Sergio Landucci, La doppia verità. Conflitti tra ragione e fede nel Medioevo e nella prima modernità da: Avvio Nel 1267, a Parigi, san Bonaventura rivolse la sua predicazione per la Quaresima agli universitari. Per come metteva in guardia dagli errori della filosofia, si riferiva all’aristotelismo nella versione averroistica, ché, oltre all’eternità del mondo, menzionava pure l’unicità dell’intelletto. (Altrettanto avrebbe fatto anche l’anno seguente; poi ancora nel 1273, e allora non userà più circonlocuzioni, deplorerà senz’altro l’“impugnatio doctrinæ Christi... per Artistas”, ossia da parte dei maestri della Facoltà delle Arti, e cioè dei professori di filosofia.) Nel 1267, però, san Bonaventura predicò anche per l’Avvento; e qui si trova la prima denuncia che si conosca, della ‘doppia verità’. Viene a conclusione di battute allusive, il cui obiettivo si precisa via via: “A perdere Adamo fu d’aver mangiati i frutti dell’albero proibito... Oggi ciò si compie presso i nostri dottori”; e più in là: “È la filosofia, l’albero della scienza del bene e del male; perché in essa al vero è frammisto il falso”. A commento d’un brano dell’Esodo – se qualcuno scavi una cisterna senza coprirla, e vi cada un animale, egli sarà chiamato a risarcire il danno – Bonaventura improvvisava una trasposizione allegorica: Crederai forse che lo Spirito Santo si preoccupi d’una fossa materiale? No, di certo. La fossa di cui si preoccupa, è quella dell’errore. Ora, questa fossa tu la scavi, quando fai apparire credibile qualche falsità, adducendo argomenti per essa; la lasci aperta, quando non li accompagni con confutazioni. Se allora un tuo scolaro cada in tale fossa, ne sarai tenuto responsabile tu. E a questo punto: ... Ci sono taluni, che la fossa dell’errore la chiudono in maniera insufficiente. Si limitano a dire, infatti: fides tenet contrarium. Chi si comporta così, dà occasione di pensare male quanto alla fede; ché, in essa, il dubbio è già incredulità. Evidentemente, Bonaventura sapeva che il suo uditorio avrebbe còlto al volo l’allusione: alla pratica di quei maestri delle Arti, che, dopo aver esposta una qualche tesi filosofica in contrario a quanto di fede, si limitassero ad avvertire del contrasto, senza farsi carico di confutarla. Nel De unitate intellectus (1270), dando la pluralità dell’intelletto per dimostrabile razionalmente, san Tommaso commentava che per questo essa era da sostenere, “e non, come dicono, [solo] in virtù della fede nella rivelazione”. Allusione a quegli averroisti contro i quali tutto lo scritto era rivolto: costoro, dunque, sostenevano l’unicità dell’intelletto, la riconoscevano in contrasto con quanto di fede, ma si limitavano a protestare di sottomettersi a questa. Poco dopo, ancora san Tommaso, in un sermone (presumibilmente all’indirizzo di Sigieri di Brabante): Fra gli studiosi di filosofia, se ne trovano che presentano delle tesi che secondo la fede non sono vere; e, quando glielo si faccia notare, rispondono che a sostenerle è il Filosofo, ma loro non le sottoscrivono, ché riferiscono solo le parole del Filosofo. Ora, chi si comporta così è un falso dottore, perché avanzare un dubbio e non risolverlo, equivale ad ammetterlo. Nel 1272, in un regolamento disciplinare per i maestri delle Arti, si imponeva, sotto minaccia di scomunica e radiazione dalla Facoltà, o di confutare quanto, nei testi che commentavano, apparisse in disaccordo con la fede cristiana, o almeno di dichiararlo falso “assolutamente” e “totalmente” - cioè non: solo secondo la fede, e non anche secondo la ragione - o, altrimenti, tacerne. Qualche tempo dopo, Ruggero Bacone, a proposito dell’unicità dell’intelletto, la diceva sostenuta a Parigi; e dei maestri che l’insegnavano riferiva che, quando siano messi alle strette, cercano di nascondere il loro errore asserendo che non si può ritenere diversamente con la ragione, e quindi sostenere in filosofia, ma lo si può solo per fede. Nel prologo della condanna, da parte del vescovo di Parigi, Étienne Tempier, di 219 proposizioni filosofiche, il 7 marzo 1277: Taluni studiosi della Facoltà delle Arti, a Parigi, oltrepassando i limiti di questa Facoltà, osano trattare a lezione e discutere come se fossero tesi opinabili [quasi dubitabiles], degli errori patenti, esecrabili, o meglio delle falsità folli... Per non dare però a divedere di sostenere quel che in tal modo pur insinuano..., dicono che si tratta di tesi vere secondo la filosofia, ma non secondo la fede cattolica come se si dessero due verità contrarie! Tutte, testimonianze, lungo un decennio, su una mera giustapposizione del punto di vista della fede, rispetto al punto di vista della filosofia, in assenza d’alcun cenno di controargomentazione a favore del primo. D’allora in poi, nei secoli, si troveranno costantemente deplorazioni e denunce, di simile modo di fare. Nel 1298, in una Declaratio... in cui passava in rassegna uno per uno gli articoli condannati nel 1277, di fronte al 184 (189) - “La creazione è impossibile; benché secondo la fede si debba sostenere il contrario” - Raimondo Lullo commentava: Mi meraviglio di te [che lo sostieni]...; ché le tue parole vengono ad implicare una