gfp.195 – materiali per il Forum dei comunisti, Roma 1997
CLASSE, STATO, MONDO ... E DINTORNI
contro il socialismo romantico borghese e piccolo borghese:
postumi di lassallismo e proudhonismo
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La democrazia è una delle forme dello stato.
I marxisti sono nemici di ogni stato.
Tuttavia riconoscono la necessità di uno stato per la transizione socialista,
ma di uno stato come la Comune,
e non di uno stato parlamentare democratico borghese.
[Lenin, Progetto di piattaforma per il partito del proletariato, marzo 1917]
Lavoro salariato
Sostiene Marx: “Il singolo produttore riceve - detrattogli in quanto individuo ciò che gli viene restituito
direttamente o indirettamente in quanto membro della società - l’equivalente esatto di quanto ha dato alla
società. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società sotto una forma, la riceve da questa sotto
un’altra forma.
Si commette invece l’assurdo di parlare dell’"eliminazione del sistema dei salari" [la forza-lavoro non è
una merce! - ndr], che ha come presupposto la teoria della popolazione di Malthus (vi sono sempre troppi
lavoratori, questa è l’argomentazione): ma in questo caso non si può abolire la legge del salario, perché in
questo caso la legge non regola soltanto il sistema del lavoro salariato ma ogni sistema sociale. Ed è
precisamente poggiando su questo che gli economisti hanno dimostrato da secoli che il socialismo non può
eliminare la miseria che è di origine naturale, ma può soltanto renderla generale, distribuirla uniformemente
su tutta la società.
Il criterio scientifico che il salario non è ciò che sembra essere - cioè il valore del lavoro, che prende l’apparenza della cosa per la cosa stessa - ma solo una forma mascherata del valore della forza-lavoro, ha gettato
a mare la concezione borghese e ha messo in chiaro: i. che il lavoratore salariato ha il permesso di lavorare
per la sua propria vita - cioè di vivere - solo in quanto lavora, per un certo tempo, gratuitamente per i
capitalisti (e quindi anche per quanti, insieme con i capitalisti, consumano il plusvalore); ii. che tutto il
sistema di produzione capitalistico mira a prolungare questo lavoro gratuito prolungando la giornata di
lavoro o sviluppando la produttività, cioè con una maggiore tensione della forza-lavoro, ecc.; iii. che dunque
il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù che diventa sempre più dura nella misura in cui si
sviluppano le forze sociali produttive del lavoro, qualunque sia il salario buono o cattivo che il lavoratore
riceve.
È possibile che l’organizzazione dei lavoratori, la loro resistenza sempre più dura opponga un certo
ostacolo all’aumento (assoluto) della miseria: ma quello che certamente cresce è l’incertezza dell’esistenza.
Ritornare ai dogmi dell’"eliminazione del lavoro salariato" è come se in una rivolta di schiavi si scrivesse
nel programma che la schiavitù deve essere abolita perché il mantenimento degli schiavi nel sistema della
schiavitù non può superare un certo livello; questo è un mostruoso attentato al criterio scientifico che mostra
da solo con quale leggerezza criminale, e con quale malafede, si lavori alla redazione del programma.
Le classi medie non costituiscono, con la borghesia e i proprietari fondiari, una "sola massa reazionaria"
rispetto alla classe operaia”.
Oggi, in una fase di perdurante crisi irrisolta, l’automazione del controllo cerca di adeguare nuove
procedure produttive capaci di avvalersi di una riproduzione allargata su scala mondiale dell’esercito
industriale di riserva, soprattutto nella sua forma più irregolarmente attiva, quella stagnante. Le esperienze
recenti di rimescolamento del mercato del lavoro (su indicazione del Fmi) testimoniano tutte della medesima
tendenza contrattuale improntata a flessibilità e precarietà: il che si accompagna all’incombenza di una
crescente precarietà occupazionale che sospinge i lavoratori a subire quelle normative, sotto la minaccia,
appunto, di finire presto nella palude stagnante dell’esercito industriale di riserva, con “un’occupazione
assolutamente irregolare - come spiega Marx - che offre in tal modo al capitale un serbatoio inesauribile di
forza-lavoro disponibile. Le sue condizioni di vita scendono al di sotto del livello medio normale della classe
operaia, e proprio questo ne fa la larga base di particolari rami di sfruttamento del capitale. Le sue
caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario”. Ciò significa che alla centralizzazione
del capitale monopolistico finanziario si accompagna quell’esteso processo di proletarizzazione, capace di
far aumentare in assoluto la popolazione mondiale salariata, in successione in quei paesi che a turno vengono
conquistati dagli investimenti esteri; ma non sufficiente a frenare la relativa caduta occupazionale, data la
stagnazione di produzione e accumulazione. I mutamenti della composizione di classe che ne deriva, sia a
livello mondiale sia nei differenti singoli paesi e regioni, costituiscono un altro rilevante elemento di
riflessione intorno alla nuova divisione internazionale del lavoro.
