Che genere di lavoro? Come le donne vivono le nuove forme contrattuali atipiche. Tesi di laurea di Lisa Gasparri Presentazione Questo lavoro si costituisce di una prima parte in cui ho cercato di descrivere i cambiamenti del mondo del lavoro negli ultimi venti anni, dalla crisi del modello fordista al passaggio verso il cosiddetto post-fordismo. Le trasformazioni che ne sono seguite hanno prodotto un nuovo modello di produzione, basato su imprese flessibili che hanno richiesto un diverso uso della forza lavoro. Si sono così diffuse forme di lavoro definite non standard o atipiche, che in Italia hanno iniziato ad avere la loro maggiore espansione dal 1997 quando è stata varata la L.196 dal ministro del lavoro Tiziano Treu. Nel presente lavoro, sulla base di una definizione data da Chiesi, per forme di lavoro atipico si intende l’insieme delle tipologie contrattuali che si differenziano per una o più caratteristiche rispetto al lavoro a tempo indeterminato e standard che fino agli anni novanta rappresentava il principale rapporto di lavoro esistente nelle moderne società occidentali compresa quella italiana. Vengono così descritte le principali forme di lavoro atipico in Italia, dipendente ed autonomo. Le prime risultano essere il part-time, il contratto a tempo determinato, il contratto di formazione e lavoro, il contratto di apprendistato, il lavoro interinale. Per il lavoro autonomo sono state prese in considerazione le collaborazioni coordinate e continuative, i lavoratori autonomi con partita IVA, le cooperative sociali e i soci lavoratori. Sempre nel capitolo iniziale, dopo aver fatto un quadro generale su quando si è iniziato a parlare di lavoro atipico e quali sono le forme contrattuali che maggiormente lo caratterizzano, sono stati riportati i più importanti punti di vista sull’argomento, come viene interpretata l’incursione nella società e nel mondo produttivo italiano del lavoro flessibile. Il dibattito sociologico ed economico contrappone chi considera la flessibilità un fattore positivo e chi la vede solo come una fonte di insicurezza e di precarietà. Ci si pone la domanda, se il lavoro atipico serve o non serve; se serve quali i vantaggi che può produrre, per chi e in quale misura. Le ragioni dell’economia del libero mercato, nelle parole di Ichino, Tito Boeri, Renato Brunetta, sembrano volere sempre maggior flessibilità per competere sui mercati internazionali e per riuscire a fronteggiare la concorrenza dei paesi emergenti o in via di sviluppo. Si pensa che la flessibilità sia necessaria ed inevitabile, per poter ottenere buoni livelli di ricchezza e di sviluppo. Questo in parte è supportato anche da dati quantitativi che dimostrano come negli ultimi anni le forme di lavoro flessibile abbiano indubbiamente aumentato i livelli di occupazione totale ed abbiano permesso di innalzare quelli di segmenti tradizionalmente deboli della forza lavoro, come quello femminile. Tutto ciò non basta a chi considera, come Luciano Gallino, la flessibilità un “costo sociale ed umano”, dal momento che lo sviluppo delle nuove forme di lavoro non fa che deregolamentare eccessivamente il mercato, esporre gli individui più deboli a forme di esclusione sociale e a produrre una situazione di insicurezza e di precarietà che si riversa sulle persone e sulla società nel suo complesso. Per Gallino e coloro che si schierano contro la flessibilità, quest’ultima non risulta indispensabile; deregolamentare e segmentare il mercato del lavoro può produrre nel lungo periodo forte rischi di precarietà e polarizzazione sociale tra chi è tutelato e garantito e chi rimane intrappolato in percorsi precari e discontinui. Nel secondo capitolo ho voluto fare una fotografia del lavoro atipico in Europa, in Italia e in Toscana, dal punto di vista dell’offerta e della domanda, attraverso una serie di dati strutturali. Ne emerge un quadro in cui nonostante l’Italia non abbia ancora raggiunto livelli simili a quelli Europei, le forme di lavoro atipico si stanno diffondendo con una certa velocità anche nel nostro paese. Le forme più diffuse sono, per quanto riguarda il lavoro autonomo, le collaborazioni; per quanto riguarda il lavoro dipendente, il part-time, seguito dal contratto a tempo determinato e dall’interinale. I settori di maggiore diffusione sono quelli del terziario, dei servizi alla persona e alle imprese, mentre percentuali ancora basse si ritrovano nel settore dell’industria. Dal punto di vista delle imprese, sono stati usati dati provenienti da alcune ricerche condotte su gruppi di aziende italiane, ed è emerso che il mercato del lavoro italiano non è poi così destrutturato come si pensa, e in misura ancora minore rispetto ad altri paesi europei. Le esigenze principali alle quali le nuove forme contrattuali rispondono sono legate a oscillazioni della domanda di mercato, al variare delle condizioni di funzionamento dell’organizzazione, del monte ore lavorate in relazione all’andamento della domanda, la possibilità di variare i costi del lavoro. Il dato però che maggiormente mi ha interessato è stato quello relativo al fatto che una forte componente del lavoro atipico è rappresentata da donne. Tra il 1997 e il 2000 si è assistito ad un aumento dei livelli di attività femminili, dovuto in larga parte ai lavori atipici. Il decisivo ruolo svolto dai contratti di lavoro non standard ha fatto sorgere la domanda se alla maggiore visibilità è corrisposto un adeguato riconoscimento del lavoro femminile ed una reale emarginazione. Grazie all’ausilio di alcune ricerche condotte su donne che svolgono differenti tipologie di lavori atipici, ho cercato di indagare quanto i lavori atipici rappresentino una possibilità di ingresso o una trappola nel mercato del lavoro; quali sono le condizioni di lavoro, gli spazi, il tempo, i livelli salariali; le relazioni di lavoro, ovvero i rapporti con gli altri lavoratori atipici o standard, quali sono le sensazioni che si prova ad essere atipico. Infine quanto e come lo svolgere un lavoro atipico si ripercuote sulla vita personale delle donne, sulle loro scelte di vita e sulla capacità di progettare il futuro. Se ne deduce che il fenomeno non può essere analizzato da un solo punto di vista ma si devono sempre confrontare vantaggi e svantaggi, benefici e danni. Per alcune donne, infatti, rappresenta un’opportunità, uno strumento per conciliare la vita lavorativa con quella personale e una possibilità per avere maggiore autonomia e capacità di gestione del proprio lavoro. Per altre, invece, il lavoro atipico è l’unico strumento per entrare o rientrare nel mondo del lavoro. Spesso lo si accetta come male minore contro la disoccupazione ed espone chi lo svolge ad una serie di rischi e scenari di precarizzazione. Le occupate atipiche si concentrano, generalmente, in lavori poco qualificanti e remunerativi, riproponendo scenari di segregazione che si pensava fossero superati. La mancanza di un lavoro stabile, la continua intermittenza delle prestazioni e delle retribuzioni, non mina solo le loro condizioni e relazioni di lavoro, ma anche la possibilità di crearsi un futuro stabile e costruire progetti a lungo termine, quali la maternità o la creazione di una famiglia propria. La conclusione alla quale sono arrivata al termine del mio lavoro è che il prezzo da pagare per una maggiore visibilità non deve essere questo. Mi ritrovo molto nelle parole di Ilvo Diamanti, che definisce la nostra generazione, la “razza flessibile”: una generazione che tende a concentrarsi sul presente, pensando domani al futuro, dal momento che il lavoro è transitorio, intermittente e non più un diritto di cittadinanza accessibile a tutti.