniera critica) con loro, ma quando nel 1926 a Reading successe Edward Wood (detto ‘lord Inwin’) la situazione mutò profondamente. III Nel novembre dell’anno seguente venne infatti istituita una commissione (presieduta da Simon) per verificare lo stato delle riforme e per avanzare nuove proposte, ma di questa commissione non faceva parte nessun indiano (!) e la cosa non venne tollerata. Già il mese seguente il Congresso non solo scelse infatti di boicottare la commissione, ma affermò apertamente la volontà del popolo indiano di conseguire la piena indipendenza nazionale e fu sull’onda di questa risoluzione rivoluzionaria che fece il suo ingresso nella vita politica del paese il giovane Nehru. Jawaharlal Nehru era nato il 14 novembre 1889 ad Allahabad, capitale dell’Uttar Pradesh (la provincia dell’India settentrionale al confine col Nepal), e, figlio di un avvocato, anche lui aveva fatto parte della nutrita schiera dei giovani che aveva compiuto i suoi studi in Inghilterra: divenuto colà avvocato, era tornato India nel 1912 dove per qualche anno si era dedicato alla professione forense finchè era entrato nel Congresso nel 1919, l’anno in cui il padre ne era divenuto presidente. 31 Anche il giovane Nehru aveva insomma condiviso e si era nutrito come tanti altri giovani indiani della cultura inglese e anche lui aveva deciso di metterla al servizio del suo paese che voleva sicuramente occidentalizzare ma insieme anche liberare e rendere indipendente. L’incontro con Gandhi lo convinse a divenirne poi un ardente ammiratore ed un fervido sostenitore. Intanto però i problemi politici del paese erano purtroppo molto difficili da risolvere. Mentre la campagna per il boicottaggio della commissione era pienamente in corso, giunse la proposta di una nuova costituzione che, se prevedeva un governo autonomo per l’India che restava comunque un ‘dominion’ (cioè una comunità autonoma ma all’interno dell’impero britannico che liberamente accettava di obbedire alla corona inglese e di associarsi su un piede di parità agli altri membri del British Commonwealth of Nations), aboliva però le distinzioni religiose dell’elettorato e ciò provocò l’abbandono della conferenza da parte del leader mussulmano Jinnah che temeva che in questo modo i suoi correligionari sarebbero spariti dal parlamento sopraffatti dai molto più numerosi indù. Ma non bastava ancora: il Congresso si autoproclamò unico rappresentante del popolo indiano e, contestato lord Irwin nella sua pretesa di decidere da solo sulla nuova costituzione, nel dicembre 1929 tornò a seguire Gandhi nella sua scelta della disobbedienza civile di massa. Questa volta la battaglia principale fu quella per l’abolizione dell’odiata tassa sul sale e la proclamazione che gli indiani se lo sarebbero fabbricati da soli (illegalmente): il primo fu Gandhi che dopo una celebre e ben reclamizzata marcia arrivò sulle rive dell’oceano e lo estrasse con le proprie mani pubblicamente sulla spiaggia. Le manifestazioni e le proteste si moltiplicarono come le dure reazioni degli inglesi finchè alla fine di giugno ben 60mila persone erano state incarcerate. Non si poteva continuare così: in cambio della sospensione della campagna della disobbedienza civile il governo inglese dovette scarcerare i detenuti ed accettare la presenza di indiani nella commissione: Gandhi fu nominato allora unico delegato indiano alla conferenza stessa (!) e ciò diede la misura del suo prestigio e della fiducia che il Congresso aveva in lui. IV A Londra tuttavia non si raggiunse nessun accordo (oltretutto nel 1931 la crisi colpiva ancora molto duramente), il Congresso venne dominato dalla sua ala sinistra, la campagna antinglese riprese e Gandhi finì in carcere solo dopo tre settimane dal suo ritorno in India: fino al 1935 lo scontro continuò senza che nessuno dei due contendenti potesse vincere, ma dopo due anni l’approvazione dell’India Act rappresentò un serio passo avanti sulla via della modernizzazione della società indiana in quanto esso abolì le divisioni fra le caste, permise un grande incremento della partecipazione delle donne alla vita del paese ed aumentò il numero di scuole femminili. 32 Oltre a ciò, l’India Act estese la rappresentanza elettorale e fece dell’India una federazione in cui ogni stato poteva entrare solo di propria volontà: l’India, oltre alla parte dominata dagli inglesi, comprendeva infatti altri 565 (grandi e piccoli) stati governati da maharajas, rajas e nawabs che tuttavia non seppero cogliere l’occasione loro offerta, così pretesero di mantenere i loro privilegi, non entrarono nella federazione e diffidarono del Congresso. Ancora una volta però non tutto quel che luccicava era oro: nella neonata federazione i governatori delle province infatti potevano comunque intervenire (seppur solo in caso di estrema necessità) mentre al governo centrale vennero riservati poteri ‘ridotti’ alle sole finanze, difesa e politica estera - cioè al cuore del potere - e il vicerè manteneva il controllo finale visto che poteva porre il veto alle leggi, licenziare i ministri e addirittura sospendere la costituzione stessa (!). Insomma: agli indiani era concesso di poter collaborare e così di poter meglio sostenere il dominio inglese, liberandolo da tutta una serie di compiti minori. L’India Act fu così altamente impopolare e Nehru lo definì una ‘Carta per la schiavitù’, ma Gandhi gli fu invece favorevole e riuscì ancora una volta a convincere il Congresso che un potere minore e condiviso era pur sempre un potere. Gandhi aborriva la violenza e scelse Nehru invece di Chandra Bose come presidente del Congresso perché si rendeva conto che sfidare ora l’Inghilterra sarebbe stato disastroso: in questo modo riuscì a tenere legata a sé l’ala sinistra facendole rispettare la nuova costituzione. V Il Congresso non seppe però valutare correttamente il problema dei 90 milioni di mussulmani indiani cui non riconobbe il diritto di formare partiti islamici e rifiutò la proposta di Jinnah di una coalizione Congresso-mussulmani pretendendo che questi ultimi entrassero semplicemente (come gli indù) nel Congresso stesso. Mohammed Ali Jinnah, nato a Karachi nel 1876 in una famiglia di ricchi commercianti, aveva subito fatto parte di quell’élite di giovani destinata a diventare la classe colta ed occidentalizzata del paese: nel 1892 si era trasferito in Inghilterra per studiare legge e dopo la laurea aveva iniziato ad esercitare la professione a Bombay, dove era divenuto presto un noto ed affermato avvocato. Nel 1905 era entrato nel Congresso ed aveva fatto parte della delegazione che si era recata in Inghilterra per sostenere la causa dell’autogoverno dell’India. Tuttavia, preoccupato della sorte dei mussulmani in un paese a grande maggioranza indù, nel 1913 aveva aderito alla Lega mussulmana divenendone in pochi anni uno dei principali esponenti pur restando un deciso sostenitore dell’unità indùmusulmana: quando però nel 1928 Nehru aveva pubblicato il suo Rapporto che delineava le linee-guida di un’India post-britannica, Jinnah l’aveva interpretato come discriminatorio per la minoranza musulmana e si era trasferito a Londra. Nel 1934 aveva però fatto ritorno in India per la forte pressione della Lega di cui era divenuto presidente e che aveva riorganizzato. 33 Il problema di cui il Congresso non si rendeva conto era che i mussulmani si sentivano sempre più minacciati in un’organizzazione in cui erano nettamente minoritari (Jinnah definì il Congresso ‘fascismo indù’) e che conseguentemente pretendevano proprie organizzazioni e spazi elettorali riservati a loro stessi. La battaglia della Lega guidata da Jinnah fu vincente: la Lega ottenne che mussulmani e indù tornassero ad avere liste elettorali diversificate in modo che i secondi non venissero sommersi dai primi (ben più numerosi) ed in seguito alle elezioni del 1937 occupò ben 108 dei 485 seggi parlamentari. Era evidente che l’antagonismo fra indù e musulmani, un tempo essenzialmente religioso, era ormai divenuto anche apertamente politico: la tempesta si stava avvicinando a grandi passi. VI Degno infine di nota, nell’aprile 1937 l’India Act separò dall’India la Birmania che divenne così una colonia a parte (Ba Maw capo di governo) con una nuova costituzione ed un’assemblea eletta a suffragio universale: tutto ciò era lo sviluppo di un processo già innescato fin dal 1920 – l’anno di nascita del nazionalismo birmano quando la Birmania aveva ottenuto una certa autonomia dall’India da cui era profondamente diversa e di cui non sopportava l’ulteriore predominio e l’ulteriore sfruttamento oltre a quelli inglesi. I birmani giudicarono molto favorevolmente l’esclusione degli indiani da qualsiasi attività legislativa che li riguardava, ma allo stesso tempo li incoraggiò ulteriormente alla lotta per la totale indipendenza e infatti già nel 1938 un’ondata di proteste e di sollevazioni che partì dai campi petroliferi della Birmania centrale e si trasformò un’insurrezione generale. India britannica e Birmania nella seconda guerra mondiale Anche nel caso della seconda guerra mondiale gli eventi sono troppo numerosi, complicati e soprattutto noti perché in questa sede valga la pena ripeterli e sarà così sufficiente metterne in luce gli aspetti utili agli scopi del presente saggio. I La seconda guerra mondiale scoppiò mentre il dibattito in India era molto acceso e le opzioni si scontravano senza che si riuscisse a trovare una via d’uscita o di comportamento condivisa. Inizialmente, nonostante il vicerè lord Lintithgow fin dal 3 settembre 1939 dichiarasse che l’India era in stato di guerra e ne sottolineasse la dipendenza dall’Inghilterra, per quanto colpiti dalla fermezza inglese gli indiani non sentirono 34 come loro la guerra (come era invece avvenuto nel 1914) e la loro partecipazione allo sforzo bellico, almeno nella prima fase, fu marginale. Per convincere gli indiani a partecipare al conflitto vennero fatte loro numerose promesse, ma mentre gli indiani chiedevano l’indipendenza prima della fine della guerra, il governo inglese invertiva i termini e la prometteva solo dopo la vittoria. In ogni caso, per poter affrontare le esigenze di guerra venne sempre più attuata l’indianizzazione dell’India, cioè sempre più indiani assursero a posti di direzione e di comando. Durante la guerra emerse inoltre nettamente il carattere ambiguo della sistemazione politica dell’India (e conseguentemente del suo esercito): l’India non era infatti né pienamente indipendente né pienamente sottomessa all’Inghilterra, così il suo esercito non obbediva del tutto né a