L’indebitamento internazionale dei paesi dominati è l’altra faccia della stessa moneta che caratterizza gli
investimenti diretti all’estero (Ide), che vanno dall’integrazione verticale all’articolazione dei processi
produttivi (da materie prime a semilavorati), con subordinazione funzionale di unità produttive “locali”
formalmente indipendenti, al trasferimento di segmenti del processo di produzione e circolazione con
dislocazione all’estero. Ciò rispecchia la medesima tipologia della connessione delle “filiere” produttive
anche sul territorio “nazionale”, proprio in quanto segmento del mercato mondiale. A codesta configurazione
si informa l’intera scomposizione e ricomposizione di classe sul mercato mondiale, e in tale ottica questa va
considerata.
Il proletariato è in tutte le articolazioni delle catene transnazionali, nel mondo intero, non solo delle aree
dominate ma anche negli stati dominanti. Su tali basi anche le forme del salario si sono potute adeguare alle
esigenze moderne della produzione di plusvalore: il cottimo, diceva già Marx, è ciò che corrisponde meglio
al concetto di capitale, coartando il lavoratore all’autocontrollo dello sfruttamento. Ciò che la Grande
Corporazione Mondiale chiama “partecipazione” è in realtà ricatto, o comunque coercizione al consenso.
Senza tornare a parlare del salario nella sua dimensione sociale di classe, il salario diretto sicuro tende a
fermarsi intorno alla metà della busta paga, in condizioni normali di crescita economica; l’altra metà salariale
è subordinata all’obliterante principio della partecipazione. Prevale quella logica “premiale” che già Marx nel cottimo come categoria generale - riferiva alla “parvenza” di lavoro già oggettivato secondo la capacità
di rendimento del lavoratore. Ma oggi il grande innominato, assurto al più elevato rango di despota del
lavoro salariato, è diventato quello dianzi già indicato come cottimo corporativo, giacché la sua misura non è
più neppure rintracciabile direttamente nel “rendimento” del lavoro stesso. Un incontrollabile risultato
d’impresa - stabilito sulla base di libri contabili arbitrariamente compilati dagli amministratori aziendali, e
per di più soggetto all’incertezza del mercato nazionale e mondiale, sul cui andamento nulla può lo zelo
lavorativo - diviene il principio regolatore della quota salariale che integra la misera base contrattuale. Al
medesimo cottimo corporativo sono vincolate le parti del cosiddetto “salario indiretto”, a suo tempo garantito
dallo stato attraverso la prestazione di servizi sociali.
Tra i punti di convergenza degli interessi comuni alla classe capitalistica mondiale, tipici in ogni periodo
di crisi (distruzione del capitale in eccesso) e ora sostenuti dagli interventi delle istituzioni sovranazionali,
emerge la distruzione anche del capitale variabile. La riproduzione dell’esercito industriale di riserva, a
partire dalla seconda metà degli anni ‘70 fino a oggi, si è venuta sempre più manifestando nella sua forma
stagnante (irregolarità di occupazione e salario, e non solo la “disoccupazione”). Le istituzioni sovrastatuali
“argomentano” che “la liberalizzazione del mercato del lavoro favorisce un più sostenuto sviluppo, il che
significa un maggiore guadagno per l’intera economia”, mentre invitano a “regolare e rivedere la gestione
dei fondi delle pensioni pubbliche”. E precisano che laddove i “fondi-pensione capitalizzati e gestiti
competitivamente offrono, ai paesi che affrontano la riforma pensionistica, la prospettiva di tassi di risparmio
crescenti e di allargamento del mercato dei capitali”, di contro “la generosità delle assicurazioni sociali
rappresenta un fattore altamente disincentivante al lavoro in quanto il reddito da lavoro, detratte le imposte,
in certi casi è solo di poco superiore ai sussidi disponibili”.
Il caso del neocorporativismo olandese è assurto a esempio di “miracoloso” recupero della cosiddetta
stabilità economica e politica da parte del grande capitale. (Tale caso, insieme a altri provvedimenti
liberaldemocratici del riformismo borghese, secolarmente inscritti nella “questione sociale” a rimozione
della lotta di classe, e perciò così cari al neocorporativismo, è stato irresponsabilmente esaltato anche da una
parte dell’asinistra). Le considerazioni del Fmi in termini di conflittualità di classe - e di esito di siffatto
scontro - parlano assai chiaro. “Un importante risultato è stato la ripresa di profittabilità delle imprese,
tornata ai livelli dei primi anni ‘70. Questa ripresa, propiziata dalla moderazione salariale, ha portato a un
forte aumento di risparmio e investimento delle imprese. Il governo pose limiti al carico fiscale, facendo sì
che il forzato taglio della spesa (sicurezza sociale, sanità e amministrazione centrale) guidasse la riduzione
del disavanzo. Le misure prese per incoraggiare la partecipazione della forza-lavoro comprendevano:
riduzione delle indennità di disoccupazione e invalidità; accorciamento della durata dell’indennità di
disoccupazione; restrizione delle condizioni di ammissibilità alle indennità d’invalidità; privatizzazione
dell’assistenza sanitaria. Solo la (contemporanea) riduzione del carico fiscale ha permesso ai redditi netti di
aumentare anche in assenza di aumenti del salario lordo. Una diminuzione dei salari reali del pubblico
impiego ha aiutato a spingere verso il basso i salari del settore privato. Le misure rivolte a stimolare la
domanda includevano, sostanzialmente: taglio dei salari minimi, specialmente per i giovani; riduzione dei
sussidi sociali; ulteriori riduzioni del costo del lavoro, specialmente per i lavoratori non qualificati; e, infine,
fiscalizzazione degli oneri sociali (in pratica, eliminazione) relativi al lavoro non qualificato disoccupato di
lunga durata. Sindacati e padroni siglarono un accordo per moderare gli aumenti salariali e per stimolare la
crescita dell’occupazione. Il duraturo cambiamento nell’impostazione contrattuale dei sindacati può essere
visto come la risposta razionale ai tagli operati dal governo sulle indennità sociali e sul salario minimo. Il
“miracolo olandese” è d’esempio per le altre economie: se si vuole rimanere competitivi sul piano
internazionale, non c’è tanto da scegliere, oltre alla flessibilità”.
