Il lavoro nella società contemporanea

Il lavoro nella società contemporanea
Negli ultimi decenni, in Italia e negli altri paesi ad economia avanzata, il mondo del
lavoro è attraversato da profonde trasformazioni spesso riassunte,
interpretate ed evocate col termine ‘flessibilità’. Il lavoro è diventato flessibile,
meno standardizzato e forse più gratificante, ma anche più precario e
instabile e assai meno protetto. È quello di un lavoratore o di una lavoratrice che
ha maggiore autonomia e più opportunità, ma anche maggiori responsabilità e meno
tutele rispetto ai rischi di disoccupazione, infortuni, discriminazioni, o ai diritti di
rappresentanza sindacale, di sciopero, di salute, di maternità e sicurezza del luogo di
lavoro.
Il ricorso crescente da parte delle imprese a forme di flessibilità delle mansioni, della
retribuzione, degli orari, della durata del lavoro, ha introdotto importanti elementi di
novità tanto nella forma quanto nel contenuto del lavoro e ne ha modificato il mercato
a livello sia dell’occupazione sia della composizione. Lavoro a tempo determinato,
lavoro a tempo parziale (part-time), contratto di apprendistato, contratto di
formazione-lavoro, contratto d’inserimento, lavoro temporaneo-somministrazione di
lavoro, collaborazione coordinata e continuativa, lavoro a progetto, collaborazione
occasionale o lavoro occasionale, lavoro accessorio, tirocini formativi e di
orientamento, lavoro intermittente, lavoro ripartito (job sharing). Queste in Italia le
principali forme contrattuali del lavoro flessibile o atipico, in forte crescita negli ultimi
decenni rispetto al lavoro dipendente a tempo indeterminato (o tipico) e alle
tradizionali forme di lavoro autonomo.
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Il lavoro atipico è presente in tutti i settori economici, dall'agricoltura alle
manifatture ai servizi, al commercio, alle attività finanziarie, assicurative o immobiliari
o del tempo libero. Tuttavia, il mondo del lavoro atipico è profondamente differenziato
al suo interno. In esso convivono rapporti di lavoro con aspetti di flessibilità molto
ridotti (come i contratti part time a tempo indeterminato), ma anche marcati (come
nel lavoro temporaneo, nel lavoro ripartito, nella collaborazione a progetto) e
convivono profili professionali assai vari, che vanno dal consulente aziendale al
grafico, al giornalista, al barista, al collaboratore in un'amministrazione pubblica,
all'operatore sociale o sanitario, all'immigrato che lavora in un'impresa di pulizie ...
Questi lavoratori flessibili vivono realtà lavorative assai diverse (per
retribuzione, mansioni, orari, durata del lavoro, tutele), ma sono accomunati dalla
precarietà, dalla discontinuità d’impiego, di posto di lavoro, di attività e carriera, da
diritti e garanzie spesso limitati se non assenti, da un futuro privo di sicurezze.
Il lavoro atipico, per certi aspetti autonomo e per altri dipendente (innanzitutto
economicamente), si colloca in quella zona grigia tra lavoro dipendente e
lavoro autonomo che oggi costituisce motivo di grande dibattito, innanzitutto perché
mette in discussione e richiede di ridisegnare un sistema di regole e diritti affermatosi
attraverso un processo lungo e difficile iniziato nella seconda metà dell'Ottocento e
giunto a maturazione in Italia solo tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli anni
Settanta del Novecento.
Infine va ricordato che, soprattutto per le donne e i giovani (in netta prevalenza fra gli
occupati atipici in Italia), il lavoro è difficile da trovare e spesso lo si deve ‘inventare’.
Da un mondo di trasporti al mondo della comunicazione
Oggi, nel mondo del lavoro, stiamo vivendo trasformazioni di grande portata, da
molti paragonate a quelle verificatesi tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo,
quando a partire dall'Inghilterra inizia un lungo processo di industrializzazione. Due
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secoli dopo la prima rivoluzione industriale che ha costruito il treno e la ferrovia
e un secolo dopo la seconda rivoluzione industriale che ha prodotto l'automobile
e l'aereo, è in corso una terza rivoluzione industriale basata sull'elettronica,
l'informatica, la telematica che segna il passaggio da un mondo dei trasporti a un
mondo della comunicazione, in cui a muoversi sono innanzitutto informazioni e dati.
