LABORATORIO DI STORIA CONTEMPORANEA 2003-2004 Ciclo di incontri-seminario sul tema LE GUERRE NELL’ETA’ DELLA GLOBALIZZAZIONE La globalizzazione e le istituzioni di governo dell’economia Luca Garbini L’età d’oro dell’economia mondiale. Gli orrori e le distruzioni della seconda guerra mondiale superarono di gran lunga quelli della prima. Viceversa, l’instabilità e la crisi dell’economia mondiale del periodo tra le due guerre non ebbe nessuna eco nel secondo dopoguerra: dopo una veloce ricostruzione economica, il mondo - e non solo l’Occidente - fu investito dalla più grande crescita economica mai sperimentata. Come fu possibile? A differenza di trent’anni prima, il secondo dopoguerra mondiale venne affrontato con ferma volontà di cooperazione da parte dei governanti dei paesi occidentali e, principalmente, degli Stati Uniti. Proprio gli USA avevano imparato la lezione della storia: non avrebbero dovuto reclamare i debiti di guerra al fine di evitare l’asfissia delle economie dei paesi belligeranti e non avrebbero dovuto cadere di nuovo nell’errore di rimanere indifferenti di fronte alle necessità di aiuto dei paesi in ricostruzione. Infine, sarebbe stato necessario stabilire alcune regole del gioco accettabili ed accettate da tutti, che scongiurassero il pericolo di una ripetizione delle politiche di impoverimento del vicino - combinate col nazionalismo economico, il protezionismo e le svalutazioni competitive - praticate negli anni Trenta; quelle politiche che avevano sprofondato il mondo nella peggiore recessione della storia. Gli aiuti umanitari (UNRRA = United Nations Relief and Rehabilitation Administration) e i finanziamenti per la ricostruzione (col Piano Marshall gli USA erogarono ai paesi dell’Europa occidentale - eccettuata la Spagna franchista - fra l’aprile del 1948 e il giugno del 1951 circa 13 milioni di dollari dell’epoca) garantirono una rapida ricostruzione. Per rilanciare lo sviluppo si ritenne necessario creare un’architettura di governo dell’economia che garantisse un commercio multilaterale libero ed un sistema di pagamenti internazionali stabile, capace di assorbire gli squilibri esterni ai paesi e assicurare stabilità dei prezzi. Era questo il fine degli accordi seguiti alla grande conferenza economica internazionale che si celebrò nel giugno del 1944 nella cittadina americana di Bretton Woods. Il nuovo sistema poggiava sulla convertibilità di tutte le monete (cioè sulla possibilità di cambiarle con le altre valute nazionali) determinando il valore di ciascuna in rapporto al dollaro; il valore del dollaro a sua volta era fissato in rapporto all’oro (35 $ per oncia). Si optò, quindi, per un sistema basato sulla libera circolazione dei beni che utilizzasse il dollaro americano come valuta internazionale. Gli accordi di Bretton Woods prevedevano inoltre la creazione di tre istituzioni sopranazionali cui spettava la governance dell’economia: l’Organizzazione per il Commercio Internazionale (OCI), la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS o Banca Mondiale) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI). L’OCI, cui spettava l’impresa titanica di rafforzare il libero commercio combattendo il protezionismo e le pratiche discriminatorie, non vide mai la luce e si ripiegò sul General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), un accordo flessibile con competenze più limitate e programmi a lungo termine, basato su periodiche riunioni dei diversi stati interessati ad incrementare il libero scambio internazionale. La BIRS aveva per l’obiettivo di contribuire al finanziamento di quel tipo di investimenti a lungo termine, strategici per lo sviluppo economico, che non sono di solito presi in considerazione dal capitale privato; a ciò si aggiungeva la finalità di cooperare alla ricostruzione economica delle nazioni devastate dalla guerra e sostenere lo sviluppo dei paesi membri. L’elemento fondamentale dell’impalcatura di Bretton Woods era il FMI che si occupò della difesa del sistema dei tassi di cambio fra le monete. Perciò, il FMI poteva prestare, in forma condizionata, assistenza finanziaria ai paesi che soffrissero deficit nei loro conti con l’estero, per evitare così il facile ricorso