L’imperativo del capitale, assistito dal Fmi, in ogni paese è dunque quella riforma del mercato del lavoro
che realizzi, attraverso la precarizzazione del rapporto di lavoro unitamente al taglio dei salari, un maggiore
sfruttamento della forza-lavoro (occultato sotto l’etichetta di flessibilità). Tale tipo di riforma, coordinata
dagli uffici del Fmi, ha puntato in particolare il dito contro il funzionamento del mercato del lavoro in
Europa, accusato di “carenza di flessibilità”: a eccezione del caso olandese, il confronto è con la situazione in
Usa. Gli esperti del Fmi, al cospetto di una crisi che sembra irresolubile, contrappongono a un modello
europeo - “molti disoccupati relativamente benestanti” - il modello americano - “molti occupati poveri”. Si
invitano i governi europei a non aver paura degli effetti redistributivi, soprattutto ai danni degli strati più
bassi della popolazione lavoratrice, preferendo il “modello” americano perché comporta: minori sostegni
alla disoccupazione; maggior sventagliamento salariale; minore sindacalizzazione; minori mediazioni
statali; minori vincoli per le assunzioni; minori vincoli per i licenziamenti; minori costi extra-salariali;
riduzione delle ferie pagate.
Le stime della Bm smentiscono l’insulsa tesi della “fine del proletariato”, e indicano che per il primo
quarto del prossimo secolo si raggiungerà la cifra di quasi 4 miliardi di lavoratori salariati, soprattutto nelle
aree più arretrate dominate dall’imperialismo, a cominciare dal sudest asiatico (ma con occhi sempre più
attenti, da quelli di Clinton a quelli di Wojtyla, per la macroregione dell’Africa subsahariana). E sono proprio
quei 4 miliardi di persone - e la Bm lo riconosce - le vittime prime delle crisi finanziarie e dell’indebitamento: “I lavoratori possono beneficiare dell’arrivo dei capitali, ma sono essi stessi a essere i più colpiti dalla
partenza dei medesimi capitali. Negli anni ‘80, i costi dell’aggiustamento strutturale sono stati elevati e i
lavoratori hanno pagato una gran parte di tali costi”. In molti paesi dominati dall’imperialismo i salari reali
sono scesi fino a dimezzarsi.
Sotto il dominio del capitale, nella contraddizione tra produzione e circolazione, solo attraverso la
dialettica tra valore e valore d’uso viene spiegata la falsità dell’interpretazione “tecnologica”, che rimanda
separatamente alle categorie di valore d’uso, processo lavorativo, ecc. Le tesi della “disoccupazione
tecnologica” sono connesse all’idea di un’ormai presunta raggiunta incapacità del capitale a creare
occupazione, scambiando causa con effetto. La disoccupazione - meglio: la riproduzione dell’esercito
industriale di riserva in tutte le sue forme di occupazione e salarizzazione irregolare - è sempre conseguenza
sociale dell’incapacità del capitale a riprodursi con profitto (plusvalore), e a riprodurre così il suo intero
rapporto. La saturazione del mercato mondiale è il riscontro empirico della sopravvenuta mancata
corrispondenza della circolazione alla produzione. I due momenti in cui è definito il modo di produzione
capitalistico complessivo (produzione e circolazione), così come i due momenti di cui è costituito il suo
processo immediato (lavorativo e di valorizzazione), vengono artificiosamente separati dalle teorie
adialettiche, anziché essere considerati come totalità, ossia unità contraddittoria di tali due momenti.
Sono i rapporti di proprietà, ossia rapporti di classe, e non i “modelli” tecnici organizzativi, che
definiscono la metamorfosi neocorporativa degli assetti operativi del grande capitale monopolistico
finanziario di controllo, dalla forma nazionale statale di quest’ultimo alla sua fase superiore transnazionale.