Delhi né a Londra e rimaneva in una condizione in cui la responsabilità e la catena di comando non erano chiaramente definite. II In seguito all’attacco giapponese a Pearl Harbour (7 dicembre 1941) l’estensione del conflitto anche all’Asia pose comunque l’India (e l’Australia) in prima linea: in seguito alla conquista giapponese di Singapore (il cuore della forza navale inglese in Estremo Oriente si arrese il 15 febbraio 1942) e della penisola di Malacca, i giapponesi (spalleggiati dai nazionalisti birmani del Burma Independence Army, BIA) per consolidare le loro precedenti occupazioni e per tagliare i collegamenti (la famosa ‘Burma Road’) fra Rangoon e la Cina (già invasa da 4 anni e che stava resistendo), il 22-23 febbraio 1942 diedero poi inizio all’invasione anche della Birmania facendone fuggire precipitosamente inglesi ed indiani. L’India si trovò così la guerra alle porte e dovette impegnare tutte le sue forze (notevolmente potenziate) per difendere i suoi confini orientali e per rifornire le truppe americane ed inglesi colà impegnate. III Intanto il 1 agosto 1942 i giapponesi trionfanti potevano proclamare la nascita della ‘Sfera di co-prosperità’ in tutto l’Estremo Oriente in nome del loro principio ‘l’Asia agli asiatici’ e della cacciata dei bianchi dall’intero continente: nonostante la loro brutalità ed il loro razzismo il loro richiamo allettò e convinse numerosi nazionalisti. In Birmania Ba Maw fu così a capo di un governo collaborazionista e filo-giapponese ma, come dappertutto, il vero potere rimaneva nelle mani dei generali giapponesi che in nome delle esigenze di guerra imponevano il loro controllo e duri sacrifici alle popolazioni ‘liberate’, né questa situazione mutò con la proclamazione ufficiale dell’indipendenza della Birmania il 1 agosto 1943 (e con la conseguente dichiarazione di guerra agli USA e all’Inghilterra). Col passare del tempo il carattere strumentale della politica dei giapponesi apparve comunque sempre più evidente ed anche i birmani collaborazionisti che avevano creduto in loro cambiarono fronte soprattutto quando divenne chiaro che la guerra si 35 sarebbe conclusa con la loro sconfitta: in seguito a contatti informali cogli Alleati nel 1944 e nel 1945, il 27 marzo 1945 l’Esercito Nazionale della Birmania (BIA), già filo-nipponico, proclamò addirittura l’insurrezione nazionale contro i giapponesi. IV In ogni caso quello birmano fu sempre un fronte secondario e anche l’India non fu mai una priorità, tuttavia lo sforzo bellico comportò pur sempre un ulteriore notevole sviluppo delle sue potenzialità produttive, del suo esercito e dei suoi ufficiali, mentre il pericolo e la necessità di collaborare compattarono la società e favorirono l’ascesa degli intoccabili. Venne creato l’Eastern Group Council e l’India, suo membro principale, sotto la direzione del vicerè arrivò a fornire il 75% dei materiali necessari (il che diede grande impulso alla sua industria), vide il vertiginoso aumento delle sue forze armate (da meno di 200mila uomini nel 1939 a 2,5 milioni), della sua marina e infine la nascita anche di una sua aviazione: 8 milioni di persone lavorarono poi impegnate in compiti di difesa ed altri 6 nelle industrie di guerra e nella costruzione di ferrovie (sempre per scopi bellici). Tuttavia, oltre al già notevole e preponderante impegno degli indiani nell’esercito e nella produzione ai fini bellici, il mantenimento delle truppe alleate di stanza nel paese gravava sulle campagne indiane peggiorando ulteriormente – se possibile - le già pesantissime condizioni in cui versavano i contadini: la penuria di beni commestibili e l’inevitabile inflazione col progredire della guerra fecero così sentire tutti i loro effetti negativi soprattutto nel più esposto Bengala, col ritorno della tragica e terribile carestia che già nel 1943 solo in quella regione mieté oltre 3 milioni di vittime (!). La sfida nipponica alla supremazia bianca in Asia trovò (come dappertutto) aderenti anche in India dove fu Chandra Bose a scegliere di condividerla e di allearsi all’Impero del Sol Levante: il suo Indian National Army (costituito soprattutto dalle truppe indiane che si erano arrese in Malesia) fu così dalla parte del Giappone che sembrava offrire l’ ‘occasione d’oro’ alle aspirazioni anticolonialiste ed indipendentiste dell’intero continente, tanto che una settimana dopo che le Filippine avevano proclamato la loro indipendenza (il 14 ottobre 1943) venne costituito il Governo Provvisorio dell’India Libera capeggiato dallo stesso Chandra Bose, ma fu un sogno di breve durata: nel marzo 1944 la progettata invasione dell’India, che puntava innanzitutto su Imphal (nell’estremo lembo orientale dell’India oggi al confine con la Birmania) da parte delle congiunte forze indo-giapponesi, fallì miseramente. Il gigantesco sforzo giapponese era ormai giunto al termine e la controffensiva alleata procedeva sempre più incontenibile mentre fin dalla primavera 1944 in Asia un po’ dappertutto cominciavano ora a sorgere movimenti anti-giapponesi dato l’intollerabile peso e la ferocia delle loro truppe di occupazione. 36 Nella Birmania occupata la fine definitiva arrivò il 27 agosto 1945 quando i comandanti giapponesi ricevettero l’ordine di assistere e di obbedire agli inglesi della forza di rioccupazione. V In ogni caso la guerra (e la propaganda giapponese) non poteva essere passata invano ed ora in Asia era evidente che gli europei non erano più gli invincibili di un tempo e che il loro prestigio aveva subito una scossa tremenda: i movimenti nazionalisti ed indipendentisti si erano moltiplicati ed irrobustiti mentre gli stati europei erano esausti e semi-distrutti: la strada per l’indipendenza correva veloce ed il primo ad averlo capito era stato Gandhi. Nemmeno di fronte alla terribile minaccia della guerra mondiale (o forse proprio per questa) l’Inghilterra aveva accondisceso alle richieste indiane per l’indipendenza, ma, tutto al contrario, in ossequio alla politica del ‘divide et impera’ aveva cercato di allargare la spaccatura tra indù e mussulmani, ma Gandhi già il 13 aprile 1942 con una famosa risoluzione aveva chiesto ai britannici di lasciare semplicemente l’India: fu il famoso ‘Quit India’ col quale il Mahatma aveva poi invitato tutti gli indiani al rifiuto non-violento totale ed inflessibile di ogni collaborazione con gli inglesi mentre imponenti manifestazioni di protesta venivano inscenate in tutto il paese. Per parte loro gli inglesi avevano reagito con imprigionamenti di massa, violenze e repressioni senza precedenti: migliaia di indipendentisti erano stati uccisi o feriti dalla polizia, altre centinaia di migliaia arrestati, il Congresso era stato dichiarato illegale e a Bombay il 9 agosto 1942 Gandhi e tutti (!) i dirigenti del Congresso erano stati arrestati. Gandhi venne detenuto per ben due anni e in prigione digiunò per tre settimane come penitenza per le violenze commesse durante l’insurrezione popolare indiana, poi, gravemente ammalato di malaria e di dissenteria, venne rilasciato il 6 maggio 1944 per poter essere sottoposto ad un’operazione chirurgica (gli inglesi non potevano permettersi che morisse in prigione). In genere gli storici, dati i suoi costi altissimi ed il suo fallimento, hanno giudicato il movimento ‘Quit India’ semplicemente disastroso mentre in realtà - oltre al fatto che per l’ennesima volta gli inglesi avevano dovuto gettare la maschera e mostrare il vero volto della loro feroce ingordigia e razzismo (mentre in Europa si vantavano di combattere per la pace, la democrazia e la libertà!) - il seme gettato e nutrito con tanto sangue e con tanta sofferenza avrebbe germogliato subito dopo la conclusione della guerra. Intanto, profittando della confusione del momento Jinnah era riuscito ad riorganizzare ancora più efficacemente la Lega mussulmana e il Congresso ormai rappresentava i soli indù. 37 L’indipendenza di Ceylon Analogo a quello che di lì a poco avrebbe ottenuto l’India fu il conseguimento dell’indipendenza di Ceylon, chiamata la ‘lacrima dell’India’ per la sua forma geografica. I I primi europei a giungervi erano stati i portoghesi con Francisco de Almeida nel 1505 quando l’isola era divisa in sette regni in guerra fra loro e praticamente tutti i suoi porti erano in mano musulmana. Com’è noto gli arabi allora erano infatti i monopolisti del commercio nell’oceano Indiano e i portoghesi - che vi erano arrivati proprio per combatterli - anche qui erano riusciti ad inserirsi nei conflitti interni (alleandosi col re di Kotte) e, ottenuto di poter costruire un forte nel porto di Colombo nel 1517, gradualmente avevano esteso il loro controllo su tutta la zona costiera attrezzandola con le necessarie infrastrutture coloniali che permettessero il commercio ed il trasporto delle spezie (l’altro motivo principale della costruzione del loro impero in Asia). Le crescenti arroganza ed invadenza portoghesi (commerciale, politica e religiosa) anche qui avevano urtato gli interessi e la sensibilità dei singalesi (la maggioranza dei quali era buddhista) che avevano così favorito l’altra potenza straniera che si era affacciata sull’oceano Indiano, gli olandesi, di cui avevano chiesto l’aiuto fin dal loro primo comparire nel 1602. Gli olandesi non avevano avuto certo bisogno di essere invitati e, iniziata la loro campagna contro i portoghesi, nel 1638 in seguito ad un trattato fra il re singalese e la VOC (la Compagnia delle Indie Orientali Olandese), l’avevano portata metodicamente a termine: Colombo era caduta nel 1656 e dal 1660 erano stati gli olandesi ad avere il dominio dell’isola rivelandosi però – come nel resto dei loro possedimenti, soprattutto nelle Molucche - padroni ancora peggiori dei portoghesi stessi visto che avevano imposto tasse e sfruttamento con ancora maggiore durezza. Ma anche gli olandesi avevano dovuto subire lo sfratto dall’isola ad opera della nuova potenza marittima europea emergente, l’Inghilterra. II Il 19 gennaio 1795 in seguito all’invasione dell’esercito rivoluzionario francese i Paesi Bassi erano divenuti la Repubblica (sorella) Batava e l’Inghilterra, proseguendo nella sua lotta contro gli olandesi per la supremazia sugli oceani, nel 1796 aveva così colto l’occasione per occupare senza trovare resistenza le aree costiere dell’isola che chiamò Ceylon (dal portoghese Ceilão). Ancora una volta, questo era stato solo l’inizio della conquista integrale che si era conclusa nel 1815, mentre le sanguinose repressioni dei tentativi di resistenza erano terminati solo tre anni dopo col completo asservimento del paese che