gfp.70 - la Contraddizione, 20, Roma 1990 A PROPOSITO DI IMPERIALISMO ___________________________________________ “... troviamo dei giovani paesi capitalisti in rapidissimo progresso, come l’America, la Germania e il Giappone ... ... concreta peculiarità storica del moderno imperialismo è la concorrenza di diversi imperialismi...” [V.I.Lenin, L’imperialismo] Le riflessioni e i discorsi a proposito di imperialismo (e dei suoi tre poli principali, indicati già da Lenin con precisione) - in un’analisi che stiamo portando avanti sulla rivista, e in genere nel dibattito entro la sinistra - meritano qualche considerazione, anche in margine alla forma culturale del dibattito medesimo. Ormai solo nella sinistra di classe, e finanche qui non senza difficoltà sul piano teorico e scientifico, si riesce a parlare di imperialismo. La sinistra democratico-borghese, più o meno diffusa, ha infatti abbandonato del tutto questa importantissima determinazione economico-politica del capitalismo contemporaneo, docilmente accodandosi alle post-mode dell’ideologia dominante. È trascorso quasi un secolo da quando il vecchio capitalismo, di maniera, si considerava basato sul lavoro del piccolo proprietario privato indipendente e sulla libera concorrenza: queste, per l’appunto, insieme alla democrazia, sono tuttavia le parole d’ordine del passato che la borghesia con i suoi mezzi di comunicazione di massa - come già osservato da Lenin - usa ancora per ingannare i lavoratori e la popolazione in generale. Fin da allora quella forma di capitalismo ha lasciato il suo posto a un sistema mondiale di oppressione finanziaria (produttiva, monetaria e speculativa) esercitata da un pugno di paesi “sviluppati” sulla grande maggioranza delle nazioni e dei popoli. Fu proprio codesto nuovo sistema di dominio economico e politico mondiale che venne denotato come moderno imperialismo. Va subito ricordato - per evitare i fraintendimenti che caratterizzano l’economia politica, tra mistificazioni dei suoi apologeti e tremori dei critici-critici - che il primo studioso a definire e affrontare sistematicamente la questione fu un liberale inglese. Tutti sanno che questi fu John A. Hobson, economista autodidatta (per sua fortuna) dell’ambiente marshalliano, ma critico verso quella scuola e perciò definito “eretico” (a es., da Schumpeter, il quale, pur dedicandogli un certo spazio e riconoscimento nella storia del pensiero economico, cita parecchi se non quasi tutti i suoi scritti, ma ignora proprio il volume sull’Imperialismo del 1902). A molti fa comodo dimenticare codesto aspetto originario della faccenda, dal momento in cui la critica dell’imperialismo fu assunta dal marxismo come questione centrale dell’antagonismo di classe sul piano internazionale. Certamente, l’impulso maggiore allo studio e alla critica dell’imperialismo fu merito del movimento comunista, superandone l’origine capitalistica. Ciò spiega a sufficienza perché i borghesi, padroni e benpensanti insinuati nelle file del proletariato, si siano dati tanto da fare per obliterare l’analisi dell’imperialismo e farne dimenticare la terminologia stessa - insieme a ogni concezione di antagonismo e forma di lotta di classe, e alla realtà e al nome del comunismo. Col passare del tempo, questa colpevole dimenticanza si è così trasformata in mortale silenzio e demonizzazione. È dunque la stessa parola “imperialismo” che - pur concepita e nata da grembo liberale, così come le categorie dell’antitesi, della contraddizione e della lotta che hanno subito il disconoscimento della loro matrice hegeliana, a seguito della pericolosa appropriazione marxiana - non viene più usata dal pensiero dominante (e dunque ormai neppure più da quello dominato e falsamente critico, nella sua subalternità e nel suo pentitismo teorico e ideologico). Corollario di ciò è l’impedimento censorio a impiegare tali concetti e termini, imposto nei fatti a chi provi a ripercorrere oggi la strada di quell’analisi scientifica delle relazioni storiche ed economiche del capitalismo moderno nel mercato mondiale. Chiunque abbia qualche dimestichezza con la suprema segnatura accademica o con i comitati “scientifici” della ricerca nazionale - ossia, università