Riferendosi in particolare alle trasformazioni che avvengono nel mondo del lavoro, si è
soliti ricorrere al termine postfordismo che, come rivela il prefisso post-, più che
offrire indicazioni sul nuovo, sottolinea il tendenziale superamento di un modello
economico fordista databile e analizzabile. Il nuovo ‘modello’ è in fase di
definizione; i suoi contorni non sono ancora definiti e, dunque, quella che noi viviamo
è una fase di transizione di cui si possono individuare tendenze generali di sviluppo
che convivono con realtà tipicamente fordiste o, addirittura, della prima rivoluzione
industriale.
Perché il modello fordista è entrato in crisi
Molti fanno coincidere l'inizio dell’attuale transizione con il primo shock
petrolifero, ovvero con il repentino e forte aumento del prezzo dell'oro nero
verificatosi nel 1973. Segnali di crisi sono visibili, però, anche prima di quella data:
dopo la metà degli anni Sessanta ad esempio, i tassi medi di profitto si dimezzano
negli USA e si riducono da un terzo alla metà nei paesi europei.
In ogni caso, tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, entra in
crisi il modello taylorista-fordista di produzione e lavoro che ha sostenuto il
boom economico del dopoguerra e incrementato profitti e redditi, il consumismo di
massa, la produzione di beni standardizzati a basso costo; un modello che,
simboleggiato dalla catena di montaggio, ha visto il predominio della grande impresa
con produzione di massa e la presenza di grandi concentrazioni di operai con
interessi assai simili.
Da allora, si assiste a una progressiva diminuzione del peso di tale modello, nato nella
grande industria manifatturiera statunitense e gradualmente estesosi al terziario
contaminando anche le pubbliche amministrazioni. Dal complesso di mutamenti che si
vanno realizzando va emergendo un modello definito postfordista.
Da allora, a un mondo del lavoro piuttosto uniforme, parcellizzato e standardizzato,
suddiviso in compiti semplici e ripetitivi alla catena di montaggio, molto disciplinato
ma anche socialmente protetto da un forte sistema di norme, si va sostituendo un
mondo di lavori assai eterogenei, svolti in luoghi e con orari assai diversificati, da
lavoratori assai meno tutelati e con rapporti di lavoro (ma anche interessi) altrettanto
diversificati.
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Cercare le cause
Per spiegare la crisi del modello egemone per buona parte del Novecento nei paesi più
industrializzati dell'Occidente sono state individuate e utilizzate molteplici cause.
Frequentemente si è insistito sul venir meno dei presupposti (strutturali) su cui il
modello fordista si basava, essenzialmente un'espansione potenzialmente
illimitata del mercato di massa, in grado di assorbire ogni bene prodotto, e la
possibilità di un utilizzo altrettanto illimitato della manodopera.
Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, il mercato delle
economie più sviluppate è sempre meno capace di assorbire quote crescenti di beni
durevoli e di massa; è ormai saturo, ovviamente entro i limiti posti dalla stratificazione
sociale.
Inoltre, la domanda dei consumi sta cambiando. A una domanda di massa si va
sostituendo la crescente richiesta di beni diversificati se non personalizzati; una
domanda questa che è alimentata dall'aumento dei redditi e sempre più condizionata
dalla promozione ai consumi che veicolano i mass media, innanzitutto la televisione,
che ormai è in ogni casa.
Il mercato si frammenta in gruppi diversi di consumatori; diventa instabile e
imprevedibile, perché la domanda si modifica in continuazione così come i bisogni, ad
esempio quelli simbolici di status, dei consumatori; impone perciò beni differenziati
non durevoli ma più rinnovabili, dal breve ciclo di vita.