fino al 1948 38 sarebbe rimasto sotto l’autorità del governatore britannico: se possibile, la condizione degli isolani era ulteriormente peggiorata. Gli inglesi avevano infatti scoperto che le zone centrali dell’isola erano molto adatte alla coltivazione del caffè, della gomma e soprattutto del tè, prodotto molto ricercato e di larghissimo consumo: con la cosiddetta Wastelands Ordinance (ordinanza sulle terre improduttive) i contadini erano stati espropriati dei loro campi e ridotti alla fame, ma dalla metà del XIX secolo il tè di Ceylon era talmente diffuso sui mercati britannici che i due termini erano divenuti quasi sinonimi ed i nuovi piantatori inglesi avevano potuto realizzare enormi guadagni. Come se ciò non fosse bastato ancora, per lavorare nelle piantagioni dall’India meridionale erano stati trapiantati sull’isola un gran numero di Tamil che erano ben presto arrivati a costituire oltre il 10% della popolazione totale, complicandone la composizione etnica con conseguenti scontri e tensioni ancor oggi non ancora sopiti [nel 1983 con la nascita delle Tigri Tamil si giunse addirittura alla guerra civile che in vent’anni produsse circa 65.000 morti e 1,5 milioni di sfollati. Solo nel dicembre 2001 le Tigri Tamil e il governo hanno firmato una tregua. Le Tigri Tamil sono state dichiarate organizzazione terroristica da Stati Uniti, Inghilterra, Australia, India e Canada, ma le profonde discriminazioni contro la popolazione Tamil sono state riconosciute all’ONU dalla stessa presidentessa dell’isola.] Oltretutto, gli inglesi avevano sempre cercato di mettere i gruppi etnici l’uno contro l’altro per dominarli tutti meglio ed avevano favorito i Burghers (coloro cioè che erano nati da matrimoni misti e quindi erano per metà europei) e le caste singalesi più elevate. Gli inglesi tuttavia – come dappertutto e specificamente in India – avevano introdotto anche a Ceylon la loro cultura liberale basata sul diritto e – come in India – avevano unificato i vari regni e popoli sotto lo stesso governo (seppur coloniale). Col passare degli anni e con l’esempio dell’India anche a Ceylon il regime coloniale aveva poi dovuto comunque allentare la sua presa finchè nel 1909 l’isola aveva ottenuto un primo parlamento (solo parzialmente elettivo) e nel 1931, nonostante le forti e scontate proteste dei privilegiati delle varie etnie, il suffragio universale. Durante la prima guerra mondiale anche Ceylon aveva dovuto far fronte ai (soliti) sacrifici imposti dalle esigenze belliche e durante la seconda l’isola aveva funto da base delle operazioni britanniche contro i giapponesi che non l’invasero mai ma che il 5 aprile 1942 avevano bombardato Colombo. Anche a Ceylon le forze politiche indigene si erano opposte al coinvolgimento in guerra, così molti erano stati arrestati, ma molti altri erano fuggiti in India mentre altri ancora erano rimasti invece sull’isola per continuare la lotta indipendentista: alcuni esponenti del governo avevano infine intavolato negoziati con i giapponesi per allearsi con loro e scacciare così gli inglesi. Anche Ceylon aveva seguito insomma il copione già osservato in India. 39 III Dopo la seconda guerra mondiale il processo che ben presto si sarebbe compiuto in India non potè che verificarsi dunque anche a Ceylon che il 4 febbraio 1948 conseguì l’indipendenza (primo ministro fu D. S. Senanayake) ed ottenne lo status di dominion britannico, ma dovette concedere che la British Royal Navy rimanesse nella base di Trincomalee fino al 1956. Le sue lingue ufficiali sono il singalese e il tamil, lingue nazionali, ma l’inglese è rimasto lingua di collegamento. Nel 1972 Ceylon si chiamò infine Sri Lanka (da ‘laṃkā’, termine già usato negli antichi racconti epici indiani e che in sanscrito significa ‘isola risplendente’) per cancellare anche il nome che i colonialisti inglesi avevano dato all’isola. L’indipendenza dell’India e la nascita del Pakistan Se fra le due guerre il Partito del Congresso e la Lega mussulmana erano riusciti a dominare incontrastati il movimento nazionalista rimanendo su posizioni tutto sommato moderate e interclassiste (appena scalfite dalla posizione socialisteggiante della sinistra del Congresso stesso guidata da Nehru), in seguito alla seconda guerra mondiale tale equilibrio si spezzò soprattutto perché l’Inghilterra era esausta e gli indiani avevano dovuto imparare a gestire da soli situazioni molto difficili inserendosi sempre più nella catena di comando ed avendo così dimostrato di saper assumere su di sé responsabilità sempre più grandi ed impegnative. Alla fine del luglio 1945 in Inghilterra Churchill perse clamorosamente le elezioni e i laburisti vinsero con un’ampia maggioranza: i laburisti si erano pronunciati da tempo per l’indipendenza dell’India e la massa di voti che ottennero fu il segnale inequivocabile che gli inglesi non erano più disposti a sacrifici e ad avventure. Il nuovo primo ministro Clement Attlee, preso atto della situazione, annunciò che era tempo che il potere venisse trasferito agli indiani: immediatamente Gandhi proclamò allora la fine della lotta e circa 100mila prigionieri politici vennero subito liberati. Poco dopo il viceré Wavell diede l’incarico a Nerhu di formare il governo dell’India finalmente indipendente, ma fu un governo di persone prive di esperienza in un paese che doveva fronteggiare le grandi difficoltà che la guerra aveva lasciato in gran numero. Tuttavia anche il risultato delle elezioni indiane nella primavera 1946 fu chiaro ed inequivocabile: esso mostrò senza ombra di dubbio che l’India era profondamente divisa fra indù (raccolti nel Congresso) ed islamici (raccolti nella Lega mussulmana): il realtà il Congresso si proclamava laico e panindiano (e molti dei suoi aderenti ne erano sinceramente convinti) ma i mussulmani non potevano non vedere che in esso si erano identificati gli indù e la tensione interreligiosa, non più tenuta a freno dalle esigenze della guerra, crebbe in modo allarmante. Gli inglesi cercarono di mediare fra le parti (per esempio con la ‘missione Cripps’) ma ormai non avevano più il controllo del paese e della situazione: Jinnah, sospettoso 40 di accordi segreti fra inglesi e Congresso e stanco di trattative e manovre, ruppe gli indugi e il 16 agosto 1946 lanciò una ‘azione diretta’ per ottenere la nascita del Pakistan, stato mussulmano, e la sua separazione dall’India. La protesta della ‘azione diretta’ sfociò ben presto in scontri tanto violenti da passare alla storia come ‘Great Calcutta Killing’, quattro giorni di sangue (5mila morti!) che richiesero l’intervento delle truppe inglesi per essere fermati: ma fu solo l’inizio perché dappertutto nell’India settentrionale le folle si scatenarono l’una contro l’altra non arretrando di fronte alle crudeltà e atrocità più raccapriccianti: il bilancio delle vittime quadruplicò coi cadaveri ammucchiati ai lati delle strade. L’India britannica non esisteva più ed anzi si andava dissolvendo nella violenza e nell’anarchia: lasciati a se stessi gli indiani stavano dimostrando di aver covato per chissà quanto tempo odi tremendi e di non riuscire a gestirli. Gandhi rimase completamente isolato nel suo nobile ma patetico tentativo di far ragionare le parti ed il suo appello alla non-violenza apparve ora una triste assurdità. L’amara verità era che gli indiani non erano assolutamente in grado di governare i problemi interni che li stavano travolgendo in un crescendo di violenza francamente inspiegabile, così toccò ai precedenti padroni, agli inglesi, risolverli – e la lezione dovette essere davvero amara per chi aveva lottato per decenni per liberarsi di loro. Il 20 febbraio 1947 Attlee annunciò il prossimo ritiro degli inglesi e sostituì Wavell con l’abile e capace Mountbatten il quale non perse tempo e realisticamente elaborò un piano per la divisione del paese in base all’appartenenza religiosa degli abitanti e, contemporaneamente, annunciò il ritiro degli inglesi stessi entro il 14 agosto seguente. Mountbatten seppe muoversi con abilità e decisione mettendo i contendenti di fronte alla necessità di trovare finalmente un accordo finchè gli inglesi erano ancora sul territorio e il suo piano venne accettato: nonostante la netta (ed isolata) opposizione di Gandhi, accanto all’India nacque così il Pakistan grazie all’assegnazione delle province al confine con Iran ed Afghanistan, completamente islamiche, ed alla divisione del Punjab e del Bengala (a seconda della preponderanza degli indù o dei mussulmani) mentre il Sind optò per il Pakistan. La nascita del Pakistan segnò la netta vittoria di Jinnah, ma era uno strano stato le cui due parti (occidentale ed orientale) erano lontanissime fra loro. L’indipendenza dell’India, raggiunta senza il bisogno di ricorrere a lunghe e sanguinose rivolte, fu ufficialmente proclamata il 15 agosto 1947 ma, salvaguardati gli interessi finanziari ed economici britannici nel paese, in realtà si trattò di un semplice passaggio di poteri. La proclamazione dell’indipendenza fu accolta in India con estese ed addirittura deliranti manifestazioni pubbliche di gioia, durante le quali tutti si abbracciavano (mussulmani, indù, sikhs e perfino gli inglesi) fra loro entusiasti e frementi di soddisfazione, ma tutto ciò durò veramente lo spazio d’un mattino. 