e Cnr, in stretta connessione con tutto l’apparato multimediale della cultura ideologica borghese - sa perfettamente quanto queste considerazioni rispondano al vero. E sa pure come esse si traducano in discriminazione culturale, sia da parte degli organi preposti, commissioni e comitati, che per opera del sistema delle comunicazioni di massa, 1 editoria, pubblicistica, didattica, ecc. - il tutto guidato da precisi orientamenti ideologici, partitici e burocratici. I finanziamenti “pubblici” (si fa per dire!) per ricerca, pubblicazioni, ecc., sono vietati a chi anche soltanto parli di crisi del capitalismo, o dell’imperialismo e delle sue contraddizioni. Ciò tuttavia non sorprende affatto, qualora si inquadri correttamente questa faccenda nei rapporti di forza antagonistici della lotta teorica. Al fine di ristabilire, comunque, un minimo di riferimento storico culturale, è giusto rammentare soprattutto a sicofanti e scribacchini al servizio della borghesia che se ne fossero dimenticati - alcune delle determinazioni teoriche dell’imperialismo. Per evidenziare meglio la polemica culturale qui sollevata, utile anche ai compagni più giovani, è opportuno prendere le mosse proprio dalla lezione del liberale Hobson - a cominciare dalla sua segnalazione esplicita, anche, delle “contraddizioni dell’imperialismo” e delle “ricorrenti crisi del capitalismo, allorché la sovraproduzione si manifesta nelle principali industrie”. Naturalmente i limiti dell’analisi di Hobson sono stati messi in chiara luce da tutto il dibattito marxista di inizio secolo, anche e soprattutto nella lotta contro il revisionismo della seconda internazionale. Va da sé che rimane ancora oggi centrale la critica verso il pacifismo, l’intento di conciliazione degli interessi antagonistici di classe, la giustificazione di una pretesa superiore unitarietà dell’imperialismo, e così via, dei vari Hilferding, Kautsky, ecc. Si tratta dei noti errori delle teorie del capitale finanziario inteso come determinato e dominato dal sitema monetario delle banche, anziché dalla produzione di plusvalore, delle mistificazioni di un governo mondiale unitario del super-imperialismo, armonioso e auspicabile per revisionisti e riformisti, o monolitico avversario per estremisti infantili, e così via. Tali concezioni distorte e pericolose, inevitabilmente, hanno origine proprio nell’ottica liberalborghese di Hobson. Il quale, tuttavia, ancorché inglese ma proprio perché inglese, ebbe alcuni vantaggi rispetto ai revisionisti. Innanzitutto, mostrò materialisticamente le basi storico-pratiche del moderno imperialismo britannico, indagandone empiricamente i caratteri fondamentali (cosa che oggi nessun economista illuminato si sogna di fare rispetto alle punte più avanzate del capitalismo contemporaneo). Poi, appunto in quanto suddito di sua maestà, seppe vedere per tempo le rischiose tendenze verso cui precipitava l’impero britannico, soprattutto in funzione della lotta di “concorrenza da tagliagole” sul mercato mondiale tra i diversi imperialismi, in particolare tra quelli allora giovani - Stati uniti, Europa occidentale e Giappone - e la troppo matura Inghilterra (ossia, mise in luce quelle contraddizioni interimperialistiche su cui Lenin seppe insistere, ma che molti comunisti, dopo, fino a oggi, mostrano di sottovalutare). Infine comprese, proprio grazie alla esatta percezione scientifica dell’origine di tali contraddizioni, che il problema dell’accumulazione capitalistica stava nella tendenza ricorrente alla sovraproduzione generalizzata e non accidentale di capitale (e pur confidando nel ruolo salvifico di un aumento del consumo delle masse, non cadde nella banalità keynesiana di un sottoconsumo eliminabile con buone previsioni e adeguati interventi statali: lo stesso lord Keynes, pur apprezzando Hobson in quanto “eterodosso”, ritenne invece di criticarlo proprio per la giusta intuizione della sovraccumulazione connessa alla pletora di liquidità monetaria, sotto forma di eccesso di risparmio, e alla caduta del profitto!). In linea generale, dunque, Hobson - che ha dedicato un intero capitolo ai “parassiti economici dell’imperialismo” - non nasconde che il nuovo imperialismo