all’alterazione del tasso di cambio per guadagnare immediata competitività all’estero e migliorare, attraverso l’aumento delle esportazioni, le bilance commerciali e di conto corrente. L’architettura istituzionale di Bretton Woods non funzionò secondo le previsioni (a causa si una serie di complessi motivi che in questa sede non possiamo analizzare); tuttavia, senza il FMI e le altre istituzioni il mondo avrebbe conosciuto una crescita economica minore durante la seconda metà del XX secolo. Le relazioni economiche internazionali sarebbero state più incerte ed instabili, colpendo negativamente i movimenti internazionali di beni, servizi e fattori produttivi. D’altra parte, nel nuovo sistema delle relazioni internazionali, era assolutamente utopico pensare che gli USA rinunciassero ad esercitare la loro leadership e resistessero alla tentazione di piegare le istituzioni di governo dell’economia ai loro interessi particolari. Il FMI era (ed è) una sorta di istituto finanziario mondiale dotato di capitale proprio, costituito da oro, dollari e valute depositate da ogni paese aderente secondo quote differenziate, in rapporto alle quali i vari paesi detengono i diritti di voto. Poiché gli USA versarono una quota superiore a quella di Gran Bretagna e Unione Sovietica insieme (l’URSS poi si ritirò ben presto dal FMI) essi si garantirono da subito il controllo operativo del Fondo. I prestiti che il FMI concedeva (e concede), come si diceva sopra, sono condizionati, legati cioè all’obbligo di osservanza delle direttive che esso impone in materia di politica economica e finanziaria, per cui gli USA ebbero (ed hanno) in mano un potente strumento di pressione e di controllo sui paesi economicamente più deboli. Nel primo ventennio del dopoguerra, gli USA esercitarono la loro dominance esportando non solo capitali, ma un intero modello di sviluppo, basato sui consumi di massa e sulla crescita del reddito disponibile per ogni classe sociale (che quei consumi doveva alimentare). Stabilità monetaria e occupazione furono gli obiettivi primari di ogni paese industriale. Tutti costruirono o rafforzarono il cosiddetto Stato sociale (Welfare State = Stato del benessere): sistemi previdenziali, sanità e istruzione pubbliche e sostanzialmente gratuite, sostegno dell’occupazione e sussidi di disoccupazione, politiche sociali di assistenza (in ciò, accanto alla crescita delle risorse, ebbero un ruolo determinante anche le lotte operaie e lo sfida al modello sovietico). Fu questa sorta di “salario in natura e servizi”, più che l’aumento dei salari reali, a rendere disponibile alla massa dei lavoratori un non trascurabile reddito residuo da spendere per consumi un tempo impensabili per la classe operaia (automobili, elettrodomestici…), che dilatò ulteriormente la domanda di articoli industriali. Nello stesso tempo però la “spesa sociale” caricò i bilanci statali di oneri che a lungo andare si riveleranno insostenibili. Fino al 1973 si registrarono tassi di crescita senza precedenti: fu la cosiddetta “età d’oro” del capitalismo. Anche i paesi del blocco sovietico crebbero in misura paragonabile a quelli ad economia di mercato, ma lo sviluppo assunse caratteri qualitativamente assai diversi (ad esempio, non riguardò se non in minima parte i beni di consumo di massa, né, soprattutto, i servizi) e lo statalismo comunista non riuscì a dotare le proprie economie di un efficiente grado di organizzazione. Anche i cosiddetti paesi in via di sviluppo (PVS) e alcune regioni tradizionalmente povere, ma ricche di materie prime, compirono buoni progressi. Crisi e ripresa. Dagli anni Settanta all’età della globalizzazione Il sistema di Bretton Woods andò in frantumi il 15 agosto 1971, quando il presidente Nixon decise la sospensione della convertibilità del dollaro. Di fronte all’opprimente deficit pubblico, conseguenza della guerra del Vietnam, gli USA avevano bisogno di libertà di svalutare come risposta alle crescenti difficoltà di bilancio e commerciali. In un panorama economico internazionale dominato dal riapparire dell’incertezza, si abbatté lo shock petrolifero del 1973: il prezzo del greggio quadruplicò per decisione dell’OPEC (l’organizzazione dei paesi