L'instabilità, ma anche la saturazione del mercato, sono causate anche dalla maggiore
interdipendenza delle economie, da quella globalizzazione che porta a una grande
concorrenza a livello mondiale, ad esempio per l'ingresso (come produttori) dei
paesi di nuova industrializzazione, come quelli del Sud-est asiatico, che producono gli
stessi beni di massa a costi assai più bassi (innanzitutto, per l'intenso sfruttamento dei
lavoratori), ma la cui popolazione è esclusa perlopiù dal consumo.
In tutti i paesi ad economia avanzata, poi, un lungo ciclo di lotte operaie ha posto
molti limiti all'utilizzo della manodopera. La forza sindacale, in tempi di quasi
piena occupazione e di crescita economica, ha progressivamente conquistato non solo
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aumenti salariali, ma anche condizioni contrattuali di lavoro più favorevoli e un
insieme di misure di protezione sociale a favore dei lavoratori dipendenti
(conservazione del posto di lavoro, adeguamento dei salari alle condizioni di vita,
indennità, pensioni...). Al centro delle rivendicazioni vi sono, non solo in Italia, le
grandi fabbriche metalmeccaniche.
Il mercato
A rendere il mercato poco prevedibile e difficilmente programmabile sul mediolungo periodo si aggiunge poi il venir meno del regime dei cambi fissi (nel 1971
gli USA sospendono la convertibilità del dollaro in oro ponendo fine al sistema
monetario creato a Bretton Woods nel 1944) con la conseguente maggiore
instabilità dei mercati internazionali e il forte aumento del prezzo del petrolio (crisi
petrolifera del 1973) e, conseguentemente, del costo delle materie prime.
L'interazione di questi fattori strutturali e congiunturali avvia la progressiva e relativa
diminuzione del peso del modello fordista e spinge verso la ridefinizione del modo
di produrre e di organizzare il lavoro.
A partire dagli anni Settanta del Novecento, insomma, vanno delineandosi nuove
modalità di organizzazione produttiva, in genere riassunte nel termine postfordismo,
orientate a ridurre il più possibile i costi di produzione (materie prime, energia e
lavoro) e ad adeguare quest'ultima alla nuova struttura della domanda.
Evoluzioni strutturali
Queste ristrutturazioni organizzative e produttive, sospinte dal processo di
finanziarizzazione dell'economia, sono agevolate e influenzate dall'affermarsi di
una tecnologia informatica potentissima e pervasiva che rende possibile ad
esempio l'interattività fra macchinari, la trasmissione in tempo reale d’informazioni e
dati, la comunicazione in rete, l'integrazione di fasi diverse di lavorazione separate
spazialmente. Strumento principe di queste tecnologie è il computer, bene di
investimento e di consumo, che progressivamente entra in tutti i luoghi dove si lavora,
si offrono servizi, si fa ricerca, e nelle case e nella vita di tutti noi (nel dicembre del
1982 la rivista “Time” scelse il personal computer per la sua copertina, v. sopra).
Le trasformazioni organizzative e produttive da allora in corso sono estese,
profonde e avvengono simultaneamente e su più piani. Sono molto eterogenee,
innanzitutto per le differenti realtà nazionali in cui si sviluppano, ma sono anche in
larga misura convergenti: sostanzialmente perseguono la massima flessibilità di
tutti i fattori che concorrono alla produzione e consistono nel passaggio dalla
centralità della fabbrica alla centralità del mercato.
