2_33to_A - Don Bosco Torino

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Anno A
33ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
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Prv 31,10-13.19-20.30-31 - La donna perfetta lavora volentieri con le sue mani.
Dal Salmo 127 - Rit.: Beato chi cammina nelle vie del Signore.
1 Ts 5,1-6 - Come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore.
Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Vegliate e state pronti, perché non sapete in
quale giorno il Signore verrà. Alleluia.
 Mt 25,14-30 - Sei stato fedele nel poco: prendi parte alla gioia del tuo padrone.
PER COMPRENDERE LA PAROLA
La fine dell’anno liturgico preannunzia la fine dei tempi. Il Signore sta per tornare, ci giudicherà sulla nostra diligenza: dobbiamo essere «redditizi». La lettera sottolinea la stessa
idea di attività: non abbiamo il diritto di addormentarci.
PRIMA LETTURA
È un elogio della padrona di casa. Poema alfabetico: la composizione non segue un filo logico e ciò consente alla liturgia di stralciarne tre pezzi senza difficoltà. Come in molte
massime sapienziali, l’essenziale viene detto alla fine, dopo una serie di lodi: «La donna
che teme Dio è da lodare»; è questa l’anima della sua azione.
SALMO
Salmo sapienziale, tratto dalla raccolta dei salmi di pellegrinaggio. Benedizione del
giusto; l’adorazione del Signore stabilisce la sua anima nella pace. Allora egli trova gioia
nel suo lavoro e la sua vita familiare è una benedizione.
SECONDA LETTURA
È la continuazione della lettura della 32a domenica del Tempo Ordinario, in armonia con
il discorso escatologico; afferma inoltre che i cristiani sono figli della luce. Descrivendo la
subitaneità (e l’imminenza) del ritorno del Signore, Paolo è proprio nella tradizione
apostolica. Riprende, quasi ad una ad una, le parole di Gesù riferite dai sinottici (scritti
dopo la lettera ai Tessalonicesi) nei discorsi sulla fine dei tempi: il ladro, la notte, la
catastrofe, i dolori della donna che partorisce. Queste previsioni devono incitare a non
dormire, a rimanere svegli, come figli della luce.
La notte del resto è sotto il dominio del male. Di notte ci si nasconde, ci si ubriaca (versetti
seguenti), si dorme, e il sonno è simbolo della morte. Addormentarsi significa venire a
patti con il male. Di giorno, invece, si sta in piedi, ci si dà da fare, si vive. I figli della luce
vivono sotto gli occhi di tutti, sono attenti, attivi e sobri; sono consapevoli che il Signore
sta per tornare e che devono attenderlo. Da notare che l’anno liturgico (cf 1 a domenica di
Avvento) incomincia con le stesse immagini di giudizio, di rifiuto delle opere delle tenebre
e di lotta per la luce.
VANGELO
La parabola dei talenti completa quella sulla vigilanza (32ª domenica), precisa come
occupare questo tempo, durante il quale la fede viene messa alla prova. Il ritardo,
l’assenza del padrone, come dello sposo, ha uno scopo. «Il Signore non ritarda
nell’adempire la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non
volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2 Pt 3,9).
33ª Domenica del Tempo Ordinario - “Omelie per un anno - vol. 2”, Elledici
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Non si tratta di un’opposizione fra quanti si riconoscono servi di Dio e quanti rifiutano di
servirlo. Tutti riconoscono l’autorità di Dio. Anzitutto si spiega qual è la dinamica divina.
Dio dona, affida, condivide e si ritira, per non ostacolare la nostra libertà. Dobbiamo fare
come lui. I suoi doni non devono rimanere sterili nelle nostre mani. I due servi attivi sono
lodati e ricompensati. Soltanto quello pigro e diffidente è biasimato e punito. Sono
condannate la vita senza frutti e le sue cause. Non è la soluzione buona quella che coltiva
il timore ed evita il rischio. Alcuni credono che il terzo servo rappresenti i farisei con la loro
religione rassicurante, incapace di pensare a un rinnovamento. Mettere il denaro in
banca. La parabola può essere chiarita da:
1. il giudizio finale che segue a questo testo (Mt 25,36: «ero nudo, affamato...»).
2. Mt 6,19-21: non accumulare tesori per la tignola.
3. Lc 16,1-8: l’amministratore infedele.
La banca è rappresentata dai poveri... Il rischio da assumere è il privarsi dei nostri beni a
loro vantaggio. C’è forse investimento migliore?
PER ANNUNCIARE LA PAROLA (piste di omelia)
Il dovere di portar frutto
È la legge della vita, per gli alberi (Gn 1,11), per gli animali e per l’uomo (Gn 1,22.28). E
chi pianta ha il diritto di raccogliere (1 Cor 9,7; 2 Tm 2,6). Dio esige quindi frutti dalla sua
vigna (Is 5,1-7).