produttori), ufficialmente come ritorsione verso l’atteggiamento pro-israeliano dei paesi occidentali nella guerra dello Yom Kippur. Si aprì una crisi economica terribile per i paesi industriali importatori (solo gli USA grazie alle lo scorte riuscirono a superare abbastanza bene la crisi operando un grosso sforzo di risparmio energetico), disastrosa per quelli importatori del Terzo Mondo, per i quali la decisione dell’OPEC fu un brusco colpo contro il progresso dei livelli di vita. In Europa apparve lo spettro della “stagflazione”: l’insieme combinato di stagnazione produttiva (quindi disoccupazione, contrazione dei redditi, ecc.) e inflazione, mai registrato in nessuna delle crisi strutturali precedenti. La stagflazione fu il principale rompicapo di politici ed economisti, poiché non era prevista nei modelli di politica economica tradizionali; le ricette “keynesiane”, che facevano leva sulla spesa pubblica a sostegno dell’occupazione, erano con tutta evidenza improponibili. Le risposte alla crisi furono, pertanto, assai diverse, ma centrate quasi tutte sulla flessibilità dei cambi che rendeva possibile le svalutazioni competitive (la lira, ad esempio, fu svalutata sul marco per favorire le esportazioni orientate nell’area CEE, e rivalutata sul dollaro per rendere meno care le importazioni). Comunque, le risposte alla crisi furono inefficaci: inflazione e disoccupazione continuarono ad aumentare, in più aumentava l’incertezza degli scambi internazionali. Quando il prezzo del greggio sembrava stabilizzato arrivò, nel 1979, il secondo shock (il prezzo del greggio fu moltiplicato per 2,5) il che provocò un ulteriore impoverimento dei paesi importatori e una nuova dura recessione fra il 1981 e il 1983. Questa volta al panico che ne seguì (ci fu pure nel 1980 l’inizio della guerra fra Iran e Iraq) le reazioni furono più uniformi. I governi si convinsero che occorreva lottare insieme contro l’inflazione e mettere in atto strategie comuni di cooperazione: si ripropose la necessita di costruire un nuovo ordine economico internazionale, seppure diverso da quello precedente. Inoltre, lo stato di necessità aveva favorito una nuova politica di intensa ricerca tecnologica e nel campo delle strutture organizzative dei processi produttivi volta al risparmio di energia e alla riduzione dei costi di produzione. Per quanto riguarda le politiche economiche mutò radicalmente l’atteggiamento dei principali paesi industriali. Dato il fallimento delle risposte classiche alla crisi, mutò profondamente l’atteggiamento di governi ed economisti. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si misero in pratica le ricette proposte dall’ultraliberista “scuola di Chicago”: Ronald Reagan e Margaret Thatcher puntarono allo smantellamento del Welfare e alla drastica riduzione del ruolo dello Stato. La filosofia di fondo di queste politiche era che le aziende dovevano essere libere di agire al fine di ridurre al minimo i costi ed aumentare il più possibile i profitti e la remunerazione degli investimenti. Sei sono i punti fondamentali del progetto: investimenti senza alcun vincolo deregulation (liberalizzazione normativa: no ai vincoli burocratici, legislativi, sindacali, etc.) conti pubblici in pareggio (drastica riduzione delle spese dello stato per consentire un’ampia riduzione delle imposte) bassa inflazione privatizzazione delle imprese pubbliche libertà di commercio Quest’ultimo punto, in particolare, implicava la libertà delle imprese di dislocare le loro operazioni in qualsiasi parte del mondo sulla base dell’unico criterio della convenienza in termini di costi delle operazioni stesse. In questa ottica, il libero scambio globale si accompagna alla libertà di investimento e alla deregulation dei mercati finanziari: in pratica libera circolazione a livello planetario delle merci e dei capitali. Il fatto veramente nuovo è che banche, compagnie di assicurazione e società di investimenti (la cui attività era stata sino ad allora generalmente limitata ai confini nazionali) iniziano a spostare capitali e ad investire nelle borse di tutto il mondo. Su queste si riaprì negli anni Ottanta una nuova fase di intensa crescita, trainata dalla “locomotiva” degli USA