capitalistico, sebbene sia “un cattivo affare per la nazione”, sia “un buon affare per certe classi”; se è “irrazionale” per la prima, “esso è sufficientemente razionale dal punto di vista di certe classi”, i cui “ben organizzati interessi d’affari sono capaci di sopraffare il debole diffuso interesse della comunità”, e di “usare le risorse nazionali per i loro guadagni privati”. D’altronde, già sulla questione del debito internazionale, Hobson osservava che “i termini creditore e debitore, applicati ai paesi, oscurano la più significativa caratteristica di questo imperialismo. Giacché, se i debiti sono pubblici, il credito è quasi sempre privato”. Egli vedeva dietro codeste classi il grande “capitale cosmopolita”, a cominciare dall’industria pesante (e relativi “servizi” - “ingegneri, speculatori, missionari”, ecc.), direttamente e indirettamente interessato alle spese per gli armamenti. “L’imperialismo aggressivo, che costa caro al contribuente, è fonte di grandi guadagni per l’investitore che non trova all’interno un impiego profittevole per il suo capitale” - aggiungendo che “è inutile ciurlare con la politica se non si riconosce chiaramente questo fatto centrale”. Ciò conduce pure i “furbi affaristi politici” a “controllare la stampa, le scuole e se necessario le chiese, per imporre l’imperialismo alle masse”. Insomma, il liberale Hobson sapeva benissimo che le “radici profonde dell’imperialismo” - “la cui essenza consiste nello sviluppo dei mercati per l’investimento, e non per il commercio”, e tanto meno in quelle “missioni di civilizzazione” e “manifestazioni del destino” con le quali si sciacquava la bocca il primo dei Roosevelt e su cui Hobson stesso riversava il proprio sarcasmo - stanno nell’”eccesso di capitale in cerca di investimento” e nelle “ricorrenti strozzature del mercato”, che non si spiegano con accidentali “errori di direzione”, ma, appunto, con una “concorrenza da tagliagole”. In particolare, merita ricordare alcune considerazioni di Hobson sulle tendenze dell’imperialismo europeo, capace di trasformare l’Europa in un’area dominata da “un piccolo gruppo di ricchi aristocratici, 2 che traggono le loro rendite e i loro dividendi dal lontano (o vicino?!, ndr) oriente, accanto a un gruppo alquanto più numeroso di impiegati e commercianti e a un gruppo ancora maggiore di domestici, lavoratori dei trasporti e operai delle industrie manifatturiere. Allora scomparirebbero i più importanti rami industriali, e gli alimenti e i semilavorati affluirebbero come tributo dall’Asia e dall’Africa”. Hobson riteneva che una simile prospettiva di “federazione europea”, allora, “non solo non spingerebbe avanti l’opera della civilizzazione mondiale, ma presenterebbe il rischio gravissimo di un parassitismo occidentale, sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria”. La speculazione e il parassitismo appaiono dunque in Hobson giustamente come intrinseci e immanenti alla forma imperialistica del modo capitalistico di produzione, e non già come storture e deviazioni eliminabili - circostanza che non tutti, anzi pochi marxisti, e tra questi pochi Grossmann, seppero mettere in luce. Lo stesso liberale Hobson invitava “coloro per i quali queste teorie sono da ritenersi indegne” a “meditare di più sulle condizioni economiche e sociali” conseguenti all’assoggettamento del mondo da parte di “gruppi di finanzieri, speculatori e loro impiegati politici, industriali e commerciali, intenti a pompare profitti dal più grande serbatoio potenziale che mai il mondo abbia conosciuto, per consumarli in Europa”. Pur rifuggendo da difficili previsioni, data la complessità della situazione e la contraddittorietà interimperialistica, non esitava a ritenere che fossero proprio quelle “le tendenze che dominano l’imperialismo dell’Europa” - e, oggi sappiamo bene, anche dell’America. Nonostante la giustezza di quell’analisi, le schiere di coloro che considerano indegne le teorie dell’imperialismo sono aumentate a dismisura tra gli intellettuali della borghesia, impegnati a nascondere anche la verità dei fatti denunciati da un loro precursore liberale: anche un marziano potrebbe indovinare il trattamento riservato oggi a un marxista o a un