Un riscontro di ciò sia ha nel processo di proletarizzazione su scala mondiale, caratterizzato da una
polarizzazione di classe, che con l’ideologia postfordista e postkeynesiana non si può spiegare: tant’è vero
che da essa viene recisamente negato. Per essa è incomprensibile che due terzi dello sviluppo siano ancora
dovuti all’estensione della base produttiva di capitale e lavoro: riproduzione allargata e plusvalore assoluto,
diremmo con Marx. Solo dopo aver compreso tale proletarizzazione mondiale in atto, si può capire che cosa
significhi dire che, neppure per i paesi di nuova industrializzazione (ovverosia, proprio là dove
l’accumulazione originaria del capitale è recente), il plusvalore assoluto possa bastare più: la sottomissione
reale del lavoro al capitale si affianca anche là, in una fase successiva, per la produzione del plusvalore
relativo: Marx indicò il ruolo a esaurimento, luogo per luogo, della componente “latente” dell’esercito
industriale di riserva, soprattutto dopo il trasferimento dalle campagne. Il costo del lavoro aumenta anche in
quei paesi “emergenti”: naturalmente, per effetto dell’aggiustamento del cambio, e della differenza del potere
d’acquisto dei salari, tale aumento ha conseguenze minori rispetto ai paesi dominanti. Tuttavia, neppure in
tali paesi sembra più sufficiente calmierare il mercato del lavoro, anche se il salario minimo legale nel settore
formale (che riguarda in genere non più della metà della manodopera regolare non qualificata) ha finora
funzionato - e ciò è inevitabile! - come calmieratore del salario irregolare, facendoli sempre tendere entrambi
al ribasso in termini reali.
Le articolazioni e concatenazioni del capitale imperialistico sono la traduzione organizzativa
transnazionale di una gerarchia estremamente centralizzata intorno al grande capitale capofila. Una tale
strategia si articola in una concatenazione di attività lavorative, interconnesse con la strumentazione
tecnologica di cui l’impresa dispone, che nel loro procedere creano valore. In siffatto processo di creazione
di valore, gli esperti del capitale si sono accorti della contraddizione comportata dalla diminuzione del lavoro
vivo rispetto alle macchine (ciò che Marx indicava come aumento della composizione tecnica del capitale, da
cui consegue anche il relativo aumento della composizione organica e, quindi, la tendenziale caduta del
tasso di profitto). La comprensione corretta delle forme, e soprattutto delle cause, del processo di
riustrutturazione della produzione mondiale, fornisce ulteriori elementi per analizzare le catene
transnazionali (“filiere” o quant’altro, dal significato più ristretto relativo a un solo particolarissimo prodotto,
attraverso interi comparti produttivi e, in un senso molto più ampio fino alle strutture decisionali strategiche
dei grandi gruppi del capitale monopolistico finanziario (holding), articolate in tutte le loro funzioni, anche
improduttive di assicurazione, credito, commercio, marketing, ecc.).
Stato e sovrastato
“La “questione sociale” viene risolta, invece che da un processo di trasformazione rivoluzionaria della
società, dall’”organizzazione socialista di tutto il lavoro con l’aiuto dello stato”, che fornisce a società di
produzione che esso “crea”, per mezzo di sovvenzioni: credere che si possa costruire una società nuova come
si costruisce una nuova ferrovia. Un popolo di lavoratori che pone allo stato queste rivendicazioni dimostra
di avere piena coscienza di non essere al potere e di non essere maturo per il potere!
Il rovesciamento delle condizioni di produzione odierne non ha niente a che vedere con la creazione di
società cooperative sovvenzionate dallo stato, che invece hanno valore soltanto in quanto siano creazioni
indipendenti dei lavoratori, e in quanto non siano protette né dai governi né dai borghesi.
L’inconsistente rivendicazione “sociale” del programma è l’aiuto dello stato, presentato sotto la forma più
sfacciata di un socialismo abbassato al livello repubblicano borghese cristiano, che avanzava questa
rivendicazione contro i socialisti, per batterli!
La cosa principale non consiste nell’aver fatto entrare nel programma questa miracolosa cura specifica,
ma nell’aver abbandonato il punto di vista dell’azione di classe.
La libertà consiste nel trasformare lo stato, organo sovrapposto alla società, in organo assolutamente
subordinato ad essa, e anche oggi le forme dello stato sono più o meno libere nella misura in cui limitano la
“libertà dello stato”. La società presente è la base dello stato esistente (e ciò vale anche per ogni società
futura); lo stato non è una realtà indipendente, che possieda sua proprie basi intellettuali e morali libere.
Lo stato non è altro che un’istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, durante la
rivoluzione, per schiacciare con la forza i propri nemici. Finché il proletariato ha ancora bisogno dello stato,
ne ha bisogno non nell’interesse della “libertà”, ma per aver ragione dei suoi avversari, e quando diventerà
possibile parlare di libertà, allora come tale lo stato cesserà di esistere.