ben assecondata dai paesi dell’area del Pacifico. Ottima anche la performance dell’Europa, lanciata verso l’unificazione monetaria. Lo sviluppo è avvenuto quasi ovunque nel segno del neoliberismo ed è parso a molti che, in questa fase storica, il mercato lasciato alle sue leggi fosse capace di garantire lo sviluppo molto meglio dell’intervento pubblico di stampo keynesiano. Quattro i fattori della ripresa dopo gli anni terribili delle crisi petrolifere: la caduta dei prezzi delle materie prime la rivoluzione informatica e telematica le politiche neoliberiste la globalizzazione La nuova fase di espansione presenta però alcuni problemi. Nei paesi avanzati, infatti, alla crescita della produzione non segue una parallela crescita dell’occupazione: le nuove tecnologie garantiscono elevati standard di efficienza produttiva con pochissimi addetti. La crescita dell’interdipendenza tra i diversi paesi ha coinciso con processi di più forte differenziazione nell’economia internazionale che hanno accentuato il divario fra paesi sviluppati e quelli ancora sottosviluppati. Le aree escluse dall’influenza dei processi di globalizzazione produttiva sono piombate in una spirale di povertà particolarmente acuta. Proprio la globalizzazione può essere una grande opportunità di crescita mondiale. Per adesso sembra solo un’opportunità per i ricchi di diventare ancora più ricchi. Questo dipende dal fenomeno globalizzazione in sé o dal suo coincidere di fatto con l’americanizzazione del globo? La globalizzazione dei mercati È quella che si definisce anche “globalizzazione mercantile” → libera circolazione delle merci (intese come l’insieme dei beni e dei servizi) in aree sempre più ampie e più omogenee. La basi vengono poste nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale con l’applicazione degli accordi di Bretton Woods e con l’accordo generale sui dazi doganali e il commercio (GATT = General agreement on tariffs and trade) siglato a Ginevra il 30 ottobre 1947 dai rappresentanti di 23 paesi. Obiettivo del GATT era favorire l’espansione del commercio internazionale attraverso la progressiva riduzione delle barriere doganali e la creazione di una zona sempre più vasta di libero scambio. Con la stipula del trattato venne negoziata una riduzione delle tariffe in sette tappe successive; l’ultima tappa, l’Uruguay round, ha avuto inizio nel 1986 e si è conclusa nel marzo del 1994 con un grande accordo generale sulla completa liberalizzazione degli scambi non solo nel settore manifatturiero, ma anche in quello agricolo e, in prospettiva, in quello finanziario. Ad esso ha fatto seguito l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO = World Trade Organization) che persegue gli stessi obiettivi, ma con poteri di condizionamento sui singoli stati molto maggiori di quelli del GATT. Gli stati membri del WTO sono 146; 30 quelli che aspettano di entrare ufficialmente nell’organizzazione, altrettanti quelli ammessi ai lavori come “osservatori”. Tappa fondamentale di questo processo è stata il crollo dei regimi comunisti e l’apertura della Cina all’economia di mercato. Il progressivo abbattimento dei dazi doganali non ha favorito solo la libera circolazione delle merci, ma ha anche indotto un processo di omologazione dei consumi, del gusto, degli stili di vita. Veicoli di tale processo sono stati (e sono) il cinema hollywoodiano, la pubblicità e, soprattutto, i grandi network televisivi. Una serie di beni di consumo sono ormai da ritenersi prodotti mondiali e chi li produce compete in un mercato globale. Di qui, la crescita della componente internazionalizzata delle economie dei singoli paesi che si caratterizzano sempre di più come economie export oriented. La globalizzazione della produzione Questo è l’aspetto su cui c’è maggiore confusione nell’opinione pubblica, confusione alimentata dai mass media e da una pubblicistica ben poco attenta ai dettami della storia e della scienza economica. Si tende infatti ad identificare le imprese che operano un decentramento produttivo in luoghi del pianeta anche assai distanti tra loro con le imprese note come multinazionali: ne consegue l’errata identificazione tra tali imprese e il fenomeno della globalizzazione. Il