41 Sangue Proclamata l’indipendenza fu proprio Mountbatten ad essere designato primo governatore generale dell’India (Jinnah lo fu del Pakistan) e oltre a Gandhi (che si era sempre opposto alla secessione del Pakistan) le altre personalità emergenti nel Congresso erano Nehru per la sinistra e Patel per la destra. Gandhi venne assassinato per il suo pacifismo verso i mussulmani da un fanatico indù il 30 gennaio 1948, Mountbatten terminò il suo mandato il 21 giugno 1948 (e tornò in Inghilterra) e Patel (che ebbe rapporti difficili con Nehru ma che fu sempre rispettoso del gioco parlamentare) morì il 15 dicembre 1950. Nehru emerse quindi come la figura dominante del partito e dello stato e ricoprì la carica di primo ministro fino alla morte avvenuta il 27 maggio 1964: i problemi che la neonata democrazia indiana – un paese spremuto dalla guerra e che stava muovendo i primi passi della libertà e dell’indipendenza - dovette subito affrontare furono naturalmente molteplici, ma su tutti spiccò quello dei gravissimi scontri e massacri fra indù, mussulmani e sikhs e, fra questi, quelli avvenuti nel Punjab. Il problema era questo: la nascita del Pakistan aveva diviso il Punjab a ovest e il Bengala a est (come aveva voluto Curzon a cavallo del secolo) fra i due stati, ma ovviamente non era stato possibile dividere altrettanto nettamente la popolazione a seconda della sua religione, per cui rimanevano mussulmani in India ed indù in Pakistan: come se ciò non bastasse, anche i sikhs del Punjab vennero divisi fra i due stati divenendo minoranza in ambedue le parti in cui la provincia era stata scissa. La popolazione andava dunque ripartita fra i due nuovi stati in quello che fu il primo esperimento di pulizia etnica su larga scala dopo la seconda guerra mondiale: i nuovi confini vennero resi noti il 17 agosto 1947, due e tre giorni dopo che i due stati erano divenuti indipendenti (!) ed è difficile immaginare che le cose sarebbero potute andare peggio: improvvisamente milioni e milioni di persone si trovarono dalla parte sbagliata del confine e così fin dal momento della proclamazione delle due indipendenze invece di una pacifica e controllata serie di migrazioni gli scontri fra indù, mussulmani e sikhs (già da anni comunque iniziati e mai cessati) si scatenarono ad un ritmo frenetico ed incontrollabile in un crescendo impressionante di ferocia e di devastazione. Stermini delle popolazioni di interi villaggi, assalti di folle esaltate, stragi degli emigranti sui treni trasformati in cimiteri, massacri di emigranti, voci incontrollate di efferatezze compiute dalle altre parti in lotta, vendette, fanatismo e crudeltà insensata trascinarono nel caos l’intero Punjab e soprattutto la città mussulmana di Lahore e quella sikh di Amristar: anche l’esercito e l’amministrazione erano divisi, e quindi paralizzati, mentre i profughi tentavano in massa la fuga verso lo stato dei loro correligionari (in qualche modo semplificando così il problema). Ecco come Piers Brendon racconta gli eventi andati avanti per svariati mesi (traduzione mia): ‘Nessuno era meglio disciplinato dei sikhs, una costante minoranza le cui bande … armate di spade … e di altre armi si comportarono con ‘pre- 42 medievale ferocia’. Ma anche mussulmani e indù perpetrarono ogni odiosità riassunta nel grottesco moderno eufemismo di ‘pulizia etnica’. Arrostirono bambini sugli spiedi, impalarono infanti sulle lance, bollirono i figli in pentoloni d’olio. Violentarono, mutilarono, fecero prigioniere ed uccisero le donne, a volte strappando i peni dei loro mariti morti ed infilandoglieli in bocca. Sottomisero gli uomini ad agghiaccianti crudeltà, bruciandoli vivi nelle loro case, trafiggendoli nelle strade, macellandoli negli ospedali, strangolandoli nei campi per i rifugiati, torturandoli e convertendoli a forza nei dissacrati templi, moschee e gurdwaras (i luoghi di culto sikh). Avvelenarono i loro nemici, li immersero nell’acido, li accecarono gettandogli negli occhi chili in polvere. Le atrocità eclissarono totalmente quelle dell’Indian Mutiny. … molti testimoni trovarono la violenza inspiegabile. … Vicini che erano vissuti amichevolmente per anni improvvisamente divennero furiosi e si massacrarono a vicenda. Alcuni delle peggiori stragi si verificarono nelle ferrovie … [dove] bande … bloccarono i treni stipati di gente che cercava di sfuggire al terrore. Spesso lasciarono solo vagoni pieni di cadaveri che arrivarono alle loro destinazioni col sangue che filtrava da ogni orifizio. … Masse di rifugiati che si spostavano per strada, alcune in colonne lunghe fino a cinquanta miglia, divennero bersaglio ancora più grande di rapine e di assassinii. Delhi stessa fu infettata dalla violenza … seppure … scarsamente paragonabile al disastro nelle regioni di frontiera. Città come Amristar sembravano essere state bombardate. La campagna era un enorme crematorio. Con migliaia di villaggi ridotti in cenere.’ (pag. 411-412). Solo alla fine dell’anno gli scontri diedero segno di esaurimento. Fortunatamente nel Bengala le stragi e le devastazioni furono molto più contenute: nonostante la divisione anche qui fosse dannosa e piuttosto insensata (per esempio Calcutta, esportatrice di juta, fu separata dalle regioni in cui questa veniva coltivata) quando i disordini esplosero Gandhi si trovava a Calcutta e, sostenuto dalla polizia, proclamò l’ennesimo digiuno per fermare la follia omicida: forse fu proprio per questo che nel Bengala entro pochi giorni gli animi si calmarono e il peggio fu evitato, comunque anche qui secondo Brendon i rifugiati furono 1.250mila. Un anno dopo, a metà 1948, secondo Spear 5,5 milioni di persone erano emigrate dal Punjab indiano a quello pakistano ed altrettanti si erano spostati in senso inverso; 1 milione era emigrato dal Bengala pakistano a quello indiano e 400mila se ne erano andati dal Sind (a sud del Punjab) pakistano, mentre molti furono gli immigrati in senso inverso: per White 7,3 milioni di indù e sikhs se ne andarono dal Pakistan e 7,2 milioni di mussulmani dall’India; per Ishtiaq Ahmed 4,5 milioni di indù e sikhs emigrarono dall’India e 6 milioni di mussulmani fecero il cammino inverso; ed infine Rampini parla di ‘Undici milioni di persone ... scappate in un esodo biblico per raggiungere zone sicure abitate da una maggioranza di correligionari. E [stata] la più grande migrazione della storia umana concentrata in un arco di tempo così breve’ (pag. 99). In genere si trattò di spostamenti spontanei e volontari (certamente dettati comunque da terrore e da insicurezza) e questo aumenta lo stupore per il fatto che reazioni così furiose alla partizione non erano state previste da nessuno, così nessuno aveva pensato di prendere contromisure adeguate anche se, a ben guardare, l’unica 43 soluzione capace di almeno limitare sensibilmente il disastro sarebbe stata quella di schierare nuovamente le truppe inglesi che invece erano ammassate nei porti in attesa dell’imbarco per tornare in patria … ma come sarebbe stato possibile giustificare la concessione dell’indipendenza da parte degli inglesi e contemporaneamente controllarla con l’esercito inglese stesso? Il fatto è che non risultano ancora spiegate l’insorgenza e l’esplosione incontrollata di odi così profondi ed implacabili, come sia stato possibile che questi crescessero fino all’impazzimento nonostante la convivenza secolare dei seguaci delle due religioni prima e durante tutto il dominio inglese. Il caos fu tale che le cifre stesse dei morti negli scontri e negli assalti è del tutto incerta e va dai 500mila calcolati da White, ai 500-750 mila di Ishtiaq Ahmed, al milione di Spear, di Brendon e di Rampini: lo stesso discorso vale per l’attribuzione delle responsabilità maggiori degli eccidi perché White accusa ‘indù e mussulmani, in particolare Jinnah’ (pag. 153) mentre Spear dopo aver affermato che ‘Su Jinnah ricade la responsabilità della proclamazione del ‘giorno dell’azione diretta’ [16 agosto 1946, prodromo dei massacri dell’anno seguente] a Calcutta e di tutto quel che ne derivò’ (pag. 533), a proposito dei gravissimi episodi del 1947 abbastanza stranamente conclude però che ‘E’ meglio non tentare di stabilire le responsabilità per l’accaduto, perché le testimonianze sono troppo confuse, le sfumature di colpa troppo sottili.’ (pag. 542) Non resta che concludere dunque che le animosità erano reciproche e che comunque Jinnah e i mussulmani soffiarono con più forza sul fuoco, ma coll’avvertenza che erano una (grossa) minoranza che si sentiva minacciata. India e Pakistan, già provati dalla guerra e dai problemi dell’indipendenza, si trovarono profondamente divisi e nemici e pieni di ulteriori lutti proprio nel momento in cui avevano raggiunto lo scopo agognato per decenni: in India gli animi cominciarono finalmente a raffreddarsi solo dopo l’assassinio di Gandhi il 30 gennaio 1948 per mano di un fanatico indù che non gli perdonava lo sforzo incessante (ed inascoltato) per fermare la violenza e per trovare un accordo pacifico coi mussulmani per salvaguardare l’unità dell’India. Paradossalmente l’infame assassinio del Mahatma, la grande anima, il santo, il profeta, l’onore dell’India, gettò il disprezzo sugli estremisti indù che vennero screditati ed allontanati perdendo così la possibilità di continuare a nuocere: fu questo l’ultimo servizio che Gandhi rese al suo popolo ed alla sua nazione, anche da morto. Fu in questo modo che 400 milioni di persone - 1/6 della popolazione del pianeta - si liberarono dal giogo coloniale e conseguirono l’indipendenza. La partizione del Punjab Il ben documentato Ahmed calcola che la doppia migrazione forzata abbia spostato complessivamente 14 milioni di persone, 10 milioni delle quali dal solo Punjab: è dunque inevitabile concentrarsi in particolare su questa enorme provincia e sulle sue 44 tristissime vicende che gettano luce ulteriore su quel che avvenne nel resto del paese, soprattutto nel Bengala, l’altra provincia (e l’altro popolo) che venne divisa. I Prima della partizione il Punjab aveva una superficie di 357.692 kmq. con una popolazione di quasi 34 milioni di persone in maggioranza mussulmane (53,2 %), poi indù (30,1 %) ed infine sikhs (14,9 %, ma numerosi nell’esercito coloniale). Oltre alle forti motivazioni religiose, altro fattore di divisione della società era stato quello economico: gli inglesi infatti, dopo aver conquistato definitivamente la provincia nel 1849, anche qui avevano introdotto tutta una serie di riforme e di ammodernamenti (notevole soprattutto l’imponente opera di canalizzazione e di irrigazione) in cui avevano saputo inserirsi e da cui avevano saputo trarre beneficio soprattutto indù e sikhs, tanto che nel 1947 essi possedevano il 75-80% delle terre, mentre la maggioranza dei contadini era invece mussulmana, e lo stesso vantaggio essi lo mantenevano spesso anche nelle città. Nell’India britannica votava circa 1/10 della popolazione con riserva di seggi per i mussulmani e per i sikhs (che avevano ottenuto poi anche il voto separato - i mussulmani dal 1909 e i sikhs dal 1919) per evitare che gli indù, di gran lunga maggioritari nella società, monopolizzassero i seggi in parlamento: fino alle elezioni del 1946 la vita politica del Punjab era stata dominata dal Punjab Unionist Party che, fondato nel 1923, aveva espresso nel suo stesso nome il programma politico per questa provincia che gli inglesi avevano sempre considerato particolarmente leale: dalle sue ‘razze marziali’ essi avevano tratto infatti ben metà degli effettivi del loro 45 esercito coloniale; mentre il Congresso non aveva voluto allinearsi allo sforzo bellico inglese nella seconda guerra mondiale il Punjab aveva invece collaborato; ed infine il Movimento ‘Quit India’, lanciato da Gandhi e dal Congresso il 9 agosto 1942, in Punjab aveva avuto scarso impatto. Era stato tuttavia soprattutto nel