Va assolutamente da sé che il proletariato per poter lottare in modo generale deve organizzarsi come
classe nel proprio paese e che il teatro immediato della sua lotta è l’interno del paese. Per questo la sua lotta
di classe è nazionale quanto alla sua forma. Ma l’àmbito dello stato nazionale si trova a sua volta
economicamente nell’“àmbito” del mercato mondiale e politicamente nell’”àmbito” del sistema degli stati.
Qualsiasi bottegaio sa che il commercio nazionale è al tempo stesso commercio estero, in una specie di
politica internazionale.
I partiti operai borghesi riducono il loro internazionalismo alla coscienza che il loro sforzo sarà la
“fraternità internazionale dei popoli”, frase presa a prestito dalle associazioni borghesi della libertà e della
pace. Nemmeno una parola delle funzioni internazionali della classe operaia nazionale, per far fronte alla
propria borghesia che è alleata contro di lei con la borghesia di tutti gli altri paesi e alla loro politica
internazionale. In realtà questa dichiarazione di internazionalismo è infinitamente al di sotto perfino di quella
dei liberisti: anche questi sostengono la “fratellanza internazionale dei popoli”, ma almeno fanno anche
qualcosa per internazionalizzare lo scambio. L’azione internazionale del proletariato non dipende in alcun
modo dall’esistenza di un’associazione Internazionale.
Dell’internazionalismo del movimento operaio rimane, in sostanza, la pallida prospettiva non di una
futura cooperazione dei lavoratori europei per la loro liberazione, no, ma di una futura “fratellanza
internazionale dei popoli”, degli “Stati uniti d’Europa” dei borghesi pacifisti!”
Ancora oggi, si può solo ripetere per cenni, lo stato borghese appare nella sua finzione di socialità
universalistica, parvenza sociale che si svela semplicemente constatando quale sia la fonte di finanziamento
dei servizî, cosiddetti sociali: ovverosia, la capacità di superimposizione fiscale generale, da parte dello stato
stesso, che in un sistema capitalistico imperialistico incide quasi totalmente sui redditi da lavoro.
Dato che il capitale è determinato, nel suo concetto, non solo come rapporto sociale tra le due classi
principali, ma anche come assoluta e ineliminabile molteplicità di capitali, una costante lotta reciproca
impedisce loro di confluire in un solo centro di decisione, in un capitale unico guidato da un piano
(“anarchia del capitale”) e in una forma politica unica statuale o sovrastatuale. La forma statuale che
l’organizzazione politica del potere e della violenza della classe dominante necessariamente si dà, non può
dissolversi col processo di centralizzazione monopolistica della fase imperialistica, essendo il modo
capitalistico della produzione sociale basato, appunto, sulla molteplicità contraddittoria dei capitali. Nel
corso degli ultimi cento anni la spesa statale come percentuale del pil, nel mondo, è passata dal 10% al 50% ed è facile capirne i motivi e i beneficiari! Senonché il capitale transnazionale cresce ancora di più, tanto da
far scrivere all’Onu che “gli stati sono diventati troppo grandi per le piccole cose, ma troppo piccole per le
grandi”. Per avere un’idea il “valore” di tutta l’Indonesia (prima del crollo) era appena superiore a quello
della General motors; la Ford tra la Danimarca e il Sudafrica; Toyota, Exxon e Shell come la Norvegia; la
Ibm più della Malesia; Unilever, Nestlé e Sony meglio dell’Egitto; per tacer dei poverissimi.
Le forme politiche che rappresentano la centralizzazione capitalistica, dunque, non possono che crescere
ed essere esse stesse molteplici; quindi anche le istituzioni sovranazionali che dànno origine a nuove forme
istituzionali sovrastatuali. Nel postindustriale postcapitalistico postmoderno, dicono, l’epoca della
concorrenza è conclusa, il mercato mondiale è coordinato e la sovranazionalità predomina. Senonché, la lotta
tra i grandi capitali non solo continua ma si esacerba, i capitali di minori dimensioni e scollegati dalle
gigantesche holdings e filiere finanziarie vengano spazzati via, alimentando con la loro rovina la
polarizzazione di classe che si acuisce sempre più soprattutto a danno del proletariato su scala mondiale,
ormai anche nelle antiche culle del capitalismo e dell’imperialismo.
Lo sviluppo storico della sovranazionalità delle istituzioni dell’imperialismo, di contro al decadimento
delle antiche funzioni tradizionali degli stati nazionali, è un chiaro segno delle difficoltà che il capitale
monopolistico finanziario transnazionale sta attraversando in una fase di crisi prolungata. Il processo
frenetico e gigantesco di centralizzazioni in atto ne è l’ulteriore e fondamentale conferma: lungi dal
significare un’attenuazione delle contraddizioni intercapitalistiche, esso ne mostra invece tutta l’intensità
della fase, di cui è espressione caratteristica, unitamente agli “accordi” sovranazionali. L’inadeguatezza delle
esistenti forme statuali nazionali a rappresentare tali contraddizioni è una manifestazione di codesta
contraddittorietà e crisi. Le istituzioni sovranazionali, quindi, esprimono solo la dinamica dei rapporti di
potere del grande capitale transnazionale, da cui ricevono le direttive e di cui rispecchiano l’insopprimibile
antagonismo. Rispetto agli organismi sovrastatuali, il capitale monopolistico finanziario transnazionale non
può avere un rapporto politicamente e istituzionalmente diverso da quello dato tra capitale e stato nazionale
nelle società in cui predomina il modo di produzione capitalistico. Pertanto, è in quest’ottica che conviene
analizzare forme, ruoli e còmpiti, delle attuali istituzioni sovranazionali [quelle oggi operanti assommano a
una cifra assai probabilmente ignota e imprevedibile ai più: 198! salvo errori e omissioni, di cui, oltre
all’Onu, 40 a carattere universale, 105 continentale, 51 settoriale].