risultato è che si perde di vista sia la natura delle multinazionali, sia quella della globalizzazione. In effetti, l’esigenza di alcune grandi imprese (inizialmente britanniche) di darsi una struttura multinazionale nasce già prima della prima guerra mondiale e si sviluppa in una cornice istituzionale e di mercato opposta a quella che caratterizza l’attuale fase dell’economia mondiale. La scelta della struttura multinazionale fu dettata alle imprese dalla presenza di forti restrizioni al commercio dovute principalmente agli elevati costi di trasporto, ai dazi doganali e ad ostacoli di vario genere (normativo oltre che fiscale) che le economie nazionali frapponevano alle importazioni. Ad esempio, le aziende automobilistiche americane negli anni Venti del Novecento scelsero di produrre auto nei vari paesi europei dati gli alti costi di trasporto (nave + treno) per unità di prodotto, i diritti di transito e le tariffe protezionistiche che innalzavano artificiosamente i prezzi sui mercati di esito. Piuttosto che potenziare gli stabilimenti negli Stati Uniti diventava così più conveniente aprire in altri paesi nuove unità produttive: l’impresa diventata multinazionale cessava di essere impresa esportatrice, ma una delle imprese del paese ospitante per cui i suoi prodotti non erano più soggetti a dazi doganali e diritti d’ingresso. D’altra parte, il paese ospitante poteva compensare la diminuzione del gettito derivante dai dazi d’importazione con nuove entrate fiscali derivanti dalla tassazione dei profitti realizzati dalla filiale dell’impresa multinazionale. Inoltre, l’ingresso della multinazionale aumentava la concorrenzialità del mercato a vantaggio dei consumatori, sviluppava occupazione e produceva “esternalità” positive in termini di afflusso di nuove tecnologie, nuovi criteri di organizzativi, informazioni e addestramento della forza lavoro. Pur trattandosi di un fenomeno portatrice di crescita e di sviluppo economico (e quindi di aumento della disponibilità di reddito) non si può tacere il fatto che la continua espansione delle multinazionali ha avuto (in particolare fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso) anche una ragione politica, giacché esse hanno rappresentato il mezzo attraverso il quale i paesi avanzati (e in particolare gli USA) hanno stabilito rapporti di dominanza con quelli più arretrati o in via di sviluppo. La globalizzazione produttiva (in senso proprio) trae origine da due fattori diversi, l’uno di natura tecnica ed economica, l’altro più squisitamente politico. I progressi nella tecnica dei trasporti e delle comunicazioni sono stati imponenti. Si calcola che il costo di un miglio aereo si sia ridotto a un settimo di quello che era sessant’anni or sono, il costo di tre minuti di conversazione telefonica da 240 a 3 dollari. Satelliti per le telecomunicazioni, computer e reti telematiche consentono la circolazione delle informazioni in “tempo reale” e creano un rapporto di simultaneità tra eventi prodottisi in luoghi diversi del pianeta. Oggi la grande industria può frammentare il ciclo produttivo in una molteplicità di fasi distinte, collocare ciascuna in un ambito geografico diverso a seconda della convenienza, procedere al montaggio in un luogo ancora distinto, concentrando le attività direttive (elaborazione tecnologica, progettazione, etc.) nel paese dove l’impresa ha la sua sede centrale. Questa concentrazione manageriale e finanziaria accoppiata alla più grande frammentazione produttiva permette di ottenere due vantaggi: tutte le possibili economie di costo consentite nelle cinque parti del mondo vengono pienamente sfruttate e al tempo stesso le tecnologie elaborate dalla grande impresa vengono imposte a tutti i mercati. Alla fine degli anni Novanta, Kenichi Ohmae, “consulente globale”, consigliava alle grandi corporations di aprire la sede legale a Singapore (non c’è impaccio burocratico di alcun genere per chi voglia avviare un’impresa), svolgere la progettazione del prodotto in India (ci sono tecnici di altissimo livello che costano 7-8 volte di meno di quelli europei o americani), localizzare i servizi finanziari a Hong Kong (è un discreto paradiso fiscale), appaltare la