Punjab che a mano a mano che il dominio coloniale inglese era venuto meno le tensioni fra i gruppi erano cresciute di intensità e si erano tinte sempre più di motivazioni religiose (vere forgiatrici di identità): dopo che la Lega Mussulmana aveva rotto gli indugi e il 23 marzo 1940 con la Risoluzione di Lahore aveva chiesto la divisione dell’India e la formazione di due stati separati su base religiosa, subito era stata seguita dai sikhs che per non cadere interamente sotto il controllo mussulmano avevano domandato allora anche la divisione del Punjab (che la Lega avrebbe voluto invece interamente nel Pakistan). Il problema di sikhs era comunque che essi erano una minoranza sparsa su tutto il territorio del Punjab così che nessuna divisione della provincia avrebbe potuto far loro ottenere uno stato: essi erano comunque uniti agli indù con cui fecero sempre causa comune contro i mussulmani. II I Sikhs erano i seguaci della religione fondata dal guru Nanak (vissuto a cavallo del XV e XVI secolo) che aveva trascorso la vita viaggiando e predicando l’esistenza di un solo Dio che abitava in ognuna delle sue creature: in base a questa premessa Nanak aveva proposto così che tutti gli uomini convergessero in un’unica organizzazione spirituale, sociale e politica fondata su fratellanza, bontà e virtù. Nanak aveva rifiutato l’intoccabilità e condannato la corruzione, così aveva comprensibilmente attirato seguaci soprattutto fra gli indù delle caste inferiori, ma la nuova religione (diffusa nell’India nord-occidentale con Amristar maggior centro spirituale) ben presto era entrata in urto coi poteri costituiti dell’impero Moghul, cosa che aveva spinto i suoi seguaci a costituire compatte ed efficienti formazioni militari: scontri sanguinosi e violenti si erano susseguiti inevitabili contro i mussulmani mentre si erano rafforzati i legami con gli indù (anche grazie a molti matrimoni misti). Era avvenuto così che al tempo delle terribili invasioni persiane e afghane del XVIII secolo erano stati proprio i sikhs ad emergere come la maggior forza militare del fronte comune finchè – pur essendo in netta minoranza – respinti gli aggressori erano divenuti i dominatori del Punjab, di fatto ormai regno indipendente. Il Punjab sikh fu comunque di breve durata perchè dopo la morte dell’abile e valoroso Ranjit Singh (1839) esso non aveva più potuto reggere alla pressione inglese ed era stato così conquistato ed integrato nell’India britannica. III Tornando alla proposta di costituire due stati separati avanzata con la Risoluzione di Lahore, essa aveva trovato appoggi sempre più diffusi (facendo così del Punjab la 46 provincia-chiave dell’intera questione nazionale) anche perché dall’agosto 1942 al giugno 1945 un gran numero di dirigenti del Congresso (contrario alla partizione) era stato incarcerato e ciò aveva lasciato campo libero alla Lega Mussulmana che aveva continuato ad insistere sull’opportunità della nascita del Pakistan. Alle elezioni del luglio1945 nel Punjab tutti abbandonarono l’UPP: i mussulmani votarono per la loro Lega, gli indù per il Congresso e i sikhs per il Panthic: nonostante il Congresso proclamasse di essere aperto a tutti e proponesse una politica interreligiosa di concordia nazionale, di fatto raggruppava ormai solo gli indù, proprio mentre in Inghilterra Churchill veniva clamorosamente sconfitto ed il nuovo governo Attlee aveva ormai accettato l’idea dell’indipendenza dell’India. IV Nel Punjab la Lega, pur essendo il partito più votato, non raggiunse però la maggioranza assoluta per dieci seggi: indù e sikhs si unirono allora in un’alleanza di governo che relegò i mussulmani all’opposizione scatenandone le ire ed il risentimento: la Lega si sentì minacciata e proclamò una campagna di Azione Diretta che dal 24 gennaio al 26 febbraio 1946 provocò gravi e gravissimi scontri incendiando vieppiù gli animi e rendendo sempre meno pensabile ogni possibilità di compromesso. La tenacia e la resistenza dei mussulmani riuscirono nell’intento: il premier indù dovette dimettersi (il 2 marzo) e il Governatore del Punjab Jenkins incaricò un mussulmano di cercare una maggioranza in parlamento, ma ciò non risolse certo il problema perché, anche se i mussulmani proclamarono il 2 marzo Giorno della Vittoria, indù e sikhs mantennero intatte le loro apprensioni e la loro ferma opposizione (‘in nessun modo possiamo fidarci dei mussulmani’ sostenne il leader sikh Master Tara Singh) e rifiutarono qualsiasi accordo. Se possibile, la paura, le tensioni e la profonda sfiducia reciproca si acuirono ulteriormente in seguito al veemente proclama di Master Tara Singh che di fronte al Parlamento il 3 marzo estrasse minaccioso il suo kirpan (la spada tradizionale dei sikhs) e rifiutò minacciosamente la nascita del Pakistan che i mussulmani sempre più spesso invocavano invece come soluzione di ogni problema. V Mentre gli scontri – che non si interrompevano mai - aumentavano di intensità, il 13 agosto 1946 il Governatore dell’India Wavell incaricò Nehru di formare il governo nazionale e ciò, nonostante l’invito (rifiutato) a Jinnah di collaborare, portò gli scontri dei mussulmani contro gli indù e sikhs ad un livello incredibile di barbarie che culminò il Giorno dell’Azione Diretta proclamato da Jinnah per il 16 agosto a Calcutta al grido di ‘l’Islam in pericolo!’: nel conseguente ‘Calcutta Killings’ i morti si contarono a migliaia. Una volta iniziati gli scontri non si fermarono più e i più gravi si ebbero nel Bihar (confinante col Nepal e col Bengala occidentale) nell’ottobre-novembre, questa volta 47 iniziati dagli scampati indù e sikhs in cerca di vendetta e di rappresaglia: ma questi furono solo i più sanguinosi fra i continui massacri che si verificavano con una furia inaspettata ed inspiegabile mentre a nulla servivano i tentativi di conciliazione e di accordo che uno dopo l’altro fallivano miseramente. VI Nel Punjab i duri ulteriori scontri fra indù-sikhs e mussulmani del 4 marzo 1947 confermarono definitivamente l’impossibilità di mettere in piedi un qualsiasi governo, così il giorno seguente Jenkins si risolse ad assumere i pieni poteri della provincia ma non potè impedire che per oltre una settimana gli assalti ai villaggi sikhs continuassero mentre l’esercito stava a guardare (o poco più). Di fronte alla vastità ed alla radicalità dell’odio reciproco ogni possibilità di mantenere l’India unita era svanito per sempre e per quanto Jinnah fosse disposto a notevoli concessioni ai sikhs ed offrisse loro le più ampie garanzie se avessero rinunciato alla divisione del Punjab, nel clima di odio e di estrema diffidenza reciproca non ottenne alcun risultato e Jenkins mantenne le redini del governo fino all’indipendenza. Iniziati a Lahore, una nuova tornata di scontri dilagò per tutta la provincia con un aumentata intensità: atrocità e atti di barbarie si moltiplicavano in un orribile crescendo e a nulla servì l’appello congiunto di Gandhi di Jinnah - sollecitato dal nuovo governatore dell’India (dal 24 marzo 1947) Mountbatten - per porre fine alle violenze. VII Fu in questo clima ed in questa situazione spaventosa di implosione dello stato e di carneficine continue che Mountbatten decise di anticipare la data della concessione dell’indipendenza al 15 agosto 1947 rispetto al giugno 1948 (come era stato stabilito in precedenza) e il 3 giugno annunciò ufficialmente che l’India sarebbe stata divisa a seconda dell’appartenenza religiosa dei suoi cittadini. Il parlamento del Punjab votò a favore della divisione della provincia e contro la proposta della Lega Mussulmana perché invece rimanesse unita e nominò una Commissione sul Confine del Punjab (due mussulmani, un indù e un sikh) guidata da un certo sir Radcliffe che però non era mai stato in India, arrivò a Delhi l’8 luglio e vi rimase per tutta la durata dei lavori facendosi costantemente informare per via aerea (!!!). La violenza per parte sua non cessò mai: oltretutto mancava, e sarebbe sempre mancata, un’unica autorità che potesse vigilare (ed avesse la forza sufficiente) sugli inevitabili trasferimenti di popolazione impedendo o almeno riducendo le catastrofi che si susseguivano e che sarebbero esplose senza alcun freno dopo l’indipendenza. La Commissione (diciamo così) Radcliffe arrivò alle stesse conclusioni del Piano di Demarcazione di Wawell (il predecessore di Mountbatten) del 7 febbraio 1947, ma tutti vennero tenuti all’oscuro delle sue decisioni mentre la violenza montava sempre 48 più e colonne di profughi e di sfollati cercavano rifugio nelle zone per loro più sicure dove appena arrivati raccontavano tutti gli orrori visti e patiti. La Commissione si ispirò al principio della religione seguita dalla maggioranza degli abitanti e non a quello di proprietà per cui, come segnala Ahmed, ‘aree nelle quali in particolare i sikhs possedevano gran parte della terra e sikhs e indù insieme gran parte dei beni urbani andarono al Pakistan’. VIII Nel 1947 il Ramadan iniziò la terza settimana di luglio e in agosto fu segnalato il primo spostamento in massa di mussulmani dal Punjab orientale (centinaia di migliaia di persone) cui corrispose un analogo esodo (mezzo milione di indù e sikhs) da quello occidentale, ma la tragedia si scatenò con tutta la ferocia dell’hobbesiano stato di natura dopo il 17 agosto 1947, quando (due giorni dopo l’indipendenza!) i confini dei due Punjab furono resi finalmente noti ed ognuno seppe con certezza in quale nazione si trovava. A est i sikhs attaccarono i villaggi mussulmani (5,9 milioni di essi vivevano ora nel Punjab indiano) con la stessa ferocia - ma su scala ben più larga ed efficiente - che avevano dovuto subire negli analoghi assalti da essi patiti nei loro villaggi nel marzo precedente ed il 15 ottobre si calcolò che 5,4 milioni di mussulmani del Punjab orientale si erano trasferiti in quello occidentale. Sul fronte opposto, il 6 novembre 3,2 milioni di indù e sikhs provenienti da quello occidentale erano già arrivati nel Punjab orientale - e se ne attendeva ancora un buon numero. Ovviamente le violenze diminuivano man mano che i trasferimenti venivano effettuati, ma gli ultimi rifugiati continuarono a giungere nelle loro rispettive destinazioni ancora nei primi mesi del 1948. La cifra dei morti mussulmani è molto incerta e oscilla dai 250mila ai 500mila mentre dei 3,8 milioni di indù e sikhs che vivevano nel Punjab occidentale si calcola (molto approssimativamente) che ne siano periti 250mila: il totale dei morti del Punjab andrebbe dunque dai 500mila ai 750mila e fra questi vanno inclusi anche coloro che