Si traducono:
1. Nell'abbandono della produzione di massa e nella diversificazione dei
beni prodotti;
2. In investimenti nei settori tecnologicamente avanzati (microelettronica,
telecomunicazioni, biotecnologie, ecc…);
3. Nella produzione just in time guidata dalla domanda;
4. Nella riduzione delle scorte di magazzino di materie prime, semilavorati o
beni prodotti;
5. Nell'automazione d’interi cicli produttivi (primo fra tutti quello
dell'automobile che ha visto nascere il fordismo);
6. Nello snellimento della struttura delle imprese che scorporano fasi e
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funzioni produttive affidandole a terzi;
7. Nell'integrazione orizzontale in rete d’imprese grandi e piccole, sparse in
luoghi diversi e collegate fra loro telematicamente;
8. Nel decentramento produttivo ovvero nel trasferimento di attività produttive
in paesi dove il costo del lavoro è basso;
9. Nella conseguente deindustrializzazione dei paesi più sviluppati nei quali si
verifica un progressivo spostamento dell'economia dal settore secondario a
quello terziario. Tra gli anni Venti e gli anni Settanta si registra, nei paesi
economicamente più sviluppati, un costante aumento degli addetti nel
settore secondario, a scapito dell'agricoltura. Nei decenni successivi gli
occupati nell'industria diminuiscono a favore dei servizi dove, all'inizio degli anni
Novanta ad esempio, lavora la maggioranza della popolazione attiva dei paesi
del G7.
Il lavoro dipendente
Per il lavoro dipendente, coinvolto e spesso messo in crisi dalle sfide della flessibilità, il
risultato delle diverse misure di flessibilizzazione si traduce:
1. Nel passaggio da una relativa omogeneità delle condizioni di lavoro e di
vita della maggioranza dei salariati a una crescente differenziazione, a un
arcipelago di figure professionali, di posizioni lavorative e di vita;
2. Nella riduzione della possibilità di lavoro stabile e permanente, ovvero di
contratti a tempo indeterminato o tipici;
3. Nella diffusione di lavori temporanei o atipici;
4. Nell'aumento della variabilità degli orari e del tempo di lavoro, delle
mansioni e delle funzioni e in forti diseguaglianze fra lavoratori per quel che
riguarda le condizioni di lavoro (trattamenti economici, orari e diritti);
5. Nella frammentazione della forza lavoro, per la sua dispersione su una pluralità
di luoghi e il differenziarsi delle condizioni e degli interessi, e nel conseguente
indebolimento della capacità di associazione e azione;
6. Nel progressivo indebolimento del confine tra lavoro e non lavoro (lavori
atipici, part-time) e tra spazi privati e lavorativi (lavoro a domicilio,
telelavoro...) e del lavoro come fonte di protezione sociale.
Il dibattito attuale
La transizione in corso, così come il termine flessibilità che può riassumerla, sono
ormai da decenni al centro di un vivace dibattito dalle contrapposizioni perlopiù
marcate. A chi individua una certa continuità fra il modello fordista e la maggiore
diversificazione e complessità del sistema di produzione attuale si contrappone chi vi
legge una rottura epocale; a chi esalta le straordinarie potenzialità emancipatorie della
produzione flessibile (liberazione dalla routine e recupero di iniziativa, responsabilità,
creatività, polivalenza, collaborazione, autonomia…) si contrappone chi ne sottolinea i
rischi, innanzitutto legati alla deregolamentazione del mercato del lavoro (perdita delle
sicurezze, vulnerabilità sociale, precarizzazione delle condizioni di vita materiali e non,
nuove schiavitù, nuovo sfruttamento, realtà lavorativa più competitiva e stressante).
Ma c'è anche chi ritiene possibile conciliare flessibilità e sicurezze dei lavoratori
(flexsecurity) riferendosi spesso all'esperienza danese come esempio di risposte
positive e nuove alla sfida della flessibilità.
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Per ora, di frequente, la massima flessibilità di tutti i fattori di produzione e in
particolare nell'utilizzo della forza lavoro, rivendicata come soluzione strategica per
risolvere i problemi della concorrenza internazionale, dello sviluppo economico e della
disoccupazione, tende a tradursi in una deregolazione del mercato del lavoro.
Un po' ovunque, infatti, pur nelle significative differenze riscontrabili nei diversi paesi,
si sono indebolite le protezioni sociali dei lavoratori e sono cresciute le varie forme di
lavoro precario con tutele ridotte, soprattutto nella fascia più giovane della
popolazione, dato che la deregolazione riguarda innanzitutto l'ingresso nel mercato del
lavoro.
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