produzione a fabbriche cinesi (il lavoro in Cina ha un costo orario 80 volte inferiore a quello europeo) e vendere infine i prodotti in Europa o negli Stati Uniti. Questa strategia così complessa è possibile a patto di poter contare non solo su un sistema di trasporti e di comunicazioni di alta efficienza, ma anche sulla piena libertà nei movimenti di merci e di capitali finanziari. Qui entra in gioco il secondo fattore della globalizzazione, quello politico: è evidente che la piena liberalizzazione commerciale e finanziaria necessita della collaborazione delle autorità di governo cui spetta di prendere misure consone a queste esigenze. Così come hanno bisogno di utilizzare la forza-lavoro là dove essa costa meno, le imprese transnazionali devono poter operare sui mercati finanziari più convenienti senza che gli Stati dove operano (nessuno escluso) drenino i capitali disponibili (attraverso il prelievo fiscale o il pagamento di diritti di vario genere) per coprire eventuali disavanzi nei conti pubblici. Qui entrano in gioco le istituzioni internazionali, come il FMI, il cui ruolo sarà analizzato più avanti. La globalizzazione finanziaria È forse l’aspetto più affascinante e al contempo più inquietante della globalizzazione: la libera circolazione di masse sempre più ingenti di denaro nei mercati finanziari dell’intero pianeta. Azioni, bond, titoli di stato, in breve l’insieme dei titoli negoziabili in borsa passa di mano in mano nel giro di pochi secondi da un capo all’altro del mondo; gli scambi sono dettati spesso da fini puramente speculativi: realizzare, cioè, profitti immediati in un mercato globale che si muove a velocità sempre maggiore grazie alle tecnologie telematiche. Una piccola variazione percentuale della quotazione di un titolo può produrre grandi guadagni ai grandi investitori in un “gioco” in cui si possono vincere o perdere milioni di euro in pochi minuti. Non sfugge il grosso pericolo per le economie più deboli di simili manovre speculative; così come gli investitori stranieri possono far affluire rapidamente grandi capitali nelle borse locali, altrettanto rapidamente possono ritirarli con conseguenze dirompenti sull’economia reale. Ancor più spettacolari sono i movimenti sulle valute, che generano scambi per un valore che si stima assai prossimo ai duemila miliardi di euro al giorno. Non essendoci più un sistema di cambi fissi dopo il crollo del regime di Bretton Woods, il valore di ogni moneta rispetto alle altre è fissato solamente dal mercato, sulla base della legge della domanda e dell’offerta. Ciò può generare grandi ricchezze, ma può sottoporre l’economia internazionale a fortissime tensioni. È il caso della crisi delle borse asiatiche del 1997, dovuto al grande rialzo del dollaro. Per i paesi del sud-est asiatico, cha avevano ancorato le loro valute al dollaro americano, ciò ha comportato una rivalutazione inattesa (del 40% e oltre) e non voluta delle proprie rispetto allo yen e alle valute europee, con effetti disastrosi sulla competitività delle loro esportazioni. Il FMI, prontamente intervenuto, ha consigliato una politica di liberalizzazione immediata dei mercati valutari e di piena libertà nei movimenti di capitali. Ciò ha provocato una fuga di capitali verso mercati più remunerativi che ha prodotto drastiche svalutazioni delle monete nazionali. Quando, però, uno dopo l’altro quei paesi hanno sganciato la loro valuta dal dollaro ed effettuato drastiche svalutazione, imprese e banche che si erano indebitate in dollari o in yen hanno visto improvvisamente raddoppiare il peso del debito. Hanno avuto così inizio crolli di borsa e fallimenti a catena, che hanno aperto la strada ad acquisizioni di imprese locali da parte di capitali stranieri, incoraggiate dal FMI col fine “ufficiale” di favorire la rapida ripresa di quelle economie. L’intervento del FMI, con i suoi consigli e le sue imposizioni, ha limitato l’autonomia di quei paesi nelle scelte di politica economica, con l’effetto che dei potenziali e pericolosissimi concorrenti dell’industria statunitense, sembrano avviati a diventare fertili mercati aperti alle importazioni di prodotti e capitali americani. Sarà un caso? Bisogna cercare di capire come e