La funzione assegnata agli organismi sovranazionali (nella prima fase postbellica sotto il pieno e
incondizionato comando americano) diventa sempre più esplicitamente quella di trovare le necessarie
mediazioni tra gli interessi confliggenti delle grandi potenze e di imporre - precisamente a tal uopo - regole e
condizioni ai paesi membri dominati. Come si vede, tutto ciò non ha nulla a che fare né con un “piano”
globale e unico del capitale mondiale e neppure con la soppressione delle particolarità degli interessi
capitalistici locali rappresentati dai diversi stati nazionali, nella crisi attraversata appunto da capitali e stati.
Al contrario, agli organismi istituzionali sovranazionali, così ristrutturati e tuttora in corso di ristrutturazione,
sono precipuamente demandate funzioni di “camera di compensazione” tra gli insopprimibili antagonismi
che si rappresentano nelle posizioni divergenti e conflittuali, secondo un preciso ordine gerarchico: posizioni
assunte in primo luogo dai capitali monopolistici finanziari operanti sui diversi mercati, e in secondo luogo
dai diversi stati nazionali la cui competenza è circoscritta al funzionamento di quei mercati in favore dei
“signori del capitale, del denaro e della guerra” che vi operano, indipendentemente dalla nazionalità
d’origine di costoro (ancorché sia tuttora assai probabile una forte correlazione tra codesta nazionalità e lo
stato di riferimento e d’appartenenza).
I rappresentanti del grande capitale non esitano a cambiare con una certa agilità i loro riferimenti, secondo
convenienza, alleandosi all’occorrenza con altre frazioni capitalistiche della medesima area di interesse
industriale, appartenenti a diversi basi nazionali di provenienza o di stanza operativa: quindi, eventualmente,
contro interessi capitalistici “connazionali” ma di differenti settori. In una dimensione economica così
strutturata, perciò, è concepita la prospettiva di dominio transnazionale di classe. La grande borghesia
finanziaria transnazionale tiene sempre più in una considerazione funzionalmente subalterna la base
nazionale di provenienza. La logica imperialistica transnazionale considera qualsiasi economia nazionale
come un’articolazione e un comparto del mercato capitalistico mondiale.
Che il capitale non abbia più confini nazionali, lo ritiene lo stesso Fmi, che perciò non può e non vuole
più essere considerato “separatamente dai suoi membri”. La spartizione nelle tre grandi aree è perciò
integrata da nuove forme di cointeressenze trasversali a esse. Il momento della lotta interimperialistica non è
scisso da quello della collusione, per consentire altre lotte motivate e sostenute da diverse interferenze di
interessi. A séguito dello svolgersi del processo di crisi nelle sue fasi successive, la tripolarità imperialistica,
delineatasi agli inizi della crisi stessa, da un lato si è in un certo senso assestata, dall’altro, tuttavia, essa ha
sviluppato contrastanti forme di profonda e tuttora irrisolta contraddittorietà. Così, si è venuta articolando
sempre più, proprio dopo e in funzione di quell’assestamento conflittuale, una certa pervasiva
trasversalità agli stati nazionali stessi, più rispondente alla diversificazione per interessi della
collocazione di classe del capitale finanziario nel mercato mondiale (esempi massimamente significativi
in tal senso sono le fusioni del tipo Chrysler / Daimler o quelle molteplici e “interaree” nel settore delle
telecomunicazioni).
La prospettiva del 2002 - con la piena e assoluta liberalizzazione del movimento dei capitali in tutto il
mercato mondiale - vede impegnata la ristrutturazione degli organismi sovranazionali in direzione di tale
liberalizzazione. L’imperialismo transnazionale prova a centralizzare in un numero ridotto di luoghi le
decisioni che provengono dalla molteplicità insopprimibile dei capitali sparsi nel mondo. Esso si è
parzialmente premunito contro le inevitabili lotte intestine, provando a darsi anche un assetto di maggiore
centralizzazione del momento decisionale. Gli stati nazionali e i loro parlamenti sono stati sempre più
svuotati dei lori poteri autonomi, trasformati in “terminali” di procedure avviate altrove. Questa è la
caratteristica nuova della realtà da analizzare, attraverso una riflessione teorica sull’odierno ruolo dello stato
e delle istituzioni (nazionali e sovranazionali) in generale, nella loro reciproca conflittualità che rispecchia
l’antagonismo interno tra borghesie nazionali e transnazionali: questo significa ricercare oggi nelle istituzioni
sovrastatuali i luoghi del “capitalista collettivo ideale” di engelsiana formulazione.