Non tutto fruttifica (parabola del seminatore: Mt 13,3-9) e vi sono frutti cattivi (parabola
della zizzania: Mt 13,24-30). Chi non porta frutto è punito, come il terzo servo. I tralci
inutili vengono gettati nel fuoco (Gv 15,6), la vigna affidata ad altri vignaioli (Mt
21,41ss), il fico sterile è distrutto (Lc 13,6-9).
Bisogna portare «frutti di giustizia» (Fil 1,11), non con parole vane (Mt 7,21), né con
l’imbroglio (Lc 16,1-9), né «per la tignola» (Mt 6,19-21), ma per il Cristo vivo: «l’avete
fatto a me» (Mt 25,40) e in modo ingegnoso (Mt 13,51). «Dal frutto infatti si conosce l’albero» (Mt 12,33).
Per portare frutto, non bisogna addormentarsi (2a lettura), non risparmiare la fatica (1a
lettura). Conoscere le proprie capacità (Vangelo). Vegliare sul proprio bene, altrimenti ve
lo prendono (Vangelo) e saper anche aspettare «fino alla mietitura» (Mt 13,30). Non si
tratta di volontarismo («e chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola
alla sua vita»: Mt 6,27), ma di pazienza e di abbandono («non contate forse voi più di
loro?»: Mt 6,26); saper investire in favore dei poveri (vedere analisi).
Buon uso dei talenti
La parabola si può applicare alla Chiesa, che ha ricevuto la missione di far fruttificare il seme del Vangelo. Sebbene in alcune epoche si sia potuto paragonarla a un ghetto, essa
non ha rinchiuso il suo tesoro, come il terzo servo, in un nascondiglio perché nessuno
potesse intaccarlo; al contrario, l’ha distribuito con larghezza e, nelle varie epoche, la
Tradizione l’ha arricchito di nuove interpretazioni e di molte applicazioni. In realtà, come
ogni uomo, nelle varie epoche, ha vissuto i tre atteggiamenti: talvolta è stata più
irradiante, talvolta meno, talvolta è stata come paralizzata e spoglia.
La parabola si applica anche a ognuno di noi.
In primo luogo, dobbiamo conoscere i nostri doni e capacità: è un esame di coscienza più
positivo di quello della ricerca delle nostre colpe.
Quando le cose vanno male, è sempre colpa degli altri? Perché attaccare sempre i responsabili? Non posso fare qualcosa io per far fruttificare la ricchezza di Dio? Come una buona
padrona di casa (1a lettura). «Chiunque ha» è colui che possiede la fede e il Signore
33ª Domenica del Tempo Ordinario - “Omelie per un anno - vol. 2”, Elledici
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accrescerà a dismisura la sua conoscenza del regno. Se non la coltiva, la perderà e con
essa perderà la speranza di essere con il Signore. Da notare la generosità di Dio: un
talento rappresentava una somma considerevole eppure dice che è poco (Mt 25,21). Che
cosa avverrà dunque quando egli darà cose grandi? Donerà se stesso.
Vincere la paura
L’atteggiamento del terzo servo, ripiegato su se stesso, è il simbolo di chi cerca la sicurezza ed evita il rischio. Rappresenta il timore dell’avvenire; non è il timore religioso di fronte a una presenza che supera l’uomo, come Mosè davanti al roveto ardente (Es 3,6) o le
guardie del sepolcro il mattino di Pasqua (Mt 28,4), e che comporta un senso di debolezza e poi di fiducia: il timore reverenziale. Qui si tratta di un atteggiamento meno nobile,
che impedisce di impegnarsi a fondo, per conservare quello che ha. Chi ha dieci talenti ne
gioca dieci, chi ne ha cinque, cinque, cioè tutto. Come gli apostoli in seguito alla chiamata
di Cristo: «Lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,11), o il ragazzo che ha dato tutto ciò
che aveva (Gv 6,9) o colui che ha trovato il tesoro nascosto nel campo (Mt 13,44). Chi ha
un solo talento si ripiega su se stesso, come il giovane ricco che vuole salvare ciò che ha
dietro alle spalle (Mt 19,22). Ecco il peccato. L’atteggiamento del padrone non è meno
significativo. «Consegna i suoi beni» e se ne va. È chiaro, si rimette ai suoi servi. Adesso
tocca a loro agire. Anche noi, soprattutto dopo il Concilio, siamo lanciati in un’avventura
straordinaria. Non possiamo aspettarci che altri pensino, decidano, agiscano al nostro
posto. Non sarebbe un buon modo di aspettare. Bisogna indubbiamente inventare o
reinventare. Questo dipende anche da noi, ciascuno di noi, piccoli come siamo, in fondo
alla scala. Pensate a Vincenzo de’ Paoli, al curato d’Ars, a Caterina Labouré, a Bernadette
di Lourdes, a Teresa di Lisieux. Non hanno lavorato volentieri? (1a lettura).
E perché temere il ritorno del Signore? Non è invece l’aspirazione della fede che vuole
vedere, della speranza che vuole una certezza, dell’amore che desidera possedere? Quando si lavora per il regno di Dio, si può soltanto desiderare la sua venuta e non c’è più
timore.
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