quando il FMI ha mutato i suoi compiti originali, quelli assegnategli a Bretton Woods, per diventare lo stabilizzatore dell’economia mondiale sulla base degli interessi del capitale made in USA. La crisi del debito e il nuovo ruolo delle vecchie istituzioni di Bretton Woods Il secondo shock petrolifero (1979) combinato con i cambiamenti della quotazione del dollaro sul libero mercato delle valute ha lasciato gravissime conseguenze. In pratica, qualcuno ha pagato moltissimo la crisi prima, la ripresa poi. I paesi produttori di petrolio negli anni Settanta hanno accumulato enormi fortune. Questi “petrodollari” (i dollari ricavati dalla vendita del petrolio) sono stati in gran parte reinvestiti nelle borse europee da parte di molti paesi arabi. Altri paesi produttori (quelli più popolosi come l’Iran, l’Iraq, l’Indonesia, il Venezuela, il Messico) hanno tentato di sviluppare una forte industria nazionale con programmi di investimento giganteschi. Contando sulle prospettive di sviluppo legate all’esportazione del petrolio, si sono anche fortemente indebitati sul mercato dei capitali per ottenere una realizzazione più rapida dei loro progetti ed entrare quanto più rapidamente possibile nel club dei paesi industriali. Diversi paesi poveri, poi, sono stati costretti a contrarre debiti con i paesi più avanzati - direttamente o indirettamente per il tramite del FMI e della BIRS - al fine di sostenere gli accresciuti costi delle importazioni. Con l’arrivo di Ronald Reagan alla presidenza nel 1981, gli USA intrapresero una politica di alti tassi di interesse per frenare l’inflazione, che si combinò con un’altra di intenso riarmo, per la quale occorreva che il governo si indebitasse molto. Gli investitori, a quel punto, si rivolsero all’acquisto di titoli del debito pubblico americano (attratti dagli interessi elevati), scommettendo su una immediata forte ripresa dell’economia USA. Il risultato fu che la quotazione del dollaro cominciò a salire in modo inarrestabile almeno fino al 1985, colpendo tutti quegli operatori economici che si erano indebitati in dollari. Fu il caso di molti paesi produttori di petrolio, Messico in testa, e, soprattutto, di molti paesi del Terzo Mondo, in particolare dell’Africa e dell’America Latina. Da qui sorge la crisi del debito. Esplose dapprima in Messico, agli inizi del 1982, quando il petrolio cominciava a ribassare e il dollaro a crescere vertiginosamente. Il peso messicano si svalutò in modo fulminante, vanificando i piani governativi di rientro dal debito contratto. Il circolo vizioso sembrò irrefrenabile e la comunità finanziaria internazionale fu presa dal panico quando si rese conto che i suoi investimenti in molti paesi potevano correre dei rischi. Banchieri e finanzieri cominciarono così a reclamare i loro crediti, senza accettare gli abituali rinnovi. Le pressioni delle banche costrinsero molti paesi a decretare la sospensione del pagamento del debito estero. Per anni si discusse di come rinegoziare il pagamento del debito. I protagonisti delle negoziazioni erano americani. Tali erano le principali banche interessate, come pure americane erano le regole, che obbligavano a registrare come moroso qualunque credito con un ritardo di più di tre mesi. Americana era la diplomazia che tentò di ottenere accordi di rifinanziamento. Tutto americano era il problema del dollaro. Ed a Washington avevano sede i due grandi organismi chiamati in causa per stabilizzare l’economia mondiale: la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. Da qui il nuovo ruolo e l’immagine negativa oggi sempre più accreditata di entrambi gli istituti. Essi non si dovettero dedicare al semplice finanziamento di investimenti (la BIRS) ed al semplice finanziamento di deficit transitori nei conti esteri (il FMI), ma furono obbligati ad occuparsi della stabilizzazione e dello sviluppo dell’economia internazionale, come conseguenza delle azioni che gli USA avevano avviato unilateralmente. In pratica, sono gli strumenti con i quali gli USA scaricano sul resto del mondo le conseguenze delle loro scelte di politica economica. Con la fine di Bretton Woods, il FMI, privato ormai del proprio ruolo di gestore della politica dei tassi di