leninista! Abbiamo recentemente dedicato alcune pagine alla descrizione del nuovo imperialismo giapponese. L’ultimo dei paesi imperialistici emergenti all’epoca di Lenin era appunto il Giappone. Già prima, quasi un secolo fa, si affacciava alla conquista del mercato mondiale, quella forza che oggi, per certi versi, è la prima e più dinamica potenza mondiale. Non sembra, d’altronde, che oggi si profili all’orizzonte qualche nuova forza imperialistica. Chi credette di vedere, da destra e da “sinistra”, nell’Urss post-staliniana una superpotenza, addirittura seconda solo agli Usa, capace di dominare la scena mondiale dell’imperialismo del ventesimo secolo e oltre, ha dimostrato tutta la superficialità e la faziosità della propria analisi: smentita prima da chi, con gli strumenti teorici marxisti, provava a dimostrarne la palese assoluta infondatezza, poi finalmente dai fatti concreti dello sfacelo attuale. Come unica prospettiva consolidata, dunque, rimane proprio l’avvicendamento nipponico: o il prossimo secolo, e millennio, si apre con il passaggio di mano dagli Usa al Giappone, analogamente (seppure in maniera parziale e molto più complicata a causa della transanzionalità del capitale finanziario monopolistico contemporaneo) a quanto avvenne agli inizi di questo secolo tra Inghilterra e Usa; oppure le contraddizioni interimperialistiche accelerano sensibilmente il loro grado di maturazione, approssimando il mondo intero con maggiore rapidità, e quindi instabilità, che nell’ipotesi precedente - alle condizioni di quell’atteso, desiderato o temuto, salto epocale, dall’esito imprevedibile ma considerato comunque di grandissimo interesse sociale da chiunque. “Fino a che punto il raggiungimento da parte del Giappone di posizioni di potere politico e industriale di prim’ordine influenzerà il problema dell’imperialismo in Asia, è una questione che riceve una sempre più pressante considerazione da parte delle nazioni occidentali”. Questa osservazione non esce oggi dagli uffici dell’addetto commerciale di Washington o di Bruxelles, ma dalla precoce osservazione di Hobson sul nuovo imperialismo giapponese. All’inizio di questo secolo, per chi sapeva e voleva coglierla, era già chiara la percezione del fatto che la crescita della potenza imperialistica del Giappone avrebbe inciso profondamente sul corso della storia, con sue proprie caratteristiche e ben al di là delle più convenzionali considerazioni militaristiche o ideologiche, come rammentammo in occasione dell’analisi specifica. “Riflettendo su questo nuovo capitolo della storia mondiale - aggiungeva Hobson - molto dipende dalla capacità giapponese di mantenere la propria indipendenza finanziaria”. Superata una prima fase di dipendenza, “la grande potenza industriale dell’estremo oriente può rapidamente gettarsi sul mercato mondiale come il più grande e più valido concorrente nella grande industria meccanica, conquistando prima il mercato asiatico e del Pacifico, e poi invadendo i mercati occidentali - spingendo così queste nazioni a un più rigido protezionismo, come corollario di una diminuita produzione”. La precisione di questa diagnosi mostra come sia possibile, anche per un borghese, non farsi sorprendere da fenomeni che i preti e i filistei dell’ideologia economica, sociologica e politica oggi presentano invece con sorpresa e stupore: dalla deindustrializzazione dei vecchi centri del potere produttivo mondiale, gabellata con la soda fesseria del post-industriale presuntivamente diffuso a livello planetario, alla ricomposizione di classe del proletariato mondiale, annunciata come terziarizzazione internazionale e fine della classe operaia, del proletariato e delle classi in genere. 3 Il marxismo del ventesimo secolo ha saputo raccogliere le verità della teoria liberale dell’imperialismo, criticandola nei suoi gravi limiti, così come Marx fece il secolo prima con le teorie classiche dell’economia (ignorate o fraintese anch’esse, insieme alla loro critica, dall’accademia dominante). Perciò abbiamo riproposto quella semplice lettura dimenticata, misconosciuta, di fatto proibita. Anche questo, sulla cultura, è un segno dei “tempi bui” di dominio contraddittorio dell’imperialismo. 4