La Banca centrale europea è l’ultima nata tra le istituzioni sovranazionali di notevole rilievo. La Bce
sostituirà tutte le funzioni strategiche, in termini di politica monetaria, fin qui svolte dalle banche centrali
nazionali, che continueranno a sopravvivere come suoi primi referenti, coordinate nel Sistema europeo delle
banche centrali, perdendo la relativa autonomia che finora avevano. Il modello tedesco di gestione della
banca centrale prevede la separazione della funzione monetaria, privilegiando il controllo della moneta
circolante, avente come obiettivo quello di garantire la stabilità dei prezzi, da quella di sola supervisione,
decentrata e affidata alle singole banche centrali nazionali. Nel mercato interno dell’Unione europea
monetaria (Uem) si pone il problema che il Trattato di Maastricht non attribuisce esplicitamente alla Bce il
ruolo di “prestatore di ultima istanza” (come invece avviene per le più importanti banche centrali del
mondo). Dal 1999 le variazioni dei tassi di cambio riguarderanno solo i rapporti esterni dell’euro, il che
limiterà la capacità del Sebc di gestire i problemi di liquidità che i mercati finanziari scaricheranno sui
mercati monetari. Non ci sarà perciò da sorprendersi se un accresciuto ruolo finanziario dell’Europa nel
mercato mondiale renderà nel futuro più probabili e più acute che nel passato le occasioni di crisi. Perciò
nessuno nasconde che la “transizione” alla moneta unica europea e alla sua banca centrale costerà
parecchio, soprattutto in termini immediati di calo della produzione e dell’occupazione. La parte più
difficile è rappresentata perciò dalla “ridefinizione dei mercati finanziari europeo e internazionale per
trasformare il sistema monetario internazionale in un sistema tripolare o addirittura bipolare” - scrive
espressamente il Fmi - aggiungendo che il consolidamento fiscale parametrizzato a Maastricht è appena la
premessa per raggiungere la credibilità necessaria a fare dell’euro un punto stabile di riferimento per
l’efficienza del mercato europeo dei capitali di tutto il mondo.
Forza lavoro!
“Non c’è una produzione capitalistica come forma di società, come fase economica, e una produzione
capitalistica privata; la produzione da parte di un imprenditore singolo, isolato, diventa sempre più un’eccezione; la produzione capitalistica delle società per azioni e dei trusts non è più una produzione privata.
Si dà ad intendere che “la società attuale a poco a poco entra nel socialismo”, come se fosse sufficiente
realizzare tutto a un tratto le rivendicazioni attraverso la via pacifica. Una simile politica può alla lunga solo
sviare. Si portano in primo piano questioni politiche generali e astratte e si nascondono così le più vicine e
concrete. Quelli che vogliono trasformare, per via legale, un tale stato di cose in una società comunista
barano con se stessi.
La prima fase della società comunista (transizione socialista) non si sviluppa sulle basi che le sono
proprie, ma al contrario nasce dalla società capitalistica, con difficoltà inevitabili, dopo una lunga e dolorosa
gestazione; di conseguenza come una società che sotto ogni rapporto - economico, morale, intellettuale porta ancora i segni della vecchia società dal cui seno essa è uscita.
Tra la società capitalistica e la società comunista sta il periodo della trasformazione rivoluzionaria della
prima nella seconda. A esso corrisponde anche un periodo di transizione politica, in cui lo stato non può
essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato: il programma per il momento non si deve
occupare né di quest’ultima né della natura dello stato futuro nella società comunista”.
Riepilogo di alcuni elementi attuali indicati da valutare:
i. dinamica del salario indiretto e differito, in relazione al salario diretto, con tutte le sue implicazioni
pratiche;
ii. andamento del potere d’acquisto reale dei redditi da lavoro, considerando il movimento di prezzi e
tariffe, e l’effettiva incidenza del fisco;
iii. carattere palliativo e calmieratore di differenti forme assistenziali (i cosiddetti salario minimo
garantito, lavori socialmente utili, ecc.);
iv. diffusione di forme di lavoro irregolare per la “riemersione” del lavoro nero quale componente
stagnante dell’esercito industriale di riserva;
v. peso dei disoccupati, o meglio delle cosiddette “non forze di lavoro” (esercito industriale di riserva),
ripartito sull’intero monte salariale;
vi. regolazione del tempo di lavoro e incidenza su occupazione e salario reale di classe nella
contraddizione della merce forza-lavoro;
vii. andamento nominale dei salari monetari, deflazionato col potere d’acquisto per l’effettiva
composizione merceologica e territoriale.
viii. mancata restituzione, come parte integrante del salario sociale, calcolata sulla prestazione di servizî
del cosiddetto stato sociale;
Oggi, solo però rovesciandole sui temi del salario sociale globale di classe, si può cercare di utilizzare al
meglio anche tutte quelle rivendicazioni tipiche della piccola borghesia socialdemocratica. Temi che - in un
contesto totalizzante di programma minimo assai analitico - servono soprattutto per prendere coscienza delle
contraddizioni, ossia dei termini limitati e fraudolenti delle ambigue metafore riformiste su partecipazione
come cottimo, solidarietà come precarietà, flessibilità come sottoccupazione, riduzione d’orario come
riduzione di salario, salario minimo garantito come miserevole assistenzialismo, ecc.