perirono di stenti o di malattia nei campi profughi e le donne e le bambine uccise dai loro stessi parenti o suicidatesi per non cadere vive nelle mani dei nemici. IX I massacri che fecero seguito alla divisione del Punjab furono molto più gravi ed estesi di quelli che l’avevano preceduta e di quelli che si verificarono in altre parti dell’India (soprattutto a Calcutta e nel Bihar): nel Punjab inoltre i morti furono più numerosi fra i mussulmani mentre indù e sikhs dell’ovest persero le loro proprietà in quantità maggiore dei mussulmani dell’est. Un disastro così terribile e una furia così scatenata fra persone che per secoli avevano vissuto fianco a fianco sfidano davvero la possibilità di venir compresi: certamente il 49 ricordo ancestrale delle sofferenze inferte dai moghul mussulmani a sikhs e indù non si era ancora sopito (!) né quello delle più recenti violenze da parte dei sikhs al tempo del loro dominio del Punjab; è tristemente noto poi che è in nome dell’ideologia (questa volta religiosa) che vengono commessi i crimini più spaventosi e messi in moto meccanismi infernali; il fatto che i sikhs e gli indù fossero mediamente più ricchi dei mussulmani e possedessero il grosso delle risorse acuì sicuramente il senso di rivalsa e di opposizione; ognuna delle parti si sentiva (ed era) minacciata dall’altra, quindi era spinta ad aggredire in anticipo; ambedue cercavano vendetta per gli orrori patiti in una spirale perversa che ad ogni giro diveniva più grave; tuttavia per Ahmed ‘la spinta [fondamentale] che mosse gli attaccanti fu la brama di saccheggiare, razziare e catturare le femmine del gruppo nemico’: non a caso ‘nel Punjab occidentale sopravvissero solo gli indù cosiddetti Intoccabili – soprattutto perché potessero continuare nelle loro impure mansioni [e] … nel Punjab orientale … qua e là erano rimasti i mussulmani delle caste addette ai servizi (che non possedevano terra). Per ambedue le parti arraffare terra ed altre proprietà fu insomma un fattore molto forte della partecipazione ai raids sul nemico’. Per mesi e mesi (almeno fino alla fine del 1947) il desiderio di bottino e di ricchezza non trovò insomma impedimenti né di ordine politico (gli altri erano gli spietati nemici), né di ordine militare (la forza pubblica era piccolissima cosa), né tantomeno di ordine morale (i nemici erano infedeli): alle bande di delinquenti e di fanatici che ora potevano agire in assoluta libertà ed impunità si unirono dunque sempre più persone in un accecamento collettivo che rende ancor più eroica e meritoria l’attività di coloro che, tutto al contrario, salvarono vite a costo di rischiare (e anche di perdere) la propria. X Quella indo-pakistana fu la prima pulizia etnica (religiosa) avvenuta dopo la seconda guerra mondiale e presentò inoltre ampi tratti di veri e propri genocidi: non è possibile stabilire con certezza se un’operazione così gigantesca fu portata avanti secondo generali piani prestabiliti oppure se essa fu lo sbocco spontaneo e largamente imprevedibile di una situazione arrivata ormai al suo storico punto di rottura. I pareri (e le accuse) sono discordi e con ogni probabilità ci fu una concomitanza dei due fattori, ma voler dividere un territorio in base all’appartenenza religiosa dei suoi abitanti in realtà è già di per se stesso la preparazione e l’invito allo scontro senza quartiere ed al trionfo dell’intolleranza. Ognuno aveva sempre diffidato dell’altro – e purtroppo a ragione. XI L’8 aprile 1950 Liaqat e Nehru firmarono il Patto sulla Sicurezza e sui Diritti delle Minoranze secondo il quale, indipendentemente dalla loro religione, tutti i cittadini (dell’India e del Pakistan) erano uguali davanti alla legge e godevano esattamente degli stessi diritti che vennero riaffermati con forza, ma questo fu solo il sigillo 50 formale apposto sul dramma e sulla tragedia dei due sanguinosissimi esodi ormai irrimediabilmente conclusi. Ancor oggi sul confine Wagah-Attari (sulla strada fra Lahore ed Amristar) la quotidiana cerimonia dell’ammainabandiera nei posti di blocco di ambedue i settori è una lunga e sentitissima festa con folle in tripudio, inni, bandiere al vento, musiche, bande, sfilate, saluti, gesti di simpatia e masse entusiaste e frementi di amor patrio: le guardie delle due nazioni si incontrano e si salutano in amicizia e rispetto, ma poi il confine viene ermeticamente sigillato e rimane chiuso per tutta la notte. India e Pakistan Sia come sia, l’India dopo la partenza dell’ultimo soldato inglese dal suo suolo non era un paese pieno di rancore verso l’Inghilterra ed aveva anche le strutture politiche ed amministrative per poter camminare colle sue gambe: Nehru potè così inserirla nel novero delle nazioni civilizzate senza troppa difficoltà. I Il primo problema che venne definitivamente risolto dalla neonata democrazia indiana fu quello dei prìncipi: dopo la rivolta dei sepoys gli oltre 500 prìncipi – i cui domini sparsi si estendevano per circa 1/4 dell’India britannica e con una popolazione circa 1/5 di quella totale - erano stati lasciati sui loro troni ed usati dagli inglesi per collaborare con loro a mantenere la situazione sotto controllo. Gli inglesi avevano comunque sperato che essi avrebbero modernizzato i loro governi ed i loro stati, ma senza successo: i prìncipi continuarono ad esercitare il potere nella forma tradizionale, in seguito rifiutarono di entrare nella federazione e diffidarono sempre del Congresso e delle sue idee democratiche e costituzionali, così che dopo la seconda guerra mondiale si trovarono isolati e fuori della storia. Fu inevitabile che i loro regni venissero incorporati nelle nuove province – a loro volta ridisegnate sulla base della lingua che vi veniva parlata – e che essi venissero tacitati con privilegi e laute pensioni esenti da imposte. II Altro problema importante ed urgente fu quello della lingua: in India se ne parlavano parecchie ma ora che il paese era nato e che era unito era necessario che avesse anche una lingua ufficiale: accanto all’inglese fu adottato quindi l’hindi, affine al sanscrito e parlato nell’India settentrionale e centrale. L’allegato VIII della Costituzione dell’India avrebbe comunque presto riconosciuto ufficialmente altre 21 lingue (ma venne scritta soltanto in inglese ed in hindi). La Costituzione indiana entrò in vigore il 26 gennaio 1950 e prese lo spunto dall’India Act del 1935 e dall’Indipendence Act del 1947: recepì dunque i contenuti 51 della tradizione liberale inglese ed europea negando, fra l’altro, la divisione della società in caste (art. 15 e 16) ed abolendo l’intoccabilità (art. 17). III Piuttosto differente fu la storia del Pakistan che fino al 1971 fu costituito dal Pakistan occidentale e dal Pakistan orientale, alle estremità orientale ed occidentale dell’India settentrionale e separati quindi da oltre 1500 chilometri di territorio indiano. Innanzitutto mentre l’India (o, almeno, la sua classe dirigente) si ispirava al modello di stato laico e secolarizzato, il Pakistan era nato per unire i mussulmani (anche al di fuori dei suoi confini che intendeva allargare) e si fondava quindi sull’identità religiosa (islamica) dei suoi cittadini. Non stupisce quindi che Jinnah, il presidente della Lega mussulmana, divenisse governatore generale e che il segretario generale della stessa primo ministro: tuttavia fino al 1956 il Pakistan fu un dominion tanto che fin dal 1947 re Giorgio VI abbandonò il titolo di Imperatore dell’India e divenne anche Re del Pakistan (!) ed allo stesso modo dal 6 febbraio 1952 la regina Elisabetta II divenne anche Regina del Pakistan finchè finalmente nel 1956 il paese divenne una repubblica parlamentare (islamica ma schierata con il blocco occidentale). Intanto nel 1948 Jinnah aveva adottato l’urdu (una delle 22 lingue riconosciute anche dall’India) come lingua ufficiale, ma questa unilateralità (tipica del monolitismo islamico) aveva provocato gravi disordini nella parte orientale del paese che era di lingua bengalese e che si sentì comprensibilmente discriminata. IV Fra India e Pakistan il contenzioso ed i motivi di ostilità erano (e sono!) molteplici, ma in questa sede basterà ricordare la guerra per il Kashmir che scoppiò ben presto fra i due paesi perché gli abitanti del Kashmir erano in prevalenza mussulmani ed avrebbero voluto che la regione entrasse a far parte del Pakistan, ma il loro principe l’aveva invece lasciata in eredità all’India che dunque la rivendicava come propria: le motivazioni ufficiali della guerra meritano di essere sottolineate perché da una parte (Pakistan) c’era la volontà di unire tutti gli islamici e dall’altra (India) quella di rispettare le regole del diritto internazionale e di mostrare che in uno stato laico i cittadini di religioni diverse potevano tranquillamente convivere. La prima guerra indo-pakistana scoppiò subito fra i due paesi e si concluse nel gennaio 1949 grazie all’intervento dell’ONU: il Kashmir venne diviso in JammuKashmir (a est) assegnato all’India e Azad-Kashmir (a nord-ovest) al Pakistan, ma non si trattò di una soluzione troppo duratura perché nel 1965-66 nella zona scoppiò una seconda guerra indo-pakistana che si concluse con la mediazione dell’URSS e con la riconferma dei confini del 1949. 52 L’indipendenza della Birmania Dopo che – come si è visto – i giapponesi in Birmania si erano arresi e consegnati agli inglesi, una buona parte di loro era stata impiegata in lavori di ricostruzione finchè finalmente nel giugno 1947 anche il loro rimpatrio fu concluso. Tuttavia - come si è visto – il loro messaggio aveva costituito un catalizzatore per il desiderio di indipendenza e di fine del colonialismo ed ha ragione Latimer quando scrive (traduzione mia) ‘Il risultato più notevole della guerra in Oriente fu l’avvento del nazionalismo in tutta la regione e fra tutti i popoli: vincitori, sconfitti e spettatori.’ (pag. 427) In Birmania poi, oltre all’esaurimento delle potenze europee, cioè dell’Inghilterra, fu l’arrivo degli americani nel nord del paese a portare una ventata di novità e di risveglio: anche se il paese era ovviamente ridotto a mal partito (ad esempio con milioni di ettari di terra già coltivati a riso tornati ad essere quasi giungla e con il bestiame ridotto a 1/3 di quello d’anteguerra), l’ansia indipendentista si sommava ora alla volontà di far cessare gli interessi e la rapacità degli inglesi e degli indiani mentre anche il nuovo governo (laburista) di Londra comprendeva che l’impero non era più sostenibile. A guerra era finita in Birmania era stato comunque restaurato il governo coloniale inglese che si adoperò per realizzare un programma per la ricostruzione del paese ma che rimandò ancora una volta la discussione sul tema dell’indipendenza: ciò tuttavia non era più sopportabile e l’instabilità politica regnò nel paese finchè il nuovo governatore Hubert Rance risolse il problema che si andava facendo sempre più grave incontrandosi con Aung San, il politico più noto e di maggior affidabilità fra la popolazione, e convincendolo a partecipare al governo. Il nuovo esecutivo, forte dell’appoggio popolare, iniziò subito i negoziati per l’indipendenza che si conclusero con successo il 27 gennaio 1947: tuttavia l’accordo lasciò insoddisfatti sia i comunisti che i conservatori (che passarono all’opposizione) ma Aung San ed i socialisti nell’aprile 1947 vinsero le elezioni per la nuova assemblea costituente e, nonostante il 19 luglio 1947 Aung San (con parecchi membri del suo partito) venisse assassinato, il socialista Thakin Nu ne prese il posto e fu lui a celebrare l’indipendenza della Birmania il 4 gennaio 1948. L’indipendenza era stata ottenuta senza una vera guerra ma il sentimento popolare anti-britannico era ormai talmente radicato che la Birmania, a differenza dell’India e del Pakistan, rifiutò di entrare nel Commonwealth delle Nazioni che gli inglesi costruirono per mantenere collegamenti e contatti con i paesi del loro ex-impero. Sfortunatamente nemmeno in Birmania l’indipendenza portò la pace perché subito il paese fu scosso da tentativi dei comunisti di prendere il potere, da ammutinamenti di truppe e, soprattutto, da ribellioni fra i Karen, i Mons ed altre minoranze etniche. Dopo anni di confusione ed instabilità i conflitti sfociarono nella dittatura militare del generale Ne Win ed il paese si chiuse a riccio alle influenze esterne ed al mondo moderno: Na Win si dimise nel luglio 1988 ed il nuovo governo militare – cambiato 53 il nome del paese in Myanmar (per significare che i birmani erano solo la maggioranza della popolazione e che anche altri popoli abitavano entro i suoi confini) – indisse libere elezioni nel maggio 1990 per poi arrestare subito Suu Kyi (figlia di Aung San e leader della Lega Nazionale per la Democrazia) che le aveva vinte e tornare alla dittatura militare che solo recentissimamente si è decisa (apparentemente) a liberare Suu Kyi e a lasciare che il paese possa tornare alla democrazia. La nascita del Bangladesh Oltre alla contesa ed all’ostilità con l’India, fin dalla sua nascita il Pakistan fu percorso e scosso dal problema della diversità e della lontananza delle due parti che lo componevano: anziché lavorare per superare le differenze fra le due regioni del paese, Jinnah, il suo governo ed i suoi successori concentrarono invece attenzioni e risorse sulla parte occidentale trascurando e discriminando quella orientale. L’elenco delle disparità di trattamento era davvero lungo. Nonostante i pakistani dell’est fossero numericamente superiori a quelli dell’ovest (e dunque avrebbero dovuto avere la maggioranza in parlamento), questi ultimi avevano escogitato il sistema per ovviare a questo svantaggio tramite lo ‘One Unit Scheme’, cioè unificando ai fini elettorali le quattro regioni dell’ovest in una sola: ciò permetteva loro di avere il primo ministro (il leader del partito di maggioranza), di avere la maggioranza in parlamento (utilizzando gli scarti di voti) e di eleggere quindi il presidente (con elezioni indirette). Se tutto questo non fosse bastato, i militari avevano poi grande rilevanza politica e nell’esercito i bengalesi erano una netta minoranza (per esempio nel 1965 gli ufficiali bengalesi erano il 5% del totale!) [così oltretutto era l’ovest che beneficiava delle spese militari: oltre che svantaggioso sia economicamente che dal punto di vista occupazionale, questo squilibrio era anche altamente pericoloso come apparve chiaro durante la guerra indo-pakistana del 1965, quando l’est risultò sguarnito di fronte agli sconfinamenti indiani]. Non può quindi sorprendere che Khawaja Nazimuddin, Muhammad Ali Bogra, e Huseyn Shaheed Suhrawardy, tutti primi ministri provenienti dall’est, venissero prontamente deposti e che nel paese si susseguissero le dittature militari di Ayub Khan (27 ottobre 1958 – 25 marzo 1969) e di Yahya Khan (25 marzo1969 – 20 dicembre 1971), ambedue pakistani dell’ovest. Le risorse del paese fluivano a ovest e la sua volontà egemonica emerse indubbia quando - come si è visto - fu l’urdu, e solo l’urdu, la lingua dell’ovest, a divenire la lingua ufficiale del Pakistan (oltre all’inglese come lingua di collegamento) relegando il bengalese al ruolo di dialetto locale. Fu proprio il Movimento della lingua bengalese (Shaheed Minar), che nel 1952 cominciò a reclamare la pari dignità delle due lingue, a segnare il primo motivo di conflitto tra le due regioni del Pakistan, ma l’insoddisfazione si estese ben presto a tutti i settori della vita pubblica finchè la Lega Popolare Bengalese (la Lega Awami) 54 riuscì a convogliare e ad unificare le rimostranze ed i bisogni della popolazione bengalese. Essa negli anni Sessanta chiese a gran voce l’autonomia ma la risposta del governo (militare) fu che il suo presidente Sheikh Mujibur Rahman venne incarcerato nel 1966: tre anni dopo tuttavia una rivolta popolare senza precedenti – evidente segno dei tempi ormai mutati – costrinse le autorità a rilasciarlo. La tensione fra le due parti del paese cresceva in misura sempre più allarmante e, come sempre, alla prima occasione sarebbe sfociata non più gestibile e non più controllabile: l’occasione fu il ciclone Bhola. Il Bengala pakistano dovrebbe essere ricco visto che comprende la fertile pianura che sorge intorno agli immensi delta del Gange e del Brahmaputra ed effettivamente è tra i paesi più densamente popolati del mondo, ma, soggetto com’è alle annuali inondazioni provocate dai monsoni e dall’abbattersi periodico di devastanti cicloni, è invece sempre stato caratterizzato da carestie, catastrofi naturali e conseguente elevato tasso di povertà. La sera del 12 novembre 1970 il ciclone Bhola arrivò sulla costa proprio quando stava salendo anche la marea: i suoi effetti furono i più tremendi che la storia dei cicloni tropicali ricordi e le stime dei morti causati dalla paurosa ondata variano da 300mila a 500mila (fu impossibile anche stabilire questo dato con più accuratezza). I soccorsi e le misure prese dal governo furono inadeguate ed insufficienti: di fronte alla loro trascuratezza ed alla loro limitatezza i leaders politici del Pakistan orientale dieci giorni dopo accusarono il governo di ‘grossolana negligenza e completa indifferenza’ e del resto pochissimi giorni prima lo stesso presidente Khan aveva dovuto ammettere che nel gestire i soccorsi e l’emergenza il governo aveva commesso ‘leggerezze’ ed ‘errori’ dovuti alla sottovalutazione del disastro. Era chiaro che l’inettitudine del governo era l’ennesima manifestazione del disinteresse, della discriminazione e della indifferenza con cui l’ovest al potere trattava l’est dimenticato e sfruttato, così le proteste, le manifestazioni e gli scioperi non poterono che montare sempre più indignati tanto che il personale straniero cominciò ben presto ad essere evacuato per timore di incidenti dovuti alla violenza che poteva esplodere incontrollata da un momento all’altro. La situazione infatti precipitò quando a Sheikh Mujibur Rahman - leader della Lega Awami vincitrice delle elezioni del 1970 con 167/169 seggi riservati all’est e con la maggioranza in parlamento – venne impedito di divenire primo ministro. Era infatti successo che Zulfikar Ali Bhutto il leader del Partito del Popolo Pakistano (dell’ovest) si era opposto alla nomina di Sheikh Mujibur Rahman ed era arrivato a proporre addirittura due primi ministri, uno per l’est e uno per l’ovest: l’est aveva rifiutato assolutamente un simile progetto ed i seguenti incontri e manovre non avevano comprensibilmente portato a niente, mentre anche i potenti militari scendevano minacciosi in campo. Di fronte all’impasse ed al precipitare degli eventi il 7 marzo 1971 Sheikh Mujibur Rahman in un famoso discorso-appello alla sua gente aveva rotto gli indugi 55 chiedendo giustizia e rispetto per l’ordine costituzionale e concludendo che ‘La nostra lotta è per la nostra libertà. La nostra lotta è per la nostra indipendenza.’ Per tutta risposta il presidente Yahya Khan il 26 marzo 1971 fece arrestare Sheikh Majibur Rahman e lo stesso giorno con l’operazione ‘Searchlight’ ordinò l’attacco al Pakistan orientale: era la guerra aperta che per i bengalesi pakistani fu guerra di liberazione e/o di indipendenza. Lo scopo dell’operazione ‘Searchlight’ era chiaro dal suo stesso nome (‘riflettore’): si trattava della (tristemente solita) occupazione – soprattutto delle città – per eliminare tutti i veri o supposti nazionalisti indipendentisti, politici o militari, studenti o intellettuali, che fossero: per non dover rispondere a nessuno del suo operato il governo aveva intanto preventivamente allontanato dal Pakistan orientale tutti i giornalisti stranieri. Lo stesso presidente Yahya Khan era stato chiarissimo in merito quando in un incontro coi vertici militari aveva dichiarato: ‘Ammazzatene 3 milioni e gli altri mangeranno dalle nostre mani.’ E così fu: per schiacciare la resistenza bengalese i militari catturati vennero disarmati ed uccisi, gli studenti e gli intellettuali sistematicamente liquidati ed i maschi bengalesi abili al servizio prelevati ed abbattuti. L’operazione potè dirsi conclusa quando a metà maggio cadde l’ultima città ancora in mani bengalesi, ma intanto la maggior parte dei leaders della Lega Awami era riuscita a mettersi in salvo e ad organizzare un governo in esilio a Calcutta che subito riaffermò l’indipendenza del Bangladesh (già proclamata da Sheikh Mujibur Rahman poche ore prima del suo arresto insieme all’esortazione al suo popolo di resistere all’occupazione) mentre le atrocità dell’esercito invasore e le sue sistematiche uccisioni riuscirono solo a rafforzare la volontà di resistere dei bengalesi. Subito militari e paramilitari bengalesi disertarono e insieme a partigiani civili diedero vita all’esercito di liberazione (Mukti Bahini) che, dapprima disorganizzato ma poi sempre più rafforzato e rifornito dall’India, iniziò la resistenza e la guerriglia contro gli invasori. Naturalmente l’India sosteneva ed armava i secessionisti dato che una divisione del Pakistan in due stati nemici fra loro veniva tutta a suo evidente vantaggio. Ancora una volta si ripeteva la situazione di un popolo in armi che pretende di essere libero ed indipendente contro un esercito invasore più forte di lui e, come sempre e come tutti gli invasori, anche i pakistani non poterono che ricorrere al terrore (cui si applicarono con particolare brutalità le milizie paramilitari appositamente costituite) contro la popolazione civile – in fondo l’unica arma che avevano contro un nemico sfuggente e sostenuto dalla popolazione stessa. Un fiume di profughi terrorizzati – ingestibile a causa della sue dimensioni - si precipitò in India, ma nonostante i loro metodi atroci (o forse proprio per questo) i pakistani non riuscivano a vincere anche per il crescente supporto indiano alla causa del Bengala (che la prima ministra Indira Gandhi offriva sentendosi più sicura in seguito ad un trattato di assistenza e di mutua collaborazione con l’URSS che bloccava ogni possibilità di intervento della Cina in favore del Pakistan) così per interrompere il flusso dei rifornimenti ai bengalesi il 3 dicembre 1971 il Pakistan 56 scatenò incursioni aeree sulle basi dell’aviazione indiana del nord: l’attacco pakistano voleva ripetere la ‘Operazione Focus’ che gli israeliani avevano condotto con tanto successo contro le forze aeree egiziane durante la guerra dei Sei Giorni, cioè distruggere gli aerei indiani quando questi erano ancora a terra e bloccare così ogni possibilità di azione indiana a favore del Bengala, ma questo fu l’ultimo degli errori del governo pakistano perché l’India, attaccata senza preavviso, entrò direttamente in guerra (la terza indo-pakistana) e – nonostante i pakistani l’attaccassero anche a ovest per allentare la pressione a est - in pochi giorni le sue forze congiunte a quelle bengalesi sconfissero irrimediabilmente gli invasori che già il 16 dovettero arrendersi: i prigionieri di guerra furono più di 93mila, il numero più alto dalla fine della seconda guerra mondiale. La guerra durò nove mesi e basta accennare alle sue cifre per rendersi conto della sua atrocità: il numero dei massacrati oscilla dai 300mila ai 3 milioni (già questa imprecisione è impressionante) cui si aggiunsero 10 milioni di rifugiati (in India) e 30 milioni di evacuati: la sorte peggiore era poi toccata agli indù bengalesi, odiati anche per la loro religione. Divenuto finalmente indipendente, il Bangladesh considerò il 26 marzo 1971 the Independence Day of Bangladesh, si costituì come democrazia parlamentare, (Sheikh Mujibur Rahman primo ministro) ed alle elezioni del 1973 la Lega Awami ottenne la maggioranza assoluta. Avendo chiesto l’ammissione all’ONU, inizialmente dovette però rinunciare per il veto della Cina, sicura alleata del Pakistan in opposizione all’URSS alleata dell’India, e per quest’ultimo motivo anche gli USA furono fra gli ultimi paesi a riconoscerlo (l’8 aprile 1972, ma la Cina si decise solo il 31 agosto 1975). In ogni caso il 2 luglio 1972 con gli Accordi di Simla il Pakistan riconobbe il nuovo stato in cambio del rilascio dei suoi prigionieri di guerra ma dovette rinunciare anche ad alcune aree strategiche (come Kargil) a ovest che l’India aveva occupato durante la guerra e che ora potè mantenere. Per il Pakistan la fulminea sconfitta e la perdita di metà nazione fu uno shock e la resa del suo esercito a est fu avvertita come un vero e proprio tradimento: il paese si sentì oltretutto isolato ed incompreso visto che solo gli USA l’avevano sostenuto: la dittatura di Yahya Khan non resse alla ignominiosa dèbacle che così aprì l’ascesa al potere di Zulfikar Ali Bhutto. Quando le acque si furono calmate in Pakistan venne istituita la commissione d’inchiesta Hamoodur Rahman le cui conclusioni misero in luce i numerosi errori commessi a tutti i livelli e condannarono come crimini di guerra le atrocità (saccheggio, stupro e uccisioni) commesse dall’esercito anche se i suoi numeri furono enormemente più bassi di quelli denunciati dal Bangladesh: per questi oltre 200mila donne furono stuprate o ridotte alla condizione di schiave sessuali – con la conseguente nascita di migliaia di bambini - e 3 milioni di persone furono uccise; per quelli le donne stuprate furono qualche centinaio e le uccisioni 26mila. 57 In ogni caso una larga fetta della comunità intellettuale del Bangladesh era stata eliminata soprattutto ad opera delle milizie paramilitari su istruzione dell’esercito e negli anni seguenti si sarebbero scoperte sempre più fosse comuni. L’ultimo dato (forse il più assurdo) è che durante la guerra efferate violenze erano state perpetrate anche da nazionalisti bengalesi ai danni delle minoranze etniche nonbengalesi. I termini più adatti a descrivere l’accaduto sono sicuramente quelli usati dai Servizi di Informazione statunitensi e declassificati il 16 dicembre 2002, termini che vengono adoperati ancor oggi per descrivere quegli eventi: ‘genocidio selettivo’ e ‘genocidio’. Conclusione Non sembra difficile trarre le conclusioni di quanto si è visto fino a questo momento. I Innanzitutto per quel che riguarda i cinque paesi di cui si è parlato sembra evidente che essi – come praticamente tutti gli altri in tutti i continenti extraeuropei – sono nati in seguito all’opera dei colonialisti europei, nella fattispecie degli inglesi: senza l’impresa europeizzatrice di questi ultimi non è nemmeno immaginabile in quale modo i numerosi popoli di quella che fu l’India britannica al tempo della sua massima espansione si sarebbero organizzati ed in quali forme politiche vivrebbero oggi (marzo 2013). Tuttavia al tempo stesso bisogna subito aggiungere che i suddetti popoli non furono certamente passivi soggetti malleabili nelle mani dei colonizzatori: essi reagirono, impararono, insegnarono, collaborarono e seppero far valere almeno alcune delle loro istanze e necessità (le più profonde ed importanti) fino al raggiungimento dell’indipendenza. Ma i popoli che finalmente raggiunsero l’indipendenza non erano più quelli di prima, quando cioè avevano gestito le loro vicende ed il loro destino da padroni in casa propria ed avevano potuto seguire le loro culture e le loro civiltà: i nuovi stati furono così il frutto dell’incontro-scontro con la civiltà europea che si era presentata loro nella sua forma peggiore, sotto le odiose spoglie della rapina, dello sfruttamento e dell’asservimento. E’ stato poi già rimarcato che le esigenze stesse del dominio coloniale avevano imposto la diffusione della cultura dei colonialisti stessi e che ciò non aveva potuto che generare la ribellione degli assoggettati, ma in India tale diffusione (ripetiamolo: inevitabile) ebbe una rilevanza particolare e maggiore che altrove, anche perché gli indiani si dimostrarono più che altrove (per esempio più che in Birmania) interessati e convinti. E’ indubbio insomma che gli inglesi in India furono colonialisti e sfruttatori, tuttavia furono anche civilizzatori: quella contraddizione fondamentale ed ineliminabile del 58 colonialismo - per cui il colonizzatore non può evitare di fornire al colonizzato le armi per liberarsi - in India si accompagnò infatti anche ad un sincero (seppur parziale e contraddittorio a sua volta) progetto di emancipare e di accompagnare all’indipendenza l’immenso subcontinente. Non può essere taciuto che tutti i massimi (e non solo) paladini dell’indipendenza indiana avevano studiato e si erano formati in Inghilterra. Sinceramente il senso di un’operazione come questa sfugge alla piena comprensione, a meno di riconoscere che gli inglesi si sentirono davvero convinti di dover europeizzare gli indiani – affermazione questa che però qui non ci si sente di poter sostenere e che suona invece piuttosto giustificatrice e propagandistica. Certamente però gli inglesi si resero realisticamente conto dell’impossibilità e dell’insensatezza di continuare a dominare popoli così numerosi su un territorio così vasto. In ogni caso, se già alla fine del 1947 la situazione dell’ordine pubblico in India e in Pakistan era tornata alla quasi-normalità, ciò lo si era dovuto alle strutture politiche forgiate dagli inglesi (ed alla saggia conferma di tutti i dipendenti pubblici ai loro posti voluta da Nehru): in India non ci furono così né processi né vendette ai danni di chi aveva collaborato con gli inglesi. Inglesi e indiani si lasciarono insomma da amici - e ciò è stupefacente. II Di ben altro tono sono invece le considerazioni su come si comportarono i nuovi stati e, soprattutto, i loro popoli all’indomani della loro liberazione: essi infatti si massacrarono a vicenda e si fecero una guerra dopo l’altra. E questo fu un epilogo davvero amaro: indiani e pakistani erano vissuti fianco a fianco per secoli; avevano lottato insieme per raggiungere l’indipendenza e la libertà; erano riusciti a dialogare e ad intendersi con gli inglesi quando questi li dominavano e li avevano sfruttati ed oppressi; avevano seguito le parole del grande Gandhi di cui avevano ammirato la profondissima umanità e di fronte al quale si erano sempre inchinati pieni di rispetto e venerazione … ma appena furono liberi e soli saltarono l’uno alla gola dell’altro con una ferocia ed un’esaltazione ancor oggi inspiegabili. La nascita dei loro stati fu immediatamente seguita da imprevisti ed inaspettati bagni di sangue innocente: la festa si trasformò subito in tragedia avvelenando l’animo nobilissimo di Gandhi, lui stesso vittima di questo orrore, agnello sacrificale sull’altare dell’esaltazione sanguinaria e folle di uomini improvvisamente trasformati in bruti feroci. Non sembra possibile riuscire a trarre lezioni o insegnamenti da una simile assurdità e ci si può solo augurare che non accada mai più. Sottomarina marzo 2013 (ed integrato nel luglio 2014) 59 Bibliografia La biblioteca di Repubblica: ‘La Storia’ – 2004. Kavalam M. Panikkar: ‘ Storia della dominazione europea in Asia’ – Einaudi, Torino 1977. Hans-Georg Behr: ‘I Moghul imperatori dell’India’ – Garzanti, Milano1985. William Dalrymple: ‘The Last Mughal’ – Vintage Books, New York 2006. Daniel R. Headrick: ‘Al servizio dell’impero’ – il Mulino, Bologna 1984. Victor G. Kiernan: ‘Eserciti e imperi’ – Il Mulino, Bologna 1985. Raymond F. Betts: ‘L’alba illusoria’ – Il Mulino, Rastignano (BO) 1986. Percival Spear: ‘Storia dell’India’ – Rizzoli, Milano 1973. Robert Paine: ‘The Life and Death of Mahatma Gandhi’ – Rupa e Co, New Delhi 2002. James Morris: ‘Pax Britannica’ – Rizzoli, Milano 1983. Eric J. Hobsbawn: ‘L’età degli imperi 1875-1914’ - Laterza 1987. 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Matthew White: ‘Il libro nero dell’umanità’ – Ponte alle Grazie, Trebaseleghe (PD) 2011. Numerosi saggi ed articoli scaricati da Internet.