cambio, ha volto la propria attenzione sempre più al Terzo mondo, insistendo sulla necessità di prestiti mirati a favorire un’espansione del ruolo delle forze di mercato nelle economie delle nazioni in via di sviluppo. Oggi il FMI continua ad essere il solo a credere ancora che le forze del mercato siano la panacea per l’economia del pianeta. Ha concesso ai paesi più poveri forti sgravi sul debito e ha sostenuto quelli a medio reddito (come la Corea, il Brasile o l’Argentina) in crisi con “pacchetti di salvataggio” internazionali. In cambio però ha preteso da tutti il rispetto di precise condizioni, tra cui austerità, tagli delle spese sociali, privatizzazioni e riforme strutturali che tentassero di modernizzare quelle economie sul modello del capitalismo anglosassone. Gli effetti sociali di tali scelte sono stati devastanti per i paesi del Terzo mondo; per di più, come la crisi asiatica e quella argentina stanno a dimostrare, le ricette del Fondo si sono rivelate anche totalmente sbagliate sul piano delle previsioni. Che sia poi un organismo sempre più asservito agli interessi americani (del resto le stesse riunioni del G7 e G8 sono in realtà riunioni del G1!) lo dimostra un semplice esempio: fra le condizioni unite al pacchetto di salvataggio per la Corea nel 1997 ce n’era una che imponeva l’apertura del paese alle importazioni di pezzi di ricambio per auto, proprio quello che le imprese americane avevano cercato di ottenere senza riuscirvi in una serie di negoziati commerciali bilaterali. Alla luce di tutto ciò è giusto chiedere l’abolizione del FMI? A mio avviso no: in un mondo dominato dai mercati globali è necessari una istituzione internazionale con funzioni di regolazione e di controllo. A patto, ovviamente, che sia davvero internazionale e non una dependance del Tesoro americano. Probabilmente è un’utopia pensare che il FMI possa essere riformato (si potrebbe cominciare col principio “un paese un voto” invece dell’attuale “un dollaro un voto”) o sostituito da un’istituzione globale paritaria, democratica e aperta alle istanze della crescita sociale diffusa, ma quale potrebbe essere un’alternativa credibile e - soprattutto - praticabile? Un’ultima considerazione La globalizzazione dell’economia mondiale viene utilizzata come argomento per invocare la flessibilità dei salari, in quanto una più ampia liberalizzazione del mercato del lavoro sarebbe necessaria per consentire all’industria europea di affrontare la concorrenza nei mercati mondiali e tenere testa alla nuova industria dei paesi asiatici. Questa argomentazione non riflette la complessità del problema. I paesi di nuova industrializzazione attraggono le imprese non solo per il basso costo del lavoro, ma anche per la tolleranza in materia di norme di sicurezza e per l’assenza di norme a tutela dell’ambiente. Se si vuole davvero competere con le nuove realtà, non si dovrebbe solo reagire sul fronte salariale, ma anche smantellare le tutele e i diritti conquistati in due secoli di lotte sociali e del movimento operaio: nonostante alcuni segnali politici poco rassicuranti, è difficile pensare che qualcuno voglia intraprendere realmente tale strada. Piuttosto, i paesi avanzati dovranno puntare sempre più sulla ricerca scientifica e tecnologica, sull’alta qualificazione della produzione di beni e servizi, sulla formazione continua e sui sistemi scolastici; soprattutto, non potranno aspettare i tempi lunghi della maturazione sociale e civile dei paesi di nuova industrializzazione: occorre ottenere da questi paesi il rispetto delle medesime norme di tutela dei lavoratori e di rispetto dell’ambiente [i rischi per l’ambiente e i problemi dello sviluppo sostenibile meritano un discorso a parte che non è stato possibile affrontare in questa sede] che i paesi avanzati applicano al loro interno. Globalizzare i diritti quindi, non solo i capitali. Può essere possibile, a patto che cambino radicalmente le forme e le istituzioni del governo mondiale dell’economia e si abbatta l’attuale “monopolarismo” americano a vantaggio di una governance globale e realmente multipolare. L.G. Bibliografia AA.VV., Dall’espansione allo sviluppo. 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