contraddizione... Vieni a dire, infatti, che si deve credere il falso, e che l’impossibile è possibile. Nel 1310, di nuovo a Parigi, Lullo lanciava una vera e propria campagna contro un avversario che ora chiamava averroista (presumibilmente con riferimento a Jean de Jandun). In un dialogo immaginario, gli faceva dire di non poter non considerare razionalmente impossibile che una vergine partorisca, dei morti risorgano, Dio s’incarni, il mondo sia fatto dal nulla, ecc., ma di credere tutte queste cose in quanto cristiano; e gli replicava: ... Dillo finché vuoi! Ma, se comprendi davvero che qualcosa sia impossibile, [devi pensare che] è necessario che sia impossibile; e quindi non puoi credere che sia vero. Però, se non lo credi, non sei cristiano. Oppure, all’‘averroista’ Lullo metteva in bocca l’ammissione di credere solo per conformismo (“cum de fide catholica habituatus”), in quanto negava filosoficamente; e ribadiva: Non possono non concordare, la filosofia vera e la teologia. Non è affatto possibile, credere l’opposto di quel che sia vero per l’intelletto; perché altrimenti si avrebbe una contraddizione, ma questa non può darsi. Altrettanto, Lullo ribadiva a capo della Lamentatio philosophiæ; dove in più si rivolgeva pressantemente al re di Francia perché intervenisse contro lo scandalo dell’averroismo parigino. Per inciso, è perlomeno a partire da questo Lullo che si ha l’associazione, destinata a perdurare nei secoli, fra la ‘doppia verità’ e l’averroismo, inteso in un senso generale (non più limitatamente al monopsichismo). Tale associazione è certo incongrua nei confronti d’Averroè in persona, e paradossale nel caso di pensatori che, come Buridano o, due secoli dopo, Pomponazzi, abbiano rifiutato il monopsichismo. E tuttavia non perciò averroismo è meritevole - proprio in ragione del suo essere un perdurante termine d’epoca - di quell’ostracismo che gli è stato invece decretato dal Van Steenberghen. Nel 1323, uno scotista metteva gli averroisti con le spalle al muro, assumendo senz’altro sul serio le loro proteste d’adesione alla fede: È motivo di non poco stupore, che taluni si diano tanto da fare per sostenere l’opinione d’Averroè sull’unicità dell’intelletto; dal momento che come cattolici credono fermamente che, in quanto contraria alla fede, essa sia falsa. Se è così, infatti, ne segue che sono sofistici tutti gli argomenti per essa; ché non possono essere se non tali, gli argomenti che portino ad una conclusione falsa. Lo stesso teologo interpretava la ‘doppia verità’ – esattamente: “utrumque dicunt esse verum” – come la congiunzione di due proposizioni di questo genere: ‘p è vera, perché di fede’ e ‘è vero che p non è provabile con la ragione’; di certo, per lanciare agli avversari una sottile diffida: non s’azzardassero a dire, invece, che con la ragione è provabile non p! Nel 1346, nel processo, conclusosi severamente, contro Nicola d’Autrecourt, maestro delle Arti a Parigi, fu valutato come una “excusatio vulpina”, che egli avesse protestato di aderire alla Legge (religione) cristiana, dopo aver proposta, per i premi e le pene ultraterreni, una spiegazione in termini materialistici, sulla base dell’ipotesi atomistica che sosteneva. Ed è, questo, il primo caso di ‘doppia verità’ al di fuori dell’aristotelismo. Alla metà circa del secolo risale anche un commento del sillabo del 1277, a opera d’un tal Conradus a Montepuellarum, di stirpe germanica, ma maestro di teologia a Parigi. Introducendo il tema disciplinare - su quanto vietato di sostenere ai maestri delle Arti - prevedeva anche un’obiezione, per poi respingerla: ... Forse obietterai che i miracoli di Dio non ti riguardano, allorché stai ricercando la natura delle cose. Ma non è così: stai di certo considerando i miracoli di Dio, allorché con la tua mente consideri le sue creature. La frase con cui è formulata l’obiezione - nihil tibi de miraculis Dei, cum de naturis rerum disseras - è quella, originariamente, d’Alberto Magno, che nel frattempo era stata assunta a emblema, polemicamente, come una bandiera, da taluni dei maestri delle Arti che avevano fatto ricorso alla ‘doppia verità’. E l’eventualità d’una ‘doppia verità’, Conradus l’esclude subito: ... Come la verità filosofica potrebbe mai contraddire alla verità di fede? Due proposizioni reciprocamente contraddittorie non possono essere vere tutt’e due. A proposito dell’articolo 184 (189), già citato, “Che la creazione è impossibile; benché secondo la fede si debba sostenere il contrario”: ... Errore, perché la fede non è di cose impossibili a Dio; e quindi dire così equivale a fingere una fede non genuina, e ad andare contro l’onnipotenza di Dio. Nel 1367, il Petrarca: ... Poiché non hanno il coraggio di vomitare i loro errori, hanno l’abitudine – tutte le volte che s’arrivi ad una discussione in pubblico – di premettere che per il momento discuteranno mettendo tra parentesi la fede... Ma che cos’è questo, di grazia, se non cercare la verità dopo averla rifiutata? Non si può immaginare niente di più assurdo... Per quel che li riguarda, sappi che di nascosto – non avendo il coraggio di farlo apertamente – proclamano di rinnegare la fede cristiana. […]