Assai più utili di qualsiasi vuoto appello plebiscitario, ci sono punti, obiettivi di passaggio, da diffondere
nella consapevolezza di massa:
- ripristino pieno del salario a tempo (forma meno mistificata, pur essendolo essa stessa, del valore della
forza-lavoro), contro l’ondata contrattuale che lega un terzo o più del salario al rendimento, cioè al cottimo;
- chiarimento del rapporto tra accumulazione e occupazione (massa salariale), come condizione
indispensabile per lo sviluppo reale di posti di lavoro pienamente pagati, al posto di ripartizioni
occupazionali nella crisi;
- creazione della possibilità, oggi mancante, per il blocco degli straordinari e della cosiddetta flessibilità
dell’orario stesso, come condizione necessaria per una successiva lotta efficace sulla sua riduzione;
- smascheramento, in una presa di coscienza teoricamente corretta, della finzione di recupero di falsa
produttività, ottenuto invece con maggiore erogazione di lavoro (per durata e tensione);
- denuncia e rifiuto di lavoro o salario assistito, in ogni forma, fatto pagare con la concorrenza tra
proletari, l’intensificazione dello sfruttamento e la traslazione fiscale coatta tra poveri;
- svincolo ed elevazione della battaglia politica civile sulla limitazione legale del tempo di lavoro
(giornaliero, settimanale, annuale e vitale) al di sopra degli esiti contrattuali di tipo sindacale.
FONTI UFFICIALI
Bm, World development report (anni vari), Oxford Up, New York 1997-98.
Oil, Le travail dans le monde (anni vari), Bit, Genève 1995-1998.
Onu, Human development report (anni vari), Oxford Up, New York 1996-97.
Giuseppe Schiavone (cur.), Dizionario delle organizzazioni internazionali, (in lingua inglese), MacMillan,
Londra 1998 (quarta edizione).
FONTI TEORICHE
Marx - Engels - Lenin, Critiche de programmi socialisti
Allegato. Temi intorno ai quali raccogliere documentazione (elencati in ordine alfabetico)
*agevolazioni e finanziamenti pubblici (*esenzioni e finanziamenti agevolati)
*appalti e commesse
*apparato parafiscale
*aristocrazia proletaria
*assistenza sanitaria
*assistenzialismo
*attività senza fini di lucro
*aumento complessivo della classe lavoratrice
*autogestione dei fondi di assistenza e previdenza
*casa
*composizione merceologica dei consumi (*paniere)
*consumi del proletariato (*consumi necessari)
*contratto collettivo di lavoro
*costo della vita
*costo del lavoro
*crescita del pil (*reddito disponibile)
*debito pubblico
*dinamica del salario indiretto e differito
*distribuzione funzionale del reddito (*disuguaglianza distributiva, *trasferimento di ricchezza reale)
*energia, acqua, trasporti, comunicazioni, ecc.
*esercito industriale di riserva stagnante
*evasione contributiva
*evasione fiscale
*finanziamento dei servizî
*flessibilità
*immigrazione
*imposizione diretta e progressiva
*imposte indirette
*incidenza del fisco (*superimposizione fiscale, *trasferimento coatto di reddito)
*istruzione
*lavori ir/regolari
*lavori socialmente utili
*lavoro e produzione “immateriale”
*lavoro femminile e giovanile
*lavoro parasubordinato
*lavoro produttivo e improduttivo
*lavoro straordinario
*liquidazioni (*fondi patrimoniali
*localizzazione territoriale
*non forze di lavoro
*occupazione industriale
*oneri sociali (*contributi sociali, *prelievi contributivi)
*organizzazione del lavoro
*partecipazione (*cottimo neocorporativo)
*potere d’acquisto reale (*spesa del reddito dei lavoratori)
*prestazione di servizî (*prestazioni collettive)
*prezzi amministrati o politici e tariffe (*tariffe preferenziali)
*privatizzazioni e deregolamentazioni
*privato sociale
*proprietà pubblica
*riduzione dell’orario di lavoro (*regolazione, *tempo di lavoro, * limitazione della giornata lavorativa)
*salario a cottimo
*salario a tempo
*salario differito
*salario diretto
*salario indiretto
*salario minimo
*salario o reddito garantito
*settori in crisi
*sicurezza lavorativa e sociale
*sottosalario (*volontariato a sottosalario)
*spesa pubblica
*subfornitura
*tasse
*terzo settore (*fuori mercato)